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Wednesday, August 25, 2021

Montanari, De Pasquale e le piccole bizze agostane tra comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost , 25 agosto 2021

Poiché fascisti e comunisti si sostengono a vicenda, a destra ora chiedono le dimissioni da rettore dell’Università per stranieri di Siena di Tomaso Montanari, stimato professore di estrema sinistra. Assurdo.

Per lui, come per tutti, vale la competenza professionale nella propria materia, indipendentemente dalle idee politiche personali. La destra protesta perché Montanari pretende la revoca della nomina di Andrea De Pasquale a direttore dell’Archivio centrale dello Stato. 

La ‘colpa’ di De Pasquale? Avere accettato la donazione dell’Archivio Rauti alla Biblioteca Nazionale che dirige. E averla annunciata con un comunicato apparso per qualche ora sul sito del ministero, che definiva “statista” Rauti. 

Il ministro della Cultura Franceschini, che ha nominato De Pasquale, lo difende spiegando che il comunicato, evidentemente stilato dalla famiglia Rauti e quindi agiografico, fu inserito per sbaglio (pigrizia?) da un funzionario, e che De Pasquale si scusò subito per il disguido. 

Franceschini inoltre loda De Pasquale per avere acquisito anche altri archivi personali, come quelli di Pasolini, Elsa Morante e Calvino. Niente da fare. Montanari insiste, e oggi sul Fatto annuncia le proprie dimissioni dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, insultando Franceschini. 

“Montanari se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”: così si potrebbe liquidare l’episodio, come Togliatti quando Elio Vittorini, 70 anni fa, stracciò la tessera Pci. Ma il rettore di Siena insiste. Inserisce la nomina del povero De Pasquale in una più ampia ‘manovra’ di rivalutazione del fascismo. Che avrebbe come suo acme l’istituzione del Giorno del ricordo per l’esodo di 300mila istriani e dalmati e per le foibe. 

E qui scatta il riduzionista. Montanari infatti accusa niente meno che il presidente Mattarella di avere esagerato, in un suo discorso del 2020, l’importanza degli infoibati: “Erano solo 800”. Peccato che tutti gli storici seri concordino in stime sui 4-8mila. Poi gli rimprovera di aver definito l’esodo “pulizia etnica”: secondo Montanari la fuga del 90% degli abitanti di Fiume, Pola e Zara non lo fu? Ci voleva una percentuale maggiore? E come reagirebbero gli ebrei se qualche negazionista riducesse a un decimo, 600mila, le vittime dell’Olocausto?

In ogni caso, fra i 300mila profughi istriano-dalmati c’era la stessa percentuale di fascisti che nel resto d’Italia. Quindi non si capisce perché il prof si scandalizzi per il Giorno del Ricordo, che non si contrappone ma si aggiunge a quello della Memoria (per la Shoah), e infatti nel 2004 fu votato dall’unanimità del Parlamento (tranne Rifondazione comunista, ma con l’astensione di Bertinotti).

Si dirà: la solita tempesta in un bicchier d’acqua agostana della politichetta italiana. Vero. Ma fino a quando daremo importanza alle faziosità di opposti estremismi che valgono al massimo il 3% ciascuno? Perché tanti sono coloro che si definiscono fascisti o comunisti oggi in Italia. 

Per l’ottimo Montanari, poi, un’aggravante: Togliatti avrebbe subito liquidato questo suo imbizzarrimento odierno come ‘settarismo’. Vizio capitale del comunismo.

Mauro Suttora 

Tuesday, February 09, 2021

Giorno del Ricordo

Sulla pelle di noi figli dei profughi litigano ancora comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost ,10 febbraio 2021

Ormai siamo diventati un milione, noi figli e nipoti dei 350mila infoibati ed esuli istriani del 1943-53. Mio padre era profugo dall’isola di Lussino. Oggi commemoriamo il nostro Giorno del Ricordo, istituito nel 2004. 

Per 60 anni ci hanno ricordato troppo poco. Ora perfino troppo, cosicché sulla nostra pelle litigano di nuovo i nostalgici comunisti e fascisti. Cioè gli stessi che ci massacrarono e terrorizzarono spingendo i nostri genitori e nonni alla fuga (i comunisti jugoslavi), o che scatenarono la guerra persa che provocò l’amputazione territoriale e l’esodo (i fascisti italiani).

In realtà la maggioranza delle nostre famiglie non ha mai ricordato granché. Appena hanno potuto, i profughi hanno lasciato i campi trovando un lavoro e rifacendosi una vita. In Italia, America, Australia. Prima di fidanzarsi con mia madre a Genova negli anni ’50, anche mio padre aveva chiesto il visto al consolato canadese.


Poco spazio per rimpianti, nostalgie, lamenti. Nessuno si è mai sognato di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. “Tornemo in Dalmazia in vacanza d’estate per andar in barca, magnar, bever, cantar, pescar”, mi disse nel 1987 Ottavio Missoni, sindaco del libero Comune di Zara in esilio, quando lo intervistai sul settimanale Europeo per il quarantennale dell’esodo.

