MUSSOLINI: "CLARETTA, T'HO SPOGLIATA A TEATRO"
Amore e potere: la Rizzoli presenta i diari della Petacci alla Buchmesse
La Stampa, 14 ottobre 2009
Mario Baudino
«Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: ''Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sara' ancora mia''. ... Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre».
Cosi' scrisse Claretta Petacci, nel suo diario del '38, riferendo le parole che le avrebbe rivolto Mussolini, appena incontrato a Palazzo Venezia. Esagerava? La buttava un po' sullo svenevole? Fantasticava sul suo schiavo d'amore? Non abbiamo la controprova, per evidenti motivi. Ma tra un mese sara' possibile leggere cinquecento pagine di cio' che la celebre amante del Duce annoto' fra il '32 e il '38. Verranno pubblicate da Rizzoli in Mussolini segreto, a cura di Mauro Suttora, che quei diari ha trascritto e studiato, dopo averli inseguiti a lungo. Erano infatti depositati all'Archivio di Stato, ma non accessibili - neppure agli studiosi - fino allo scadere dei settant'anni dalla loro stesura.
Questo e' il motivo per cui d'ora in poi, ogni dodici mesi, se ne renderanno disponibili altri, fino al '45. Claretta Petacci continuo' a scriverli fino all'ultimo, e li consegno' a un'amica prima di lasciare Milano e incamminarsi con il convoglio dei gerarchi fascisti verso la Valtellina. Segui' l'uomo che amava e mori' con lui, a Giulino di Mezzegra, uccisa in circostanze ancora non del tutto chiare ed esposta cadavere in piazzale Loreto, a Milano.
Ma questa e' la «grande storia». Nei diari c'e' quella magari piu' piccola, della quotidianita' e del sogno. Queste pagine non rispondono agli interrogativi sulla fine del capo del fascismo, sul fantomatico carteggio con Churchill che Mussolini avrebbe avuto con se' nella fuga interrotta a Dongo, e in genere su tutti gli altri misteri italiani del periodo.
La curiosita' dell'editoria internazionale alla Fiera di Francoforte, dove la Rizzoli lancia il libro, e' pero' notevole, stimolata dai fatti di cronaca recenti, dal gossip privato divenuto politico. Non si puo' dire del resto che la povera Claretta Petacci - una figura tragica nella storia d'Italia - si sia risparmiata, anche da questo punto di vista. Tra gelosie e riappacificazioni, pianti e abbracci, ci consegna una trascrizione minuta, parola per parola, di telefonate (anche dieci al giorno) e conversazioni con lui.
Pare un verbale o un'intercettazione telefonica. A volte e' commedia all'italiana, a volte pure melodramma. La voce infatti e' quella di Claretta, e tutto il materiale viene filtrato, tradotto, spesso fantasticato, dall'immaginario di una donna innamorata. Riesce difficile immaginare il capo del fascismo che sussurra nella notte, a un telefono (bianco? ): «Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole»; mentre e' piu' verosimile, ad esempio, una chiamata mattutina dove Mussolini (lei annota: nervosissimo) si informa sbrigativamente: «Hai dormito? Non molto? Io si', sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare».
La Petacci nel '38 aveva 26 anni, era bellissima e gelosissima. Lui aveva passato i cinquanta e com'e' noto non gli mancavano ne' le amanti ne' i figli illegittimi, oltre a una famiglia regolare e a una moglie piuttosto decisa. Lei si era separata dal marito ed era tornata nella casa paterna. Era anche molto chiacchierata, com'e' ovvio. Era in una situazione di debolezza e di precarieta'. Ma era indubbiamente innamorata, anzi cieca di passione. Cosi' scriveva freneticamente, e trasfigurava.
Il Mussolini dei labari, dei gagliardetti e dei pugnali tra i denti qui non esiste. Non esiste nemmeno l'uomo di Stato. C'e' solo un signore superimpegnato che ogni tanto perde le staffe. Per esempio dopo un litigio sul fatto se andare o non andare a teatro. Claretta trascrive le sue parole: «Hai fatto bene a ricordarmi del teatro», le aveva detto, «pero' io rimango sempre dentro al palco e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muovero' da dentro perche' non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Cosi' va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.».
Filippo Tommaso Marinetti, accademico d'Italia. L'uomo che invento' il futurismo. E se ne stava in paziente attesa tra gli eccetera eccetera, ma soprattutto tra una telefonata e l'altra. La dura vita dell'intellettuale.
http://archivio.lastampa.it:80/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=9622368
Thursday, October 22, 2009
Wednesday, October 21, 2009
Berlusconi dopo il no al lodo Alfano
È davvero iniziato l' autunno del premier?
LA POLITICA E LA CRISI
Oggi, 21 ottobre 2009
Dopo la bocciatura del lodo Alfano, la politica si surriscalda. Il presidente del Consiglio accusa i critici con toni sempre più accesi. Perché si sente forte, o per non dare segni di debolezza?
di Mauro Suttora
Lo «sputtanamento»: parola non elegante, quella usata da Silvio Berlusconi in un comizio a Benevento. Finora era nota soprattutto come titolo di una canzone del 1978 di Cochi e Renato. Adesso, invece, secondo il presidente del Consiglio, è ciò che i suoi avversari provocano quando lo criticano: «Pensano di attaccare me, ma in realtà rovinano l' immagine dell' Italia intera».
Berlusconi è fuori di sé per la bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Questo significa che tornerà a essere processabile. E i magistrati si apprestano a ricominciare i quattro procedimenti nei quali era coinvolto prima della sospensione garantita, appunto, dal lodo. Ma il timore dei berlusconiani è che qualsiasi pubblico ministero, adesso, ne approfitterà per inviare ulteriori avvisi di garanzia a palazzo Grazioli. Una specie di tiro al bersaglio.
DIFFICILE ESSERE NEUTRALI
Insomma, la temperatura politica è alta. Giornali e opinione pubblica sono sempre più divisi: pro o contro Berlusconi? Si riduce lo spazio per i neutrali, come denuncia il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: «Nostro compito è raccontare i fatti, senza metterli al servizio delle opinioni ». Invece i giornali delle sponde opposte (Repubblica a sinistra, il Giornale a destra) organizzano raccolte di firme contro gli editori dell' avversario di carta (da una parte il finanziere Carlo De Benedetti, che ha appena ottenuto un risarcimento da 750 milioni di euro da Berlusconi; dall'altra la famiglia del premier).
Per orientarci, abbiamo posto nove domande ad alcuni fra i migliori commentatori del nostro Paese. Alcuni neutrali, altri schieratissimi (Giuliano Ferrara, Marco Travaglio). Come sempre, i lettori di Oggi si faranno una propria opinione da soli. Ben sapendo, però, che i veri problemi del l'Italia (crisi economica, disoccupazione, servizi pubblici, tasse) sono purtroppo ben altri.
LA POLITICA E LA CRISI
Oggi, 21 ottobre 2009
Dopo la bocciatura del lodo Alfano, la politica si surriscalda. Il presidente del Consiglio accusa i critici con toni sempre più accesi. Perché si sente forte, o per non dare segni di debolezza?
di Mauro Suttora
Lo «sputtanamento»: parola non elegante, quella usata da Silvio Berlusconi in un comizio a Benevento. Finora era nota soprattutto come titolo di una canzone del 1978 di Cochi e Renato. Adesso, invece, secondo il presidente del Consiglio, è ciò che i suoi avversari provocano quando lo criticano: «Pensano di attaccare me, ma in realtà rovinano l' immagine dell' Italia intera».
Berlusconi è fuori di sé per la bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Questo significa che tornerà a essere processabile. E i magistrati si apprestano a ricominciare i quattro procedimenti nei quali era coinvolto prima della sospensione garantita, appunto, dal lodo. Ma il timore dei berlusconiani è che qualsiasi pubblico ministero, adesso, ne approfitterà per inviare ulteriori avvisi di garanzia a palazzo Grazioli. Una specie di tiro al bersaglio.
DIFFICILE ESSERE NEUTRALI
Insomma, la temperatura politica è alta. Giornali e opinione pubblica sono sempre più divisi: pro o contro Berlusconi? Si riduce lo spazio per i neutrali, come denuncia il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: «Nostro compito è raccontare i fatti, senza metterli al servizio delle opinioni ». Invece i giornali delle sponde opposte (Repubblica a sinistra, il Giornale a destra) organizzano raccolte di firme contro gli editori dell' avversario di carta (da una parte il finanziere Carlo De Benedetti, che ha appena ottenuto un risarcimento da 750 milioni di euro da Berlusconi; dall'altra la famiglia del premier).
Per orientarci, abbiamo posto nove domande ad alcuni fra i migliori commentatori del nostro Paese. Alcuni neutrali, altri schieratissimi (Giuliano Ferrara, Marco Travaglio). Come sempre, i lettori di Oggi si faranno una propria opinione da soli. Ben sapendo, però, che i veri problemi del l'Italia (crisi economica, disoccupazione, servizi pubblici, tasse) sono purtroppo ben altri.
Wednesday, October 14, 2009
Il film 'Barbarossa'
ALLA PRIMA DEL KOLOSSAL LEGHISTA CON L'EURODEPUTATO MARIO BORGHEZIO
di Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2009
«Il cinghiale è un simbolo celtico. E anche il bosco». Mario Borghezio si appassiona al film Barbarossa fin dalla prima scena. Federico di Svevia è a caccia in una foresta, ma caduto a terra rischia di essere sopraffatto da un cinghiale. Un Alberto da Giussano ragazzino lo salva con la sua faretra, e l’imperatore tedesco lo ringrazia regalandogli un pugnale.
Siamo alla prima del kolossal, in un cortile del castello Sforzesco a Milano. C’è tutto lo stato maggiore della Lega Nord. A due metri da noi, in prima fila, siedono il premier Silvio Berlusconi e il ministro Giulio Tremonti, accanto a Umberto Bossi e Roberto Maroni. Il film del regista Renzo Martinelli, prodotto dalla Rai, è costato 22 milioni.
«Roma era debole e malata anche ottocento anni fa», commenta Borghezio, quando sullo schermo appare un papa succube del Barbarossa. «Sempre luogo di intrallazzi». Gli intrallazzi per la verità non mancano anche fra i comuni lombardi. Alcuni (Pavia, Como, Cremona) parteggiano per l’imperatore contro Milano, Lodi ne chiede la completa distruzione. E anche nel Piemonte di Borghezio, il Monferrato ghibellino si contrappone ad Alessandria guelfa. «La madre dei collaborazionisti è sempre incinta», sussurra l’eurodeputato leghista.
Poi si vedono gli esattori imperiali che si fanno odiare estorcendo ai lombardi tasse del trenta per cento: «Il disprezzo per i cittadini, allora come oggi, passa attraverso imposte esose e persecuzione fiscale. Così nasce la richiesta di libertà».
I milanesi sono divisi fra i sottomessi al Barbarossa e chi, come Alberto da Giussano (Raz Degan), vuole ribellarsi: «C’è sempre chi rinuncia a combattere, ma la storia costringe a prendere decisioni. La libertà non la regala nessuno, bisogna lottare per conquistarla. Alcuni padani capiscono che sono in stato di schiavitù, ma altri si tirano indietro. Anche oggi abbondano i rinunciatari».
Barbarossa circonda Milano con il suo esercito: «Per fortuna adesso non siamo più assediati, però siamo sempre insidiati dai mille traffici del potere centralista romano», commenta Borghezio.
Rasa al suolo la capitale lombarda nel 1162, Federico ne disperde gli abitanti sopravvissuti in sei direzioni diverse: «Roma da sempre vince e divide, ci mette gli uni contro gli altri. Solo la divisione fra padani consente al padrone di comandare».
Cominciano le prime riunioni segrete a Pontida: «Sembrano i primi incontri della Lega, ai tempi del secessionismo. Anche noi avevamo paura di essere ascoltati dal nemico. E quel Barozzi, emissario imperiale, i ricorda certi prefetti, simboli del governo centrale».
Per Borghezio, insomma, la lotta per l’autonomia è uguale oggi come nel dodicesimo secolo. Le somiglianze fra la Lega lombarda di allora e quella odierna sono tante: «La rapina fiscale è uguale, ma allora come ora ci sono i risvegliatori di popoli: Alberto da Giussano, Umberto Bossi. E il Carroccio resta il nostro simbolo primordiale».
Arriva la riscossa finale con la battaglia di Legnano, 1176: il Barbarossa si ritira in Germania dopo la vittoria dei lombardi. Che prevalgono anche grazie all’invenzione dei carri dotati di falci, che sterminano i cavalieri tedeschi: «La grande risorsa del fai da te padano...», commenta soddisfatto Borghezio. Che alla fine del film si alza e si mette in fila dietro a Bossi verso il catering.
Anche i leghisti ora hanno il loro Braveheart. E non dovranno più applaudire il Mel Gibson eroe medievale della Scozia indipendente. Unica concessione: per venderlo all’estero, il film ha dovuto essere intitolato al Barbarossa. Ma il vero protagonista si chiama Alberto/Umberto.
Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2009
«Il cinghiale è un simbolo celtico. E anche il bosco». Mario Borghezio si appassiona al film Barbarossa fin dalla prima scena. Federico di Svevia è a caccia in una foresta, ma caduto a terra rischia di essere sopraffatto da un cinghiale. Un Alberto da Giussano ragazzino lo salva con la sua faretra, e l’imperatore tedesco lo ringrazia regalandogli un pugnale.
Siamo alla prima del kolossal, in un cortile del castello Sforzesco a Milano. C’è tutto lo stato maggiore della Lega Nord. A due metri da noi, in prima fila, siedono il premier Silvio Berlusconi e il ministro Giulio Tremonti, accanto a Umberto Bossi e Roberto Maroni. Il film del regista Renzo Martinelli, prodotto dalla Rai, è costato 22 milioni.
«Roma era debole e malata anche ottocento anni fa», commenta Borghezio, quando sullo schermo appare un papa succube del Barbarossa. «Sempre luogo di intrallazzi». Gli intrallazzi per la verità non mancano anche fra i comuni lombardi. Alcuni (Pavia, Como, Cremona) parteggiano per l’imperatore contro Milano, Lodi ne chiede la completa distruzione. E anche nel Piemonte di Borghezio, il Monferrato ghibellino si contrappone ad Alessandria guelfa. «La madre dei collaborazionisti è sempre incinta», sussurra l’eurodeputato leghista.
Poi si vedono gli esattori imperiali che si fanno odiare estorcendo ai lombardi tasse del trenta per cento: «Il disprezzo per i cittadini, allora come oggi, passa attraverso imposte esose e persecuzione fiscale. Così nasce la richiesta di libertà».
I milanesi sono divisi fra i sottomessi al Barbarossa e chi, come Alberto da Giussano (Raz Degan), vuole ribellarsi: «C’è sempre chi rinuncia a combattere, ma la storia costringe a prendere decisioni. La libertà non la regala nessuno, bisogna lottare per conquistarla. Alcuni padani capiscono che sono in stato di schiavitù, ma altri si tirano indietro. Anche oggi abbondano i rinunciatari».
Barbarossa circonda Milano con il suo esercito: «Per fortuna adesso non siamo più assediati, però siamo sempre insidiati dai mille traffici del potere centralista romano», commenta Borghezio.
Rasa al suolo la capitale lombarda nel 1162, Federico ne disperde gli abitanti sopravvissuti in sei direzioni diverse: «Roma da sempre vince e divide, ci mette gli uni contro gli altri. Solo la divisione fra padani consente al padrone di comandare».
Cominciano le prime riunioni segrete a Pontida: «Sembrano i primi incontri della Lega, ai tempi del secessionismo. Anche noi avevamo paura di essere ascoltati dal nemico. E quel Barozzi, emissario imperiale, i ricorda certi prefetti, simboli del governo centrale».
Per Borghezio, insomma, la lotta per l’autonomia è uguale oggi come nel dodicesimo secolo. Le somiglianze fra la Lega lombarda di allora e quella odierna sono tante: «La rapina fiscale è uguale, ma allora come ora ci sono i risvegliatori di popoli: Alberto da Giussano, Umberto Bossi. E il Carroccio resta il nostro simbolo primordiale».
Arriva la riscossa finale con la battaglia di Legnano, 1176: il Barbarossa si ritira in Germania dopo la vittoria dei lombardi. Che prevalgono anche grazie all’invenzione dei carri dotati di falci, che sterminano i cavalieri tedeschi: «La grande risorsa del fai da te padano...», commenta soddisfatto Borghezio. Che alla fine del film si alza e si mette in fila dietro a Bossi verso il catering.
Anche i leghisti ora hanno il loro Braveheart. E non dovranno più applaudire il Mel Gibson eroe medievale della Scozia indipendente. Unica concessione: per venderlo all’estero, il film ha dovuto essere intitolato al Barbarossa. Ma il vero protagonista si chiama Alberto/Umberto.
Mauro Suttora
Wednesday, October 07, 2009
Parla Francesca Lana
A CENA DA SILVIO
«Quelle serate con Manu...»
Era l'amica del cuore di Manuela Arcuri. Con lei andò due volte dal premier. In questa intervista esclusiva spiega che cosa accadde. E perché se n'è pentita
Oggi, 30 settembre 2009
di Mauro Suttora
Drogata. Lesbica. Implicata in un giro di prostituzione. Come sembra lontana, per Francesca Lana, quella magica sera del 29 maggio, quando festeggiò il suo ventiquattresimo compleanno nella discoteca estiva più prestigiosa di Roma: il Jet Set. Sono passati solo quattro mesi. Allora, c’era la coda per essere fra i suoi invitati. «Ora invece ora mi sembra di essere precipitata in un incubo», ci confessa la soubrette, ex valletta de I migliori anni (Raiuno).
«Stanno riempiendo di coca mezza Sardegna. Quelli di Bari danno droga a tutti, se lo sa Briatore...»: questa è la sua frase che ha inguaiato Gianpaolo Tarantini, il fornitore di donne di Silvio Berlusconi, facendolo finire in carcere. Francesca la pronunciò nel luglio 2008 mentre era ospite nella villa di Porto Cervo affittata dal faccendiere pugliese. Parlava a persone intercettate dalla Guardia di finanza. Poi Tarantini e soci si sono contraddetti: «Avevamo 70 grammi di cocaina», avevano ammesso. « No, mezzo chilo», li ha smentiti il loro spacciatore. Risultato: Francesca, che non è indagata perché non ha commesso reati, è stata ascoltata due volte dagli inquirenti come «persona informata sui fatti».
Poi c’è la questione saffica. Anche questa risale a un anno fa. Foto di lei che bacia sul ventre nudo l’inseparabile amica Manuela Arcuri. «Lesbo soft», titolarono i giornali. «Nulla di vero», rivela oggi Francesca, «ma Manuela non volle che facessi un’intervista per smentire. Così oggi su internet passo per una lesbicona. Non ho nulla contro l’omosessualità, ma non è piacevole».
Il giro delle ragazze di Tarantini, infine. «Sì, sono stata tre volte da Berlusconi. L’estate 2008 in Sardegna, ma eravamo in trecento e con il presidente non ho neppure parlato. E poi due cene sedute e tranquillissime nella sua casa romana lo scorso dicembre, con Manuela. Altro che “pupe di papi” e squillo: siamo tornate a casa prima di mezzanotte, non abbiamo notato nulla di equivoco».
In realtà la disgrazia di Francesca, oltre a quella di essere stata inserita da Tarantini nell’elenco indiscriminato di “donne portate da Berlusconi”, senza distinguere troppo fra escort pagate e semplici invitate, è una foto del 31 dicembre 2008 a Cortina. L’unica con Tarantini e la Arcuri assieme, all’uscita di un ristorante. Quindi quella che ha fatto più notizia, pubblicata e ripubblicata, data la notorietà della Arcuri. E lei, Francesca Lana, appare fra loro. In mezzo.
«Insomma, sembro al centro di tutto, e invece non c’entro nulla. Ma tanto è bastato per farmi perdere il lavoro televisivo - ottenuto dopo regolare provino - che avrei dovuto iniziare quest’autunno».
La colpa è della sua famosa frase sulla droga.
«Spiego come andò. Quella notte ero stata male, molto male. Eravamo con altri ospiti nel privé del Billionaire, dove Tarantini aveva sempre un tavolo riservato...»
Anche perché ospitava a casa sua pure Raffaella Zardo, pierre del locale di Briatore.
«Ho sospettato che qualcuno mi avesse sciolto qualche sostanza nel bicchiere. Chiesi di andare al pronto soccorso. Ma non vollero: cosa avrebbero detto ai dottori, che mi avevano drogata a mia insaputa? Così scoprii che in quello che mi sembrava un ambiente familiare, con le mogli di Tarantini, dei suoi amici e i loro figli piccoli, succedevano cose strane...»
Beh, notti esagerate come spesso capita in Costa Smeralda. Non faccia Alice nel Paese delle meraviglie: conosce quell’ambiente.
«Certo, anche perché fui eletta miss Billionaire nel 2005. Ma ci tengo a dire che ho grande rispetto per Briatore, una persona che con me è sempre stata correttissima. Il mio sbaglio, di cui sono pentita, è stato quello di fidarmi di altre persone».
Come la Arcuri?
«Ma no. Sono stata la sua migliore amica per anni, e anche se da qualche settimana non la sento più, non rinnego nulla».
Avete rotto?
«Diciamo che sono rimasta molto delusa da certi suoi recenti comportamenti».
Legati alle disavventure di Tarantini?
«Sì. Ovviamente anche lei è rimasta scottata dallo scandalo. Era la persona più famosa che Tarantini ha usato per accreditarsi con Berlusconi».
Come andò la cena del 2 dicembre?
«C’erano al massimo venti persone, fra cui il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce e Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile. Ci siamo seduti a tavola, io ero accanto a Manuela e avevamo di fronte Berlusconi. Con gli altri non abbiamo parlato molto, erano lontani. È stata una normale cena con ottimo cibo. Ricordo che dicemmo al presidente: “La sua casa è il miglior ristorante di Roma”. Poi un po’ di barzellette, una schitarrata con Apicella, e tutti a casa».
Tutti?
«Sì».
E la seconda cena?
«Non ricordo la data esatta, comunque fu ancora in dicembre, prima di Natale. Stessa scena, sempre con Tarantini, e ricordo che Berlusconi ripeté alcune delle barzellette della volta precedente. Ma a parte questo, è stata una persona gentilissima, un ospite squisito».
Anche perché c’era una delle sue attrici preferite, la Arcuri. Lei si rende conto che veniva invitata solo perché era la sua dama di compagnia?
