Tuesday, March 16, 2021

Caso Bonino: i più europei vittime della loro trasparenza

Tempi duri per i troppo onesti

di Mauro Suttora


Huffpost, 16 marzo 2021 

La prima foglia del carciofo si chiama Valerio Federico. È il tesoriere del partito +Europa, sfiduciato a maggioranza domenica dall’assemblea nazionale. “Vogliono farci fuori uno a uno, come foglie di carciofo”, ha detto la leader di +Europa, Emma Bonino. “Prima che venga il mio turno, me ne vado io”.

La storica senatrice radicale ha fondato +Europa nel 2017, dopo la morte di Marco Pannella. Difficile immaginare che il partito possa andare avanti senza di lei.

E infatti gli oppositori Piercamillo Falasca, Riccardo Magi (deputato), Carmelo Palma e Silvja Manzi (ex fedelissima della Bonino) non miravano a lei. Contestano la segreteria di Benedetto Della Vedova e i suoi magri risultati: quorum mancato alle politiche 2018 (2,6%) e alle europee 2019 (3,1%), percentuali deludenti nelle elezioni locali successive, 2% fisso nei sondaggi. Superati da Azione di Carlo Calenda, che occupa lo stesso loro spazio di centro liberaldemocratico. E con il quale convergeranno alle prossime elezioni, coinvolgendo anche Carlo Cottarelli e l’ex Cisl Marco Bentivogli.

“Siamo alla scissione dell’atomo”, commentano sconsolati gli iscritti a +Europa, viste le dimensioni minime e la litigiosità del partito. Già funestato da un fenomeno di ‘cammellaggio’ al primo congresso due anni fa, quando gli ex dc Bruno Tabacci e Angelo Sanza fecero iscrivere molti amici lucani per fronteggiare gli ex radicali.

(L’ottimo Sanza è un mitico ‘signore delle tessere’: fu anche lui, grazie ai delegati della sua Basilicata, a incoronare De Mita segretario della Dc quasi 40 anni fa).

Due dei quattro parlamentari di +Europa eletti nei collegi uninominali in alleanza col Pd, Tabacci e Fusacchia, hanno già lasciato il partito. E pure Magi ha votato la fiducia al governo Pd-M5s, contro le indicazioni della direzione. L’unica sempre contraria al populismo grillino è rimasta la Bonino.

L’attuale conflitto, però, non riguarda la linea politica. È di nuovo in ballo il tesseramento, con accuse di iscrizioni cumulative sospette per aumentare il peso congressuale di qualche dirigente.

“Da Palermo improvvisamente sono arrivate 700 nuove tessere”, rivela Palma, incolpando il tesoriere Federico di omesso controllo. In un partito con 2600 iscritti (a 50 euro l’uno), cifre simili possono decidere l’esito dell’imminente congresso.

Federico replica di aver controllato ben 500 iscrizioni sospette, ma di avere scoperto soltanto dodici ‘anime morte’ (tesserati inconsapevoli), annullandole.

“E comunque”, aggiunge, “i casi controversi riguardano diverse aree. Gli iscritti campani, per esempio, si sono moltiplicati per otto, da 50 a 400, ma risultano iscrizioni legittime. Inoltre i 2600 iscritti attuali, che potranno votare al congresso, vanno paragonati ai 1747 dell’anno scorso senza congresso. L’aumento di un terzo è un dato fisiologico. Nessuna iscrizione di quest’anno, quindi, può essere considerata irregolare rispetto alle valutazioni effettuate in passato e alla decisione del nostro organo di garanzia, tranne le dodici annullate. Se vogliamo limitare iscrizioni massicce in prossimità dei congressi, si introducano regole apposite. Chi ha firmato la mia sfiducia ha sottoscritto affermazioni senza fondamento”.

Ma perché tutto questo interesse per un partitino che prevedibilmente eleggerà pochi parlamentari? “Cupidigia”, taglia corto Bonino. Echeggiando la “sete di poltrone” che Zingaretti affibbia al Pd.

Così il povero tesoriere Federico, invece di gioire per l’aumento degli iscritti, ha dovuto trasformarsi in poliziotto e controllare luogo e date dei versamenti (140 a Palermo in due giorni), i nomi scritti sui bollettini, i titolari delle carte di credito usate per le iscrizioni online.

Da sempre in tutti i partiti del mondo c’è la piaga delle tessere gonfiate. L’iscrizione ai grillini, per esempio, è gratis. Così, per diventare deputati e ministri, a qualche furbo giovanotto è bastato inviare al blog di Grillo la fotocopia del documento di un centinaio di parenti e amici per vincere le primarie online. 

Ma gli altri partiti non fanno trapelare all’esterno le proprie lotte intestine. I +europei invece, per scrupolo di trasparenza finiscono periodicamente nei guai e si fanno male da soli.

Il segretario Della Vedova si è dimesso, fra tre mesi ci sarà il congresso, probabilmente lo vincerà e la Bonino tornerà. Ma il danno è stato fatto. Tempi duri per i troppo onesti.

Mauro Suttora

Wednesday, March 10, 2021

Letta, Renzi e l'arte della scomparsa

di Mauro Suttora

Huffpost,10 marzo 2021

Se dirà sì alla segreteria pd, l’autoesilio di Enrico Letta sarà durato metà della prigionia del conte di Montecristo. Sette anni, dopo quella scena inobliabile del febbraio 2014 quando non guardò in faccia Matteo Renzi mentre gli stringeva la mano consegnandogli il campanellino da premier.

Sette anni lontano dalle beghe politiche nostrane, dimissioni anche dal Parlamento e dal Pd (tessera rinnovata solo due anni fa, dopo l’elezione a segretario di Zingaretti).


Due incarichi prestigiosi a Parigi: direttore della Scuola di Affari internazionali di Sciences Po (la fucina dell’élite francese con l’Ena), e dell’Istituto Jacques Delors. Conferenze in tutto il mondo, da San Diego in California a Sidney. Nessuna consulenza pagata da satrapi mediorientali.


Unica carica conservata in Italia: direttore dell’Arel, il centro studi del maestro Nino Andreatta. Chiuso VeDrò, il suo think tank accusato dal sottosegretario grillino all’Interno Sibilia di essere il “Bilderberg italiano”, occulto potere forte, incubo dei complottisti.


Il ritorno trionfale di Letta dimostra che se in amore vince chi fugge, in politica può risorgere soltanto chi scompare. Ci aveva pensato anche Renzi, quando promise di dimettersi se avesse perso il suo referendum del dicembre 2016. Qualcuno gli consigliò di passare le consegne anche in caso di vittoria, per girar pagina e andare a nuove elezioni.


Invece Renzi è rimasto aggrappato al cortile dei palazzi romani. Ha perpetuato il suo personale think tank della Leopolda. Nel 2017 si sfogò contro il rivale Letta in un’autobiografia: “Non lo pugnalai alle spalle, fu il Pd a cambiare cavallo. Il suo governo era immobile, l’unica cosa che fece fu aumentare l’Iva. Alle primarie Pd Enrico prese solo l’11 per cento”.


“Disgustoso”, replicò durissimo Letta, abbandonando per una volta il suo aplomb. «Il silenzio mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti, e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi, sanno giudicare».


E il giudizio dei sondaggi oggi è impietoso per Renzi, confinato al 3%. Grazie alle sue capacità manovriere sopraffine è stato lui a decidere la nascita dei nostri ultimi due governi, il Conte 2 e il Draghi ecumenico. Ma il consenso è volato da un’altra parte, posandosi ora proprio sulla testa del detestato rivale.


Perché l’arte della scomparsa non è da tutti. La praticano solo i veri statisti. Churchill ha avuto tre vite politiche resuscitando due volte, nel 1940 e nel 1951, dopo lunghi isolamenti. La “traversata del deserto” di De Gaulle durò dodici anni, fino al trionfale ritorno nel 1958.


Anche i cavalli di razza italiana sapevano prendersi intervalli. Fanfani, soprannominato ‘Rieccolo’, fu dato per politicamente morto infinite volte, e altrettante tornò a palazzo Chigi: l’ultima a 79 anni, nel 1987. Il suo amico/rivale Moro aveva la cattedra universitaria cui dedicarsi quando non governava.


Il 55enne Letta e il 46enne Renzi hanno ancora una vita politica davanti a loro. Il primo, se accetterà la segreteria pd, è ben posizionato per succedere a Draghi. E il secondo s’inventerà sicuramente qualcosa per soddisfare la sua straboccante personalità.

Mauro Suttora

Sunday, March 07, 2021

La civile Svizzera e il divieto di velo

REFERENDUM CONTRO IL BURQA

di Mauro Suttora

HuffPost, 7 marzo 2021

Barbara Gisi, direttrice della Federazione svizzera del turismo, è affranta: “Non possiamo permetterci di perdere le ricche turiste col velo. Da quando il Canton Ticino lo ha proibito, gli arrivi dai Paesi del Golfo sono diminuiti del 30%”.

Ora il divieto di velo è esteso a tutta la Svizzera. Lo ha deciso oggi un referendum col 52%, nonostante maggioranza e governo fossero contrari.

L’unico per il sì era il partito di destra Udc, che ha il 29%. Da qualche mese lo dirige per la prima volta un italiano, Marco Chiesa, che esulta: ”È un chiaro segnale contro l’islam radicale e i teppisti”.

Povero papa Francesco, impegnato proprio in queste ore a rammendare le ferite delle persecuzioni Isis in Iraq, col suo messaggio di amore e fratellanza.

Dalla Svizzera invece arriva un proclama di tolleranza zero: vietato nascondere il viso in pubblico.

E si riapre l’annoso dibattito, che supera i confini destra/sinistra: il velo è una schiavitù per le donne, o il legittimo diritto di una minoranza religiosa a vestirsi come vuole?

I verdi sono indignati: ”È un attacco frontale ai diritti fondamentali e alla protezione delle minoranze. Aiuteremo le donne colpite dal divieto a ricorrere alla Cedu, la Corte europea per i diritti dell’Uomo”.