 

Durante le mie inchieste in Israele e Palestina mi è capitato spesso di chiacchierare con qualche palestinese rivendicativo. Gli dicevo: “Sono figlio di profughi anch’io. Abbiamo perso la guerra, perché vi fissate ancora su queste quattro pietre dopo mezzo secolo? Il mondo è grande, partite e andate ad arricchirvi altrove, come hanno fatto tanti vostri e miei parenti”. E quello annuiva, vedevo nei suoi occhi le sue certezze Olp e Hamas barcollare, nonostante lo avessero imbottito di propaganda dalla nascita.

   

Per scherzo mandavo a mia nonna cartoline col suo cognome scritto Matković invece di Matcovich. Si arrabbiava, poverina, perché si sentiva italianissima nonostante fosse nata nel 1900 a Sebenico (allora Austria-Ungheria, oggi Croazia). Nel novembre 1918 si avvolse nel tricolore al molo dove arrivò la prima nave da guerra italiana ‘liberatrice’. 

Il destino la punì crudelmente. Riuscì ad essere profuga due volte in soli vent’anni, sciagura capitata nel secolo scorso soltanto ai palestinesi, appunto: prima quando la sua famiglia si rifugiò a Lussinpiccolo perché il trattato di Rapallo aveva negato (giustamente) la Dalmazia all’Italia tranne Zara; poi nel 1944, quando dovette scappare anche dall’isola di Lussino.

 

Morì nel 1992, riconoscendo che tutto sommato l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, da lei tanto detestato, fu una disgrazia preferibile alle successive: i dittatori Mussolini e Tito. In quello stesso anno andai a Sebenico a trovare sua cugina, rimasta sempre lì. Viveva confinata 90enne in una stanza da letto del suo appartamento, requisito dopo la guerra dai comunisti e assegnato a una famiglia bosniaca. Da allora convivevano, lei era diventata la loro nonnina, come in Dottor Zivago o in un film di Kusturica. Il socialismo reale.

     

La loro Sebenico, patria del Tommaseo, aveva un 30-40% di italiani (veneziani) all’inizio dell’800, come Spalato e Ragusa (Dubrovnik). In tutte le città e paesi della costa istro-dalmata gli italiani (marinai, pescatori, commercianti, professionisti) erano la maggioranza. Ma già in periferia predominavano gli slavi. La coabitazione fra contadini croati/sloveni e borghesi italiani fu pacifica nei 400 anni della Serenissima (mille in Istria) e sotto l’Austria fino al 1866.


Dopo la sconfitta nella Terza guerra d’indipendenza, però, Vienna cominciò a discriminare gli italiani, temendo gli irredentisti che volevano seguire il Veneto nella madrepatria. Ciononostante, furono italiani i sindaci di Spalato (Antonio Baiamonti) fino al 1880, e a Ragusa con un’alleanza italo-serba anticroata fino al 1899. Poi l’Austria vietò la lingua italiana e chiuse le nostre scuole.

 

Pochi lo sanno: la Prima guerra mondiale scoppiò perché l’erede al trono di Vienna Francesco Ferdinando voleva elevare la Croazia (con la Bosnia) allo stesso rango di Austria e Ungheria nell’impero asburgico, danneggiando così serbi e italiani. Il serbo Gavrilo Princip lo uccise per questo a Sarajevo, e non pochi anche in Italia applaudirono.


Da allora, ogni singolo fatto sul nostro confine orientale è stato usato dalla propaganda dei due opposti nazionalismi, italiano e (jugo)slavo. Poi al conflitto inter-etnico si è aggiunto quello politico fra gli opposti totalitarismi, fascista e comunista. E in questa quadruplice tenaglia sono rimasti schiacciati i 350mila esuli italiani. 


Mio padre 15enne nel 1943 vide nella pineta dietro casa sua a Lussinpiccolo i partigiani titini far scavare una fossa ai partigiani cetnici serbi (in teoria loro alleati contro i nazisti) per poi trucidarli. Bastò questo a mio nonno per intuire che non era il caso di rimanere.


Ora qualche storico buontempone vorrebbe negare agli italiani istro-dalmati lo status di ‘popolo’. E quindi il loro esodo non sarebbe stata ‘pulizia etnica’, anche se svuotò al 90% tutte quelle città e paesi, da Fiume a Pola, da Parenzo a Rovigno. 


È l’ultimo sgarbo alla memoria di mia nonna, che col suo cognome certo non fu italiana per ‘ethnos’, ma per ‘ethos’. Ovvero per libera scelta di valori, cultura, civiltà. Come tante famiglie miste e bilingui, dai Bettiza ai Tomizza, dai Citterich ai Volcich, dai Pamich ai Bastianich, che si illusero di poter sfuggire, con la loro apertura mentale, tolleranza e cosmopolitismo, alle follie dei sovranismi identitari del ’900.

Mauro Suttora