«Me ne rendo conto solo ora. Ma su di me adesso scrivono illazioni allucinanti, infamie terrificanti, mi sono affidata al mio avvocato. Ammetto il mio errore, che però è stato solo quello di essere ammaliata da persone negative, che mi offrivano l’opportunità di frequentare ambienti importanti».
È chiaro che Tarantini portava dal premier due tipi diversi di donne.
«Sì, ma in questi mesi ho imparato sulla mia pelle che nel mondo dello spettacolo non esistono scorciatoie: bisogna studiare, non “frequentare”. Io sono stata per anni la migliore amica di Manuela Arcuri, ma non l’ho mai utilizzata per farmi dare qualche lavoro. Vengo dalla gavetta, ho lavorato nelle tv private di Roma, ho avuto parti in Distretto di polizia e Commissario Rex. Studio recitazione e dizione all’Accademia dello spettacolo di Cesare Lanza. E soprattutto, dopo la maturità scientifica, mi sto laureando al Dams di Roma. Mi mancano due esami».
Un ex fidanzato della Arcuri, Matteo Guerra, l’ha accusata: «Francesca era gelosa del nostro rapporto. Cone lei Manuela faceva le sei del mattino, mentre a me piace andare a letto presto».
«Ma quando mai... Certo, siamo giovani e ci divertiamo. Ma Manuela lavora molto, e io studio. Quindi se non siamo in vacanza al mattino ci alziamo presto, non possiamo sfarfalleggiare troppo».
Come ha conosciuto Tarantini?
«Per caso, in un locale di Montecarlo dove Manuela ed io eravamo andate per il Gran Premio 2008. Poi, siccome è pugliese, lo abbiamo rivisto quando siamo capitate in Puglia a giugno, alla masseria San Domenico. Allora Manuela aveva un fidanzato di lì, le famose foto “lesbo” ce le hanno scattate quando c’era anche lui».
Poi però in Sardegna nella villa di Tarantini c’è andata solo lei.
«Sì, stavo con un ragazzo. Poi, ho frequentato per due mesi Matteo Marzotto».
Bel colpo. Che si aggiunge a un suo altro ex, il calciatore Alberto Aquilani.
«Roba vecchia, del 2006. Ma, lo ripeto, quello è un mondo che mi ha illuso e disilluso. Ora penso solo a studiare, e a preparare la tesi».
Su che cosa?
«Volevo analizzare la commedia all’italiana...»
Basta che racconti quello che le è successo negli ultimi mesi: c’è dentro in pieno.
«... Ma il mio professore ha preferito darmi un altro tema: il cinema di Antonioni».
Perfetto anche questo: alienazione e incomunicabilità.
Mauro Suttora
«Quelle serate con Manu...»
Era l'amica del cuore di Manuela Arcuri. Con lei andò due volte dal premier. In questa intervista esclusiva spiega che cosa accadde. E perché se n'è pentita
Oggi, 30 settembre 2009
di Mauro Suttora
Drogata. Lesbica. Implicata in un giro di prostituzione. Come sembra lontana, per Francesca Lana, quella magica sera del 29 maggio, quando festeggiò il suo ventiquattresimo compleanno nella discoteca estiva più prestigiosa di Roma: il Jet Set. Sono passati solo quattro mesi. Allora, c’era la coda per essere fra i suoi invitati. «Ora invece ora mi sembra di essere precipitata in un incubo», ci confessa la soubrette, ex valletta de I migliori anni (Raiuno).
«Stanno riempiendo di coca mezza Sardegna. Quelli di Bari danno droga a tutti, se lo sa Briatore...»: questa è la sua frase che ha inguaiato Gianpaolo Tarantini, il fornitore di donne di Silvio Berlusconi, facendolo finire in carcere. Francesca la pronunciò nel luglio 2008 mentre era ospite nella villa di Porto Cervo affittata dal faccendiere pugliese. Parlava a persone intercettate dalla Guardia di finanza. Poi Tarantini e soci si sono contraddetti: «Avevamo 70 grammi di cocaina», avevano ammesso. « No, mezzo chilo», li ha smentiti il loro spacciatore. Risultato: Francesca, che non è indagata perché non ha commesso reati, è stata ascoltata due volte dagli inquirenti come «persona informata sui fatti».
Poi c’è la questione saffica. Anche questa risale a un anno fa. Foto di lei che bacia sul ventre nudo l’inseparabile amica Manuela Arcuri. «Lesbo soft», titolarono i giornali. «Nulla di vero», rivela oggi Francesca, «ma Manuela non volle che facessi un’intervista per smentire. Così oggi su internet passo per una lesbicona. Non ho nulla contro l’omosessualità, ma non è piacevole».
Il giro delle ragazze di Tarantini, infine. «Sì, sono stata tre volte da Berlusconi. L’estate 2008 in Sardegna, ma eravamo in trecento e con il presidente non ho neppure parlato. E poi due cene sedute e tranquillissime nella sua casa romana lo scorso dicembre, con Manuela. Altro che “pupe di papi” e squillo: siamo tornate a casa prima di mezzanotte, non abbiamo notato nulla di equivoco».
In realtà la disgrazia di Francesca, oltre a quella di essere stata inserita da Tarantini nell’elenco indiscriminato di “donne portate da Berlusconi”, senza distinguere troppo fra escort pagate e semplici invitate, è una foto del 31 dicembre 2008 a Cortina. L’unica con Tarantini e la Arcuri assieme, all’uscita di un ristorante. Quindi quella che ha fatto più notizia, pubblicata e ripubblicata, data la notorietà della Arcuri. E lei, Francesca Lana, appare fra loro. In mezzo.
«Insomma, sembro al centro di tutto, e invece non c’entro nulla. Ma tanto è bastato per farmi perdere il lavoro televisivo - ottenuto dopo regolare provino - che avrei dovuto iniziare quest’autunno».
La colpa è della sua famosa frase sulla droga.
«Spiego come andò. Quella notte ero stata male, molto male. Eravamo con altri ospiti nel privé del Billionaire, dove Tarantini aveva sempre un tavolo riservato...»
Anche perché ospitava a casa sua pure Raffaella Zardo, pierre del locale di Briatore.
«Ho sospettato che qualcuno mi avesse sciolto qualche sostanza nel bicchiere. Chiesi di andare al pronto soccorso. Ma non vollero: cosa avrebbero detto ai dottori, che mi avevano drogata a mia insaputa? Così scoprii che in quello che mi sembrava un ambiente familiare, con le mogli di Tarantini, dei suoi amici e i loro figli piccoli, succedevano cose strane...»
Beh, notti esagerate come spesso capita in Costa Smeralda. Non faccia Alice nel Paese delle meraviglie: conosce quell’ambiente.
«Certo, anche perché fui eletta miss Billionaire nel 2005. Ma ci tengo a dire che ho grande rispetto per Briatore, una persona che con me è sempre stata correttissima. Il mio sbaglio, di cui sono pentita, è stato quello di fidarmi di altre persone».
Come la Arcuri?
«Ma no. Sono stata la sua migliore amica per anni, e anche se da qualche settimana non la sento più, non rinnego nulla».
Avete rotto?
«Diciamo che sono rimasta molto delusa da certi suoi recenti comportamenti».
Legati alle disavventure di Tarantini?
«Sì. Ovviamente anche lei è rimasta scottata dallo scandalo. Era la persona più famosa che Tarantini ha usato per accreditarsi con Berlusconi».
Come andò la cena del 2 dicembre?
«C’erano al massimo venti persone, fra cui il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce e Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile. Ci siamo seduti a tavola, io ero accanto a Manuela e avevamo di fronte Berlusconi. Con gli altri non abbiamo parlato molto, erano lontani. È stata una normale cena con ottimo cibo. Ricordo che dicemmo al presidente: “La sua casa è il miglior ristorante di Roma”. Poi un po’ di barzellette, una schitarrata con Apicella, e tutti a casa».
Tutti?
«Sì».
E la seconda cena?
«Non ricordo la data esatta, comunque fu ancora in dicembre, prima di Natale. Stessa scena, sempre con Tarantini, e ricordo che Berlusconi ripeté alcune delle barzellette della volta precedente. Ma a parte questo, è stata una persona gentilissima, un ospite squisito».
Anche perché c’era una delle sue attrici preferite, la Arcuri. Lei si rende conto che veniva invitata solo perché era la sua dama di compagnia?
«Me ne rendo conto solo ora. Ma su di me adesso scrivono illazioni allucinanti, infamie terrificanti, mi sono affidata al mio avvocato. Ammetto il mio errore, che però è stato solo quello di essere ammaliata da persone negative, che mi offrivano l’opportunità di frequentare ambienti importanti».
È chiaro che Tarantini portava dal premier due tipi diversi di donne.
«Sì, ma in questi mesi ho imparato sulla mia pelle che nel mondo dello spettacolo non esistono scorciatoie: bisogna studiare, non “frequentare”. Io sono stata per anni la migliore amica di Manuela Arcuri, ma non l’ho mai utilizzata per farmi dare qualche lavoro. Vengo dalla gavetta, ho lavorato nelle tv private di Roma, ho avuto parti in Distretto di polizia e Commissario Rex. Studio recitazione e dizione all’Accademia dello spettacolo di Cesare Lanza. E soprattutto, dopo la maturità scientifica, mi sto laureando al Dams di Roma. Mi mancano due esami».
Un ex fidanzato della Arcuri, Matteo Guerra, l’ha accusata: «Francesca era gelosa del nostro rapporto. Cone lei Manuela faceva le sei del mattino, mentre a me piace andare a letto presto».
«Ma quando mai... Certo, siamo giovani e ci divertiamo. Ma Manuela lavora molto, e io studio. Quindi se non siamo in vacanza al mattino ci alziamo presto, non possiamo sfarfalleggiare troppo».
Come ha conosciuto Tarantini?
«Per caso, in un locale di Montecarlo dove Manuela ed io eravamo andate per il Gran Premio 2008. Poi, siccome è pugliese, lo abbiamo rivisto quando siamo capitate in Puglia a giugno, alla masseria San Domenico. Allora Manuela aveva un fidanzato di lì, le famose foto “lesbo” ce le hanno scattate quando c’era anche lui».
Poi però in Sardegna nella villa di Tarantini c’è andata solo lei.
«Sì, stavo con un ragazzo. Poi, ho frequentato per due mesi Matteo Marzotto».
Bel colpo. Che si aggiunge a un suo altro ex, il calciatore Alberto Aquilani.
«Roba vecchia, del 2006. Ma, lo ripeto, quello è un mondo che mi ha illuso e disilluso. Ora penso solo a studiare, e a preparare la tesi».
Su che cosa?
«Volevo analizzare la commedia all’italiana...»
Basta che racconti quello che le è successo negli ultimi mesi: c’è dentro in pieno.
«... Ma il mio professore ha preferito darmi un altro tema: il cinema di Antonioni».
Perfetto anche questo: alienazione e incomunicabilità.
Mauro Suttora
Wednesday, September 30, 2009
Via dall'Afghanistan
L'ESPERTO: "NON VINCEREMO"
L'opinione di Rory Stewart
di Mauro Suttora
Oggi, 23 settembre 2009
«In Afghanistan non esistono attività economiche rilevanti, tranne la produzione di droghe: il 92 per cento dell'oppio (eroina) e il 35% della cannabis mondiale provengono da qui. Per il resto, il Paese è dipendente dagli aiuti internazionali. Quindi è impossibile ricostruire uno Stato, per lo meno nel futuro prossimo».
Rory Stewart, 36 anni, è uno dei massimi esperti internazionali di Afghanistan. Ha scritto due libri: In Afghanistan e I rischi del mestiere, entrambi tradotti in Italia dall'editore Ponte alle Grazie.
Soltanto per mantenere un esercito e una polizia afghana ci vorrebbero due miliardi di dollari all'anno, mentre l'intero bilancio del governo di Kabul è di soli 600 milioni. Inutile, quindi, pensare che possano “difendersi" da soli».
E quindi?
«Quindi rinunciamo all'occupazione militare, e facciamo restare in Afghanistan solo ventimila soldati delle forze speciali per l'antiterrorismo. Cioè per impedire che Al Qaeda ricostruisca dei campi d'addestramento. Tutto il resto è inutile. La guerra contro i talebani non potrà essere mai vinta».
E Osama Bin Laden?
«Non è in Afghanistan. Si nasconde in Pakistan. Ma nessuno ovviamente si sogna di invadere il Pakistan per catturarlo».
Il presidente Usa Obama però ha aumentato i soldati a Kabul.
«Sta sbagliando. L'Afghanistan rischia di diventare per lui ciò che il Vietnam fu per John Kennedy: un tragico errore».
Quindi dovremmo abbandonare l'Afghanistan.
«No, ma dovremmo tenere lì solo dei commandos per catturare Osama e il mullah Omar. E abbandonare l'illusione di portare la democrazia in un posto che non ha la minima idea di che cosa sia».
Stewart non è un pacifista. Anzi, ha fatto parte del reggimento d'élite scozzese Black Watch. Poi è stato diplomatico a Kabul. Ma ora il suo consiglio è: «Andarsene».
L'opinione di Rory Stewart
di Mauro Suttora
Oggi, 23 settembre 2009
«In Afghanistan non esistono attività economiche rilevanti, tranne la produzione di droghe: il 92 per cento dell'oppio (eroina) e il 35% della cannabis mondiale provengono da qui. Per il resto, il Paese è dipendente dagli aiuti internazionali. Quindi è impossibile ricostruire uno Stato, per lo meno nel futuro prossimo».
Rory Stewart, 36 anni, è uno dei massimi esperti internazionali di Afghanistan. Ha scritto due libri: In Afghanistan e I rischi del mestiere, entrambi tradotti in Italia dall'editore Ponte alle Grazie.
Soltanto per mantenere un esercito e una polizia afghana ci vorrebbero due miliardi di dollari all'anno, mentre l'intero bilancio del governo di Kabul è di soli 600 milioni. Inutile, quindi, pensare che possano “difendersi" da soli».
E quindi?
«Quindi rinunciamo all'occupazione militare, e facciamo restare in Afghanistan solo ventimila soldati delle forze speciali per l'antiterrorismo. Cioè per impedire che Al Qaeda ricostruisca dei campi d'addestramento. Tutto il resto è inutile. La guerra contro i talebani non potrà essere mai vinta».
E Osama Bin Laden?
«Non è in Afghanistan. Si nasconde in Pakistan. Ma nessuno ovviamente si sogna di invadere il Pakistan per catturarlo».
Il presidente Usa Obama però ha aumentato i soldati a Kabul.
«Sta sbagliando. L'Afghanistan rischia di diventare per lui ciò che il Vietnam fu per John Kennedy: un tragico errore».
Quindi dovremmo abbandonare l'Afghanistan.
«No, ma dovremmo tenere lì solo dei commandos per catturare Osama e il mullah Omar. E abbandonare l'illusione di portare la democrazia in un posto che non ha la minima idea di che cosa sia».
Stewart non è un pacifista. Anzi, ha fatto parte del reggimento d'élite scozzese Black Watch. Poi è stato diplomatico a Kabul. Ma ora il suo consiglio è: «Andarsene».
Tuesday, September 29, 2009
Humour failure on Berlusconi
L'abbronzatura di Obama scandalizza l'Unità, ma in America fa ridere
di Mauro Suttora
Libero, 29 settembre 2009
«A… A… Abbronzatissima!» Guai a scherzare sulla canzone di Edoardo Vianello (1963), applicandola a Michelle Obama. Silvio Berlusconi regala l’ennesima prima pagina all’Unità (ma come le riempirebbero, senza di lui?), con ovvia censura annessa: «razzismo». L’ex organo del Pci perde la «i» e resta pc: sigla internazionale per «politicamente corretto», oltre che per personal computer.
Solo che negli Stati Uniti, inventori di entrambi i pc, la correttezza politica dopo trent’anni ha stufato, e abbondano invece le barzellette (berlusconiane?) sulle capriole verbali di chi non osa offendere minoranze e presunti minorati. Aveva già scritto tutto Allan Bloom nell’87 nel libro «La chiusura della mente americana», che guarda caso è stato appena ripubblicato in Italia da Lindau dopo che da decenni l’edizione Frassinelli era esaurita (a proposito di censure).
Guai a chiamare i neri «niggers», e va bene. Poi però sono stati proibiti anche «negro» (appellativo rispettabile, sempre usato da Martin Luther King), e via via addirittura «black», l’aggettivo che ancora negli anni ’70 veniva orgogliosamente inalberato dai neri stessi: «Black power», «Black panthers». Così oggi, se non dici compitamente «african american», parola lunghissima e ridicola, gli americani perbenino inarcano il sopracciglio.
Naturalmente i neri se ne fottono, e si sfottono allegramente fra loro a colpi di «nigger». Ma questo capita ovunque: da noi gli unici con licenza di «terrone» sono da sempre i meridionali. Il problema è che alcuni italiani oggi stanno diventando la caricatura degli americani. Così, invece del dignitoso «disabile» e del complicato «portatore di handicap», il perfetto pc ex pci dirà «diversamente abile».
Adesso la sinistra diversamente intelligente attacca la battuta di Berlusconi sull’abbronzatura della First lady Obama, ma non si accorge di stare copiando in peggio il pc made in Usa. Negli Stati Uniti, infatti, qualche zona franca rimane: la scorsa settimana il comico tv David Letterman, davanti a milioni di telespettatori, ha chiesto a Obama: «Scusi, lei da quanto è che è nero?» Il presidente, ridendo per scacciare le accuse di razzismo, aveva scherzato: «Ero già nero da prima delle elezioni”. Impensabile in Italia, perlomeno dalle parti della gauche-caviar pariolina.
Siccome la stupidità è contagiosa, le frontiere del pc si allargano inesorabilmente. Quando ho osato additare una signora grassa alla mia fidanzata americana sulla spiaggia, dicendole: «Guarda quant’è cicciona», lei si è subito irrigidita: «Mauro, “fat” non si dice».
«Ma lei non ci ha sentito», ho risposto.
«Fa lo stesso. Dà fastidio a me».
«E come devo dire, allora?»
«Mah… Oversize (taglia superiore), oppure chubby (paffuta)».
Infatti adesso anche in Italia svolazziamo in un turbinio di «taglie forti, larghe, morbide», mentre gli anziani si trasformano in «maturi». Come siamo educati, signora mia. I ritardati sono diventati «mentally challenged», sfidati mentalmente. Impotenti e frigide? «Sexually challenged». E non parliamo degli omosessuali (pardon, gay), che per mio nonno erano tragicamente «pederasti, invertiti, degenerati». Chi osa pronunciare una parola un po’ forte si cautela con un gesto ridicolo, simulando contemporaneamente le virgolette con medio e indice di entrambe le mani.
L’unico su cui si può ancora liberamente scherzare è lo «psiconano di Arcore». Ma scommettiamoci: i vittoriani di sinistra prima o poi lo impediranno, e anche Berlusconi verrà tutelato con un gran bel «diversamente alto».
di Mauro Suttora
Libero, 29 settembre 2009
«A… A… Abbronzatissima!» Guai a scherzare sulla canzone di Edoardo Vianello (1963), applicandola a Michelle Obama. Silvio Berlusconi regala l’ennesima prima pagina all’Unità (ma come le riempirebbero, senza di lui?), con ovvia censura annessa: «razzismo». L’ex organo del Pci perde la «i» e resta pc: sigla internazionale per «politicamente corretto», oltre che per personal computer.
Solo che negli Stati Uniti, inventori di entrambi i pc, la correttezza politica dopo trent’anni ha stufato, e abbondano invece le barzellette (berlusconiane?) sulle capriole verbali di chi non osa offendere minoranze e presunti minorati. Aveva già scritto tutto Allan Bloom nell’87 nel libro «La chiusura della mente americana», che guarda caso è stato appena ripubblicato in Italia da Lindau dopo che da decenni l’edizione Frassinelli era esaurita (a proposito di censure).
Guai a chiamare i neri «niggers», e va bene. Poi però sono stati proibiti anche «negro» (appellativo rispettabile, sempre usato da Martin Luther King), e via via addirittura «black», l’aggettivo che ancora negli anni ’70 veniva orgogliosamente inalberato dai neri stessi: «Black power», «Black panthers». Così oggi, se non dici compitamente «african american», parola lunghissima e ridicola, gli americani perbenino inarcano il sopracciglio.
Naturalmente i neri se ne fottono, e si sfottono allegramente fra loro a colpi di «nigger». Ma questo capita ovunque: da noi gli unici con licenza di «terrone» sono da sempre i meridionali. Il problema è che alcuni italiani oggi stanno diventando la caricatura degli americani. Così, invece del dignitoso «disabile» e del complicato «portatore di handicap», il perfetto pc ex pci dirà «diversamente abile».
Adesso la sinistra diversamente intelligente attacca la battuta di Berlusconi sull’abbronzatura della First lady Obama, ma non si accorge di stare copiando in peggio il pc made in Usa. Negli Stati Uniti, infatti, qualche zona franca rimane: la scorsa settimana il comico tv David Letterman, davanti a milioni di telespettatori, ha chiesto a Obama: «Scusi, lei da quanto è che è nero?» Il presidente, ridendo per scacciare le accuse di razzismo, aveva scherzato: «Ero già nero da prima delle elezioni”. Impensabile in Italia, perlomeno dalle parti della gauche-caviar pariolina.
Siccome la stupidità è contagiosa, le frontiere del pc si allargano inesorabilmente. Quando ho osato additare una signora grassa alla mia fidanzata americana sulla spiaggia, dicendole: «Guarda quant’è cicciona», lei si è subito irrigidita: «Mauro, “fat” non si dice».
«Ma lei non ci ha sentito», ho risposto.
«Fa lo stesso. Dà fastidio a me».
«E come devo dire, allora?»
«Mah… Oversize (taglia superiore), oppure chubby (paffuta)».
Infatti adesso anche in Italia svolazziamo in un turbinio di «taglie forti, larghe, morbide», mentre gli anziani si trasformano in «maturi». Come siamo educati, signora mia. I ritardati sono diventati «mentally challenged», sfidati mentalmente. Impotenti e frigide? «Sexually challenged». E non parliamo degli omosessuali (pardon, gay), che per mio nonno erano tragicamente «pederasti, invertiti, degenerati». Chi osa pronunciare una parola un po’ forte si cautela con un gesto ridicolo, simulando contemporaneamente le virgolette con medio e indice di entrambe le mani.
L’unico su cui si può ancora liberamente scherzare è lo «psiconano di Arcore». Ma scommettiamoci: i vittoriani di sinistra prima o poi lo impediranno, e anche Berlusconi verrà tutelato con un gran bel «diversamente alto».