Il socialista Roger Nordmann invece minimizza: “Non succederà nulla. I cantoni non creeranno certo brigate anti-burqa, nessuna sarà multata. Nel voto si sono sommati vari sì: quello xenofobo dell’Udc, quello laico contro i simboli religiosi negli spazi pubblici, e quello femminista. Ma la discriminazione arretra, rispetto al 57% che dodici anni fa disse no ai minareti”.

Le femministe sono divise: “Smettiamola di dire alle donne come si devono vestire”, commenta la socialista Tamara Funiciello. 

Le risponde Saida Keller-Messahli, del Forum per un Islam progressista: ”È stato un sì trasversale contro un’ideologia totalitaria che ci opprime e non ha diritto a esprimersi in una democrazia”.

Per una coincidenza in questa vigilia di 8 marzo, risale esattamente a 50 anni fa il riconoscimento del diritto a esprimersi per tutte le donne svizzere, che fino al 1971 non potevano votare.

Anche allora fu un referendum a scardinare l’incredibile anacronismo. Il quale peraltro si protrasse per altri vent’anni in alcuni cantoni: il diritto di voto femminile è stato introdotto nell’Appenzello solo negli anni 90. Epoca nella quale la civile Svizzera non puniva ancora lo stupro familiare.

Mauro Suttora

Wednesday, March 03, 2021

La tradizione del silenzio

Draghi e Brusaferro sono accomunati dalla virtù opposta a quella dell'italiano medio: la brevitas

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 marzo 2021

Adoro Draghi e Brusaferro. Non a caso la rentrée del secondo in orario di punta tv ha coinciso con l’entrée del primo a palazzo Chigi. E con la sua ammirevole scomparsa dalla tv.

Draghi e Brusaferro sono accomunati dalla virtù opposta a quella dell’italiano medio: la brevitas. Tanto più preziosa in quanto da anni siamo logorati dalla logorrea politica, nel trionfo di chiacchieroni patentati come Conte e Renzi, Salvini e Berlusconi.

Draghi assomiglia invece al miglior primo ministro della storia italiana: Giovanni Giolitti. Il quale detestava parlare a tal punto che riuscì a farsi eleggere in Parlamento senza tenere neanche un comizio. Il parlamentare che non parlava. Naturalmente ciò poteva accadere solo in provincia di Cuneo, fra i laconici montanari del collegio di Dronero che gli rinnovarono la fiducia per quasi mezzo secolo.

“Perché parla così poco?”, chiesero a Giolitti. “Perché quando finisco di dire quel che devo dire, ho finito anche di parlare”.

L’esatto contrario di Arnaldo Forlani, la cui capacità di divagare rimane leggendaria: a un giornalista che gli faceva educatamente notare di avere parlato venti minuti senza rispondere alla sua domanda, rispose serafico: “Potrei continuare per ore”.

Giolitti affinò la sua stringatezza con il miglior ministro di Finanze e Tesoro della storia d’Italia: Quintino Sella, piemontese come lui. Era il suo direttore generale (stesso posto occupato da Draghi 130 anni dopo), e Sella lo convocava nel suo ufficio di primo mattino, con le finestre aperte. “Cosicché io, gelando, non vedevo il momento di essere congedato”, ricordò Giolitti. Risultato: i suoi rapporti furono i più sintetici mai ascoltati in quelle stanze.

Brusaferro era mio compagno al liceo classico di Udine. Già allora era serio, e quindi conciso, come tutti i veri friulani. Ho sperimentato sulla mia pelle la loro proverbiale assenza di facondia. La prima volta che venni invitato a cena dalla famiglia della mia fidanzata, tutto quel che mi disse suo padre fu, a un certo punto: “Mi passi le tegoline, per favore?”.

Ecco, assaporando l’assenza di Draghi dalla conferenza stampa per il suo dcpm, ho pensato che siamo in buone mani. Niente propaganda, nessuna vanteria su “modelli Italia” e “primati nei vaccini”. Spariti gli sproloqui “per rassicurare”.

Brusaferro è l’unico esperto desaparecido dalla tv e dalle polemiche negli ultimi mesi: ha parlato sempre e soltanto nella sua veste ufficiale di presidente dell’Istituto superiore di sanità, durante gli anonimi rapporti del venerdì.

Sono sicuro che non si presenterà alle elezioni e non diventerà assessore regionale in Puglia, come quell’altro scienziato.

Quanto a Draghi, il valore delle sue parole non da oggi è inversamente proporzionale alla frequenza con cui le pronuncia. Speriamo quindi che non dia retta ai tanti esperti di Scienze della comunicazione (laurea da abolire) i quali lo invitano a esternare, e che mantenga invece a lungo il suo ieratico silenzio.

Ci piacciono governanti concreti e noiosi come amministratori di condominio, magari un po’ grigi come quelli dei Grigioni svizzeri. Basta con i gigioni: a teatro e al circo torneremo dopo il virus. Grazie a Draghi e Brusaferro.

Mauro Suttora 

Monday, February 22, 2021

A difesa del Giorno del Ricordo di foibe ed esodo istriano

Derubricarli a una delle tante violenze della guerra è un disastro simbolico che riproduce le condizioni in cui si radica la violenza

di Mauro Suttora 

HuffPost, 22 febbraio 2021

Qualche nostalgico comunista e, inopinatamente, l’ottimo professor Alessandro Barbero di Raistoria, vorrebbe abolire il Giorno del Ricordo di foibe ed esodo istriano (10 febbraio). Per due motivi:

1) è stato promosso dai fascisti in contrapposizione o almeno bilanciamento della Giornata della Memoria della Shoah (27 gennaio) e del 25 aprile (Liberazione).

2) Le foibe sono solo una delle tante stragi della guerra, vanno contestualizzate. Furono l’inevitabile vendetta comunista e slava contro precedenti stragi fasciste e italiane.

La prima obiezione si supera constatando che il 10 febbraio è stato approvato nel 2004 dal 98% dei parlamentari italiani: tutti tranne Rifondazione comunista. La sinistra si associò proprio per non lasciare alla destra il monopolio del ricordo, e per creare una memoria condivisa.

Nel 2019 l’Europarlamento ha pronunciato la parola definitiva al riguardo: comunismo e nazifascismo sono entrambe ideologie totalitarie.

Il Giorno del Ricordo quindi si aggiunge, e certo non può fare concorrenza al 27 gennaio e al 25 aprile.

Ma è il secondo punto quello più insidioso. Derubricare le foibe e l’esodo a una delle tante violenze della guerra, infatti, è un disastro simbolico che riproduce le condizioni in cui si radica la violenza.

Negare l’unicità di foibe ed esodo (come, mille volte numericamente più grande, l’unicità della Shoa) significa considerare normale gettar vivi in un buco ad agonizzare per giorni donne e uomini civili innocenti legati col fil di ferro. Esattamente come i gasati di Auschwitz e i bruciati di Sant’Anna di Stazzema.

Non aver fatto i conti con gli orrori e le pulizie etniche e politiche dei partigiani del dittatore comunista Tito (certo, orrori uguali a quelli degli ustascia del fascista croato  Pavelic) ha provocato 50 anni dopo la strage di Srebrenica e le pulizie etniche del serbo Milosevic.

Il quale non a caso assommò in se i due mali del secolo: il nazionalismo nazifascista, e l’internazionalismo (finto) comunista.

Per questo l’annuale polemica sul Giorno del Ricordo è solo apparentemente una futile battaglia di parole, un’inutile disputa culturale fra storici cavillosi. 

Come dimostra la Turchia con il risorgere dell’autoritarismo militarista di Erdogan, negare le tragedie del passato (il genocidio armeno) porta a riprodurle (l’annientamento curdo).

Ammoniva infatti Edmund Burke: “Chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla”. Frase attribuita anche al filosofo Santayana, il quale però ne ha aggiunta una ben più inquietante: “Solo i morti hanno visto la fine della guerra”.

Mauro Suttora

Tuesday, February 09, 2021

Giorno del Ricordo

Sulla pelle di noi figli dei profughi litigano ancora comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost ,10 febbraio 2021

Ormai siamo diventati un milione, noi figli e nipoti dei 350mila infoibati ed esuli istriani del 1943-53. Mio padre era profugo dall’isola di Lussino. Oggi commemoriamo il nostro Giorno del Ricordo, istituito nel 2004. 

Per 60 anni ci hanno ricordato troppo poco. Ora perfino troppo, cosicché sulla nostra pelle litigano di nuovo i nostalgici comunisti e fascisti. Cioè gli stessi che ci massacrarono e terrorizzarono spingendo i nostri genitori e nonni alla fuga (i comunisti jugoslavi), o che scatenarono la guerra persa che provocò l’amputazione territoriale e l’esodo (i fascisti italiani).

In realtà la maggioranza delle nostre famiglie non ha mai ricordato granché. Appena hanno potuto, i profughi hanno lasciato i campi trovando un lavoro e rifacendosi una vita. In Italia, America, Australia. Prima di fidanzarsi con mia madre a Genova negli anni ’50, anche mio padre aveva chiesto il visto al consolato canadese.


Poco spazio per rimpianti, nostalgie, lamenti. Nessuno si è mai sognato di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. “Tornemo in Dalmazia in vacanza d’estate per andar in barca, magnar, bever, cantar, pescar”, mi disse nel 1987 Ottavio Missoni, sindaco del libero Comune di Zara in esilio, quando lo intervistai sul settimanale Europeo per il quarantennale dell’esodo.

 

Durante le mie inchieste in Israele e Palestina mi è capitato spesso di chiacchierare con qualche palestinese rivendicativo. Gli dicevo: “Sono figlio di profughi anch’io. Abbiamo perso la guerra, perché vi fissate ancora su queste quattro pietre dopo mezzo secolo? Il mondo è grande, partite e andate ad arricchirvi altrove, come hanno fatto tanti vostri e miei parenti”. E quello annuiva, vedevo nei suoi occhi le sue certezze Olp e Hamas barcollare, nonostante lo avessero imbottito di propaganda dalla nascita.