Wednesday, September 23, 2009
Rai contro Sky
DOPO 25 ANNI, ADDIO DUOPOLIO: LA GUERRA DELLE TRE TIVU'
Oggi, 16 settembre 2009
di Mauro Suttora
Martedì 26 maggio, settimo piano del palazzo Rai di viale Mazzini a Roma. Il presidente Sky Tom Mockridge pensa di non aver capito bene. È australiano, il suo italiano è ancora stentato. «Scusate, non ho ancora avuto tempo di leggere la vostra lettera», gli ha appena detto Mauro Masi, direttore generale Rai.
Invece è proprio così: i vertici della tv di stato non danno risposta a una lettera ricevuta più di un mese prima. Quella in cui Sky offriva 350 milioni in sette anni per continuare a trasmettere i canali Rai dal suo satellite. Oltre a una settantina di milioni per i film.
La riunione si conclude rapidamente, l’atmosfera è gelida. Ormai è la guerra. Provocata da che cosa? Da un fatto storico. Per la prima volta nel 2008 Sky ha superato il fatturato Mediaset, e insegue da vicino la Rai . Dopo mezzo secolo di monopolio Rai e un quarto di secolo di duopolio Rai/Mediaset, la tv satellitare del miliardario australiano Rupert Murdoch minaccia entrambi. I suoi cinque milioni di abbonati pagano in media 500 euro all’anno ciascuno, garantendo un’audience del 9 per cento. Un cuneo infilato fra i due giganti, e destinato ad allargarsi. La Rai infatti teme che Sky salga al 14% entro tre anni. «E ogni punto di audience in più vale trenta milioni di euro», avverte Masi.
Insomma, è iniziata una nuova era. Per questo la tv di stato ha tolto i suoi canali satellitari da Sky: dal primo agosto Raisat Extra, Premium, Cinema e Yoyo si possono vedere solo in digitale (il nuovo sistema che entro il 2012 sostituirà l’attuale, funzionante già in Sardegna e fra pochi giorni in Piemonte), o sul nuovo satellite gratuito Tivusat che Rai, Mediaset e La 7 hanno inaugurato per far concorrenza a Sky, oltre che per coprire le zone impervie non coperte dal digitale.
Il problema è che per vederli bisogna comprare altri due decoder, oltre a quello di Sky.
Ma, soprattutto, adesso la Rai cripta su Sky anche i suoi programmi più visti: partite della nazionale e Formula Uno. Il gran premio di Monza del 13 settembre si è potuto vedere su Raiuno solo via etere (o in digitale in Sardegna, o sul satellite Tivusat). «Il criptaggio è necessario per i programmi di cui non deteniamo i diritti internazionali», spiega Masi. E Sky è visibile anche all’estero.
Ma queste sono schermaglie legali. La Rai, infatti, per poter riscuotere il canone ha un contratto di «servizio pubblico» con lo stato che le impone di far vedere i propri canali su tutte le «piattaforme» (etere, digitale, satellite, telefonini, internet). Ora che ha un suo satellite, seppure in condominio con Mediaset e La 7, non è più tenuta a trasmettere su Sky, per di più gratis.
E allora perché continua a farlo? Perché i dati Auditel sugli ascolti, importantissimi perché determinano i prezzi degli spot, vengono calcolati anche sui loro canali trasmessi da Sky. Quindi, fossero anche solo pochi punti percentuali, né Rai né Mediaset vogliono rinunciarci.
Però i prossimi tre anni sono cruciali nella guerra delle tre tivù. «La transizione al digitale può rappresentare un vantaggio per Sky», teme Masi, «perché non è scontato che gli attuali telespettatori si dotino automaticamente di decoder al momento del cambio: saranno più esposti alle alternative».
Insomma, la Rai non vuole favorire Sky, che finora ha usato i suoi canali e quelli Mediaset come «traino» per i propri, posizionandoli all’inizio della numerazione del decoder. Per continuare a fornire Raisat a Sky avrebbe voluto che quest’ultima pagasse non 50 milioni all’anno (per sette anni), ma duecento, includendo nel prezzo anche Raiuno, Raidue e Raitre.
«Sarebbe l’unica tv pubblica europea a non fornire gratis i propri canali al satellite», rispondono a Sky, «e quando lo fece la Itv inglese perse il 40 per cento degli ascolti. L’utente Sky non disdice l’abbonamento se non vede i canali Rai, perché paga l’abbonamento per vedere i canali a pagamento, non quelli gratuiti». Aggiunge il professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e commentatore tv del Sole: «Se la Rai fosse una società privata, gli azionisti inseguirebbero sotto i ponti degli amministratori che rinunciassero a Sky: oltre alle centinaia di milioni perse per Raisat, c’è stato un calo consistente di ascolti per i gran premi criptati. Andar via da Sky è autolesionismo».
«Ma i cinquanta milioni annui offerti da Sky per i nostri canali si riducono a venti come margine di utile netto», risponde Masi, «e li recupereremo entro due anni grazie alla pubblicità su Raisat trasmessa in chiaro».
L’unica cosa certa, in questa complicato conflitto, è che finora Mediaset sta a guardare: si è limitata a far concorrenza a Sky nella pay-tv con i canali Premium sul digitale terrestre. Il governo Berlusconi ha colpito Sky un anno fa raddoppiando l’Iva. La società Medusa (di Berlusconi) potrebbe negare i suoi film a Sky. Ma Paolo Gentiloni del Pd accusa: «La Rai sta combattendo per conto di Berlusconi una guerra non sua, fra le due tv commerciali Sky e Mediaset».
Mauro Suttora
Oggi, 16 settembre 2009
di Mauro Suttora
Martedì 26 maggio, settimo piano del palazzo Rai di viale Mazzini a Roma. Il presidente Sky Tom Mockridge pensa di non aver capito bene. È australiano, il suo italiano è ancora stentato. «Scusate, non ho ancora avuto tempo di leggere la vostra lettera», gli ha appena detto Mauro Masi, direttore generale Rai.
Invece è proprio così: i vertici della tv di stato non danno risposta a una lettera ricevuta più di un mese prima. Quella in cui Sky offriva 350 milioni in sette anni per continuare a trasmettere i canali Rai dal suo satellite. Oltre a una settantina di milioni per i film.
La riunione si conclude rapidamente, l’atmosfera è gelida. Ormai è la guerra. Provocata da che cosa? Da un fatto storico. Per la prima volta nel 2008 Sky ha superato il fatturato Mediaset, e insegue da vicino la Rai . Dopo mezzo secolo di monopolio Rai e un quarto di secolo di duopolio Rai/Mediaset, la tv satellitare del miliardario australiano Rupert Murdoch minaccia entrambi. I suoi cinque milioni di abbonati pagano in media 500 euro all’anno ciascuno, garantendo un’audience del 9 per cento. Un cuneo infilato fra i due giganti, e destinato ad allargarsi. La Rai infatti teme che Sky salga al 14% entro tre anni. «E ogni punto di audience in più vale trenta milioni di euro», avverte Masi.
Insomma, è iniziata una nuova era. Per questo la tv di stato ha tolto i suoi canali satellitari da Sky: dal primo agosto Raisat Extra, Premium, Cinema e Yoyo si possono vedere solo in digitale (il nuovo sistema che entro il 2012 sostituirà l’attuale, funzionante già in Sardegna e fra pochi giorni in Piemonte), o sul nuovo satellite gratuito Tivusat che Rai, Mediaset e La 7 hanno inaugurato per far concorrenza a Sky, oltre che per coprire le zone impervie non coperte dal digitale.
Il problema è che per vederli bisogna comprare altri due decoder, oltre a quello di Sky.
Ma, soprattutto, adesso la Rai cripta su Sky anche i suoi programmi più visti: partite della nazionale e Formula Uno. Il gran premio di Monza del 13 settembre si è potuto vedere su Raiuno solo via etere (o in digitale in Sardegna, o sul satellite Tivusat). «Il criptaggio è necessario per i programmi di cui non deteniamo i diritti internazionali», spiega Masi. E Sky è visibile anche all’estero.
Ma queste sono schermaglie legali. La Rai, infatti, per poter riscuotere il canone ha un contratto di «servizio pubblico» con lo stato che le impone di far vedere i propri canali su tutte le «piattaforme» (etere, digitale, satellite, telefonini, internet). Ora che ha un suo satellite, seppure in condominio con Mediaset e La 7, non è più tenuta a trasmettere su Sky, per di più gratis.
E allora perché continua a farlo? Perché i dati Auditel sugli ascolti, importantissimi perché determinano i prezzi degli spot, vengono calcolati anche sui loro canali trasmessi da Sky. Quindi, fossero anche solo pochi punti percentuali, né Rai né Mediaset vogliono rinunciarci.
Però i prossimi tre anni sono cruciali nella guerra delle tre tivù. «La transizione al digitale può rappresentare un vantaggio per Sky», teme Masi, «perché non è scontato che gli attuali telespettatori si dotino automaticamente di decoder al momento del cambio: saranno più esposti alle alternative».
Insomma, la Rai non vuole favorire Sky, che finora ha usato i suoi canali e quelli Mediaset come «traino» per i propri, posizionandoli all’inizio della numerazione del decoder. Per continuare a fornire Raisat a Sky avrebbe voluto che quest’ultima pagasse non 50 milioni all’anno (per sette anni), ma duecento, includendo nel prezzo anche Raiuno, Raidue e Raitre.
«Sarebbe l’unica tv pubblica europea a non fornire gratis i propri canali al satellite», rispondono a Sky, «e quando lo fece la Itv inglese perse il 40 per cento degli ascolti. L’utente Sky non disdice l’abbonamento se non vede i canali Rai, perché paga l’abbonamento per vedere i canali a pagamento, non quelli gratuiti». Aggiunge il professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e commentatore tv del Sole: «Se la Rai fosse una società privata, gli azionisti inseguirebbero sotto i ponti degli amministratori che rinunciassero a Sky: oltre alle centinaia di milioni perse per Raisat, c’è stato un calo consistente di ascolti per i gran premi criptati. Andar via da Sky è autolesionismo».
«Ma i cinquanta milioni annui offerti da Sky per i nostri canali si riducono a venti come margine di utile netto», risponde Masi, «e li recupereremo entro due anni grazie alla pubblicità su Raisat trasmessa in chiaro».
L’unica cosa certa, in questa complicato conflitto, è che finora Mediaset sta a guardare: si è limitata a far concorrenza a Sky nella pay-tv con i canali Premium sul digitale terrestre. Il governo Berlusconi ha colpito Sky un anno fa raddoppiando l’Iva. La società Medusa (di Berlusconi) potrebbe negare i suoi film a Sky. Ma Paolo Gentiloni del Pd accusa: «La Rai sta combattendo per conto di Berlusconi una guerra non sua, fra le due tv commerciali Sky e Mediaset».
Mauro Suttora
Thursday, September 10, 2009
Italia seconda al mondo nell'export di armi
CLAMOROSO: PER LA PRIMA VOLTA SUPERIAMO RUSSIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, CINA E GERMANIA. IMBARAZZO A SINISTRA
di Mauro Suttora
Libero, 10 settembre 2009
L’Italia balza al secondo posto nella classifica mondiale delle esportazioni di armi. È questo il clamoroso dato contenuto nell’ultimo rapporto del Congresso Usa, che ogni anno calcola l’export bellico. Nel 2008 le aziende italiane (quasi tutte del gruppo pubblico Finmeccanica) hanno firmato contratti per 3,7 miliardi di dollari, più che triplicando il risultato dell’anno precedente. Siamo superati soltanto dagli Stati Uniti, che con i loro 37 miliardi controllano più dei due terzi del mercato mondiale.
Per la prima volta nella storia l’Italia supera i tradizionali Paesi esportatori: la Russia innanzitutto, che si è fermata a 3,5 miliardi rispetto agli oltre dieci del 2007. Ma anche tutti gli altri concorrenti che ci hanno sempre sopravanzato: Gran Bretagna, che nel 2007 era terza con nove miliardi, Cina (quasi quattro miliardi), Francia (1,8 miliardi) e Germania (1,5). Due anni fa l’Italia si era fermata a un miliardo, settima in classifica.
Il mercato mondiale delle armi è caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno. La firma di una singola maxicommessa per centinaia di milioni basta a ribaltare le statistiche. Ma per l’Italia l’ultimo decennio è stato in costante ascesa: dai soli 200 milioni di dollari esportati nel 2000, ai 600 del 2004, fino al miliardo e mezzo del 2005. Anche il mercato globale si è espanso: l’export bellico totale è raddoppiato dai 28 miliardi del 2003 ai 60 del 2007. Nel 2008 la recessione ha ridotto del sette per cento i fatturati, facendoli scendere a 55 miliardi. E l’Italia ha approfittato del crollo dei concorrenti per piazzarsi al secondo posto.
Nessun organo di stampa italiano ha finora dato notizia dell’exploit, riprendendo lo scoop del corrispondente militare del New York Times Thom Shanker pubblicato il 7 settembre. Eppure anche l’Herald Tribune (edizione europea del quotidiano americano) ha ripreso l’articolo tre giorni fa. L’export di armi è infatti un argomento politicamente delicato, soprattutto a sinistra. Non fa piacere agli antimilitaristi sapere che sono soprattutto aziende statali a vendere sistemi d’arma italiani nel mondo. Anche sotto il governo Prodi.
Al primo posto si piazza Agusta con nuovi contratti per oltre due miliardi di dollari (soprattutto elicotteri alla Turchia), poi Alenia con 400 milioni e Oto Melara con 260. Seguono Fincantieri (230 milioni), Simmel (220 milioni in munizioni e spolette) e Iveco (160). Poi ancora aziende Finmeccanica: Selex (140 milioni) e Galileo Avionica (60). Infine Avio, Microtecnica e Selex Communications.
Pure nel settore “armi piccole e leggere” (pistole e fucili, anche da caccia e sportivi) siamo i secondi del mondo, superati solo dagli Stati Uniti. In questo caso i dati provengono dall’Onu, e risalgono al 2006. L’Italia ha esportato per 434 milioni di dollari. I nostri principali acquirenti sono Usa e Paesi europei. Leader mondiale è la bresciana Beretta, che è anche la più antica fabbrica d’armi al mondo: 2.500 dipendenti, fatturato sui 400 milioni di euro. La sua fabbrica in Maryland (Usa) sta sfornando l’ultimo ordine di 25 mila pistole M9 per l’esercito americano.
Gli Stati Uniti rappresentano la nuova frontiera anche per Finmeccanica. Il colosso guidato da Pier Francesco Guarguaglini (60 mila dipendenti e 15 miliardi di fatturato, non solo nell’industria bellica), al terzo posto fra le aziende europee del settore difesa, lo scorso ottobre ha acquistato la Drs, società di punta del complesso militare-industriale Usa, con i suoi diecimila dipendenti e tre miliardi di fatturato. È diventata così la prima al mondo per le tecnologie con i raggi infrarossi, sempre più utilizzate sui campi di battaglia.
Insomma, nel panorama di crisi dell’industria metalmeccanica italiana (meno 30 per cento nel primo semestre 2009), le fabbriche di armi lavorano a pieno ritmo. In totale, il nostro settore bellico produce per sette miliardi e mezzo di euro annui (metà per l’estero, metà per le nostre forze armate) e dà lavoro a 50 mila persone.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, 10 settembre 2009
L’Italia balza al secondo posto nella classifica mondiale delle esportazioni di armi. È questo il clamoroso dato contenuto nell’ultimo rapporto del Congresso Usa, che ogni anno calcola l’export bellico. Nel 2008 le aziende italiane (quasi tutte del gruppo pubblico Finmeccanica) hanno firmato contratti per 3,7 miliardi di dollari, più che triplicando il risultato dell’anno precedente. Siamo superati soltanto dagli Stati Uniti, che con i loro 37 miliardi controllano più dei due terzi del mercato mondiale.
Per la prima volta nella storia l’Italia supera i tradizionali Paesi esportatori: la Russia innanzitutto, che si è fermata a 3,5 miliardi rispetto agli oltre dieci del 2007. Ma anche tutti gli altri concorrenti che ci hanno sempre sopravanzato: Gran Bretagna, che nel 2007 era terza con nove miliardi, Cina (quasi quattro miliardi), Francia (1,8 miliardi) e Germania (1,5). Due anni fa l’Italia si era fermata a un miliardo, settima in classifica.
Il mercato mondiale delle armi è caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno. La firma di una singola maxicommessa per centinaia di milioni basta a ribaltare le statistiche. Ma per l’Italia l’ultimo decennio è stato in costante ascesa: dai soli 200 milioni di dollari esportati nel 2000, ai 600 del 2004, fino al miliardo e mezzo del 2005. Anche il mercato globale si è espanso: l’export bellico totale è raddoppiato dai 28 miliardi del 2003 ai 60 del 2007. Nel 2008 la recessione ha ridotto del sette per cento i fatturati, facendoli scendere a 55 miliardi. E l’Italia ha approfittato del crollo dei concorrenti per piazzarsi al secondo posto.
Nessun organo di stampa italiano ha finora dato notizia dell’exploit, riprendendo lo scoop del corrispondente militare del New York Times Thom Shanker pubblicato il 7 settembre. Eppure anche l’Herald Tribune (edizione europea del quotidiano americano) ha ripreso l’articolo tre giorni fa. L’export di armi è infatti un argomento politicamente delicato, soprattutto a sinistra. Non fa piacere agli antimilitaristi sapere che sono soprattutto aziende statali a vendere sistemi d’arma italiani nel mondo. Anche sotto il governo Prodi.
Al primo posto si piazza Agusta con nuovi contratti per oltre due miliardi di dollari (soprattutto elicotteri alla Turchia), poi Alenia con 400 milioni e Oto Melara con 260. Seguono Fincantieri (230 milioni), Simmel (220 milioni in munizioni e spolette) e Iveco (160). Poi ancora aziende Finmeccanica: Selex (140 milioni) e Galileo Avionica (60). Infine Avio, Microtecnica e Selex Communications.
Pure nel settore “armi piccole e leggere” (pistole e fucili, anche da caccia e sportivi) siamo i secondi del mondo, superati solo dagli Stati Uniti. In questo caso i dati provengono dall’Onu, e risalgono al 2006. L’Italia ha esportato per 434 milioni di dollari. I nostri principali acquirenti sono Usa e Paesi europei. Leader mondiale è la bresciana Beretta, che è anche la più antica fabbrica d’armi al mondo: 2.500 dipendenti, fatturato sui 400 milioni di euro. La sua fabbrica in Maryland (Usa) sta sfornando l’ultimo ordine di 25 mila pistole M9 per l’esercito americano.
Gli Stati Uniti rappresentano la nuova frontiera anche per Finmeccanica. Il colosso guidato da Pier Francesco Guarguaglini (60 mila dipendenti e 15 miliardi di fatturato, non solo nell’industria bellica), al terzo posto fra le aziende europee del settore difesa, lo scorso ottobre ha acquistato la Drs, società di punta del complesso militare-industriale Usa, con i suoi diecimila dipendenti e tre miliardi di fatturato. È diventata così la prima al mondo per le tecnologie con i raggi infrarossi, sempre più utilizzate sui campi di battaglia.
Insomma, nel panorama di crisi dell’industria metalmeccanica italiana (meno 30 per cento nel primo semestre 2009), le fabbriche di armi lavorano a pieno ritmo. In totale, il nostro settore bellico produce per sette miliardi e mezzo di euro annui (metà per l’estero, metà per le nostre forze armate) e dà lavoro a 50 mila persone.
Mauro Suttora
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Wednesday, September 09, 2009
Michelle Pfeiffer in 'Chéri'
La diva in costume torna a sedurci
Nel 1989 incantò il mondo con Le relazioni pericolose (sei nomination agli Oscar). Oggi, con lo stesso regista, l’attrice 51enne fa la escort in un film tratto da un libro romantico di Colette
di Mauro Suttora
Los Angeles (Stati Uniti), 26 agosto 2009
Vent’anni sono tanti, anche per una donna bellissima. Eppure, guardate queste foto. A 51 anni, Michelle Pfeiffer appare seducente come nel 1989, quando trionfò con Le relazioni pericolose di Stephen Frears: sei nomination all’Oscar, tre statuette vinte.
Oggi il regista inglese, che tre anni fa ha di nuovo sbancato agli Oscar con The Queen (ritratto della regina Elisabetta II), rimette la diva americana in costume. Questa volta, però, invece della ingenua signora settecentesca fatta morire di crepacuore dalle perfide scommesse di John Malkovich e Glenn Close, Michelle è una prostituta di cent’anni fa.
Cortigiane potentissime
«Cortigiana, prego», precisa lei sorridendo ironica, «e nella belle époque a Parigi eravamo donne potenti, ricche, raffinate e di gran classe. Stavamo al centro della vita politica e sociale, intrattenevamo uomini di governo, artisti e perfino reali. Eravamo rinomate in tutto il mondo per la nostra avvenenza, arguzia e intelligenza vivace. In fondo siamo state le prime femministe: eravamo incredibilmente indipendenti, anche se dovevamo pagare un prezzo alto: rimanere inaccettabili nella “buona“ società».
Solo che lei, professionista dell’amore, a 50 anni si innamora sul serio, e di un ragazzo con la metà dei suoi anni: Chéry, figlio di una collega prostituta. La quale all’inizio la prega si svezzarlo, mentre poi la storia si dipana per anni.
Insomma, una «coguara», come in America chiamano le donne mature che vanno con i ragazzi. «Tutti gli altri giovani con cui ho avuto a che fare non vedono l’ora di confessarti i loro segreti più nascosti», ha rivelato Michelle a Good Morning, America, «mentre questo Chéry è solo un ragazzotto bellissimo, viziato, edonista e vuoto».
Ragazzi giocattolo
Coincidenza: il partner del prossimo film della Pfeiffer, Personal Effects, sarà proprio il più famoso «toy boy» (ragazzo giocattolo) del mondo: Ashton Kutcher, 30 anni, dal 2003 signor Demi Moore nonostante i sedici anni di differenza.
Nella realtà, Michelle è lontanissima non solo della figura della maliarda in cerca di toy boys, ma anche da qualsiasi gossip o glamour. La sua vita personale è il contrario di quella della irrequieta coetanea Sharon Stone: tranquillamente sposata con l’attore Peter Horton dall’81 all’88, e poi con il produttore tv miliardario David Kelley dal ‘93. «Mi è difficile immaginare d’innamorarmi di qualcuno che non sia mio marito, figurarsi di un quasi adolescente. Anche se, guardandomi attorno, vedo che succede», concede.
Nel ‘93 i due hanno adottato l’orfana Claudia, un anno dopo è nato John Henry. Se ne sono andati dall’inanità delle feste di Los Angeles, trasferendosi in una villa da otto milioni di dollari a sud di San Francisco, a Woodside. Oasi per celebrità che non amano la pubblicità, da Steve Jobs (Apple) a Larry Ellison (Oracle) ai cantanti Neil Young e Joan Baez, all’ex bimba 81enne Shirley Temple.
Insomma, come le ormai sessantenni Jessica Lange (fuggita in campagna col marito scrittore Sam Shepard) e Meryl Streep, la Pfeiffer non è carne da pettegolezzo: mai una paparazzata, mai un party, mai un gala a Hollywood o New York. Dopo il lavoro (quaranta film in un quarto di secolo, che hanno incassato in totale un miliardo e 300 milioni di dollari), solo mamma e casalinga felice.
Viso perfetto di donna
Qualche anno fa è stato condotto uno studio sulla perfezione del volto femminile. Gli scienziati hanno calcolato quali sono le misure e le proporzioni ideali: occhi, naso, bocca, mento. Ha vinto Michelle.
«È così bella che ci si potrebbe dimenticare di quant’è brava», ha detto George Clooney, suo coprotagonista in Un giorno per caso (‘96).
Nonostante popoli i sogni di tutti i maschi del pianeta, tuttavia, Michelle è un’attrice inibita. Perfino nella scena più bollente da lei girata, quella in cui fa l’amore con Al Pacino in Paura d’amare (1991), riesce a indossare il reggipetto. E a gridare è lui, non lei. Difficile trovare l’ombra di un suo capezzolo in qualsiasi foto o fotogramma in circolazione. E nessuna meraviglia che abbia rifiutato il copione di Basic Instinct, prima che finisse a Sharon Stone. (Pentitissima invece per i no a Thelma e Louise e soprattutto al Silenzio degli innocenti, che ha fruttato a Jodie Foster quell’Oscar da lei sfiorato tre volte ma mai afferrato).
Anche in Chéri, confessa, ha provato imbarazzo nel girare le scene di letto: «Riesco a superare il disagio solo con il senso dell’humour. Con il partner sullo schermo stringo un tacito accordo su quali parti del mio corpo voglio che lui nasconda, e viceversa: “Io copro questo, tu quello“. Comunque sono un po’ meno riservata di una volta. Peccato che lo stia diventando solo ora che le cose cominciano ad andarsene...»
Ha recitato con tutti
Scarsa audacia impensabile ai tempi di Scarface (1983), il film che la lanciò: un’orgia di droga, sangue, sesso e violenza. Da allora, la Pfeiffer ha girato con tutti i mostri sacri del cinema: Jack Nicholson (Streghe di Easwick e Wolf), Mel Gibson (Tequila Connection), Sean Connery (Casa Russia), Daniel Day-Lewis (Età dell’innocenza), Robert Redford (Qualcosa di personale), Bruce Willis (Storia di noi due), Harrison Ford (Verità nascoste), Sean Penn (Mi chiamo Sam), Robert de Niro (Stardust) e John Travolta (Hairspray).
Ma alla fine il grande pubblico (bambini e non) la ricorda soprattutto come Ladyhawke, o la Catwoman di Batman.
Mauro Suttora
Nel 1989 incantò il mondo con Le relazioni pericolose (sei nomination agli Oscar). Oggi, con lo stesso regista, l’attrice 51enne fa la escort in un film tratto da un libro romantico di Colette
di Mauro Suttora
Los Angeles (Stati Uniti), 26 agosto 2009
Vent’anni sono tanti, anche per una donna bellissima. Eppure, guardate queste foto. A 51 anni, Michelle Pfeiffer appare seducente come nel 1989, quando trionfò con Le relazioni pericolose di Stephen Frears: sei nomination all’Oscar, tre statuette vinte.
Oggi il regista inglese, che tre anni fa ha di nuovo sbancato agli Oscar con The Queen (ritratto della regina Elisabetta II), rimette la diva americana in costume. Questa volta, però, invece della ingenua signora settecentesca fatta morire di crepacuore dalle perfide scommesse di John Malkovich e Glenn Close, Michelle è una prostituta di cent’anni fa.
Cortigiane potentissime
«Cortigiana, prego», precisa lei sorridendo ironica, «e nella belle époque a Parigi eravamo donne potenti, ricche, raffinate e di gran classe. Stavamo al centro della vita politica e sociale, intrattenevamo uomini di governo, artisti e perfino reali. Eravamo rinomate in tutto il mondo per la nostra avvenenza, arguzia e intelligenza vivace. In fondo siamo state le prime femministe: eravamo incredibilmente indipendenti, anche se dovevamo pagare un prezzo alto: rimanere inaccettabili nella “buona“ società».
Solo che lei, professionista dell’amore, a 50 anni si innamora sul serio, e di un ragazzo con la metà dei suoi anni: Chéry, figlio di una collega prostituta. La quale all’inizio la prega si svezzarlo, mentre poi la storia si dipana per anni.
Insomma, una «coguara», come in America chiamano le donne mature che vanno con i ragazzi. «Tutti gli altri giovani con cui ho avuto a che fare non vedono l’ora di confessarti i loro segreti più nascosti», ha rivelato Michelle a Good Morning, America, «mentre questo Chéry è solo un ragazzotto bellissimo, viziato, edonista e vuoto».
Ragazzi giocattolo
Coincidenza: il partner del prossimo film della Pfeiffer, Personal Effects, sarà proprio il più famoso «toy boy» (ragazzo giocattolo) del mondo: Ashton Kutcher, 30 anni, dal 2003 signor Demi Moore nonostante i sedici anni di differenza.
Nella realtà, Michelle è lontanissima non solo della figura della maliarda in cerca di toy boys, ma anche da qualsiasi gossip o glamour. La sua vita personale è il contrario di quella della irrequieta coetanea Sharon Stone: tranquillamente sposata con l’attore Peter Horton dall’81 all’88, e poi con il produttore tv miliardario David Kelley dal ‘93. «Mi è difficile immaginare d’innamorarmi di qualcuno che non sia mio marito, figurarsi di un quasi adolescente. Anche se, guardandomi attorno, vedo che succede», concede.
Nel ‘93 i due hanno adottato l’orfana Claudia, un anno dopo è nato John Henry. Se ne sono andati dall’inanità delle feste di Los Angeles, trasferendosi in una villa da otto milioni di dollari a sud di San Francisco, a Woodside. Oasi per celebrità che non amano la pubblicità, da Steve Jobs (Apple) a Larry Ellison (Oracle) ai cantanti Neil Young e Joan Baez, all’ex bimba 81enne Shirley Temple.
Insomma, come le ormai sessantenni Jessica Lange (fuggita in campagna col marito scrittore Sam Shepard) e Meryl Streep, la Pfeiffer non è carne da pettegolezzo: mai una paparazzata, mai un party, mai un gala a Hollywood o New York. Dopo il lavoro (quaranta film in un quarto di secolo, che hanno incassato in totale un miliardo e 300 milioni di dollari), solo mamma e casalinga felice.
Viso perfetto di donna
Qualche anno fa è stato condotto uno studio sulla perfezione del volto femminile. Gli scienziati hanno calcolato quali sono le misure e le proporzioni ideali: occhi, naso, bocca, mento. Ha vinto Michelle.
«È così bella che ci si potrebbe dimenticare di quant’è brava», ha detto George Clooney, suo coprotagonista in Un giorno per caso (‘96).
Nonostante popoli i sogni di tutti i maschi del pianeta, tuttavia, Michelle è un’attrice inibita. Perfino nella scena più bollente da lei girata, quella in cui fa l’amore con Al Pacino in Paura d’amare (1991), riesce a indossare il reggipetto. E a gridare è lui, non lei. Difficile trovare l’ombra di un suo capezzolo in qualsiasi foto o fotogramma in circolazione. E nessuna meraviglia che abbia rifiutato il copione di Basic Instinct, prima che finisse a Sharon Stone. (Pentitissima invece per i no a Thelma e Louise e soprattutto al Silenzio degli innocenti, che ha fruttato a Jodie Foster quell’Oscar da lei sfiorato tre volte ma mai afferrato).
Anche in Chéri, confessa, ha provato imbarazzo nel girare le scene di letto: «Riesco a superare il disagio solo con il senso dell’humour. Con il partner sullo schermo stringo un tacito accordo su quali parti del mio corpo voglio che lui nasconda, e viceversa: “Io copro questo, tu quello“. Comunque sono un po’ meno riservata di una volta. Peccato che lo stia diventando solo ora che le cose cominciano ad andarsene...»
Ha recitato con tutti
Scarsa audacia impensabile ai tempi di Scarface (1983), il film che la lanciò: un’orgia di droga, sangue, sesso e violenza. Da allora, la Pfeiffer ha girato con tutti i mostri sacri del cinema: Jack Nicholson (Streghe di Easwick e Wolf), Mel Gibson (Tequila Connection), Sean Connery (Casa Russia), Daniel Day-Lewis (Età dell’innocenza), Robert Redford (Qualcosa di personale), Bruce Willis (Storia di noi due), Harrison Ford (Verità nascoste), Sean Penn (Mi chiamo Sam), Robert de Niro (Stardust) e John Travolta (Hairspray).
Ma alla fine il grande pubblico (bambini e non) la ricorda soprattutto come Ladyhawke, o la Catwoman di Batman.
Mauro Suttora
I figli di Berlusconi
Barbara, Eleonora e Luigi contro Marina e Pier Silvio: a tutti il 20% del patrimonio, o 17% per i primi e 25% per i secondi?
di Mauro Suttora
Oggi, 2 settembre 2009
Fossero soltanto i figli dell’uomo più ricco d’Italia, già farebbero notizia. Poiché papà è anche presidente del consiglio, doppia notizia. Se poi papà diventa «papi», sballottato per mesi da scandali rosa, triplo riflettore. A questo aggiungete che mamma ha chiesto rumorosamente il divorzio: tutti quindi a scrutare il minimo segnale di un loro pencolamento da una parte o dall’altra.
Ma ora i cinque figli di Silvio Berlusconi ci aggiungono del loro. Perché la primogenita ventenne di secondo letto (Barbara) insidia il primato della primogenita quarantenne di primo letto (Marina), dichiarando in pubblico il suo interesse per l’azienda di cui la sorellastra è presidente, mentre lei per ora «soltanto» consigliere d’amministrazione (immaginate il clima alla prossima riunione del cda Mondadori...). E minaccia apertamente: «Se mio padre sarà giusto ed equo nella divisione dei suoi beni, fra noi non ci saranno conflitti».
Con quel «se» si rischia di andare dritti verso uno spiacevole «clima Agnelli», con famiglia scarnificata da lotte e processi. Perché il divorzio anticipa ad adesso tutte le divisioni ereditarie. In breve: quote eguali del 20 per cento a tutti i figli, come vuole Veronica, oppure metà ai due del primo matrimonio (che quindi avrebbero ciascuno il 25%) e metà ai tre del secondo (che varrebbero solo il 17%)? Per non parlare degli eventuali fondi all’estero: dovranno «riemergere» tutti, per essere conteggiati nel patrimonio.
Insomma, estate calda quella 2009 per i berluschini. Ormai pericolosamente divisi: c’è voluta tutta l’arte magica del povero padre (come se non gli bastassero Noemi e Gheddafi, Patty e Fini...) per convincere Marina ad accettare la presenza di Barbara alla sua festa di compleanno del 10 agosto in Sardegna. E se i maggiori se ne stanno lontani e tranquilli nelle ville in Francia e Bermuda, i tre figli di Veronica impazzano con codazzo di amici nei principali locali di Costa Smeralda (Blu Beach, Sottovento e Billionaire, tutto in poche ore) e poi di Milano, al rientro (Ricci, «bar dei ricchi», e ristorante Giannino).
Cosa succede? Tutti gli anni di rigorosa educazione steineriana impartiti dalla mamma si stanno sfaldando all’impatto col glamour? Per capirne di più, consultiamo la massima berlusconologa côté Macherio: Maria Latella, che ha appena aggiornato il suo fortunato libro Tendenza Veronica del 2004. Con una velenosa ipotesi di ricovero di nonno Silvio in una clinica per maniaci sessuali...
«I tre figli di Veronica stanno studiando sodo», ci dice Latella, dissipando i sospetti su un’eventuale sindrome da figli di papà, viziati e sfaccendati: «Barbara, che all’università propendeva per economia gestionale, ha seguito il proprio istinto e ha scelto filosofia. E nonostante i due figli, in autunno si laurea con tesi su Etica aziendale. Relatore: Guido Rossi».
Ah: nemico del padre, parrocchia De Benedetti.
«È stato il suo professore di filosofia del diritto all’università San Raffaele. Eleonora invece si è laureata in Business management alla St. John University di New York, e ora farà uno stage di un anno in una tv americana. Anche Luigi, nonostante studi economia alla Bocconi, è attratto dall’estero: quest’estate e la scorsa ha lavorato a Londra nella finanza, ed è in partenza per un anno di Erasmus in Cina».
Barbara sta fissa con Giorgio Valaguzza, padre dei suoi figli, Eleonora ha fidanzato/i americano, Luigi ha avuto una storia con la nipote di Salvatore Ligresti.
«Non so molto della loro vita privata. Quel che è certo, è che Barbara ha scelto consapevolmente di avere presto i figli, per poi dedicarsi alla carriera».
Il contrario di quel che succede abitualmente.
«Ma sempre più frequente, almeno fra chi se lo può permettere».
E non si è sposata.
«In famiglia il matrimonio ritardato è una costante: è capitato anche a suo padre con Veronica, e a Marina, che ha sposato Maurizio Vanadia soltanto nove mesi fa, ben sei anni dopo la nascita del primo figlio».
Nel libro racconti che Veronica ha seguito molto da vicino l’educazione dei figli.
«Sì. Mai avuto una babysitter. Quand’erano piccoli leggeva loro un paio di articoli di giornale ogni sera a cena, e sollecitava commenti. La passione di Barbara per la carta stampata deriva da lì. Ma Veronica non è mai stata una madre soffocante o apprensiva: quando a 15 anni Luigi volle correre in go-kart glielo permise, anche se è notoriamente pericoloso: “Il rischio i giovani maschi se lo vanno comunque a cercare”, disse, “tanto vale che lo facciano per sport”. Dopo la scuola steineriana a Milano tutti e tre hanno frequentato il liceo Villoresi di Monza...»
Vicino a casa.
«Sì, in tutti loro c’è attaccamento per il territorio. Gli amici dei figli sono in gran parte ancora quelli del liceo, Barbara e Valaguzza si sono conosciuti lì. Spesso i figli dei ricchi vengono mandati in collegio in Svizzera, o in una boarding school americana. Barbara invece non ha voluto neppure prendersi una casa a Milano: vive col suo Giorgio e i figli in una dépendance della villa di Macherio. E Pier Silvio abita ad Arcore con la sua Silvia Toffanin».
Anche papà Silvio sta allestendo un nuovo villone con megaparco a Gerno di Lesmo (Monza), a metà strada fra Arcore e Macherio. Gira e rigira, Bermuda o Portofino, sempre in Brianza si torna. A proposito, lui condivide le scelte dei tre figli minori?
«Penso di sì. L’unico dispiacere di Berlusconi, forse, è che Eleonora, arpista dalla voce bellissima, non canti mai in pubblico. Barbara suona il piano. E Luigi ha fatto teatro con corsi al Piccolo teatro. Quand’era piccolo se ne uscì con questa frase: “Ma come faccio a fare l’attore se non sono gay?”»
Comè che Barbara se n’è uscita con quelle imbarazzanti allusioni sulla Mondadori e la divisione dei beni? Non ha un ufficio stampa che controlla le sue interviste?
«No. Niente addetti stampa. Tutto da soli».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 2 settembre 2009
Fossero soltanto i figli dell’uomo più ricco d’Italia, già farebbero notizia. Poiché papà è anche presidente del consiglio, doppia notizia. Se poi papà diventa «papi», sballottato per mesi da scandali rosa, triplo riflettore. A questo aggiungete che mamma ha chiesto rumorosamente il divorzio: tutti quindi a scrutare il minimo segnale di un loro pencolamento da una parte o dall’altra.
Ma ora i cinque figli di Silvio Berlusconi ci aggiungono del loro. Perché la primogenita ventenne di secondo letto (Barbara) insidia il primato della primogenita quarantenne di primo letto (Marina), dichiarando in pubblico il suo interesse per l’azienda di cui la sorellastra è presidente, mentre lei per ora «soltanto» consigliere d’amministrazione (immaginate il clima alla prossima riunione del cda Mondadori...). E minaccia apertamente: «Se mio padre sarà giusto ed equo nella divisione dei suoi beni, fra noi non ci saranno conflitti».
Con quel «se» si rischia di andare dritti verso uno spiacevole «clima Agnelli», con famiglia scarnificata da lotte e processi. Perché il divorzio anticipa ad adesso tutte le divisioni ereditarie. In breve: quote eguali del 20 per cento a tutti i figli, come vuole Veronica, oppure metà ai due del primo matrimonio (che quindi avrebbero ciascuno il 25%) e metà ai tre del secondo (che varrebbero solo il 17%)? Per non parlare degli eventuali fondi all’estero: dovranno «riemergere» tutti, per essere conteggiati nel patrimonio.
Insomma, estate calda quella 2009 per i berluschini. Ormai pericolosamente divisi: c’è voluta tutta l’arte magica del povero padre (come se non gli bastassero Noemi e Gheddafi, Patty e Fini...) per convincere Marina ad accettare la presenza di Barbara alla sua festa di compleanno del 10 agosto in Sardegna. E se i maggiori se ne stanno lontani e tranquilli nelle ville in Francia e Bermuda, i tre figli di Veronica impazzano con codazzo di amici nei principali locali di Costa Smeralda (Blu Beach, Sottovento e Billionaire, tutto in poche ore) e poi di Milano, al rientro (Ricci, «bar dei ricchi», e ristorante Giannino).
Cosa succede? Tutti gli anni di rigorosa educazione steineriana impartiti dalla mamma si stanno sfaldando all’impatto col glamour? Per capirne di più, consultiamo la massima berlusconologa côté Macherio: Maria Latella, che ha appena aggiornato il suo fortunato libro Tendenza Veronica del 2004. Con una velenosa ipotesi di ricovero di nonno Silvio in una clinica per maniaci sessuali...
«I tre figli di Veronica stanno studiando sodo», ci dice Latella, dissipando i sospetti su un’eventuale sindrome da figli di papà, viziati e sfaccendati: «Barbara, che all’università propendeva per economia gestionale, ha seguito il proprio istinto e ha scelto filosofia. E nonostante i due figli, in autunno si laurea con tesi su Etica aziendale. Relatore: Guido Rossi».
Ah: nemico del padre, parrocchia De Benedetti.
«È stato il suo professore di filosofia del diritto all’università San Raffaele. Eleonora invece si è laureata in Business management alla St. John University di New York, e ora farà uno stage di un anno in una tv americana. Anche Luigi, nonostante studi economia alla Bocconi, è attratto dall’estero: quest’estate e la scorsa ha lavorato a Londra nella finanza, ed è in partenza per un anno di Erasmus in Cina».
Barbara sta fissa con Giorgio Valaguzza, padre dei suoi figli, Eleonora ha fidanzato/i americano, Luigi ha avuto una storia con la nipote di Salvatore Ligresti.
«Non so molto della loro vita privata. Quel che è certo, è che Barbara ha scelto consapevolmente di avere presto i figli, per poi dedicarsi alla carriera».
Il contrario di quel che succede abitualmente.
«Ma sempre più frequente, almeno fra chi se lo può permettere».
E non si è sposata.
«In famiglia il matrimonio ritardato è una costante: è capitato anche a suo padre con Veronica, e a Marina, che ha sposato Maurizio Vanadia soltanto nove mesi fa, ben sei anni dopo la nascita del primo figlio».
Nel libro racconti che Veronica ha seguito molto da vicino l’educazione dei figli.
«Sì. Mai avuto una babysitter. Quand’erano piccoli leggeva loro un paio di articoli di giornale ogni sera a cena, e sollecitava commenti. La passione di Barbara per la carta stampata deriva da lì. Ma Veronica non è mai stata una madre soffocante o apprensiva: quando a 15 anni Luigi volle correre in go-kart glielo permise, anche se è notoriamente pericoloso: “Il rischio i giovani maschi se lo vanno comunque a cercare”, disse, “tanto vale che lo facciano per sport”. Dopo la scuola steineriana a Milano tutti e tre hanno frequentato il liceo Villoresi di Monza...»
Vicino a casa.
«Sì, in tutti loro c’è attaccamento per il territorio. Gli amici dei figli sono in gran parte ancora quelli del liceo, Barbara e Valaguzza si sono conosciuti lì. Spesso i figli dei ricchi vengono mandati in collegio in Svizzera, o in una boarding school americana. Barbara invece non ha voluto neppure prendersi una casa a Milano: vive col suo Giorgio e i figli in una dépendance della villa di Macherio. E Pier Silvio abita ad Arcore con la sua Silvia Toffanin».
Anche papà Silvio sta allestendo un nuovo villone con megaparco a Gerno di Lesmo (Monza), a metà strada fra Arcore e Macherio. Gira e rigira, Bermuda o Portofino, sempre in Brianza si torna. A proposito, lui condivide le scelte dei tre figli minori?
«Penso di sì. L’unico dispiacere di Berlusconi, forse, è che Eleonora, arpista dalla voce bellissima, non canti mai in pubblico. Barbara suona il piano. E Luigi ha fatto teatro con corsi al Piccolo teatro. Quand’era piccolo se ne uscì con questa frase: “Ma come faccio a fare l’attore se non sono gay?”»
Comè che Barbara se n’è uscita con quelle imbarazzanti allusioni sulla Mondadori e la divisione dei beni? Non ha un ufficio stampa che controlla le sue interviste?
«No. Niente addetti stampa. Tutto da soli».
Mauro Suttora
Friday, September 04, 2009
Banche svizzere e scudo fiscale
Secondo il nostro governo, gli italiani hanno 300 miliardi di depositi in Svizzera. Che, dopo la caduta del segreto bancario verso gli Usa, tremano
dall'inviato Mauro Suttora
Chiasso, 2 settembre 2009
"Non ci faccia chiamare la polizia".
Nervi tesi a Chiasso. Siamo nella sede dell'Ubs (Unione banche svizzere) più vicina all'Italia: trecento metri dopo il valico di frontiera per Como, cento dalla stazione dove si fermano tutti i treni da Milano per Svizzera e Germania.
Al piano terra di un palazzone moderno occupato quasi per intero dagli uffici della più grande banca svizzera, in piazza Bernasconi, ci sono gli sportelli. Chiediamo dove possiamo avere informazioni per il deposito di una somma piuttosto alta.