   

Per scherzo mandavo a mia nonna cartoline col suo cognome scritto Matković invece di Matcovich. Si arrabbiava, poverina, perché si sentiva italianissima nonostante fosse nata nel 1900 a Sebenico (allora Austria-Ungheria, oggi Croazia). Nel novembre 1918 si avvolse nel tricolore al molo dove arrivò la prima nave da guerra italiana ‘liberatrice’. 

Il destino la punì crudelmente. Riuscì ad essere profuga due volte in soli vent’anni, sciagura capitata nel secolo scorso soltanto ai palestinesi, appunto: prima quando la sua famiglia si rifugiò a Lussinpiccolo perché il trattato di Rapallo aveva negato (giustamente) la Dalmazia all’Italia tranne Zara; poi nel 1944, quando dovette scappare anche dall’isola di Lussino.

 

Morì nel 1992, riconoscendo che tutto sommato l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, da lei tanto detestato, fu una disgrazia preferibile alle successive: i dittatori Mussolini e Tito. In quello stesso anno andai a Sebenico a trovare sua cugina, rimasta sempre lì. Viveva confinata 90enne in una stanza da letto del suo appartamento, requisito dopo la guerra dai comunisti e assegnato a una famiglia bosniaca. Da allora convivevano, lei era diventata la loro nonnina, come in Dottor Zivago o in un film di Kusturica. Il socialismo reale.

     

La loro Sebenico, patria del Tommaseo, aveva un 30-40% di italiani (veneziani) all’inizio dell’800, come Spalato e Ragusa (Dubrovnik). In tutte le città e paesi della costa istro-dalmata gli italiani (marinai, pescatori, commercianti, professionisti) erano la maggioranza. Ma già in periferia predominavano gli slavi. La coabitazione fra contadini croati/sloveni e borghesi italiani fu pacifica nei 400 anni della Serenissima (mille in Istria) e sotto l’Austria fino al 1866.


Dopo la sconfitta nella Terza guerra d’indipendenza, però, Vienna cominciò a discriminare gli italiani, temendo gli irredentisti che volevano seguire il Veneto nella madrepatria. Ciononostante, furono italiani i sindaci di Spalato (Antonio Baiamonti) fino al 1880, e a Ragusa con un’alleanza italo-serba anticroata fino al 1899. Poi l’Austria vietò la lingua italiana e chiuse le nostre scuole.

 

Pochi lo sanno: la Prima guerra mondiale scoppiò perché l’erede al trono di Vienna Francesco Ferdinando voleva elevare la Croazia (con la Bosnia) allo stesso rango di Austria e Ungheria nell’impero asburgico, danneggiando così serbi e italiani. Il serbo Gavrilo Princip lo uccise per questo a Sarajevo, e non pochi anche in Italia applaudirono.


Da allora, ogni singolo fatto sul nostro confine orientale è stato usato dalla propaganda dei due opposti nazionalismi, italiano e (jugo)slavo. Poi al conflitto inter-etnico si è aggiunto quello politico fra gli opposti totalitarismi, fascista e comunista. E in questa quadruplice tenaglia sono rimasti schiacciati i 350mila esuli italiani. 


Mio padre 15enne nel 1943 vide nella pineta dietro casa sua a Lussinpiccolo i partigiani titini far scavare una fossa ai partigiani cetnici serbi (in teoria loro alleati contro i nazisti) per poi trucidarli. Bastò questo a mio nonno per intuire che non era il caso di rimanere.


Ora qualche storico buontempone vorrebbe negare agli italiani istro-dalmati lo status di ‘popolo’. E quindi il loro esodo non sarebbe stata ‘pulizia etnica’, anche se svuotò al 90% tutte quelle città e paesi, da Fiume a Pola, da Parenzo a Rovigno. 


È l’ultimo sgarbo alla memoria di mia nonna, che col suo cognome certo non fu italiana per ‘ethnos’, ma per ‘ethos’. Ovvero per libera scelta di valori, cultura, civiltà. Come tante famiglie miste e bilingui, dai Bettiza ai Tomizza, dai Citterich ai Volcich, dai Pamich ai Bastianich, che si illusero di poter sfuggire, con la loro apertura mentale, tolleranza e cosmopolitismo, alle follie dei sovranismi identitari del ’900.

Mauro Suttora

Sunday, February 07, 2021

Caos M5s: scissione inevitabile

LA FINTA SVOLTA VERDE DI GRILLO E' SOLO UN GIOCO DI POTERE

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 7 febbraio 2021

Grillo presenta a Draghi un programma a trazione ambientalista in 10 punti, ma M5s è spaccato e la scissione appare inevitabile

L’adesione al nuovo governo richiede argomenti convincenti, e pare che le grida istrioniche di Grillo si sentissero fino in strada. Ieri, prima dell’incontro con Draghi, l’Elevato ha incontrato i parlamentari M5s alla Camera regalando loro (e a Conte) un show-monologo di tre quarti d’ora. Obiettivo, ringalluzzire i suoi e tenere insieme i pezzi del Movimento. 

Grillo ha deciso di portare in dote al presidente del Consiglio incaricato un decalogo di 10 punti programmatici a trazione nettamente ambientalista. Come dire: eravamo green anche prima del Recovery. In ogni caso M5s resta in difficoltà, spiazzato dal sì della Lega e da una fetta importante di parlamentari che restano contrari.

“Se non fosse intervenuto Grillo avrebbero prevalso i movimentisti di Di Battista” dice Mauro Suttora, giornalista e scrittore, osservatore attento del fenomeno-M5s fin dagli esordi. La scissione è nelle cose, e l’iniziativa di Grillo ha un solo obiettivo".

È una svolta verde?

A me sembra solo una svolta poltronista. I grillini andrebbero al governo anche col diavolo, pur di restare al potere. L’ambientalismo grillino è una barzelletta. Si oppongono ai termovalorizzatori anche se producono riscaldamento gratis: preferiscono che la spazzatura vada in discarica? Dicono no alla Tav, ma i treni ad alta velocità inquinano meno di aerei, tir e auto.

E il tavolino di Conte in piazza Colonna? Dopo due giorni di silenzio nei quali ha incontrato Draghi e la linea del M5s era incerta, il presidente del Consiglio si è intestato una “Alleanza per lo sviluppo sostenibile”. Che cosa significa?

Che la parola “sostenibile” suona bene. La usano sempre anche i peggiori inquinatori, nelle loro pubblicità. Conte non ha mai fatto battaglie ecologiste. Però tutto il Recovery Plan europeo spinge verso l’ecologia, l’Italia dovrà adeguarsi. Ci sono anche tante isterie. Per esempio, senza i contributi pubblici – cioè le nostre tasse – le auto elettriche sarebbero fuori mercato.

Che cosa è successo davvero in M5s dopo l’incarico a Draghi? Nell’arco di un giorno sono passati dal no al sì.

Sono impazziti di rabbia, non se l’aspettavano. Crimi e Taverna hanno detto subito no a Draghi, poi hanno dovuto fare dietrofront. Del resto il soprannome di Crimi fra i grillini è sempre stato “Vito lo smentito”. Come sempre, ha deciso tutto Grillo. A Draghi è bastata una telefonata per incantarlo. Di Maio, Conte e anche il rampollo Casaleggio non contano nulla di fronte a lui.

C’è uno scontro tra Conte e Di Maio per il controllo del partito?

No, entrambi hanno capito che il M5s è morto, alle prossime elezioni non arriverà al 10%. Perché scannarsi per un cadavere? Si riposizioneranno dove conviene meglio.

Potresti essere più preciso?

Ora il Pd fa credere a Conte che sarà ancora il prossimo candidato premier di un’alleanza Pd-Leu-M5s. Più concretamente, Di Maio mira a conservare un posto da ministro anche nel governo Draghi.

Cosa ci dice il fatto che Grillo sia tornato in campo in questo momento?

Che i grillini si stavano spaccando in due: i soliti movimentisti di Di Battista contro i governisti di Di Maio. Se non fosse intervenuto Grillo, avrebbero prevalso i primi.

Secondo un retroscena di Minzolini, Conte sperava che il tentativo di Draghi fallisse per tornare in gioco. Conte lo spera ancora?

Conte e il suo Casalino, come tutti i parvenu, sono obnubilati da delirio di onnipotenza. Tre anni di potere danno alla testa.

Forse Conte non ha più bisogno del partito di cui si è parlato per mesi. Sarà lui a prendersi la leadership dei 5 Stelle?

La leadership dei 5 Stelle non è più interessante. E fra un anno, quando si dovrà trovare un altro premier perché Draghi passerà al Quirinale, anche i sondaggi che ora gonfiano Conte si saranno afflosciati, come capita a tutti i fenomeni quando perdono il potere: Monti, Renzi, perfino Prodi e Berlusconi.

Intanto in M5s c’è sempre chi di Draghi non vuole sentir parlare. Il numero dei contrari viene variamente quantificato: che cosa puoi dirci?

Senza l’intervento di Grillo, la sua base votando su Rousseau avrebbe stracciato Draghi.

I dissenzienti sono guidati da Morra e Di Battista? O le cose stanno diversamente?

Di fronte agli ordini di Grillo sono tornati tutti a cuccia, anche i movimentisti Lezzi e Morra. Dibba è isolato.

Sarà scissione?

Sì, ma con i loro elettori che non li voteranno più.

Che prospettive ha l’alleanza Pd-M5s? Si ha l’impressione che sia più indispensabile al Pd che a M5s anche se il federatore è Conte.

Entrambi i partiti non hanno più linea politica. Sono finiti nell’ammucchiata. Dopo Renzi anche Salvini, aprendo a sorpresa a Draghi, li ha gettati nel panico. Forse per fare politica in Italia oggi bisogna chiamarsi Matteo.

Secondo te come intendono condizionare la partita del Colle?

Al Colle andrà Draghi. La partita fra un anno sarà per il posto da premier. Ma a quel punto voteremo tutti, finalmente.

Federico Ferraù

Tuesday, February 02, 2021

Resistenza, Direttorio, Stati Generali... ma alla fine rimarrà solo il Vaffa

Per studiare la storia ora c’è la neolingua a 5 stelle. Rimpiangeremo la creatività lessicale grillina, ma alla fine un solo termine rimarrà scolpito nel marmo dell’eternità

di Mauro Suttora

HuffPost
, 2 febbraio 2021

Si chiamerà ‘Resistenza’, la corrente dei parlamentari grillini seguaci di Alessandro Di Battista. Combatteranno valorosamente contro Matteo Renzi, individuato come il nuovo occupante arrivato dall’Arabia invece che dalla Germania per far fuori il reddito di cittadinanza, e inserire Mes e Meb nel nuovo Governo.

Minacce tremende, meritevoli di mobilitazione antinazista. Buttate i sussidiari: per studiare la storia ora c’è la neolingua a cinque stelle. Che questa volta ci riporta al 1943, ma che finora era più affezionata alla Rivoluzione francese. “Cittadini” infatti sono i poveri membri del popolo, cioè tutti noi, vessati a scelta dal Pd o dalla Lega (a seconda dei governi, Conte 1 o 2), ma finalmente difesi dai seguaci di Grillo. Che nel 2013 promisero di essere un “movimento senza capi”. Pochi mesi dopo ne elessero ben cinque, di capi, e li chiamarono Direttorio come a Parigi nel 1795: Di Battista, Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia. 

Ma proprio come in Francia, dove le dinamiche rivoluzionarie produssero il deprimente ritorno da un re a un imperatore, anche i grillini alla fine hanno accentrato il potere in un’unica persona. Solo che invece di Napoleone noi abbiamo avuto Di Maio e Crimi: denominati chissà perché capi ‘politici’, forse per distinguerli da altri più ‘fisici’, o ‘amministrativi’ (il rampollo Casaleggio?), o ‘spirituali’ (l’elevato Grillo, ora desaparecido?).

Il gran finale dell’epopea giacobina nostrana ai quattro formaggi è arrivato con gli Stati Generali dello scorso novembre. Mica potevano chiamarlo Congresso, come quello di un partito qualsiasi. E pazienza se Casalino aveva appena scippato loro l’altisonante idea, con gli Stati Generali governativi estivi di villa Pamphili. 

I 5 stelle si sono riscattati con un’ulteriore novità: le prime elezioni al mondo senza risultati. La società Casaleggio, infatti, non ha rivelato i voti presi da ciascun big (pare che Dibba abbia stracciato Di Maio e i governisti).

In ogni caso, rimpiangeremo la creatività lessicale grillina. Fatalmente tutti i nuovi movimenti, per affermare la propria novità, iniziano col cambiare le parole. È già successo con fascisti e comunisti, ma fortunatamente le smanie palingenetiche dei seguaci di Grillo non hanno avuto il tempo di cambiare anche la realtà. 

Così le famose “graticole”, inventate per arrostire gli sventurati che osavano candidarsi online alle primarie (pardon, parlamentarie) per diventare deputati (pardon, portavoce) sono state abbandonate. E ora a cuocere a fuoco lento nel pentolone allestito dal nazisaudita Matteo è rimasto solo Conte.

Passeranno alla storia gli altri contributi pentastellati al vocabolario politico? Navigator, Rousseau, facilitator, quirinarie, disintermediazione parassitaria, contratto di governo... Appassionati di storia ma già appassiti, non rivelate agli ignari la fine toccata ad altri moralizzatori populisti e velleitari italiani: Cola di Rienzo, Savonarola, Masaniello, Pisacane. Si accontentino dell’unico loro neologismo che rimarrà scolpito nel marmo dell’eternità: “Vaffa!”

Mauro Suttora





Thursday, January 28, 2021

E allora le foibe...?

FOIBOFOBIA

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 gennaio 2021

‘E allora i lager?’

Cosa succederebbe se uscisse un libro con questo titolo che prende in giro la Giornata della Memoria, contesta i numeri del genocidio, invita a “contestualizzarlo” per ridurne la gravità?

'E allora le foibe?' di Eric Gobetti, appena pubblicato da Laterza, attacca il Giorno del Ricordo (10 febbraio) istituito nel 2004 per rievocare anche i massacri di migliaia di civili italiani in Istria nel 1943-45, ad opera dei comunisti jugoslavi.

Una certa sinistra estremista non ha mai accettato questa seconda giornata di meditazione storica, voluta perfino da dirigenti ex Pci (Violante, Fassino) e celebrata dai presidenti della Repubblica (Napolitano, Mattarella) proprio per creare una memoria condivisa sia con gli italiani di destra (i quali vent’anni fa si rifugiavano nei libri di Pansa che sdoganavano le vittime fasciste della guerra di liberazione), sia con le nuove Slovenia e Croazia democratiche.

Le quali hanno fatto forse meglio di noi i conti con il loro passato, visto che nel 2008 il governo di Lubiana, durante la sua prima presidenza semestrale Ue, organizzò a Bruxelles un convegno esaustivo sui ‘Crimini commessi dai regimi totalitari in Europa’, con - fra le altre - un’ottima relazione dello storico Gorazd Bajc sull’occupazione italiana in Slovenia nel 1941-43.

Gobetti invece comincia addirittura negando che la costa istriana sia stata veneziana (quindi italiana) per quasi mille anni, riducendo quella della Serenissima a “significativa influenza”. Gli consigliamo un viaggio da Capodistria a Cattaro, passando da Parenzo e Lesina, Pola e Zara, Rovigno e Trau. Scoprirà anche in tutta la Dalmazia campanili veneziani e leoni di San Marco, seppure scalpellati dai nazionalisti slavi.

Certo, solo i centri storici, abitati da marinai, pescatori, commercianti e professionisti, erano italiani. Già in periferia predominavano i contadini sloveni e croati. Cosicché bene avrebbe fatto l’Italia nel 1918 a non annettere anche l’Istria interna (Pisino), dove la maggioranza era slava.

Ma sotto Venezia e Austria questa multietnicità era pacifica. Durante il fascismo invece gli slavi subirono un’italianizzazione forzata, come in Val d’Aosta e Alto Adige/Sud Tirolo. Le cose precipitarono quando Mussolini annesse per due anni un terzo della Slovenia (non della Jugoslavia, come scrive Gobetti). Lì i generali fascisti commisero anche crimini di guerra. Non peggiori, peraltro, delle atrocità commesse da tutti contro tutti in Jugoslavia (titini contro ustascia croati e cetnici serbi), il Paese con la guerra civile più sanguinosa d’Europa, replicata 50 anni dopo.

Ma tutto ciò non giustifica le migliaia di civili italiani infoibati nel 1945. Quanti? Gobetti li riduce a 3-4mila. Altre stime arrivano a 10mila. Poi arrivò la pulizia etnica di 300mila profughi istriani e dalmati. C’è poco da “contestualizzare” (comprendere, scusare).

Il terrore che spinse tanti italiani alla fuga (il 90% degli abitanti di Pola, riconosce onestamente Gobetti) era doppio: sia politico, perché i titini erano comunisti, sia etnico, perché gli slavi fanatizzati dall’ideologia si illudevano di prendersi una rivincita installandosi nelle case espropriate. Autocondannandosi invece a mezzo secolo di povertà e squallore socialista.

Ma non furono solo i “privilegiati” a scappare: anche gli italiani poveri preferirono la libertà alla dittatura comunista, di cui avevano avuto un assaggio con le foibe, i processi sommari e i desaparecidos.

Un’atmosfera ben descritta in ‘Rosso Istria’ (2018), uno dei soli due (due!) film dedicati alle foibe, stroncato da Gobetti e invece eloquente nell’illustrare i dilemmi di quei giorni sanguinosi. Anche fra chi aveva abbracciato il comunismo, ma che vedeva l’odio etnico prevalere sulla fede internazionalista. Un personaggio appare troppo sadico? Non più di Donald Sutherland in 'Novecento' di Bertolucci.

Insomma, caro Gobetti, foibe ed esodo giuliano-dalmata non furono “il risultato dell’imperialismo italiano”. Anche, in parte. Ma lei stesso poche pagine dopo ammette che quella del maresciallo Tito fu dappertutto una “repressione preventiva degli eventuali oppositori”, anche contro gli slavi non comunisti. Basta qualche libro di Tomizza e Bettiza per comprenderlo, o i saggi di Marina Cattaruzza e Raoul Pupo. E pure lo spettacolo del povero Simone Cristicchi, anch’esso ingiustamente bollato come “vittimista” da Gobetti.

Risparmiamo quindi le foibe da queste anacronistiche risse fra fascisti e comunisti. Dopo Schengen, d’altronde, è sparito perfino l’oggetto del contendere: quel confine orientale maledettamente insanguinato che fece cambiare padrone alla sventurata Gorizia ben sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947. Record mondiale.

Mauro Suttora

Sunday, January 24, 2021

Istat e discriminazioni Lgbt, non è solo una questione di numeri

"SONO GAY, MA NON SCHEDATEMI"


di Mauro Suttora

HuffPost, 22 gennaio 2021


“Non risponderò al vostro questionario. E vi invito a rimuovere il mio nominativo dagli elenchi”.

Così C.A., consulente romano 50enne, risponde all’Istat che gli ha inviato il formulario di un’indagine sulle discriminazioni subite da soggetti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender).

C.A. è una delle 21mila persone selezionate dall’istituto di statistica, perché presenti sul registro nazionale delle unioni civili.

“Chi ha autorizzato l’Istat a estrarne gli iscritti?”, chiede C.A. “Perché si dà per scontato che gli lgbt siano soggetti che subiscono discriminazioni? Questo sondaggio è di per sé discriminatorio verso chi, come me, vive la sua vita serenamente e non pensa alla differenza che l’essere omosessuale possa incidere sul piano lavorativo. Ciò che conta o dovrebbe contare sono la competenza e il merito”.

Insomma, C.A. ha stipulato un’unione civile, ma non vuole che questa sua scelta lo iscriva automaticamente nelle liste di una minoranza a rischio persecuzione di cui non si è mai sentito parte.