«Per investimento?», chiede l'impiegato.
«Certo».
«Allora deve andare sopra, all'ufficio apposito».
«Ma io ho i contanti qui nella borsa».
Mi guarda male. Sospetta uno scherzo. In quel momento un vigilante nota il nostro fotografo che estrae la macchina fuori dalla vetrina, per immortalare la scena. Capiscono in un attimo.
«Guardi, prenda un appuntamento telefonico. Non possiamo riceverla così».
«Ma io ho una certa fretta».
«Quel signore è con lei?»
Scoperti. Spiego che siamo giornalisti e vorremmo spiegare come si fa a «portare i soldi in Svizzera». Mi invitano gentilmente ad andarmene. Chiedo di parlare con qualcuno, il direttore della filiale, l'addetto alle relazioni esterne.
«Non abbiamo "relazioni esterne". E ci spiace, ma il direttore è al momento occupato. Telefoni per un appuntamento».
Insisto. Fino a quando il vigilante minaccia l'intervento delle forze dell'ordine.
NIENTE SEGRETI PER GLI USA
Il parcheggio riservato ai clienti Ubs è pieno. Molte targhe italiane. Stessa scena al Crédit suisse, l'altro gigante della finanza elvetica. È il giorno dopo l'annuncio che la banca fornirà agli Stati Uniti una lista di 4.450 suoi clienti americani, sospetti di evasione fiscale (sui 50 mila richiesti da Washington). Un avvenimento storico. Mai dal 1934, quando il segreto bancario divenne legge in Svizzera, un governo straniero ha ottenuto tanto.
È l'inizio di una nuova era? La fine dell'omertà che protegge mafiosi e dittatori di tutto il mondo, felici di nascondere e riciclare i propri soldi nei forzieri elvetici? A Chiasso ormai si parla russo, tanti sono i nuovi (dubbiosi) ricchi provenienti da Mosca in cerca di protezione. L'Ocse stima che un terzo di tutti i capitali «offshore» (depositati all'estero) del pianeta stiano in Svizzera.
«Piano con gli entusiasmi», avverte il finanziere Saverio Scelzo, presidente di Copernicosim: «Stiamo parlando di una banca, l'Ubs, che vent'anni fa si faceva pubblicità con l'immagine di una grossa lavatrice. E di un Paese, la Svizzera, che solo da poco, e con difficoltà, ha restituito i soldi sottratti agli ebrei sterminati dai nazisti. In realtà, la vera svolta è avvenuta un anno fa, quando i servizi segreti tedeschi sono riusciti a farsi dare una lista di clienti esteri da un bancario del Liechtenstein. Se quel funzionario "spia" fosse stato svizzero, probabilmente sarebbe stato trovato in fondo a un lago dopo qualche giorno. Ma il clima è cambiato per due motivi: primo, i terroristi islamici; secondo, la crisi e i salvataggi delle banche con soldi pubblici, che costringono i governi a essere più severi nei loro confronti».
«Guarda caso, però, gli Stati Uniti hanno colpito una banca svizzera e non americana», dice Lorenzo Marconi, autore con Marco Fratini dei libri Vaffanbanka! (Rizzoli) e Vaffancrisi (quest'ultimo in libreria dal 2 settembre). «A Chiasso portano i soldi i brianzoli che non vogliono fare tanta strada. A Lugano gli altri italiani, a Zurigo i tedeschi. Ma i soldi veri, i miliardi di dollari ed euro, si nascondono a Ginevra, portati dagli sceicchi arabi».
La stretta del presidente Usa Barack Obama cade a fagiolo per il governo italiano. Dal 15 settembre, infatti, chi ha portato soldi all'estero può usufruire dello «scudo fiscale»: farli rientrare in Italia pagando il 5 per cento di multa.
«Attenti, non è illecito detenere attività all'estero», spiega il commercialista milanese Riccardo Zingales: «Non siamo più negli anni '70, quando si poteva espatriare con 500 mila lire al massimo. Però bisogna segnalare i soldi detenuti all'estero nella dichiarazione dei redditi. A parte i malavitosi e i grandi evasori, che dell'accumulo nascosto hanno fatto il loro cavallo di battaglia, ai comuni cittadini conviene riportare i soldi pagando un modico cinque per cento, perché le nuove sanzioni per chi non aderisce sono state elevate a livelli insopportabili. Insomma, chi tiene i risparmi all'estero ora rischia grosso».
L'INCUBO DELLE EX MOGLI
Gli Stati Uniti hanno dimostrato che il segreto elvetico è perforabile. Quindi la paura spingerà parecchi connazionali verso lo «scudo». Che però è il terzo della serie, dopo quelli nel 2001 e 2003 con multa del 2,5%, che fruttarono al fisco due miliardi. «Non penso che ci siano più tanti soldi da riportare indietro», prevede Scelzo. Invece il governo stima che i soldi italiani all'estero ammontino ancora a ben 500 miliardi, di cui 300 in Svizzera. Soltanto da gennaio a luglio 2009 la Guardia di finanza ha trovato tre miliardi di redditi evasi, un terzo dei quali con operazioni finanziarie verso paradisi fiscali.
Insomma, quanto incasserà questa volta l'erario, con la multa raddoppiata? Il governo stima un minimo di due miliardi. Che però, a pensarci bene, è soltanto il doppio dell'introito in tasse sull'ultimo Superenalotto.
«Certo è che chi all'estero paga ritenute minime sui guadagni dei propri fondi non trova attraente l'aliquota marginale italiana del 40 per cento. Ma forse la spinta più grossa a nascondere i soldi deriva dalle ex mogli e dai creditori: in caso di divorzio o fallimento conviene risultare nullatenenti in Italia...», sorride Marconi.
Mauro Suttora
dall'inviato Mauro Suttora
Chiasso, 2 settembre 2009
"Non ci faccia chiamare la polizia".
Nervi tesi a Chiasso. Siamo nella sede dell'Ubs (Unione banche svizzere) più vicina all'Italia: trecento metri dopo il valico di frontiera per Como, cento dalla stazione dove si fermano tutti i treni da Milano per Svizzera e Germania.
Al piano terra di un palazzone moderno occupato quasi per intero dagli uffici della più grande banca svizzera, in piazza Bernasconi, ci sono gli sportelli. Chiediamo dove possiamo avere informazioni per il deposito di una somma piuttosto alta.
«Per investimento?», chiede l'impiegato.
«Certo».
«Allora deve andare sopra, all'ufficio apposito».
«Ma io ho i contanti qui nella borsa».
Mi guarda male. Sospetta uno scherzo. In quel momento un vigilante nota il nostro fotografo che estrae la macchina fuori dalla vetrina, per immortalare la scena. Capiscono in un attimo.
«Guardi, prenda un appuntamento telefonico. Non possiamo riceverla così».
«Ma io ho una certa fretta».
«Quel signore è con lei?»
Scoperti. Spiego che siamo giornalisti e vorremmo spiegare come si fa a «portare i soldi in Svizzera». Mi invitano gentilmente ad andarmene. Chiedo di parlare con qualcuno, il direttore della filiale, l'addetto alle relazioni esterne.
«Non abbiamo "relazioni esterne". E ci spiace, ma il direttore è al momento occupato. Telefoni per un appuntamento».
Insisto. Fino a quando il vigilante minaccia l'intervento delle forze dell'ordine.
NIENTE SEGRETI PER GLI USA
Il parcheggio riservato ai clienti Ubs è pieno. Molte targhe italiane. Stessa scena al Crédit suisse, l'altro gigante della finanza elvetica. È il giorno dopo l'annuncio che la banca fornirà agli Stati Uniti una lista di 4.450 suoi clienti americani, sospetti di evasione fiscale (sui 50 mila richiesti da Washington). Un avvenimento storico. Mai dal 1934, quando il segreto bancario divenne legge in Svizzera, un governo straniero ha ottenuto tanto.
È l'inizio di una nuova era? La fine dell'omertà che protegge mafiosi e dittatori di tutto il mondo, felici di nascondere e riciclare i propri soldi nei forzieri elvetici? A Chiasso ormai si parla russo, tanti sono i nuovi (dubbiosi) ricchi provenienti da Mosca in cerca di protezione. L'Ocse stima che un terzo di tutti i capitali «offshore» (depositati all'estero) del pianeta stiano in Svizzera.
«Piano con gli entusiasmi», avverte il finanziere Saverio Scelzo, presidente di Copernicosim: «Stiamo parlando di una banca, l'Ubs, che vent'anni fa si faceva pubblicità con l'immagine di una grossa lavatrice. E di un Paese, la Svizzera, che solo da poco, e con difficoltà, ha restituito i soldi sottratti agli ebrei sterminati dai nazisti. In realtà, la vera svolta è avvenuta un anno fa, quando i servizi segreti tedeschi sono riusciti a farsi dare una lista di clienti esteri da un bancario del Liechtenstein. Se quel funzionario "spia" fosse stato svizzero, probabilmente sarebbe stato trovato in fondo a un lago dopo qualche giorno. Ma il clima è cambiato per due motivi: primo, i terroristi islamici; secondo, la crisi e i salvataggi delle banche con soldi pubblici, che costringono i governi a essere più severi nei loro confronti».
«Guarda caso, però, gli Stati Uniti hanno colpito una banca svizzera e non americana», dice Lorenzo Marconi, autore con Marco Fratini dei libri Vaffanbanka! (Rizzoli) e Vaffancrisi (quest'ultimo in libreria dal 2 settembre). «A Chiasso portano i soldi i brianzoli che non vogliono fare tanta strada. A Lugano gli altri italiani, a Zurigo i tedeschi. Ma i soldi veri, i miliardi di dollari ed euro, si nascondono a Ginevra, portati dagli sceicchi arabi».
La stretta del presidente Usa Barack Obama cade a fagiolo per il governo italiano. Dal 15 settembre, infatti, chi ha portato soldi all'estero può usufruire dello «scudo fiscale»: farli rientrare in Italia pagando il 5 per cento di multa.
«Attenti, non è illecito detenere attività all'estero», spiega il commercialista milanese Riccardo Zingales: «Non siamo più negli anni '70, quando si poteva espatriare con 500 mila lire al massimo. Però bisogna segnalare i soldi detenuti all'estero nella dichiarazione dei redditi. A parte i malavitosi e i grandi evasori, che dell'accumulo nascosto hanno fatto il loro cavallo di battaglia, ai comuni cittadini conviene riportare i soldi pagando un modico cinque per cento, perché le nuove sanzioni per chi non aderisce sono state elevate a livelli insopportabili. Insomma, chi tiene i risparmi all'estero ora rischia grosso».
L'INCUBO DELLE EX MOGLI
Gli Stati Uniti hanno dimostrato che il segreto elvetico è perforabile. Quindi la paura spingerà parecchi connazionali verso lo «scudo». Che però è il terzo della serie, dopo quelli nel 2001 e 2003 con multa del 2,5%, che fruttarono al fisco due miliardi. «Non penso che ci siano più tanti soldi da riportare indietro», prevede Scelzo. Invece il governo stima che i soldi italiani all'estero ammontino ancora a ben 500 miliardi, di cui 300 in Svizzera. Soltanto da gennaio a luglio 2009 la Guardia di finanza ha trovato tre miliardi di redditi evasi, un terzo dei quali con operazioni finanziarie verso paradisi fiscali.
Insomma, quanto incasserà questa volta l'erario, con la multa raddoppiata? Il governo stima un minimo di due miliardi. Che però, a pensarci bene, è soltanto il doppio dell'introito in tasse sull'ultimo Superenalotto.
«Certo è che chi all'estero paga ritenute minime sui guadagni dei propri fondi non trova attraente l'aliquota marginale italiana del 40 per cento. Ma forse la spinta più grossa a nascondere i soldi deriva dalle ex mogli e dai creditori: in caso di divorzio o fallimento conviene risultare nullatenenti in Italia...», sorride Marconi.
Mauro Suttora
Wednesday, August 26, 2009
Mariella Venditti, bestia rossa di Berlusconi
«Berlusconi non tollera i giornalisti che gli fanno domande scomode. Ma con me fa il simpatico». Confessioni di una reporter aggressiva. «Per obbligo professionale»
di Mauro Suttora
Roma, 19 agosto 2009
Pronto, Telefono Azzurro? Come i bimbi rom e i testimoni di Geova, anche Mariella Venditti a sei anni veniva spedita di casa in casa a chieder soldi.
«Ogni domenica tutti noi, buoni comunisti, vendevamo porta a porta L’Unità, il quotidiano del partito», ricorda la giornalista di punta del Tg3. Suo padre Renato (che ha appena scritto il libro La cricca sulla sua famiglia antifascista) all’Unità ci lavorava da giornalista. Anche la mamma era impegnata a tempo pieno nel Pci.
Quindi, oggi che Silvio Berlusconi attacca la Rai perché critica il (suo) governo nonostante sia servizio pubblico, nessuno più di lei, rossa perfino di capelli e con casa nel quartiere popolare di Trastevere, è il simbolo di ciò che il premier aborre.
Dieci anni di convivenza
«È da dieci anni che seguo Berlusconi in tutte le sue conferenze stampa in Italia e nel mondo. Quando alzo la mano per fare una domanda lui ormai avverte il suo vicino, quasi a scusarsi in anticipo. Con Tony Blair disse “C’è Venditti, siamo fritti“, mentre a Chirac spiegò che sono una “birichina“».
Eppure, come a volte accade (e spesso con il seduttore Berlusconi, se il sedotto acconsente), il confine fra odio e amore è sottile.
«Ormai i nostri sono siparietti: lui sa che le mie domande sono sempre scomode, quindi sospira e cerca di liquidarmi con una delle sue battute».
Non sempre ci riesce: «A volte perde le staffe, come quando arrivò a piazza del Popolo per un comizio e io gli chiesi a bruciapelo della candidatura di Ciarrapico, fascista orgoglioso. Anche in questi ultimi mesi lo vedo nervoso, a causa delle questioni di minorenni e prostitute che lo tormentano...»
Per dieci giorni al mese la Venditti (nessuna parentela con il cantante Antonello) conduce il Tg3 delle 14 e 20. Gli altri venti giorni fa la «berlusconologa», seguendo il premier nei suoi spostamenti. La consuetudine quotidiana ha creato amicizie fra Berlusconi e i giornalisti a lui addetti: uno di loro, Augusto Minzolini della Stampa, è stato appena nominato direttore del Tg1: «È un rischio che corrono tutti tranne me», scherza la Venditti.
La quale condivide con il presidente del Consiglio la simpatia del carattere. Nella vita privata si definisce «ex convivente impegnata». Figurarsi se a sinistra poteva mancare l’«impegno».
Dovere di essere scomodi
In politica, dopo la prima tessera da «pioniera Pci» a dodici anni, oggi si dichiara «di sinistra ma senza partito». Alle accuse di Berlusconi al Tg3 risponde: «I giornalisti hanno il dovere di fare domande sgradite, la nostra lingua deve battere dove il dente duole».
Anche i giornalisti di sinistra con i politici di sinistra?
«Certo. Prodi una volta mi mandò a quel paese con un gesto, senza neppure rispondermi. E Rutelli mi disse: “Questa domanda non me la puoi fare“. Ma scherziamo! Perciò preferisco occuparmi dei politici della parrocchia opposta: almeno non si aspettano acquiescenza».
Durante un viaggio in Slovenia Berlusconi criticò semiserio il vestito della Venditti: «Signora del soviet, almeno all’estero si vesta meglio».
«Avevo un colbacco e un cappotto di caprone, in effetti», ammette lei. «Ma ormai gli leggo nel pensiero. Quando con Rasmussen cominciò a dire ch’era un bell’uomo, pensai: “Vedi un po' che ora tira fuori le accuse di tradimento a sua moglie Veronica con Cacciari. E infatti fu così».
Ma in privato la «bestia rossa» di Berlusconi è una romanticona: «Mi piacciono solo i film a lieto fine». Scommettiamo che prima o poi, pure con Silvio?...
di Mauro Suttora
Roma, 19 agosto 2009
Pronto, Telefono Azzurro? Come i bimbi rom e i testimoni di Geova, anche Mariella Venditti a sei anni veniva spedita di casa in casa a chieder soldi.
«Ogni domenica tutti noi, buoni comunisti, vendevamo porta a porta L’Unità, il quotidiano del partito», ricorda la giornalista di punta del Tg3. Suo padre Renato (che ha appena scritto il libro La cricca sulla sua famiglia antifascista) all’Unità ci lavorava da giornalista. Anche la mamma era impegnata a tempo pieno nel Pci.
Quindi, oggi che Silvio Berlusconi attacca la Rai perché critica il (suo) governo nonostante sia servizio pubblico, nessuno più di lei, rossa perfino di capelli e con casa nel quartiere popolare di Trastevere, è il simbolo di ciò che il premier aborre.
Dieci anni di convivenza
«È da dieci anni che seguo Berlusconi in tutte le sue conferenze stampa in Italia e nel mondo. Quando alzo la mano per fare una domanda lui ormai avverte il suo vicino, quasi a scusarsi in anticipo. Con Tony Blair disse “C’è Venditti, siamo fritti“, mentre a Chirac spiegò che sono una “birichina“».
Eppure, come a volte accade (e spesso con il seduttore Berlusconi, se il sedotto acconsente), il confine fra odio e amore è sottile.
«Ormai i nostri sono siparietti: lui sa che le mie domande sono sempre scomode, quindi sospira e cerca di liquidarmi con una delle sue battute».
Non sempre ci riesce: «A volte perde le staffe, come quando arrivò a piazza del Popolo per un comizio e io gli chiesi a bruciapelo della candidatura di Ciarrapico, fascista orgoglioso. Anche in questi ultimi mesi lo vedo nervoso, a causa delle questioni di minorenni e prostitute che lo tormentano...»
Per dieci giorni al mese la Venditti (nessuna parentela con il cantante Antonello) conduce il Tg3 delle 14 e 20. Gli altri venti giorni fa la «berlusconologa», seguendo il premier nei suoi spostamenti. La consuetudine quotidiana ha creato amicizie fra Berlusconi e i giornalisti a lui addetti: uno di loro, Augusto Minzolini della Stampa, è stato appena nominato direttore del Tg1: «È un rischio che corrono tutti tranne me», scherza la Venditti.
La quale condivide con il presidente del Consiglio la simpatia del carattere. Nella vita privata si definisce «ex convivente impegnata». Figurarsi se a sinistra poteva mancare l’«impegno».
Dovere di essere scomodi
In politica, dopo la prima tessera da «pioniera Pci» a dodici anni, oggi si dichiara «di sinistra ma senza partito». Alle accuse di Berlusconi al Tg3 risponde: «I giornalisti hanno il dovere di fare domande sgradite, la nostra lingua deve battere dove il dente duole».
Anche i giornalisti di sinistra con i politici di sinistra?
«Certo. Prodi una volta mi mandò a quel paese con un gesto, senza neppure rispondermi. E Rutelli mi disse: “Questa domanda non me la puoi fare“. Ma scherziamo! Perciò preferisco occuparmi dei politici della parrocchia opposta: almeno non si aspettano acquiescenza».
Durante un viaggio in Slovenia Berlusconi criticò semiserio il vestito della Venditti: «Signora del soviet, almeno all’estero si vesta meglio».
«Avevo un colbacco e un cappotto di caprone, in effetti», ammette lei. «Ma ormai gli leggo nel pensiero. Quando con Rasmussen cominciò a dire ch’era un bell’uomo, pensai: “Vedi un po' che ora tira fuori le accuse di tradimento a sua moglie Veronica con Cacciari. E infatti fu così».
Ma in privato la «bestia rossa» di Berlusconi è una romanticona: «Mi piacciono solo i film a lieto fine». Scommettiamo che prima o poi, pure con Silvio?...
Wednesday, August 12, 2009
La casa maledetta di Doberdò
IN FRIULI UNA SERIE DI DISGRAZIE SEMINA IL PANICO
Due suicidi, un tentato omicidio, un ragazzo morto in moto. In diciassette giorni. E tutti abitavano in una palazzina di Doberdò. Che ora sta vivendo un incubo
di Mauro Suttora
Oggi, 12 agosto 2009
Doberdò (Gorizia)
Doberdan in sloveno significa «buongiorno». Come il nome di questo paese di 1.400 abitanti sull'altopiano del Carso, fra Gorizia e Monfalcone. A Doberdò non è successo più nulla dopo la Prima guerra mondiale, che con le sue trincee distrusse ogni casa. Poi, il 4 luglio, l'infermiera Annamaria Ferletic di 51 anni ha accoltellato il figlio Cristian. Pensava di averlo ammazzato, e allora si è suicidata tagliandosi l'arteria femorale. Tredici giorni dopo, Kevin Ponzetta, 17 anni, corre in moto con l'amico Michele Visintin sulla provinciale 15. Bei posti: il lago carsico senza affluenti (sorgenti sotterranee), boschi, vigne. D'improvviso lo schianto. E Kevin, padre di un bimbo di un anno, muore. Passano altri quattro giorni. Lo zio di Michele s'impicca.
Tre morti e un tentato omicidio in diciassette giorni. Troppi, per paese tranquillo e sonnolento come Doberdò. E agghiaccianti, perché hanno tutti a che fare con la stessa casa: una palazzina di due piani accanto alla chiesa, in piazza San Martino 9. La Ferletic e i Ponzetta erano dirimpettai. Sotto, al piano terra, abita la famiglia Visintin. Coincidenze, certo. Kevin non è andato a sbattere a causa del lago di sangue nell'appartamento accanto, e lo zio del suo amico Michele non si è suicidato perché sconvolto dalla morte del ragazzo del piano di sopra. Però, alla fine, tutte le disgrazie fanno capo a quella che qualcuno comincia a chiamare «casa degli orrori».
Gli anziani ricordano un' altra maledizione per quella casa: 53 anni fa vi morirono i due figli del proprietario. Erano gemelli neonati, li ammazzò la polmonite quando la mamma tornò a casa dall' ospedale. Il 21 agosto esce in Italia il film americano Il messaggero - The haunting in Connecticut . La protagonista, Virginia Madsen (candidata all' Oscar nel 2005 per Sideways), è alle prese con una casa simile a quella di Doberdò. I cui abitanti, oggi sbigottiti, sperano solo di tornare presto nel dimenticatoio.