“So bene che l’indagine è prevista dalla normativa, inserita in un piano nazionale, e che i dati conferiti sono tutelati dal segreto statistico. Ma la mia privacy viene violata già nel momento in cui il mio nome è inserito tra le lettere inviate con tanto di data e protocollo. E se io non avessi intenzione, benché il registro delle unioni civili sia pubblico, di far sapere che sono unito civilmente ai funzionari Istat che hanno predisposto l’invio? 

Non dico che sia un’operazione illegale. Ma è politicamente discutibile, perché fornisce dati non verificabili quanto a veridicità delle informazioni fornite, e malleabili a seconda dell’uso che se ne vorrà fare. 

Altra cosa interessante: cosa pensa di ottenere l’Istat se dovesse chiedere a un campione nazionale di religione ebraica un’opinione sull’Olocausto? Quale risposta diversa dalla condanna di quella follia potrebbe avere? Quindi qual è l’utilità di chiedere a una platea lgbt se abbia subìto discriminazioni sul lavoro, se non si verifica la rispondenza tra il dichiarato e le eventuali denunce nelle sedi appropriate? 

La statistica è una scienza esatta sotto il profilo dei numeri, ma l’interpretazione dei dati non numerici è soggettiva, e potrebbe rispondere a logiche tese a rappresentazioni strumentali. Come pensano di vincere le discriminazioni se compilano lista di proscrizione?”.

Mauro Suttora


Wednesday, January 20, 2021

L’Italia è una Repubblica fondata sul Var

di Mauro Suttora


HuffPost, 20 gennaio 2021

Dalle ore 22 e 14 del 19 gennaio 2021 l’Italia è una repubblica fondata sul Var. Dimenticate il primo articolo della Costituzione, che citava il lavoro: ormai ce n’è poco, è stato sostituito dal reddito di cittadinanza, è più un diritto che un dovere.

No, la nuova frontiera della democrazia è il Video Assistant Referee: arbitro assistente video, quindi maschile, sbagliato dire “la Var”. La presidente del Senato Elisabetta Casellati ieri sera ha chiesto ai suoi questori di rivedere le riprese della seduta dopo aver chiuso la votazione sulla fiducia al governo Conte. E quelli hanno stabilito che i senatori Lello Ciampolillo (ex grillino) e Riccardo Nencini (socialista) potevano votare, perché lo avevano chiesto alzando la mano pochi secondi prima del termine.

Urla di protesta, naturalmente, proprio come negli stadi. Questa volta i tifosi imbufaliti erano quelli di centrodestra, visto che i due senatori hanno votato per Conte, portando il suo esiguo bottino a quota 156.

La coppia di ‘costruttori’ (o voltagabbana, per i loro avversari) ha aspettato ben due ‘chiame’ (gli appelli in ordine alfabetico) prima di esprimere la propria scelta. “La riunione di segreteria del Psi è finita tardi”, si è giustificato Nencini. Eppure avevano avuto tutto il tempo per decidere, quindi il ritardo è sospetto. Hanno fatto i preziosi? Esibizionismo? Imbarazzo per il loro passaggio dall’opposizione alla maggioranza, denominato volgarmente ‘salto della quaglia’?

Le cronache da Bisanzio registrano che, in ogni caso, l’innovazione procedurale introdotta dalla Casellati non è stata pro domo sua, visto che lei è di centrodestra. Ma aspettiamoci d’ora in poi bisticci infiniti: i parlamentari pigri e sbadati chiederanno il Var ogni volta che si attarderanno al bar.

Non è la prima volta che la moviola entra in aula. Il povero senatore Barani (pure lui socialista) ha avuto la carriera stroncata nel 2015 quando la terribile grillina Taverna gli si scagliò contro, accusandolo di avere mimato con mano e bocca un rapporto orale a commento di un intervento della collega Lezzi.

Processo, replay, sporcaccione sospeso e non ricandidato.

Soltanto che nella foga l’incantevole Taverna commise un errore: ripeté il gestaccio per convincere l’allora presidente Grasso, più divertito che allibito, ad aprire il procedimento. Cosicché oggi, in quell’immenso Var che è la rete, si reperisce più facilmente il video della denunciante che quello del reprobo.

In realtà la moviola è la peggior nemica dei politici, perché li inchioda al loro passato. Prossimo o remoto: Veltroni che annuncia di trasferirsi in Africa, Renzi che promette di lasciare la politica se perde il referendum, il grillino che giura di ridursi lo stipendio a 2500 euro, il Salvini comunista padano, la Meloni fascista hobbit.

Prima delle videocamere c’erano fotografi che si guadagnavano da vivere appostandosi per ore e ore in tribuna stampa al solo scopo di cogliere attimi imbarazzanti: i ‘pianisti’ che votavano di nascosto per il vicino assente, il parlamentare dormiente, la Jotti col dito nel naso. Agguati poi amplificati da Striscia la Notizia, con Tapiro d’oro al malcapitato.

In realtà, nella nostra nuova repubblica fondata sul Var, non possiamo che ringraziare le videocamere. Che, è vero, ci angustiano con gli autovelox. Ma, installate a milioni su ogni strada, hanno permesso un incommensurabile balzo in avanti alle statistiche su casi risolti, criminali catturati, pirati della strada individuati. Fino agli stupratori esibizionisti come Genovese, che regalano essi stessi prove agli inquirenti con i filmatini da distribuire agli amici.

E quando useremo il Var anche fra marito e moglie, nessun Ciampolillo la farà franca: annienteremo il coniuge colpevole con un semplice rewind, facendogli risentire o rivedere la scemenza detta un’ora, un giorno, un mese prima.

Mauro Suttora

Monday, January 18, 2021

Razzi, Scilipoti, Casaleggio, Spadafora: trasformisti del terzo millennio

di Mauro Suttora


HuffPost, 18 gennaio 2021

Cos’hanno in comune coi grillini Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, eroi eponimi del trasformismo?

Molto, scopriamo. Dopo un decennio usato dai 5 stelle per far carriera sventolando i loro due nomi, simboli del male, adesso i voltagabbana, trasformati in responsabili costruttori, risultano preziosissimi per conservare il proprio stipendio.

Ma sono sfuggite ai più due altre curiose coincidenze. Da chi furono infatti eletti deputati, Razzi nel 2006 e Scilipoti nel 2008? Da Antonio Di Pietro, altro ex moralizzatore. E chi organizzava la campagna elettorale online del suo partito, Italia dei Valori? La società Casaleggio&associati, che per portare quei due gentiluomini in Parlamento incassò un milione e mezzo di euro nel 2005-10. Provenienti dal finanziamento pubblico con cui Di Pietro pagava all’azienda milanese la gestione del suo sito (e pazienza se contemporaneamente, nel 2008, la Casaleggio organizzava con il nascente Grillo politico un referendum contro quello stesso finanziamento pubblico).

Ecco quindi che, grazie alla casa madre grillina, la contiguità e continuità fra i saltatori della quaglia del terzo millennio è assicurata.

Certo, Razzi&Scilipoti furono dilettanti al cospetto di Giuseppe Conte. Il nostro ineguagliabile premier infatti detiene il guinness mondiale del trasformismo. Non si rinvengono nella storia dell’intero pianeta precedenti di un premier passato direttamente dalla guida di un governo a quella di un altro di segno opposto. 

Andreotti nel 1972 presiedette una coalizione di centrodestra e nel 1976-79 sposò i comunisti, ma dopo un intervallo di quattro anni. E, anzi, fu scelto proprio grazie ai suoi precedenti non di sinistra per rassicurare gli elettori dc di destra durante l’abbraccio col Pci.

Il liberale tedesco Genscher nel 1982 terminò l’era del socialista Schmidt e inaugurò quella del dc Kohl rimanendo ministro degli Esteri. Ma non era premier.

Si parva licet, il sindaco psi di Milano Pillitteri nel 1987 passò da un’alleanza con la Dc al Pci. Però erano tradimenti locali.

Seconda connection con lo spensierato mondo delle giravolte: il ministro grillino dello Sport Vincenzo Spadafora da Afragola. Lui con il neoalleato Mastella sente odore di casa. Se non gli riesce l’impresa di far espellere l’Italia dalle Olimpiadi (perché ha tolto al Coni l’autonomia dal governo), recupererà almeno le comuni origini campane. La sua variopinta carriera inizia infatti da virgulto 24enne come segretario particolare del presidente regionale campano Andrea Losco (Udeur di Mastella). Poi plana ovunque, destra, sinistra, centro: eccolo alla corte di Pecoraro Scanio, Rutelli, Fini, Schifani, Carfagna, Montezemolo, finché atterra dal compaesano Di Maio. 

Spadafora è un prodigio di ubiquità. Infatti il titolo della sua autobiografia, inopinatamente pubblicata da Mondadori nel 2014, è “Manifesto di un Paese che non si tira indietro”.

Ora gliele tira addosso il grillino Di Battista, che poche settimane fa alludendo a Spadafora gemeva: “Rischiamo di finire come l’Udeur”. E non erano ancora arrivati i neoRazzi&Scilipoti a salvarli.

Mauro Suttora

Thursday, January 14, 2021

Conte (quasi) out

“L’alternativa Pd è pronta: Franceschini premier con Di Maio vice”

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

Ilsussidiario.net, 14 gennaio 2021

Renzi ritira le ministre di Iv e accusa conte di violare le regole. ma la trattativa rimane aperta. Se ne gioveranno Franceschini e Zingaretti

Sono passate da poco le 18.20 quando Renzi annuncia in conferenza stampa che le ministre di Italia viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, insieme al sottosegretario Ivan Scalfarotto, lasciano il governo. “La crisi politica non è aperta da Italia viva” spiega Renzi, “è aperta da mesi”. 

L’ex premier snocciola una lunga serie di critiche alla conduzione di Conte: “Proprio perché c’è la pandemia occorre rispettare regole democratiche, perché se durante la pandemia non le rispetti allora la democrazia non serve più a niente”. 

A sorpresa, però, Renzi lascia aperte diverse porte. “Noi non abbiamo nessuna pregiudiziale né su nomi né su formule”, tranne quella di un’alleanza con la destra.