Due suicidi, un tentato omicidio, un ragazzo morto in moto. In diciassette giorni. E tutti abitavano in una palazzina di Doberdò. Che ora sta vivendo un incubo
di Mauro Suttora
Oggi, 12 agosto 2009
Doberdò (Gorizia)
Doberdan in sloveno significa «buongiorno». Come il nome di questo paese di 1.400 abitanti sull'altopiano del Carso, fra Gorizia e Monfalcone. A Doberdò non è successo più nulla dopo la Prima guerra mondiale, che con le sue trincee distrusse ogni casa. Poi, il 4 luglio, l'infermiera Annamaria Ferletic di 51 anni ha accoltellato il figlio Cristian. Pensava di averlo ammazzato, e allora si è suicidata tagliandosi l'arteria femorale. Tredici giorni dopo, Kevin Ponzetta, 17 anni, corre in moto con l'amico Michele Visintin sulla provinciale 15. Bei posti: il lago carsico senza affluenti (sorgenti sotterranee), boschi, vigne. D'improvviso lo schianto. E Kevin, padre di un bimbo di un anno, muore. Passano altri quattro giorni. Lo zio di Michele s'impicca.
Tre morti e un tentato omicidio in diciassette giorni. Troppi, per paese tranquillo e sonnolento come Doberdò. E agghiaccianti, perché hanno tutti a che fare con la stessa casa: una palazzina di due piani accanto alla chiesa, in piazza San Martino 9. La Ferletic e i Ponzetta erano dirimpettai. Sotto, al piano terra, abita la famiglia Visintin. Coincidenze, certo. Kevin non è andato a sbattere a causa del lago di sangue nell'appartamento accanto, e lo zio del suo amico Michele non si è suicidato perché sconvolto dalla morte del ragazzo del piano di sopra. Però, alla fine, tutte le disgrazie fanno capo a quella che qualcuno comincia a chiamare «casa degli orrori».
Gli anziani ricordano un' altra maledizione per quella casa: 53 anni fa vi morirono i due figli del proprietario. Erano gemelli neonati, li ammazzò la polmonite quando la mamma tornò a casa dall' ospedale. Il 21 agosto esce in Italia il film americano Il messaggero - The haunting in Connecticut . La protagonista, Virginia Madsen (candidata all' Oscar nel 2005 per Sideways), è alle prese con una casa simile a quella di Doberdò. I cui abitanti, oggi sbigottiti, sperano solo di tornare presto nel dimenticatoio.
Graziana Capone, l'Angelina Jolie di Berlusconi
INTERVISTA ESCLUSIVA CON L'ULTIMA FIAMMA DEL PREMIER
"Ho cantato con il presidente"
È l’ultima «new entry» fra le fiamme di Berlusconi. «Abbiamo fatto le quattro del mattino», ammette. Ma poi a nanna
Riccione (Rimini), 2 agosto 2009
dal nostro inviato Mauro Suttora
«Per me lui vede un futuro in politica o nel giornalismo».
E lei?
«Magistrato o attrice. Ma non gli ho mai parlato della mia carriera nello spettacolo. Non volevo sembrare una delle tante che vogliono raccomandazioni. In ogni caso, ha detto che prima devo laurearmi».
E bravo Papi, che spinge le sue adoratrici sulla retta via. Anche quando hanno un viso da Angelina Jolie come Graziana Capone, 24 anni, figlia di un costruttore di Gravina di Puglia (Bari), «e lui mi vuole sempre alla sua destra quando m’invita a cena».
Graziana è l’ultima «new entry» nel magico mondo di Silvio Berlusconi. Il suo nome è emerso per la prima volta dieci giorni fa. Appartiene all’inesauribile serbatoio di belle pugliesi che Giampaolo Tarantini proponeva al premier.
Graziana però vuole far sapere, in esclusiva a Oggi, che lei non ha nulla a che fare con le altre ragazze. Nè la Noemi di maggio, né tantomeno la squillo Patty D’Addario di giugno. Il suo manager Rody Mirri (già scopritore di Michelle Hunziker) ci dà appuntamento all’hotel Des Bains di Riccione. Eccola.
«Giornali di tutto il mondo, dalla Bild tedesca al Mundo spagnolo, mi chiedono interviste in modo molto reiterante. E io voglio togliermi questo brand di dosso...»
Graziana, ma come parla?
(Sorride): «Insomma, voglio precisare. Non sono una escort, mai preso soldi. Sono andata a cena da Berlusconi, ma siamo solo amici. È un uomo affascinante, lo adoro e sono onorata dalla sua amicizia. Mi ha telefonato pure l’altro giorno, complimentandosi per non essere caduta nella trappola di Repubblica che voleva intervistarmi. Però non mi ha mai proposto nulla di sconveniente».
Lo ha conosciuto attraverso Tarantini, come Patty.
«Sì, ma io la D’Addario e le altre non le ho mai viste. Non sono andata al centro Messegué di Todi come Licia Nunez, né a villa Certosa. Non sono una ragazza immagine, non appartengo a quel giro, ho una mia carriera bene avviata. Mi sto laureando in legge, a ottobre discuterò la tesi».
Ci racconti la prima volta con Berlusconi.
«Lo scorso settembre Tarantini, cui ero stata presentata dall’amministrativista Totò Castellaneta, mi ha portato a San Siro per il derby Milan-Inter. Silvio è stato subito simpaticissimo, mi ha voluto al suo fianco. In tribuna c’erano Ezio Greggio, la Hunziker. Poi siamo andati nel club privato del Milan, allo stadio. Poi, sempre in gruppo, a visitare il palazzo dell’università privata che sta costruendo ad Arcore. È bellissima, mi ha detto che verrà a insegnarci Clinton...»
E poi?
«Andammo a cena a casa sua».
In quanti eravate?
«Prima una trentina, a cena dieci».
C’era qualche personaggio?
«Non conoscevo nessuno, tranne Tarantini. Abbiamo mangiato due assaggini di primo, verdura, pesce. Il presidente ci tiene all’alimentazione, mangia fette biscottate».
Di che parlavate?
«Di tutto. Era fiero per il salvataggio Alitalia, per i sondaggi che lo davano al 60 per cento di popolarità...»
E poi?
«Poi abbiamo cantato, io e lui con un pianista».
Che cosa?
«Io a cappella un paio di cose, Non ti scordar mai di me di Giusi Ferreri. Poi, assieme, le sue canzoni».
Le conosceva?
«Certo, per me lui rappresenta il sogno americano. Lo ammiro molto. Abbiamo cantato Stay with me, un suo pezzo tradotto in inglese».
E gli faceva i controcanti?
«Sì, la melodia sulla terza. Ho studiato piano per dodici anni, sono cantante, ho fatto parecchi spettacoli. Dopo la laurea voglio diplomarmi al conservatorio, in jazz...»
E poi?
«Era tardissimo, le tre o le quattro. Alcuni dormicchiavano sul divano. Ci siamo salutati e congedati. Sono tornata a Milano con Tarantini e dei ragazzi su un’auto con chauffeur».
Come Cenerentola.
«Beh, un po’ più tardi. Lui è stato di un’ospitalità perfetta. Il giorno dopo mi ha telefonato per salutarmi, ha detto che passava il giorno del suo compleanno in famiglia, con il nipotino che adora».
E Veronica?
«Si capiva che erano un po’ distanti».
Quando lo ha rivisto?
«Alla vigilia di Natale. Una cena a Roma, a palazzo Grazioli. Eravamo una decina, sei-sette ragazze, ho riconosciuto Carolina Marconi del Grande Fratello e Barbara Guerra. C’era un clima molto rilassato, per nulla ambiguo come quello descritto dalla D’Addario. Ero seduta alla destra del presidente. Sono uscita fra le ultime, non è rimasto nessuno. In quei giorni ero triste perché mi ero lasciata col fidanzato. Berlusconi mi ha consolata e invitata in Sardegna per Capodanno. Non ho accettato, perché sarei stata di peso. Lui da noi giovani vuole leggerezza, non problemi».
Quante altre volte l’ha visto?
«Mah, sei, sette...»
Sempre a palazzo Grazioli?
«No, una volta anche a Milano, all’inaugurazione di uno spazio Dolce & Gabbana».
L’ultima volta?
«In primavera, prima delle polemiche su Noemi. Ma abbiamo continuato a telefonarci».
Le ha dato regali?
«Sì. La famosa farfalla, e poi anelli, collane, bracciali. Anche un orologio».
Abbia pazienza Graziana, lei dice che Berlusconi non l’ha mai corteggiata. Come definisce il vostro rapporto?
«Amicizia».
Potrebbe essere suo nonno.
«E allora? È molto più interessante dei miei coetanei».
Cosa si aspettava da lui?
«Nulla. Io sono attrice di cinema, l’anno scorso ho fatto In passato e in terra straniera con Elio Germano, tratto da un libro di Carofiglio. Ho recitato nella fiction Rai Giuseppe Di Vittorio con Favino e in altre su Telenorba, la tv di Bari per cui sono stata anche segretaria di produzione e speaker radio. Ho fatto teatro: Bettina nel cilindro di Eduardo. Sono stata vocalist in discoteca. Ho fatto pubblicità: lo spot tv Campari e una campagna cartacea per il caffé Palombini».
Curriculum sterminato.
«Sì, ma in realtà metà di me vuole fare il magistrato. Insomma, non ho bisogno di una spintarella di Berlusconi».
E quindi?
«Quindi non mettetemi assieme alle altre. Anche perché se il presidente avesse veramente un harem, io sarei la favorita».
Mauro Suttora
"Ho cantato con il presidente"
È l’ultima «new entry» fra le fiamme di Berlusconi. «Abbiamo fatto le quattro del mattino», ammette. Ma poi a nanna
Riccione (Rimini), 2 agosto 2009
dal nostro inviato Mauro Suttora
«Per me lui vede un futuro in politica o nel giornalismo».
E lei?
«Magistrato o attrice. Ma non gli ho mai parlato della mia carriera nello spettacolo. Non volevo sembrare una delle tante che vogliono raccomandazioni. In ogni caso, ha detto che prima devo laurearmi».
E bravo Papi, che spinge le sue adoratrici sulla retta via. Anche quando hanno un viso da Angelina Jolie come Graziana Capone, 24 anni, figlia di un costruttore di Gravina di Puglia (Bari), «e lui mi vuole sempre alla sua destra quando m’invita a cena».
Graziana è l’ultima «new entry» nel magico mondo di Silvio Berlusconi. Il suo nome è emerso per la prima volta dieci giorni fa. Appartiene all’inesauribile serbatoio di belle pugliesi che Giampaolo Tarantini proponeva al premier.
Graziana però vuole far sapere, in esclusiva a Oggi, che lei non ha nulla a che fare con le altre ragazze. Nè la Noemi di maggio, né tantomeno la squillo Patty D’Addario di giugno. Il suo manager Rody Mirri (già scopritore di Michelle Hunziker) ci dà appuntamento all’hotel Des Bains di Riccione. Eccola.
«Giornali di tutto il mondo, dalla Bild tedesca al Mundo spagnolo, mi chiedono interviste in modo molto reiterante. E io voglio togliermi questo brand di dosso...»
Graziana, ma come parla?
(Sorride): «Insomma, voglio precisare. Non sono una escort, mai preso soldi. Sono andata a cena da Berlusconi, ma siamo solo amici. È un uomo affascinante, lo adoro e sono onorata dalla sua amicizia. Mi ha telefonato pure l’altro giorno, complimentandosi per non essere caduta nella trappola di Repubblica che voleva intervistarmi. Però non mi ha mai proposto nulla di sconveniente».
Lo ha conosciuto attraverso Tarantini, come Patty.
«Sì, ma io la D’Addario e le altre non le ho mai viste. Non sono andata al centro Messegué di Todi come Licia Nunez, né a villa Certosa. Non sono una ragazza immagine, non appartengo a quel giro, ho una mia carriera bene avviata. Mi sto laureando in legge, a ottobre discuterò la tesi».
Ci racconti la prima volta con Berlusconi.
«Lo scorso settembre Tarantini, cui ero stata presentata dall’amministrativista Totò Castellaneta, mi ha portato a San Siro per il derby Milan-Inter. Silvio è stato subito simpaticissimo, mi ha voluto al suo fianco. In tribuna c’erano Ezio Greggio, la Hunziker. Poi siamo andati nel club privato del Milan, allo stadio. Poi, sempre in gruppo, a visitare il palazzo dell’università privata che sta costruendo ad Arcore. È bellissima, mi ha detto che verrà a insegnarci Clinton...»
E poi?
«Andammo a cena a casa sua».
In quanti eravate?
«Prima una trentina, a cena dieci».
C’era qualche personaggio?
«Non conoscevo nessuno, tranne Tarantini. Abbiamo mangiato due assaggini di primo, verdura, pesce. Il presidente ci tiene all’alimentazione, mangia fette biscottate».
Di che parlavate?
«Di tutto. Era fiero per il salvataggio Alitalia, per i sondaggi che lo davano al 60 per cento di popolarità...»
E poi?
«Poi abbiamo cantato, io e lui con un pianista».
Che cosa?
«Io a cappella un paio di cose, Non ti scordar mai di me di Giusi Ferreri. Poi, assieme, le sue canzoni».
Le conosceva?
«Certo, per me lui rappresenta il sogno americano. Lo ammiro molto. Abbiamo cantato Stay with me, un suo pezzo tradotto in inglese».
E gli faceva i controcanti?
«Sì, la melodia sulla terza. Ho studiato piano per dodici anni, sono cantante, ho fatto parecchi spettacoli. Dopo la laurea voglio diplomarmi al conservatorio, in jazz...»
E poi?
«Era tardissimo, le tre o le quattro. Alcuni dormicchiavano sul divano. Ci siamo salutati e congedati. Sono tornata a Milano con Tarantini e dei ragazzi su un’auto con chauffeur».
Come Cenerentola.
«Beh, un po’ più tardi. Lui è stato di un’ospitalità perfetta. Il giorno dopo mi ha telefonato per salutarmi, ha detto che passava il giorno del suo compleanno in famiglia, con il nipotino che adora».
E Veronica?
«Si capiva che erano un po’ distanti».
Quando lo ha rivisto?
«Alla vigilia di Natale. Una cena a Roma, a palazzo Grazioli. Eravamo una decina, sei-sette ragazze, ho riconosciuto Carolina Marconi del Grande Fratello e Barbara Guerra. C’era un clima molto rilassato, per nulla ambiguo come quello descritto dalla D’Addario. Ero seduta alla destra del presidente. Sono uscita fra le ultime, non è rimasto nessuno. In quei giorni ero triste perché mi ero lasciata col fidanzato. Berlusconi mi ha consolata e invitata in Sardegna per Capodanno. Non ho accettato, perché sarei stata di peso. Lui da noi giovani vuole leggerezza, non problemi».
Quante altre volte l’ha visto?
«Mah, sei, sette...»
Sempre a palazzo Grazioli?
«No, una volta anche a Milano, all’inaugurazione di uno spazio Dolce & Gabbana».
L’ultima volta?
«In primavera, prima delle polemiche su Noemi. Ma abbiamo continuato a telefonarci».
Le ha dato regali?
«Sì. La famosa farfalla, e poi anelli, collane, bracciali. Anche un orologio».
Abbia pazienza Graziana, lei dice che Berlusconi non l’ha mai corteggiata. Come definisce il vostro rapporto?
«Amicizia».
Potrebbe essere suo nonno.
«E allora? È molto più interessante dei miei coetanei».
Cosa si aspettava da lui?
«Nulla. Io sono attrice di cinema, l’anno scorso ho fatto In passato e in terra straniera con Elio Germano, tratto da un libro di Carofiglio. Ho recitato nella fiction Rai Giuseppe Di Vittorio con Favino e in altre su Telenorba, la tv di Bari per cui sono stata anche segretaria di produzione e speaker radio. Ho fatto teatro: Bettina nel cilindro di Eduardo. Sono stata vocalist in discoteca. Ho fatto pubblicità: lo spot tv Campari e una campagna cartacea per il caffé Palombini».
Curriculum sterminato.
«Sì, ma in realtà metà di me vuole fare il magistrato. Insomma, non ho bisogno di una spintarella di Berlusconi».
E quindi?
«Quindi non mettetemi assieme alle altre. Anche perché se il presidente avesse veramente un harem, io sarei la favorita».
Mauro Suttora
Wednesday, July 29, 2009
Vacanze sul Gran Sesso
Dove dormirà il Berlusconi d'Abruzzi?
Oggi, 21 luglio 2009
«Deportazione in Abruzzo d'agosto»: così qualche ministro riottoso brontola, all'idea di Silvio Berlusconi di organizzare una settimana intera di riunione di governo nella caserma di Coppito (L'Aquila). Prima di riconsegnarla alla Guardia di Finanza, ancora fresca di G8. Per nulla eccitati dall'idea di capitare nello stesso letto che fu di Barack Obama appaiono soprattutto i ministri della Lega Nord.
Ma dopo il 7 agosto? «Passerò tutto il mese in Abruzzo per controllare l'avanzamento dei lavori di ricostruzione», ha promesso il premier. E subito si è scatenato il toto-villa: quale magione soppianterà la Certosa sarda?
La favorita è la Corte dei Tini, lussuoso relais a Villa Vomano (Teramo). Qui Berlusconi ha già passato una notte, lo scorso novembre, durante la campagna elettorale vittoriosa delle regionali d'Abruzzo. Oppure, dall'altra parte del Gran Sasso, la residenza privata del costruttore Giovanni Frattale a Marruci di Pizzoli (L'Aquila). Qui ha dormito per una notte addirittura Muammar Gheddafi. il dittatore libico che al G8 stava in tenda, ma solo di giorno.
«Vacanze sul Gran Sesso», scherza qualche buontempone, alludendo alle recenti disavventure del premier. Il quale avrebbe deciso di cambiare vita, abbandonando veline e Briatore per la quiete abruzzese. «Saremmo felici di accoglierlo», ci dice Antonio Di Gianvito, 55 anni, proprietario della Corte dei Tini. Dove hanno già dormito, fra gli altri, Vasco Rossi per nove giorni, Maria Grazia Cucinotta, Riccardo Scamarcio e, fra i politici, Giulio Tremonti. «È venuto anche Dario Fo», racconta Di Gianvito, che della notte già trascorsa da Berlusconi a Teramo ricorda divertito la «corsa» dei fedelissimi ad aggiudicarsi la stanza più vicina a Lui. «Ma abbiamo soltanto diciotto stanze, non abbiamo potuto accontentare tutti…»
Mauro Suttora
Oggi, 21 luglio 2009
«Deportazione in Abruzzo d'agosto»: così qualche ministro riottoso brontola, all'idea di Silvio Berlusconi di organizzare una settimana intera di riunione di governo nella caserma di Coppito (L'Aquila). Prima di riconsegnarla alla Guardia di Finanza, ancora fresca di G8. Per nulla eccitati dall'idea di capitare nello stesso letto che fu di Barack Obama appaiono soprattutto i ministri della Lega Nord.
Ma dopo il 7 agosto? «Passerò tutto il mese in Abruzzo per controllare l'avanzamento dei lavori di ricostruzione», ha promesso il premier. E subito si è scatenato il toto-villa: quale magione soppianterà la Certosa sarda?
La favorita è la Corte dei Tini, lussuoso relais a Villa Vomano (Teramo). Qui Berlusconi ha già passato una notte, lo scorso novembre, durante la campagna elettorale vittoriosa delle regionali d'Abruzzo. Oppure, dall'altra parte del Gran Sasso, la residenza privata del costruttore Giovanni Frattale a Marruci di Pizzoli (L'Aquila). Qui ha dormito per una notte addirittura Muammar Gheddafi. il dittatore libico che al G8 stava in tenda, ma solo di giorno.
«Vacanze sul Gran Sesso», scherza qualche buontempone, alludendo alle recenti disavventure del premier. Il quale avrebbe deciso di cambiare vita, abbandonando veline e Briatore per la quiete abruzzese. «Saremmo felici di accoglierlo», ci dice Antonio Di Gianvito, 55 anni, proprietario della Corte dei Tini. Dove hanno già dormito, fra gli altri, Vasco Rossi per nove giorni, Maria Grazia Cucinotta, Riccardo Scamarcio e, fra i politici, Giulio Tremonti. «È venuto anche Dario Fo», racconta Di Gianvito, che della notte già trascorsa da Berlusconi a Teramo ricorda divertito la «corsa» dei fedelissimi ad aggiudicarsi la stanza più vicina a Lui. «Ma abbiamo soltanto diciotto stanze, non abbiamo potuto accontentare tutti…»
Mauro Suttora
Friday, July 24, 2009
George Clooney e Manuela Arcuri al 'Gatto nero'
A CENA SUL LAGO DI COMO
Oggi, 22 luglio 2009
di Mauro Suttora
Manuela Arcuri non è come le ragazze della pubblicità Nespresso, quindi non è rimasta indifferente al fascino dell' attore più sexy del pianeta. Così qualche sera fa, quando si è trovata a cenare nel tavolo accanto a quello di George Clooney, è partito un gioco di sguardi intensi.
George, da otto anni sul Lago di Como e dal 2004 cittadino onorario di Laglio, mangiava con i genitori e il suo amico attore americano Bill Murray (Lost in Translation, Ghostbusters, Treno per Darjeeling) al ristorante Il Gatto Nero di Rovenna, sopra Cernobbio (Como). Dopo un' ora è arrivata la stella romana delle fiction di Canale 5, pure lei con mamma e due amici. Ma al panorama mozzafiato sul lago, Manuela (di nuovo single dopo la rottura col tronista Matteo Guerra) ha preferito la vista sul tavolo accanto.
Quando gliel'hanno presentata, il simpatico George, ignaro delle classifiche di popolarità nostrana, le ha sorriso cordialmente così come sorride a tutti. Poco dopo nella stessa sala è piombato Jonathan Kashanian, vincitore del Grande Fratello 5: baci e abbracci con la Arcuri, gelo al tavolo degli americani. Cernobbio in questi giorni è il crocevia mondiale degli attori. Robert De Niro era ospite dell'hotel Villa d' Este (che l'ultima classifica della rivista Forbes conferma come il migliore del mondo), mentre Denzel Washington è stato avvistato all'Harry's Bar in riva al lago, vicino all' imbarcadero per i traghetti.
I VIP CENANO DA FAUSTO PERCHÉ LÌ SONO AL SICURO
Questa volta gliel'hanno fatta. Ma di solito è Fausto Fontana, 59 anni, estroso proprietario del ristorante Il Gatto Nero di Cernobbio (Como), a vincere la guerra con i paparazzi. Il suo è il locale a maggiore intensità di vip internazionali in Italia, più del Bolognese a Roma. E lui la privacy dei suoi preziosi clienti la protegge gelosamente. Prima del Gatto Nero, che sta compiendo vent' anni, Fontana aveva un altro ristorante a Como: il Sant' Anna, frequentato da Caroline di Monaco e Stefano Casiraghi. Poi ha aperto questo gioiello a picco sul lago, che i giocatori di Milan e Inter (e dal 2002 Clooney) considerano la loro mensa personale. Non mancano le famiglie reali, assieme agli ospiti del sottostante hotel Villa d' Este.