Adesso si attende di capire quali saranno i binari della crisi. Mauro Suttora, giornalista, collaboratore dell’Huffington Post dopo Oggi e L’Europeo, vede improbabile un Conte ter, perché “l’obiettivo di Renzi è fare fuori Conte per conto del Pd”. Prematuro fare ipotesi, ma una di queste contempla una sorta di staffetta M5s-Pd a Palazzo Chigi. Tre, secondo Suttora, i nomi possibili.

L’unica pregiudiziale di Renzi è verso un possibile accordo con la “destra sovranista e populista”. Dunque la trattativa continua?

Sì. La politica è trattativa continua. Ma dietro Conte in realtà c’è il Pd, ridotto nei sondaggi al 19%, che non ha guadagnato un voto dell’alleanza coi grillini. In un anno di governo Salvini li dimezzò, vampirizzandoli. Ora la Lega è scesa, ma i voti di destra sottratti ai grillini sono comunque rimasti nel centrodestra, finendo alla Meloni.

Il Pd invece?

Il Pd invece non è riuscito ad attrarre il voto di un solo grillino di sinistra: il M5s era al 17% all’inizio del Conte 2, alle europee 2019, e oggi resiste al 14-16%. Invece di svuotare i grillini, è stato il Pd a grillizzarsi.

Cosa vuole veramente Renzi?

Far fuori Conte per conto del Pd.

Renzi continua a sostenere che non si vota. Come fa a esserne così sicuro?

Perché tutti gli attuali 945 parlamentari rischierebbero il seggio con un nuovo voto, dato il taglio del loro numero, tranne i Fratelli d’Italia. L’unico dato sicuro è che non ci saranno elezioni politiche fino al febbraio 2022, dopo che sarà votato il successore di Mattarella.

Conte potrebbe guidare un governo per la terza volta? O l’operazione di Renzi rende possibile “quasi” tutto ma non questo?

La vedo dura. Sarebbe il suo terzo salto della quaglia. Troppo anche per lui, che pur detiene il record mondiale del trasformismo. Non si conoscono precedenti di un premier che guida prima una coalizione e poi ne guida un’altra di segno opposto. Ricordo solo il liberale tedesco Genscher, che nel 1982 fece fuori il socialista Schmidt per mettersi con il democristiano Kohl, o il sindaco Psi di Milano Pillitteri che nel 1987 passò da un’alleanza con la Dc al Pci. Ma non erano capi nazionali di governo.

Le parole di Bettini (Pd): “ci sono le condizioni per definire un’intesa di fine legislatura” dette poco prima che Renzi ritirasse le ministre hanno ancora un senso?

Quel grande stratega di Bettini ha addirittura incoronato Conte come capo della sinistra, facendone uno statista eccelso, una specie di Moro in sedicesimo.

Stando ai retroscena, l’aut-aut di Conte ieri a Italia viva ha spiazzato tutti, Colle compreso. Tutti dunque a pensare che Conte avesse davvero i numeri. Che cosa è successo?

Più che avere i numeri, Conte li ha dati… E Mattarella lo ha ridotto a più miti consigli. Che non sono quelli di Casalino e Travaglio.

Secondo te il governo ha i voti in Senato? Insomma i responsabili si troveranno?

Mi limito a dire che i cosiddetti “responsabili” fino a pochi mesi fa venivano definiti “Razzi e Scilipoti”, orrendi voltagabbana.

Cosa faranno i 5 Stelle e gli ex 5 Stelle, quelli che sono nel Misto?

I grillini ed ex grillini ingoieranno qualsiasi cosa pur di conservare il posto, visto che sono destinati a dimezzarsi dal 33 al 16%.

“Un patto tra tutti i partiti, costruttori per il bene comune dell’Italia”. Che senso dare all’appello di Grillo?

È un appello degno del comico che è. Dopo aver tuonato per quindici anni che i politici sono tutti ladri, ora li vuole tutti con sé. L’ammucchiata finale. Pittoresco.

E adesso? Che cosa potrebbe succedere nel breve termine?

Non lo so, la politica è bella perché imprevedibile. So solo che Renzi sembra essere l’unico che fa politica oggi in Italia. L’unico che la sa fare, o che la vuole fare. È stato lui a inventare il Conte 2, costringendo il Pd ad allearcisi. E ora è di nuovo lui a distruggere la sua marionetta Conte, dopo averla creata. Sarebbe del tutto normale, a metà legislatura, una staffetta di governo. Finora il premier è stato grillino, ora è il turno di un Pd. Magari con Di Maio vice.

C’è qualcuno ne Pd che può aspirare a questo ruolo?

Franceschini, Zingaretti, Gualtieri. Ma per ora è fantapolitica.

E Renzi?

Con tutti i suoi difetti, per fortuna che Renzi c’è. Poi magari rimarrà al 3%. Ma il Pd dovrebbe fargli un monumento, se non altro come kamikaze.

Federico Ferraù 

Thursday, January 07, 2021

Usa: tanti corpi di polizia, zero sicurezza

L'ETERNA DEBOLEZZA INTERNA DEGLI STATI UNITI

di Mauro Suttora

HuffPost, 7 gennaio 2021

Sette colpi in cinque secondi. Tanti ne riuscì a sparare John Hinckley al presidente Ronald Reagan nel 1981. Quel mancato assassinio fu perfino più grave dell’omicidio Kennedy, perché dimostrò l’assoluta perforabilità della sicurezza attorno all’uomo più potente del mondo. A Dallas, infatti, il killer sparò dal sesto piano, a centinaia di metri di distanza. A Washington, invece, Reagan fu colpito da pochi metri.

Quarant’anni dopo, il problema è sempre lo stesso. Quant’è vulnerabile l’impero americano? Gli Stati Uniti dominano il pianeta, spendono 800 miliardi di dollari ogni anno per le forze armate (Cina ed Europa 260, la Russia 70).

Eppure centinaia di pazzoidi addobbati da bisonti cornuti riescono a entrare nel cuore del loro sistema, il palazzo del Congresso, proprio mentre Camera e Senato sono riuniti in sessione congiunta per una delle occasioni più sacre: la proclamazione del nuovo presidente.

I grillini promettevano di aprire il nostro Parlamento “come una scatola di tonno”. I complottisti trumpiani lo hanno fatto.

Così, blindatissimi all’esterno, gli Usa si ritrovano indifesi all’interno. Gli americani, allibiti, scoprono che a proteggere il Campidoglio c’è una forza apposita, la Capitol police, forte di duemila agenti. I quali tuttavia ieri erano impotenti quanto i vigili urbani. Dotati di manganello, ma impediti dall’usare “lethal force” contro l’onda di assalitori. 

Un video di HuffPost Usa mostra un povero agente di colore che arretra davanti agli energumeni provvisti di aste di bandiera: scappa su per le scale, non osa menare la prima randellata perché sa che avrebbe la peggio.

Mai sottovalutare l’idiozia della burocrazia. Nella sola Washington coesistono ben sei corpi di polizia locale. Con lo stesso affiatamento che affratella e coordina i nostri carabinieri e poliziotti. Poi c’è l’Fbi federale. Poi la Guardia nazionale, che però dipende dal Pentagono. Quella di Washington ha solo mille effettivi, quindi ieri sera (dopo ore e ore) sono scesi in campo gli stati vicini, Virginia e Maryland. Fino alla mossa comica del governatore di New York, che ha inviato un suo contingente.

Gli Usa spendono ogni anno 115 miliardi per le varie forze dell’ordine. Ma a controllare le manifestazioni politiche ci sono anche i servizi segreti. E qui, ecco l’ulteriore barzelletta: l’intelligence statunitense è divisa in sedici agenzie. Cia, Dia, Nsa, sicurezza interna ed esterna, ogni arma ha le proprie spie, e poi il ministero dell’Energia, e volete mettere la Home Security, il nuovo ministero dell’Interno federale inventato dopo l′11 settembre 2001? Il suo bilancio è di altri 50 miliardi, più i 78 totali dell’intelligence.

Quanto all’intelligenza, quella vera, non poteva prevedere che il capo dei nuovi terroristi all’assalto del Palazzo in questo inverno non fosse un imam islamista, ma un vecchio signore che ieri ha aizzato per un’ora 40mila persone, invitandole ad andare poi al Congresso a dimostrare. E quelli hanno dimostrato, mandati dal capo dei poliziotti che avrebbero dovuto fermarli.

Il nero George Floyd è stato fermato per un biglietto falso da venti dollari, lo scorso maggio. È finito soffocato. La povera Ashley Babbitt, penetrata nel Senato contro il voto “rubato”, ieri è stata uccisa da un poliziotto terrorizzato. Ora anche i trumpiani potranno sventolare la loro martire. Ma “legge e ordine”, lo slogan di Trump, non è più utilizzabile dalla destra Usa: i “patrioti” cospirazionisti si sono fatti male da soli.

Mauro Suttora

Wednesday, January 06, 2021

Assalto alla democrazia, America nel caos

Trump incendia, i suoi obbediscono. Spari, lacrimogeni e devastazione al Congresso. Donald non molla

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 gennaio 2021

Scene di guerra civile da Washington. I manifestanti trumpiani, reduci da un comizio incendiario del presidente uscente Donald Trump che li ha incitati ad andare sotto il palazzo del Congresso, alle 14.30 ora locale sono riusciti a penetrarvi superando le guardie e aprendosi una breccia attraverso porte e finestre. Sono state estratte le pistole e, secondo diverse fonti, esplosi degli spari: una donna sarebbe stata colpita al petto e sarebbe grave, riporta la Cnn, e altre persone, tra cui diversi agenti, sono rimasti feriti negli scontri. 

Sono immagini di pura follia quelle che arrivano dal Congresso: manifestanti travestiti che prendono di mira le forze dell’ordine, un trumpiano che si siede sullo scranno di Mike Pence per scattarsi un selfie, un altro alla scrivania di Nancy Pelosi, e altri manifestanti che si fotografano accanto alle statue dei padri fondatori americani. E ancora: parlamentari con le maschere a gas tirati fuori di corsa dalle aule e dagli uffici dagli uomini di polizia per essere evacuati, il fumo di gas lacrimogeni nella storica rotonda del Campidoglio.