Foto:
21 settembre 2008: Liam Gallagher degli Oasis festeggia i suoi 36 anni al Gatto Nero.
Fausto Fontana, 59 anni, con Mick Hucknall, voce dei Simply Red.
Claudio Baglioni posa con Fontana dopo un concerto a Villa Erba.
Neil Armstrong, primo uomo sulla Luna 40 anni fa.
Fra i clienti del Gatto Nero c' è anche Catherine Zeta-Jones.
Ronaldo con Fontana. Tutti i giocatori di Inter e Milan sono clienti.
Oggi, 22 luglio 2009
di Mauro Suttora
Manuela Arcuri non è come le ragazze della pubblicità Nespresso, quindi non è rimasta indifferente al fascino dell' attore più sexy del pianeta. Così qualche sera fa, quando si è trovata a cenare nel tavolo accanto a quello di George Clooney, è partito un gioco di sguardi intensi.
George, da otto anni sul Lago di Como e dal 2004 cittadino onorario di Laglio, mangiava con i genitori e il suo amico attore americano Bill Murray (Lost in Translation, Ghostbusters, Treno per Darjeeling) al ristorante Il Gatto Nero di Rovenna, sopra Cernobbio (Como). Dopo un' ora è arrivata la stella romana delle fiction di Canale 5, pure lei con mamma e due amici. Ma al panorama mozzafiato sul lago, Manuela (di nuovo single dopo la rottura col tronista Matteo Guerra) ha preferito la vista sul tavolo accanto.
Quando gliel'hanno presentata, il simpatico George, ignaro delle classifiche di popolarità nostrana, le ha sorriso cordialmente così come sorride a tutti. Poco dopo nella stessa sala è piombato Jonathan Kashanian, vincitore del Grande Fratello 5: baci e abbracci con la Arcuri, gelo al tavolo degli americani. Cernobbio in questi giorni è il crocevia mondiale degli attori. Robert De Niro era ospite dell'hotel Villa d' Este (che l'ultima classifica della rivista Forbes conferma come il migliore del mondo), mentre Denzel Washington è stato avvistato all'Harry's Bar in riva al lago, vicino all' imbarcadero per i traghetti.
I VIP CENANO DA FAUSTO PERCHÉ LÌ SONO AL SICURO
Questa volta gliel'hanno fatta. Ma di solito è Fausto Fontana, 59 anni, estroso proprietario del ristorante Il Gatto Nero di Cernobbio (Como), a vincere la guerra con i paparazzi. Il suo è il locale a maggiore intensità di vip internazionali in Italia, più del Bolognese a Roma. E lui la privacy dei suoi preziosi clienti la protegge gelosamente. Prima del Gatto Nero, che sta compiendo vent' anni, Fontana aveva un altro ristorante a Como: il Sant' Anna, frequentato da Caroline di Monaco e Stefano Casiraghi. Poi ha aperto questo gioiello a picco sul lago, che i giocatori di Milan e Inter (e dal 2002 Clooney) considerano la loro mensa personale. Non mancano le famiglie reali, assieme agli ospiti del sottostante hotel Villa d' Este.
Foto:
21 settembre 2008: Liam Gallagher degli Oasis festeggia i suoi 36 anni al Gatto Nero.
Fausto Fontana, 59 anni, con Mick Hucknall, voce dei Simply Red.
Claudio Baglioni posa con Fontana dopo un concerto a Villa Erba.
Neil Armstrong, primo uomo sulla Luna 40 anni fa.
Fra i clienti del Gatto Nero c' è anche Catherine Zeta-Jones.
Ronaldo con Fontana. Tutti i giocatori di Inter e Milan sono clienti.
Wednesday, July 15, 2009
Guido Bertolaso
SUPERGUIDO
Non solo Protezione civile: Bertolaso organizza tutti i grandi eventi, dal G8 ai Mondiali di nuoto, restaura monumenti, toglie la spazzatura, gestisce aree archeologiche, distribuisce indennizzi. In nome di un'eterna emergenza. Perché Berlusconi si fida solo di lui
di Mauro Suttora
Oggi, 8 luglio 2009
Una volta, disastri come quella di Viareggio venivano affrontate da prefetti e questori. Oggi arriva Bertolaso. Per i terremoti c’erano vigili del fuoco ed esercito. Ora c’è Bertolaso. Per ricostruire dopo i terremoti c’erano regioni e ministri dei Lavori pubblici. Adesso, Guido Bertolaso. E chi ha organizzato gli spettacolari funerali del Papa nel 2005? Sempre Bertolaso.
Bertolaso di qua, Bertolaso di là. “Ha 106 controfigure”, scherza Fiorello. Superbertolaso. L’eroe della spazzatura di Napoli e Sicilia. Il trionfatore della piena del Tevere: il sindaco di Roma Alemanno si affidò a lui lo scorso dicembre, e poi lo ha nominato commissario straordinario per tutte le zone archeologiche di Roma. Soprintendenti, addio.
L’apoteosi di Bertolaso si compie in questi giorni, con l’appalto totale del vertice G8 all’Aquila. Esautorato il ministero degli Esteri, è la Protezione civile a gestire tutto. Perfino l’ordine pubblico: polizia e carabinieri sono agli ordini di Bertolaso. «Coordinati», bisogna dire, per non irritare troppo i ministri dell’Interno e della Difesa ormai bypassati.
Ma chi è questo bell’uomo 59enne, faccia da attore, poche parole e molti fatti, diventato più potente di tutti i ministri non essendo neanche sottosegretario?
Romano, figlio di un generale dell’Aviazione, nel ‘63 vide sfrecciare il padre all’aeroporto, primo collaudatore di un F104: «Ero con mia madre, ci passò sopra quell’uccello di ferro che urlava. Un’emozione indimenticabile”.
Poi, narra la leggenda, quand’era ragazzino in collegio organizzò squadre di volontari per spegnere un incendio vicino all’abbazia di Farfa, in Sabina. Vocazione precoce. Oggi sono 15 i Canadair che fa volare ogni estate per (cercare di) proteggere i nostri boschi. Anche qui, è lui il capo di tutti: un milione e 300 mila volontari della protezione civile divisi in 2.500 organizzazioni, diecimila guardie forestali, trentamila pompieri, Cnr, Aeronautica, Agenzie regionali dell’Ambiente.
Superguido si laurea in medicina a Roma. Sarebbe diventato medico ai Parioli, il suo quartiere, se lo spirito d’avventura non lo avesse spinto a Liverpool, per specializzarsi in malattie tropicali. E poi via, in Africa: missionario laico in Algeria, Burkina Faso, Mali. Nel 1980, a trent’anni, la Farnesina lo manda in Thailandia a gestire un ospedale italiano.
Poi se lo piglia Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, per lavorare alla Cooperazione internazionale. Tanto basta agli invidiosi per catalogarlo come democristiano, e sussurrare: «È nipote del cardinale Camillo Ruini». Gli schizzi non lo colpiscono: «Sono un tecnico, non ho tessere».
Intanto Bertolaso sposa Gloria Piermarini, architetto paesaggista, famiglia della Roma-benissimo. Due figlie, Olivia e Chiara. Carattere non facile, si distrae giocando a golf all’Olgiata. Quando Andreotti lascia gli Esteri nell’89 va al ministero Affari sociali sotto Rosa Russo Iervolino, oggi sindaco della Napoli da lui ripulita. Una breve incursione nel volontariato internazionale (Unicef Italia), poi di nuovo a iniettare managerialità nel parastato nostrano: il sindaco di Roma Francesco Rutelli lo chiama nel ‘97 a gestire il Giubileo 2000. Il suo capolavoro: guidare l’auto che, fendendo la folla di papa-boys, portò Giovanni Paolo II in mezzo al prato dello storico raduno di Tor Vergata.
Dopo il Vaticano, ad maiora: capo della Protezione civile. Silvio Berlusconi si innamora di questo antesignano di Sergio Marchionne, sempre in maglioncino blu o grigio (ma bordato di tricolore), che sprizza efficienza da tutti i pori. Gli fa organizzare il vertice Nato di Pratica di Mare, ne rimane soddisfatto. Da allora, se c’è un problema, chiama sempre Bertolaso. Tutti i summit sono suoi: Fao 2002, presidenza Ue 2003, costituzione europea 2004.
Non si capisce bene cosa c’entri con i «grandi eventi» la Protezione civile, che dovrebbe proteggerci dalle emergenze naturali. Ma per velocizzare la burocrazia è comodo catalogare tutto come «emergenza».
Quindi a Bertolaso vengono affidati anche i mondiali di ciclismo a Varese l’anno scorso, quelli imminenti di nuoto a Roma (con appalti costosissimi per opere non finite o abbandonate a metà, come il megastadio di Calatrava) e i Giochi del Mediterraneo a Pescara. SuperGuido organizzerà pure le celebrazioni per i 150 anni dell’Italia, nel 2011.
Non pago, Bertolaso sta soppiantando pure il ministero dei Beni culturali: ha restaurato la cattedrale di Noto (Ragusa) e perfino la statua del David di Donatello a Firenze, oltre a ricostruire in Umbria e Marche dopo il terremoto del ‘97.
La sua bravura ha un riconoscimento bipartisan: il primo governo Prodi lo fece capo della Protezione civile nel ‘96, e dieci anni dopo lo ha lasciato al suo posto.
Unica grossa polemica, quella con la Croce Rossa di Maurizio Scelli (oggi deputato Pdl) sui 25 milioni inviati via sms per lo tsunami del 2004. Unico infortunio giudiziario, il processo per tangenti sui rifiuti in Campania: 25 arresti, incriminata il suo ex braccio destro Marta Di Gennaro. Prima udienza il 15 luglio.
Per il G8 alla Maddalena Bertolaso aveva speso 363 milioni, prima che Berlusconi decidesse di spostarlo all’Aquila. La Protezione civile ci costa 1,6 miliardi l’anno. Il grosso va per le calamità naturali: 1,1 miliardi. Dopo la strage della classe di San Giuliano di Puglia del 2002, Bertolaso si occupa anche di sicurezza nelle scuole al posto del ministero dell’Istruzione: venti milioni di euro quest’anno. E distribuisce indennizzi per 37 milioni annui ai contadini danneggiati da alluvioni e siccità, al posto del ministero dell’Agricoltura.
Per far fronte all’espansione di compiti i 700 uomini della Protezione civile hanno ottenuto un raddoppio di sedi: oltre a quella vecchia di via Ulpiano, accanto al Palazzaccio di giustizia di Roma, una nuova di zecca in via Flaminia, alla confluenza con la Flaminia vecchia. E Bertolaso è ricompensato (dichiarazione 2007) con un milione di euro l’anno.
Mauro Suttora
Non solo Protezione civile: Bertolaso organizza tutti i grandi eventi, dal G8 ai Mondiali di nuoto, restaura monumenti, toglie la spazzatura, gestisce aree archeologiche, distribuisce indennizzi. In nome di un'eterna emergenza. Perché Berlusconi si fida solo di lui
di Mauro Suttora
Oggi, 8 luglio 2009
Una volta, disastri come quella di Viareggio venivano affrontate da prefetti e questori. Oggi arriva Bertolaso. Per i terremoti c’erano vigili del fuoco ed esercito. Ora c’è Bertolaso. Per ricostruire dopo i terremoti c’erano regioni e ministri dei Lavori pubblici. Adesso, Guido Bertolaso. E chi ha organizzato gli spettacolari funerali del Papa nel 2005? Sempre Bertolaso.
Bertolaso di qua, Bertolaso di là. “Ha 106 controfigure”, scherza Fiorello. Superbertolaso. L’eroe della spazzatura di Napoli e Sicilia. Il trionfatore della piena del Tevere: il sindaco di Roma Alemanno si affidò a lui lo scorso dicembre, e poi lo ha nominato commissario straordinario per tutte le zone archeologiche di Roma. Soprintendenti, addio.
L’apoteosi di Bertolaso si compie in questi giorni, con l’appalto totale del vertice G8 all’Aquila. Esautorato il ministero degli Esteri, è la Protezione civile a gestire tutto. Perfino l’ordine pubblico: polizia e carabinieri sono agli ordini di Bertolaso. «Coordinati», bisogna dire, per non irritare troppo i ministri dell’Interno e della Difesa ormai bypassati.
Ma chi è questo bell’uomo 59enne, faccia da attore, poche parole e molti fatti, diventato più potente di tutti i ministri non essendo neanche sottosegretario?
Romano, figlio di un generale dell’Aviazione, nel ‘63 vide sfrecciare il padre all’aeroporto, primo collaudatore di un F104: «Ero con mia madre, ci passò sopra quell’uccello di ferro che urlava. Un’emozione indimenticabile”.
Poi, narra la leggenda, quand’era ragazzino in collegio organizzò squadre di volontari per spegnere un incendio vicino all’abbazia di Farfa, in Sabina. Vocazione precoce. Oggi sono 15 i Canadair che fa volare ogni estate per (cercare di) proteggere i nostri boschi. Anche qui, è lui il capo di tutti: un milione e 300 mila volontari della protezione civile divisi in 2.500 organizzazioni, diecimila guardie forestali, trentamila pompieri, Cnr, Aeronautica, Agenzie regionali dell’Ambiente.
Superguido si laurea in medicina a Roma. Sarebbe diventato medico ai Parioli, il suo quartiere, se lo spirito d’avventura non lo avesse spinto a Liverpool, per specializzarsi in malattie tropicali. E poi via, in Africa: missionario laico in Algeria, Burkina Faso, Mali. Nel 1980, a trent’anni, la Farnesina lo manda in Thailandia a gestire un ospedale italiano.
Poi se lo piglia Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, per lavorare alla Cooperazione internazionale. Tanto basta agli invidiosi per catalogarlo come democristiano, e sussurrare: «È nipote del cardinale Camillo Ruini». Gli schizzi non lo colpiscono: «Sono un tecnico, non ho tessere».
Intanto Bertolaso sposa Gloria Piermarini, architetto paesaggista, famiglia della Roma-benissimo. Due figlie, Olivia e Chiara. Carattere non facile, si distrae giocando a golf all’Olgiata. Quando Andreotti lascia gli Esteri nell’89 va al ministero Affari sociali sotto Rosa Russo Iervolino, oggi sindaco della Napoli da lui ripulita. Una breve incursione nel volontariato internazionale (Unicef Italia), poi di nuovo a iniettare managerialità nel parastato nostrano: il sindaco di Roma Francesco Rutelli lo chiama nel ‘97 a gestire il Giubileo 2000. Il suo capolavoro: guidare l’auto che, fendendo la folla di papa-boys, portò Giovanni Paolo II in mezzo al prato dello storico raduno di Tor Vergata.
Dopo il Vaticano, ad maiora: capo della Protezione civile. Silvio Berlusconi si innamora di questo antesignano di Sergio Marchionne, sempre in maglioncino blu o grigio (ma bordato di tricolore), che sprizza efficienza da tutti i pori. Gli fa organizzare il vertice Nato di Pratica di Mare, ne rimane soddisfatto. Da allora, se c’è un problema, chiama sempre Bertolaso. Tutti i summit sono suoi: Fao 2002, presidenza Ue 2003, costituzione europea 2004.
Non si capisce bene cosa c’entri con i «grandi eventi» la Protezione civile, che dovrebbe proteggerci dalle emergenze naturali. Ma per velocizzare la burocrazia è comodo catalogare tutto come «emergenza».
Quindi a Bertolaso vengono affidati anche i mondiali di ciclismo a Varese l’anno scorso, quelli imminenti di nuoto a Roma (con appalti costosissimi per opere non finite o abbandonate a metà, come il megastadio di Calatrava) e i Giochi del Mediterraneo a Pescara. SuperGuido organizzerà pure le celebrazioni per i 150 anni dell’Italia, nel 2011.
Non pago, Bertolaso sta soppiantando pure il ministero dei Beni culturali: ha restaurato la cattedrale di Noto (Ragusa) e perfino la statua del David di Donatello a Firenze, oltre a ricostruire in Umbria e Marche dopo il terremoto del ‘97.
La sua bravura ha un riconoscimento bipartisan: il primo governo Prodi lo fece capo della Protezione civile nel ‘96, e dieci anni dopo lo ha lasciato al suo posto.
Unica grossa polemica, quella con la Croce Rossa di Maurizio Scelli (oggi deputato Pdl) sui 25 milioni inviati via sms per lo tsunami del 2004. Unico infortunio giudiziario, il processo per tangenti sui rifiuti in Campania: 25 arresti, incriminata il suo ex braccio destro Marta Di Gennaro. Prima udienza il 15 luglio.
Per il G8 alla Maddalena Bertolaso aveva speso 363 milioni, prima che Berlusconi decidesse di spostarlo all’Aquila. La Protezione civile ci costa 1,6 miliardi l’anno. Il grosso va per le calamità naturali: 1,1 miliardi. Dopo la strage della classe di San Giuliano di Puglia del 2002, Bertolaso si occupa anche di sicurezza nelle scuole al posto del ministero dell’Istruzione: venti milioni di euro quest’anno. E distribuisce indennizzi per 37 milioni annui ai contadini danneggiati da alluvioni e siccità, al posto del ministero dell’Agricoltura.
Per far fronte all’espansione di compiti i 700 uomini della Protezione civile hanno ottenuto un raddoppio di sedi: oltre a quella vecchia di via Ulpiano, accanto al Palazzaccio di giustizia di Roma, una nuova di zecca in via Flaminia, alla confluenza con la Flaminia vecchia. E Bertolaso è ricompensato (dichiarazione 2007) con un milione di euro l’anno.
Mauro Suttora
Wednesday, July 08, 2009
Debora Serracchiani privata
Ha battuto Berlusconi, ma la temono anche i capi democratici
Oggi, 28 giugno 2009
dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora
Mai, nella storia d’Italia, c’era stata un’ascesa politica più rapida. Fino al 2003 Debora Serracchiani di politica non si interessava, se non leggendo i giornali. Fino a cento giorni fa non era mai scesa a Roma per una riunione nazionale del suo partito, il Democratico.
Oggi, milioni di simpatizzanti sperano in questa 38enne romana-udinese per rinnovare il centrosinistra. In 144 mila l’hanno votata il 7 giugno, spedendola all’Europarlamento. «E in Friuli ho battuto anche “papi”», scherza lei: settemila preferenze più del premier Silvio Berlusconi.
Incontriamo il fenomeno con frangetta a casa sua, nella periferia estrema di Udine. Una casetta comprata col mutuo assieme al compagno Riccardo, 40 anni, romano pure lui, impiegato in un’impresa di telecomunicazioni. Debora, che da quindici anni fa l’avvocatessa specializzata in cause di lavoro, ci accoglie nel giardinetto di fronte al canale Ledra. Poco più in là il palasport della Snaidero basket e lo stadio dell’Udinese calcio: «Da qui sentiamo gratis i concerti: ottimi quelli di Vasco Rossi e Red Hot Chili Pepper, ora aspettiamo i Coldplay a fine agosto».
Debora ha appena scritto un libro: Il coraggio che manca (ed. Rizzoli). Sottotitolo: A un cittadino deluso dalla politica. Racconta le incredibili dieci settimane fra il suo primo discorso del 21 marzo a Roma e il trionfo alle Europee. Il giorno dell’equinozio primaverile 2009 «è stato forse il momento più basso nella storia della sinistra italiana». Il segretario del Pd Walter Veltroni si era dimesso. Sul tavolo del successore Dario Franceschini i sondaggi davano il partito al 20 per cento. Un disastro per gli eredi di Dc e Pci, attestati al 70 per cento per mezzo secolo.
La Serracchiani, con un discorso di pochi minuti, è riuscita a galvanizzare il pubblico democratico. Era arrivata in corriera di notte da Udine assieme ai colleghi di base del Pd, non aveva dormito, era a disagio per la scarsa eleganza del proprio vestito rispetto ai dirigenti romani: «Pensavo a un incontro di partito, mi sono ritrovata in una convention». Eppure ha attirato l’attenzione di tutti i delusi dalla nomenklatura democratica, che l’hanno applaudita 35 volte. Dal giorno dopo, migliaia di e-mail e sms.
Ma chi è la Serracchiani, da dove viene?
«Sono nata nel 1970 a Roma, quartiere Casetta Mattei, zona Portuense. Mio padre era impiegato Alitalia, mia madre ha smesso di lavorare quand’è nato mio fratello Emiliano. Scuola dalle suore fino alla terza media. Poi istituto tecnico commerciale, perché non volevo andare all’università: ragioneria con lingue, inglese e francese. Ci ho aggiunto lo spagnolo. Fino a 18 anni ho giocato a tennis a livello agonistico. Ma le ore d’allenamento erano troppe: entrata all’università, non ho più toccato la racchetta per dieci anni. Laureata in legge nel ‘94 con 110 e lode, tesi di diritto commerciale su una direttiva europea per le srl”.
E nel tempo libero?
«Musica: Bruce Sprigsteen, Zero Assoluto, Elisa. Libri: Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, l’ho letto dieci volte, anche in inglese. E i legal thriller di Grisham. Cinema: Il marchese del Grillo con Alberto Sordi, grandi dialoghi e senso civico».
Ha visto il film Mister Smith va a Washington di Frank Capra?
«No».
È proprio la sua storia: James Stewart, idealista digiuno di politica, viene eletto deputato.
«E poi?»
Non le rovino la sorpresa del finale. Ci dica lei piuttosto: com’è finita a Udine, e per di più in via Sondrio? Più a nord di così...
«Ricordo ancora il giorno del trasloco: 3 gennaio ‘95. Un freddo incredibile. Ho seguito Riccardo, che aveva trovato lavoro qui».
Lo ha trovato subito anche lei.
«Sì, lo studio Businello mi ha fatto fare il praticantato. Mi sono specializzata in cause di lavoro».
A proposito di lavoro. All’ultimo incontro nazionale del Pd, nel Lingotto di Torino domenica scorsa, lei ha affrontato un totem e tabù della sinistra: l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Che secondo alcuni tutela un po’ troppo i dipendenti, rendendoli quasi illicenziabili.
«Ho posto il problema, più in generale, sul mondo del lavoro. Il Pd deve dire chiaramente cosa pensa su alcuni temi fondamentali. Oggi purtroppo c’è troppa differenza fra lavoratori garantiti e precari. Anche per una questione di tempi: le cause di lavoro sono lunghissime».
Stia attenta: a sinistra chi tocca i fili (l’articolo 18) muore.