I parlamentari, riuniti in seduta comune per ratificare l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, hanno dovuto interrompere i lavori e sono stati segregati in una zona sicura predisposta contro gli attacchi terroristici, altri sono stati evacuati. Il sindaco di Washington ha dichiarato il coprifuoco per le 18. Il presidente uscente ha invitato con un tweet i suoi manifestanti a obbedire alla polizia. Troppo tardi, perché ormai la situazione era già sfuggita di mano.

La verità è che Trump non mollerà mai. Oggi ha arringato la folla di repubblicani convocati nella spianata fra la Casa Bianca e il Congresso proprio nei minuti in cui il Congresso si riuniva.

Tutti i ricorsi di Trump sono stati respinti dai tribunali, ma lui insisterà per il resto della sua vita a definire “truccate” le elezioni che ha perso. E ieri ha perso di nuovo. La Georgia ha eletto due senatori democratici, dando al partito di Biden la maggioranza alla Camera alta. Il margine è minimo: 51 a 50, sarà la nuova vicepresidente Kamala Harris a fare la differenza come presidente del Senato. Ma la disfatta repubblicana è totale: per la prima volta da dieci anni sono in minoranza al Senato, oltre ad aver perso la Camera bassa e la presidenza.

Naturalmente Trump ha rifiutato anche la sconfitta in Georgia: il 50 virgola qualcosa per cento dei democratici, solo 17mila voti in piu, è un invito a nozze per la sua bellicosità. “Anche ieri c’è stato un set-up, una trappola!”, ha urlato dal palco.

Il problema è che buona parte dei suoi 74 milioni di elettori gli crede. Sono convinti di essere vittime di una truffa colossale. E adesso Trump attacca anche i repubblicani che non fanno fuoco e fiamme come lui. Sono loro, più che i democratici, il suo nuovo bersaglio: i “weak republicans”, i deboli come il vicepresidente Mike Pence e gli altri senatori che accettano la sconfitta.

Lui ormai è su un altro pianeta, quello del complottismo. Quasi sicuramente diserterà la cerimonia di inaugurazione fra due settimane. Non stringerà la mano al suo successore.

È la prima volta che capita, nel quarto di millennio della storia Usa. Ed è gravissimo, perché approfondisce il fossato fra le due Americhe.

“Bisogna saper perdere”, cantavano i Rokes a Sanremo 1967. Niente da fare, per l’arrogante Donald perdere con stile è impossibile. Chi soccombe è solo un “loser”: il peggior insulto che conosca.

Aspettarsi da lui almeno il rispetto del galateo istituzionale è speranza vana. Perché lui è il Supercafone immortalato dal Piotta, e la giornata di oggi con il definitivo schiaffo in Georgia e il trionfo di Biden non è stata il ‘reality check’, il ritorno alla realtà, ma solo l’inizio della sua nuova campagna elettorale permanente. I repubblicani senzienti, come Mitt Romney, faticheranno a sbarazzarsi di questo tumore.

Mauro Suttora

Friday, January 01, 2021

Dalai Lama, il mondo in campo per 'garantire' la successione

LA CINA VIOLA LA LIBERTA' RELIGIOSA IN TIBET

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 gennaio 2021

Il 6 luglio 2021 il Dalai Lama compie 86 anni. Guida i buddisti tibetani da quando ne aveva 15: batte anche la regina Elisabetta con i suoi 70 anni di durata (in esilio dal 1959). E nella storia è superato soltanto dai 72 anni del regno di Luigi XIV.

Ma nessuno è immortale, quindi è aperta la sua successione. Il regime cinese, che occupa il Tibet dal 1950, pretende di approvare la nomina del prossimo Dalai Lama, così come fa con i vescovi cattolici. Ma mentre il Vaticano ha abbassato la testa in questa anacronistica lotta per le investiture in ritardo di nove secoli sull'Europa, i tibetani non ne vogliono sapere di sottostare ai diktat comunisti.

I precedenti sono agghiaccianti. L'ultima volta che i buddisti hanno osato designare un Lama da soli, nel 1995, la Cina lo ha rapito, nominandone un altro fedele al regime. Non si sa più nulla dello sventurato Panchen Lama, che allora aveva sei anni e oggi ne avrebbe trenta.

Per evitare che il misfatto si ripeta, il 27 dicembre negli Stati Uniti è entrato in vigore il Tpsa (Tibetan policy and support Act), legge bipartisan che protegge il diritto dei buddisti tibetani a scegliere il loro prossimo Dalai Lama senza interferenze da parte della Cina. I governanti di Pechino che cercassero di nominarlo saranno colpiti da sanzioni. È auspicata una soluzione negoziale fra la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama, ma intanto si vieta l'apertura di nuovi consolati cinesi negli Usa finché Pechino continuerà a vietare un consolato statunitense a Lhasa, capitale del Tibet. Vengono finanziati progetti umanitari dentro e fuori dal Tibet. E si elogia la democratizzazione del governo tibetano in esilio: il Dalai Lama dal 2011 ha trasferito l'autorità politica a Lobsang Sangay, primo premier laico regolarmente eletto. Il quale ha ribadito che non chiede più l'indipendenza del Tibet, ma soltanto l'autonomia.

Fra i principali artefici del Tibet Act, il primo dopo quello del 2002 che dettava la politica statunitense sulla regione oppressa, c'è l'Ict (International Campaign for Tibet), la fondazione di Richard Gere guidata da sette anni da un italiano: il 45enne Matteo Mecacci, deputato radicale fino al 2013, ora nominato segretario generale per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Gere è stato invitato dal Senato Usa in giugno a parlare sull'argomento.

"Sappiamo che il governo cinese non cambierà il suo atteggiamento sul Tibet solo per questa legge", commenta Mecacci, "ma il Tpsa chiarisce che la libertà religiosa è importante, e che ci saranno conseguenze concrete se Pechino continuerà a violarla".    

Nel 2007 la Cina ha introdotto nuove regole sulla nomina dei Lama 'reincarnati', e i governanti di Pechino ripetono in ogni occasione che spetta a loro selezionarli. Ma il Dalai Lama ha avvertito che la reincarnazione potrà avvenire solo in un contesto di libertà, come quello dell'India dove vive in esilio dopo la fuga dalla dittatura. E che nessuno rispetterà un eventuale futuro Dalai Lama imposto dalla Cina.     

Lo scorso luglio per la prima volta Washington ha vietato l'entrata negli Usa ai gerarchi cinesi accusati di avere impedito a cittadini statunitensi l'accesso al Tibet. In settembre Joe Biden ha dichiarato che anche la sua amministrazione difenderà il popolo tibetano, che lui incontrerà il Dalai Lama, finanzierà i programmi in lingua tibetana di Radio free Asia e Voice of America, e che assieme agli alleati premerà su Pechino affinché riprenda il dialogo diretto con i rappresentanti tibetani per arrivare a una "genuina autonomia".

Cosa farà ora l'Europa? Josep Borrell, capo della politica estera Ue, ha dichiarato che anche l'Unione si oppone a ogni interferenza cinese sulla successione al Dalai Lama. Ma finora soltanto Belgio, Germania e Olanda hanno espresso posizioni simili. Manca l'Italia, e soprattutto mancano strumenti concreti ed efficaci per prevenire la malefatta annunciata.

Mauro Suttora

Thursday, December 24, 2020

Il “partito del mutuo” pronto a tradire Conte e prendersi il Colle

CAOS RECOVERY

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

ilsussidiario.net 24 dicembre 2020

L’incertezza sul Recovery Plan potrebbe indurre l’Ue a volere un nuovo governo con base più ampia. L’altro problema è che ogni calcolo sul 2022 è quasi impossibile

Il problema di Conte non è solo Renzi: l’incertezza sulla governance del Recovery Plan potrebbe indurre l’Unione Europea a volere “un nuovo governo, con base più ampia”, dice Mauro Suttora, giornalista e scrittore, oggi collaboratore dell’Huffington Post dopo Oggi e numerose corrispondenze estere. 

“Cambierà solo il governo, non il parlamento” perché votare non conviene a nessuno, tranne che alla Meloni, e perché il “partito del mutuo” a 5 Stelle mette la durata della legislatura davanti a tutto, anche allo stesso Conte. Il vero problema si presenterà nel 2022, al momento di eleggere il successore di Mattarella. Quando M5s, un terzo del parlamento, potrebbe essere totalmente furi controllo.

Sarà la “missione Recovery”, con i suoi tempi, a garantire la sopravvivenza di Conte?

Al contrario. Proprio la dimensione astronomica dei finanziamenti europei richiede un nuovo governo, con base più ampia. Ci rendiamo conto che i 209 miliardi del Recovery sono venti volte più del piano Marshall Usa di cui beneficiammo nel 1948-51?

Conte avrebbe trovato una mediazione con i renziani sulla struttura di governance, che secondo Iv “non c’è più”. Ma Boccia ieri ha smentito la Bellanova. Come stanno le cose?

Sono piccoli sussulti di dispute bizantine senza importanza. Con tutto il rispetto per Boccia e Bellanova, non contano nulla.

Renzi non pare intenzionato a mollare. Conte dovrà cedere la delega sui Servizi?

Mi sembra ovvio che un settore delicato come i servizi segreti non possa stare in mano a Conte, espressione di un partito che in pratica non esiste più, i grillini. Proprio il fatto che lui si aggrappi ai servizi con tale insistenza rende la faccenda sospetta. Meglio Minniti, che da sottosegretario dicono abbia già dato buona prova. 

Prodi ha criticato il governo sul Recovery: mancano “le autorità chiamate a decidere” e “le procedure e gli atti necessari per arrivare alle decisioni”.

Prodi ha ragione. È sconcertante che il Pd non se ne renda conto. Zingaretti sembra succube di Conte. Vuole affondare assieme a lui e ai grillini?

È la bocciatura da parte di un possibile presidente della Repubblica?

Prodi avrà 82 anni quando si voterà per il Quirinale. Troppo anziano, più di Pertini nel 1978.

Le urne sono un’ipotesi della realtà? O questo governo e questo parlamento sapranno resistere?

Cambierà solo il governo, non il parlamento. Nessun partito ha interesse al voto anticipato, perché con il taglio dei seggi solo la Meloni può garantire le rielezione a tutti i suoi. Neanche Salvini chiede più le urne, ora che ha perso dieci punti nei sondaggi.

Veniamo ai 5 Stelle. Possono solo appoggiare Conte? Cioè, se qualcosa va storto, esplodono?

I grillini appoggeranno qualsiasi governo, perché sono quelli che hanno più da perdere con le elezioni. Né si limiteranno a un appoggio esterno, perché hanno sviluppato una gran piacere per il potere, e quindi non molleranno le poltrone di ministro e sottosegretario. Hanno mutui da pagare. Magari perderanno una ventina di dibattistiani non disposti a governare con Berlusconi.

Riusciresti a dividere gli ex M5s che sono nel Misto tra centrodestra e centrosinistra, o sono pura materia oscura?

In uno scenario di grandi intese diventa un calcolo inutile: tutti dentro, appassionatamente. I grillini più refrattari andranno con Paragone o la Meloni, ma non conteranno nulla.

Vedi nuovi leader in pectore dentro il palazzo? O c’è solo Di Maio?

Sarà molto interessante il risultato del voto per i nuovi cinque capi del loro direttorio il 15 giugno. Casaleggio si è battuto per evitare inciuci preconfezionati com’è sempre successo finora, con una squadra fissa di cinque da votare in blocco. Questa volta si vota sui singoli, e magari prevalgono i movimentisti rispetto ai governativi.

E fuori? C’è solo Di Battista?

La maggioranza degli iscritti grillini è per lui. E lo voteranno assieme a Lezzi, Morra e l’ex ministra Grillo, se si presenterà.

Si legge in giro che l’assoluzione di Raggi cambia gli schemi tra Pd e M5s. È vero?

No, perché la Raggi non riuscirà comunque ad arrivare al secondo turno, al comune di Roma. Quindi ci sarà un ballottaggio fra Pd e centrodestra. I grillini ormai sono marginalizzati.

Chi deciderà come votano i 5 Stelle nelle elezioni del presidente della Repubblica? Grillo? Di Maio? O saranno fuori controllo?

Bella domanda. Ci sarà una massa di 300 elettori, quasi un terzo del totale, imprevedibile e ingovernabile. Alcuni pretendenti al Colle, come Sassoli, stanno già strizzando loro l’occhio per conquistarli.

Federico Ferraù 

 

Monday, December 21, 2020

Variante Covid, variante Brexit

Il virus mutante è riuscito in un solo giorno a realizzare il sogno degli “hard brexiters”: l'isolamento del Regno Unito

di Mauro Suttora

HuffPost, 21 dicembre 2020

Nella notte più lunga dell’anno, quella del solstizio invernale, gli europei hanno completamente isolato l’isola. Alle 23 del 20 dicembre la Francia ha bloccato tutti i traghetti e i treni dell’Eurotunnel, dopo che nelle convulse ore precedenti il resto del continente aveva vietato l’atterraggio agli aerei provenienti dalla Gran Bretagna. 

Ce l’hanno fatta per miracolo i 136 passeggeri del Ryanair Londra-Pescara, ultimo volo decollato da Stansted: loro hanno protestato perché ora devono stare in quarantena, e invece possono considerarsi fortunati rispetto alle centinaia di migliaia di europei in partenza bloccati in Inghilterra per Natale.

Gli inglesi non sanno più dove mettere i diecimila camion al giorno che transitavano fra Dover e Calais: hanno dovuto parcheggiarli sulle piste dell’aeroporto del Kent, ormai inservibile. Era dai tempi di Dunkerque, 1940, che non si vedeva un casino simile da quelle parti.

Il virus mutante è riuscito in un solo giorno, quattro anni dopo il loro referendum, a realizzare il sogno degli “hard brexiters”, gli antieuropeisti più scalmanati: Isolation. Che, guarda caso, è il titolo di una canzone di John Lennon uscita esattamente mezzo secolo fa, dicembre 1970, per suggellare la rottura con i Beatles.

La rottura britannica con l’Europa era invece prevista fra dieci giorni, altra incredibile coincidenza, allo scadere degli infiniti negoziati Uk-Ue posposti di anno in anno. Come in ogni trattativa, il premier britannico Boris Johnson forse bluffava, tirava la corda fino all’ultimo secondo per ottenere condizioni migliori. Ma temendo un possibile ‘no deal’, nessun accordo sulle nuove condizioni e tariffe doganali, gli inglesi avevano già cominciato a fare incetta nei supermercati.

Ora dovranno fare a meno di frutta e verdura fresca da Italia e Spagna, ma anche dei vaccini anti-covid Pfizer prodotti in Belgio. Per trasportarli ci vorrà la Raf, la Royal Air Force. I ministri più importanti sono riuniti in permanenza nella sala segreta Cobra, usata solo dopo attentati terroristici e altre emergenze planetarie. In realtà la sigla sta per il tranquillamente burocratico ‘Cabinet office briefing room’, ma c’è poco da scherzare.

Il virus superveloce, infatti, non poteva piombare in un momento peggiore: nel bel mezzo dell’accaparramento Brexit, dei rifornimenti natalizi, dei ritorni a casa degli immigrati, e dopo che Boris Johnson aveva promesso feste tranquille con regole rilassate. Invece l’impennata dei contagi (ieri 36mila rispetto ai 20mila di una settimana fa) ha costretto il premier britannico a una svolta a U peggiore di quella di Conte, con drastici lockdown ovunque tranne che in Cornovaglia. Perfino Scozia e Irlanda hanno chiuso le frontiere con l’Inghilterra.

I cospirazionisti inglesi notano con soddisfazione paranoica che la variazione del covid è partita dal Kent, cioè proprio la regione più vicina all’Europa, fra Londra e la Manica. “Ragionateci sopra”: è ovviamente il complotto finale del diavolo di Bruxelles, che c’infetta prima dell’addio definitivo.

Noi invece apparteniamo alla generazione che, prima dei treni-proiettile Eurostar e delle low-cost, transitava in autostop sulle verdi colline di Canterbury per approdare alla tanto agognata Londra, oppure arrivava nella Victoria station su scassati trenini in legno da Dover. E tutto questo ci sembra un incubo.

Mauro Suttora

Sunday, December 20, 2020

Cent'anni fa il Natale di sangue a Fiume

Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari per fondare il loro effimero e incredibile stato libero


Mauro Suttora

HuffPost, 20 dicembre 2020


Cent’anni dal Natale di sangue a Fiume, 1920. Italiani contro italiani, 58 morti, duecento feriti: civili, militari, i dannunziani che un anno prima erano partiti da Ronchi dei Legionari (ora aeroporto di Udine-Trieste) per fondare il loro effimero e incredibile stato libero.

La peggior strage compiuta dalle nostre forze armate in tempo di pace verso concittadini, dopo quella del generale Bava Beccaris nel 1898 a Milano.

Fiume, oggi Rijeka, terza città della Croazia, era un paradiso cosmopolita. Odiata quindi dai sovranisti di allora, italiani e croati, che la volevano tutta per loro. Porto dell’Ungheria nell’impero asburgico, aveva 50mila abitanti, per metà italiani.

Situata nell’ascella dell’Istria, contrariamente a Trieste prima del 1915 non fu scossa dal nostro irredentismo, né dal nazionalismo speculare slavo.

Le minoranze croate, ungheresi, tedesche ed ebraiche vivevano felicemente, arricchendosi in tranquillità accanto agli italiani nella belle époque del Carnaro. 

I piroscafi usciti dai cantieri Cosulich nella prospiciente isola di Lussino (oggi trasferiti a Monfalcone) solcavano gli oceani portando tutte le merci del mondo alla Mitteleuropa attraverso il porto fiumano.

Il sogno finisce con la prima guerra mondiale. Niente Dalmazia all’Italia, come promessoci dagli anglofrancesi nel patto di Londra. Così la frustrazione per la “vittoria mutilata” viene canalizzata da Gabriele D’Annunzio. Non vogliono darci Fiume? E noi ce la prendiamo, eia eia alalà.

Prova generale del fascismo: reduci, arditi, camicie nere, pugnali, gagliardetti, teschi. La funerea paccottiglia militarista permea l’impresa fiumana.

Ma attenzione, avverte Pier Luigi Vercesi nel suo bel libro Fiume, l’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017): “Quell’anno diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico, e anche letterario e teatrale. D’Annunzio governa con un’invenzione al giorno. Fiume si trasforma in ‘città di vita’, dove tutto è concesso: le donne votano, l’omosessualità è tollerata, si può divorziare e ne approfitta Guglielmo Marconi, l’esercito viene abolito in tempo di pace, l’istruzione è gratuita, una nuova Costituzione sovverte le regole borghesi e monarchiche. Perfino Lenin è affascinato dal governo dannunziano”.

Insomma, il Vate conquista Fiume, ma la civiltà fiumana e l’amore libero conquistano i suoi legionari.

Non può continuare. Con il trattato di Rapallo del novembre 1920 fra Italia e la neonata Jugoslavia, Roma rinuncia alla Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta) in cambio dello status di città libera per Fiume.

D’Annunzio rifiuta l’accordo, e Giolitti fa bombardare la città, ponendo fine all’avventura. Alle 4 di pomeriggio del 26 dicembre 1920 la nave Andrea Doria colpisce il Palazzo del governatore. Il poeta è ferito alla testa dai calcinacci nel suo studio. Due giorni dopo si dimette. 

Tuttavia, commenta Vercesi, “D’Annunzio muta il corso della storia d’Italia e probabilmente d’Europa, orchestrando la più reale rappresentazione dello spirito del tempo”.

Mauro Suttora