«La risposta è: migliorare gli ammortizzatori sociali. Che non devono proteggere settori improduttivi, ma accompagnare chi perde il posto a un nuovo lavoro».
L’avvocato Businello, prima suo principale e poi socio, mi ha parlato molto bene di lei. Dice che le sue grandi virtù, determinazione e capacità di lavoro, sono anche il suo unico difetto: qualche segretaria non rimpiange i suoi ritmi.
«Sono esigente soprattutto cone me stessa. Al sabato mattina lavoro. E anche in agosto, quando c’è più tempo e tranquillità per smaltire il lavoro arretrato».
Povero Riccardo.
«Ma no, anche a lui piace andare in vacanza a giugno o a fine estate, fuori dalla ressa».
Dove?
«Isole greche».
E i week-end azzoppati?
«Passiamo le domeniche pomeriggio qui sul divano a vedere le partite della Roma in tv».
Su Sky?
«Macché: digitale terrestre Mediaset. Pagando Berlusconi. Me ne vergogno...»
Non vi sposate?
«Non vogliamo svilire il matrimonio, istituto nel quale non crediamo fino in fondo, sposandoci solo per convenienza. Aspettiamo i Dico, i patti di convivenza».
Aspetta e spera. Anche nel Pd i cattolici fondamentalisti sembrano dettare la linea sulle questioni etiche.
«È ora di discutere, rispettando la sensibilità di tutti, ma prendendo una decisione. Magari lasciando a casa qualcuno. Anche perché nel 2020 le nuove convivenze in Italia supereranno i matrimoni».
Nel suo primo e ormai famoso discorso lei si è presentata così: «Vengo dalla città che ha accolto Eluana Englaro».
«Certo. Sono questioni di civiltà. Sto con Ignazio Marino, il medico cattolico fautore del testamento biologico».
E nel libro maltratta Francesco Rutelli.
«Ricandidarlo sindaco a Roma dopo quindici anni è stato un disastro. Ci voleva un volto nuovo. Abbiamo regalato la capitale alla destra».
Quattro a Rutelli, cinque a D’Alema e Di Pietro, sei a Franceschini, sei più a Veltroni: questa è la severa pagella Serracchiani ai capi del centrosinistra.
«Veramente secondo me Di Pietro non ha nulla a che fare col centrosinistra: nel suo partito personale ha riciclato di tutto».
Visto il voto a D’Alema, inutile chiederle se appoggerà il suo candidato Pierluigi Bersani al congresso d’autunno, contro Franceschini.
«Ci vogliono facce nuove».
«A destra sono capaci di tutto, a sinistra sono buoni a nulla»: all’inizio del libro lei cita questa tremenda frase di Marco Pannella contro i politici italiani. La condivide?
«Dobbiamo fare di tutto per smentirlo».
Mauro Suttora
Oggi, 28 giugno 2009
dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora
Mai, nella storia d’Italia, c’era stata un’ascesa politica più rapida. Fino al 2003 Debora Serracchiani di politica non si interessava, se non leggendo i giornali. Fino a cento giorni fa non era mai scesa a Roma per una riunione nazionale del suo partito, il Democratico.
Oggi, milioni di simpatizzanti sperano in questa 38enne romana-udinese per rinnovare il centrosinistra. In 144 mila l’hanno votata il 7 giugno, spedendola all’Europarlamento. «E in Friuli ho battuto anche “papi”», scherza lei: settemila preferenze più del premier Silvio Berlusconi.
Incontriamo il fenomeno con frangetta a casa sua, nella periferia estrema di Udine. Una casetta comprata col mutuo assieme al compagno Riccardo, 40 anni, romano pure lui, impiegato in un’impresa di telecomunicazioni. Debora, che da quindici anni fa l’avvocatessa specializzata in cause di lavoro, ci accoglie nel giardinetto di fronte al canale Ledra. Poco più in là il palasport della Snaidero basket e lo stadio dell’Udinese calcio: «Da qui sentiamo gratis i concerti: ottimi quelli di Vasco Rossi e Red Hot Chili Pepper, ora aspettiamo i Coldplay a fine agosto».
Debora ha appena scritto un libro: Il coraggio che manca (ed. Rizzoli). Sottotitolo: A un cittadino deluso dalla politica. Racconta le incredibili dieci settimane fra il suo primo discorso del 21 marzo a Roma e il trionfo alle Europee. Il giorno dell’equinozio primaverile 2009 «è stato forse il momento più basso nella storia della sinistra italiana». Il segretario del Pd Walter Veltroni si era dimesso. Sul tavolo del successore Dario Franceschini i sondaggi davano il partito al 20 per cento. Un disastro per gli eredi di Dc e Pci, attestati al 70 per cento per mezzo secolo.
La Serracchiani, con un discorso di pochi minuti, è riuscita a galvanizzare il pubblico democratico. Era arrivata in corriera di notte da Udine assieme ai colleghi di base del Pd, non aveva dormito, era a disagio per la scarsa eleganza del proprio vestito rispetto ai dirigenti romani: «Pensavo a un incontro di partito, mi sono ritrovata in una convention». Eppure ha attirato l’attenzione di tutti i delusi dalla nomenklatura democratica, che l’hanno applaudita 35 volte. Dal giorno dopo, migliaia di e-mail e sms.
Ma chi è la Serracchiani, da dove viene?
«Sono nata nel 1970 a Roma, quartiere Casetta Mattei, zona Portuense. Mio padre era impiegato Alitalia, mia madre ha smesso di lavorare quand’è nato mio fratello Emiliano. Scuola dalle suore fino alla terza media. Poi istituto tecnico commerciale, perché non volevo andare all’università: ragioneria con lingue, inglese e francese. Ci ho aggiunto lo spagnolo. Fino a 18 anni ho giocato a tennis a livello agonistico. Ma le ore d’allenamento erano troppe: entrata all’università, non ho più toccato la racchetta per dieci anni. Laureata in legge nel ‘94 con 110 e lode, tesi di diritto commerciale su una direttiva europea per le srl”.
E nel tempo libero?
«Musica: Bruce Sprigsteen, Zero Assoluto, Elisa. Libri: Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, l’ho letto dieci volte, anche in inglese. E i legal thriller di Grisham. Cinema: Il marchese del Grillo con Alberto Sordi, grandi dialoghi e senso civico».
Ha visto il film Mister Smith va a Washington di Frank Capra?
«No».
È proprio la sua storia: James Stewart, idealista digiuno di politica, viene eletto deputato.
«E poi?»
Non le rovino la sorpresa del finale. Ci dica lei piuttosto: com’è finita a Udine, e per di più in via Sondrio? Più a nord di così...
«Ricordo ancora il giorno del trasloco: 3 gennaio ‘95. Un freddo incredibile. Ho seguito Riccardo, che aveva trovato lavoro qui».
Lo ha trovato subito anche lei.
«Sì, lo studio Businello mi ha fatto fare il praticantato. Mi sono specializzata in cause di lavoro».
A proposito di lavoro. All’ultimo incontro nazionale del Pd, nel Lingotto di Torino domenica scorsa, lei ha affrontato un totem e tabù della sinistra: l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Che secondo alcuni tutela un po’ troppo i dipendenti, rendendoli quasi illicenziabili.
«Ho posto il problema, più in generale, sul mondo del lavoro. Il Pd deve dire chiaramente cosa pensa su alcuni temi fondamentali. Oggi purtroppo c’è troppa differenza fra lavoratori garantiti e precari. Anche per una questione di tempi: le cause di lavoro sono lunghissime».
Stia attenta: a sinistra chi tocca i fili (l’articolo 18) muore.
«La risposta è: migliorare gli ammortizzatori sociali. Che non devono proteggere settori improduttivi, ma accompagnare chi perde il posto a un nuovo lavoro».
L’avvocato Businello, prima suo principale e poi socio, mi ha parlato molto bene di lei. Dice che le sue grandi virtù, determinazione e capacità di lavoro, sono anche il suo unico difetto: qualche segretaria non rimpiange i suoi ritmi.
«Sono esigente soprattutto cone me stessa. Al sabato mattina lavoro. E anche in agosto, quando c’è più tempo e tranquillità per smaltire il lavoro arretrato».
Povero Riccardo.
«Ma no, anche a lui piace andare in vacanza a giugno o a fine estate, fuori dalla ressa».
Dove?
«Isole greche».
E i week-end azzoppati?
«Passiamo le domeniche pomeriggio qui sul divano a vedere le partite della Roma in tv».
Su Sky?
«Macché: digitale terrestre Mediaset. Pagando Berlusconi. Me ne vergogno...»
Non vi sposate?
«Non vogliamo svilire il matrimonio, istituto nel quale non crediamo fino in fondo, sposandoci solo per convenienza. Aspettiamo i Dico, i patti di convivenza».
Aspetta e spera. Anche nel Pd i cattolici fondamentalisti sembrano dettare la linea sulle questioni etiche.
«È ora di discutere, rispettando la sensibilità di tutti, ma prendendo una decisione. Magari lasciando a casa qualcuno. Anche perché nel 2020 le nuove convivenze in Italia supereranno i matrimoni».
Nel suo primo e ormai famoso discorso lei si è presentata così: «Vengo dalla città che ha accolto Eluana Englaro».
«Certo. Sono questioni di civiltà. Sto con Ignazio Marino, il medico cattolico fautore del testamento biologico».
E nel libro maltratta Francesco Rutelli.
«Ricandidarlo sindaco a Roma dopo quindici anni è stato un disastro. Ci voleva un volto nuovo. Abbiamo regalato la capitale alla destra».
Quattro a Rutelli, cinque a D’Alema e Di Pietro, sei a Franceschini, sei più a Veltroni: questa è la severa pagella Serracchiani ai capi del centrosinistra.
«Veramente secondo me Di Pietro non ha nulla a che fare col centrosinistra: nel suo partito personale ha riciclato di tutto».
Visto il voto a D’Alema, inutile chiederle se appoggerà il suo candidato Pierluigi Bersani al congresso d’autunno, contro Franceschini.
«Ci vogliono facce nuove».
«A destra sono capaci di tutto, a sinistra sono buoni a nulla»: all’inizio del libro lei cita questa tremenda frase di Marco Pannella contro i politici italiani. La condivide?
«Dobbiamo fare di tutto per smentirlo».
Mauro Suttora
Wednesday, July 01, 2009
Roberto Formigoni in yacht con Alicia
FORMIGONI NON BALLA DA SOLO
IL GOVERNATORE DELLA LOMBARDIA SCATENATO A CAPRERA
Tre anni fa lo avevamo «beccato» con una bella spagnola. Ora il casto Roberto ci ricasca. È solo un' amica, come giura lui, o qualcosa di più?
di Mauro Suttora
Porto Cervo, 1 luglio 2009
Sembra un po' Gei Ar del serial tv Dallas, il governatore della Lombardia, con quel cappello bianco da cow boy. Invece Roberto Formigoni, 62 anni, non si trova in Texas. Sta trascorrendo un simpatico weekend di relax all' isola di Caprera, a bordo dello yacht Ad Maiora.
La Sardegna avrà anche perso il vertice G8, che si doveva tenere dall' 8 luglio alla Madda lena ed è stato spostato all' Aquila, ma i vip sulle megabarche fioccano come sempre. Formigoni era col fratello, la cognata e altri amici. E ha dimostrato una predilezione per una bella signora che, si sussurra in Costa Smeralda, si chiama Alicia, età 32 anni, spagnola, professione pubbliche relazioni nel ramo gioielli, residenze fra Barcellona, Parigi e Londra.
Già tre anni fa i nostri fotografi avevano «pizzicato» la coppia al mare. Questa volta Formigoni, di ottimo umore, improvvisa una danza con la caliente spagnola. E Alicia si lascia trasportare dall'entusiasmo del governatore, accennando pure lei un paso doble sul ponte del megayacht. Poi in quattro si avventurano sul gommone-tender per un'escursione. Ma sfortunatamente l'imbarcazione impatta su uno scoglio, e così Formigoni & company devono chiamare l'equipaggio per farsi recuperare.
Archiviata la relazione con Emanuela Talenti, con la quale comunque ogni tanto è avvistato a cena nel ristorante Gatto Nero di Rovenna, sopra Cernobbio (Como), il governatore non disdegna le amicizie femminili.
Fa sempre parte del gruppo Memores Domini, che all' interno di Comunione e Liberazione pratica una vita di preghiera, povertà e castità. Anche Alicia farebbe parte del gruppo. Ma ciò non impedisce a entrambi di frequentare, ridere e scherzare con esponenti del sesso opposto.
MIRA A RUOLI NAZIONALI
L'anno prossimo si voterà per le regionali, e Formigoni è dato vincente per la quarta volta consecutiva in Lombardia. Un record. Ma non è un mistero che il governatore miri da anni a più prestigiosi incarichi di livello nazionale. Silvio Berlusconi, però, finora non ha assecondato questa sua ambizione.
Tre mesi fa il suo ex collaboratore Marco De Petro è stato condannato a due anni di carcere per corruzione (tangente da un milione di dollari) nello scandalo Oil for Food sulle vendite di petrolio iracheno. Ma Formigoni non è stato toccato dall' inchiesta.
Mauro Suttora
IL GOVERNATORE DELLA LOMBARDIA SCATENATO A CAPRERA
Tre anni fa lo avevamo «beccato» con una bella spagnola. Ora il casto Roberto ci ricasca. È solo un' amica, come giura lui, o qualcosa di più?
di Mauro Suttora
Porto Cervo, 1 luglio 2009
Sembra un po' Gei Ar del serial tv Dallas, il governatore della Lombardia, con quel cappello bianco da cow boy. Invece Roberto Formigoni, 62 anni, non si trova in Texas. Sta trascorrendo un simpatico weekend di relax all' isola di Caprera, a bordo dello yacht Ad Maiora.
La Sardegna avrà anche perso il vertice G8, che si doveva tenere dall' 8 luglio alla Madda lena ed è stato spostato all' Aquila, ma i vip sulle megabarche fioccano come sempre. Formigoni era col fratello, la cognata e altri amici. E ha dimostrato una predilezione per una bella signora che, si sussurra in Costa Smeralda, si chiama Alicia, età 32 anni, spagnola, professione pubbliche relazioni nel ramo gioielli, residenze fra Barcellona, Parigi e Londra.
Già tre anni fa i nostri fotografi avevano «pizzicato» la coppia al mare. Questa volta Formigoni, di ottimo umore, improvvisa una danza con la caliente spagnola. E Alicia si lascia trasportare dall'entusiasmo del governatore, accennando pure lei un paso doble sul ponte del megayacht. Poi in quattro si avventurano sul gommone-tender per un'escursione. Ma sfortunatamente l'imbarcazione impatta su uno scoglio, e così Formigoni & company devono chiamare l'equipaggio per farsi recuperare.
Archiviata la relazione con Emanuela Talenti, con la quale comunque ogni tanto è avvistato a cena nel ristorante Gatto Nero di Rovenna, sopra Cernobbio (Como), il governatore non disdegna le amicizie femminili.
Fa sempre parte del gruppo Memores Domini, che all' interno di Comunione e Liberazione pratica una vita di preghiera, povertà e castità. Anche Alicia farebbe parte del gruppo. Ma ciò non impedisce a entrambi di frequentare, ridere e scherzare con esponenti del sesso opposto.
MIRA A RUOLI NAZIONALI
L'anno prossimo si voterà per le regionali, e Formigoni è dato vincente per la quarta volta consecutiva in Lombardia. Un record. Ma non è un mistero che il governatore miri da anni a più prestigiosi incarichi di livello nazionale. Silvio Berlusconi, però, finora non ha assecondato questa sua ambizione.
Tre mesi fa il suo ex collaboratore Marco De Petro è stato condannato a due anni di carcere per corruzione (tangente da un milione di dollari) nello scandalo Oil for Food sulle vendite di petrolio iracheno. Ma Formigoni non è stato toccato dall' inchiesta.
Mauro Suttora
Wednesday, June 24, 2009
Francesca Balzani, eurodeputata
Oggi, 24 giugno 2009
Francesca Balzani, 43 anni, di Genova, avvocata dello studio Uckmar, sposata, due figli. È stata eletta eurodeputata Pd per il Nordovest. Non ha mai fatto politica fino a due anni fa, quando il sindaco di Genova Marta Vincenzi l'ha scelta come assessore al Bilancio.
Il nostro giornale (il settimanale Oggi) l'ha "adottata" al posto di Rosaria Capacchione, che non ce l'ha fatta ad arrivare a Bruxelles. Gli eurodeputati adottati, uno per partito, si sono impegnati a partecipare a tempo pieno ai lavori ell'Europarlamento, a diminuirne gli sprechi e a farlo funzionare meglio. Nei prossimi cinque anni li controlleremo, e loro sranno le nostre "spie" a Bruxelles, raccontandoci che cosa succede in Europa.
Mauro Suttora
Francesca Balzani, 43 anni, di Genova, avvocata dello studio Uckmar, sposata, due figli. È stata eletta eurodeputata Pd per il Nordovest. Non ha mai fatto politica fino a due anni fa, quando il sindaco di Genova Marta Vincenzi l'ha scelta come assessore al Bilancio.
Il nostro giornale (il settimanale Oggi) l'ha "adottata" al posto di Rosaria Capacchione, che non ce l'ha fatta ad arrivare a Bruxelles. Gli eurodeputati adottati, uno per partito, si sono impegnati a partecipare a tempo pieno ai lavori ell'Europarlamento, a diminuirne gli sprechi e a farlo funzionare meglio. Nei prossimi cinque anni li controlleremo, e loro sranno le nostre "spie" a Bruxelles, raccontandoci che cosa succede in Europa.
Mauro Suttora
Roberto Giovalli picchiato a Formentera
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 15 giugno 2009
«Come sta, Giovalli?»
«Ho visto tempi migliori».
Secondo piano dell'ospedale di Ibiza. Roberto Giovalli parla a fatica, ma non ha perso il senso dell'humour. Lo hanno massacrato di botte nella sua isola di Formentera. È intubato. Occhi gonfi, viso irriconoscibile.
«Tornavo a casa da solo in auto verso l'una di notte. Erano in quattro. Ho avuto solo il tempo di scorgerne uno. Parlava spagnolo. Mi ha colpito in testa con un bastone grosso così. Poi mi hanno legato le mani con un filo della luce strappato all'entrata. Mi hanno avvolto la testa in un paio di miei pantaloni trovati in cortile. E hanno cominciato a colpirmi, in silenzio. Dappertutto: in faccia, sulla testa, sul corpo...»
Arriva un'infermiera, gli dà un aggeggio in cui deve soffiare e fare alzare una pallina. Serve per controllare i polmoni. Ha avuto un versamento, costole incrinate.
Questo 52enne piemontese, poco conosciuto al grande pubblico, è un monumento della tv italiana. Un quarto di secolo fa era accanto a Silvio Berlusconi. Le sue invenzioni geniali fecero decollare Italia Uno. Negli anni '90 mollò tutto ed emigrò a Formentera. Nel 2001 tornò in Italia per trasformare La Sette in un canale da 7-10 per cento: il terzo polo fra Rai e Mediaset, con Gad Lerner, Fabio Fazio e Luciana Littizzetto. La politica lo impedì.
Così Giovalli, intascati sette miliardi di liquidazione, è tornato nel suo paradiso terrestre. Dove legge, guarda film, macina decine di chilometri di footing. Ogni tanto qualcuno dall'Italia gli propone qualcosa (la presidenza di Federbasket), Berlusconi continua a corteggiarlo. Lui gentilmente rifiuta. Un intellettuale. Un originale. «Il Guru», lo hanno soprannominato i (tanti) amici di Formentera.
E adesso, il paradiso che per lui improvvisamente diventa inferno. Rapina? Giovalli teneva la porta di casa aperta tutto il giorno. Gli hanno rubato il portafogli, ma dentro non sono entrati. Messaggio mafioso, vendetta, regolamento di conti? Giovalli non ha mai avuto proprietà o iniziative economiche da queste parti. Dopo vent'anni è ancora in affitto. «Assieme ad altri aveva aperto un chiringuito, il 10,7 (l'altezza in chilometri dell'unica strada di Formentera), ma lo hanno subito rivenduto», ci dicono gli amici spagnoli e italiani al ristorante Sa Sargantana.
Mistero. Nessuno sembra voler male al mite Guru, qui sull'isola. «I picchiatori sono venuti da fuori», dice la Guardia Civil. Probabilmente sono scappati in motoscafo subito dopo la spedizione punitiva. Difficile e rischioso che si siano mescolati ai turisti dell’unico traghetto per Ibiza. O che abbiano pernottato nella piccola Formentera, dove gli alberghi si contano sulle dita di una mano. Forse erano qui da giorni, lo pedinavano.
Giovalli è un solitario, ma sempre circondato da amici. Quella era una delle poche sere in cui è rincasato da solo. Aveva una coppia di ospiti italiani in una dépendance a pochi metri da casa. Ma quando sono rientrati loro, più tardi, non si sono accorti di nulla. Li ha svegliati la Guardia Civil alle tre. Nel frattempo Giovalli, grondante sangue, era riuscito a slegarsi, a trascinarsi fino all’auto e a guidare verso la strada principale, dove ha chiesto aiuto.
Quindi gli aggressori venivano da fuori. Ma quanto fuori? Dalla rutilante Ibiza (le isole sono praticamente attaccate, mezz'ora di traversata), dalla Spagna, dall'Italia? Qual era il messaggio del commando? «Volevano ucciderlo», dice l'amico più allarmista, «se fosse stato solo un avvertimento avrebbero mirato a gambe e braccia. È stato molto fortunato. Lo ha salvato il suo fisicaccio compatto».
Formentera è già affollata in giugno. Dietro a Giovalli molti vip italiani l'hanno scoperta: Carlo Sama (ex impero Ferruzzi-Gardini), Cristina Parodi e Giorgio Gori, Rosita Celentano, Bonolis, qualche calciatore. Negli ultimi dieci anni sempre più italiani, sempre meno tedeschi. Ma la tranquillità di ex riserva hippy è rimasta. L’isola è il contrario della Costa Smeralda e della Costa Brava. Il massimo del glamour è un aperitivo al tramonto sulla spiaggia Tiburon. E il massimo trofeo dei paparazzi è stato proprio Giovalli nudista sulla sabbia.
Da un anno il Guru ha anche smesso di fare lo scapolo ad oltranza. Sta con la minuta Erika, ex compagna di Renzo Rosso, padrone della Diesel. Ma, pure qui, con discrezione: mai stato a casa di lei, mai incontrati i tre figli avuti da lei con l'ex.
Mistero. «Ho presentato denuncia contro ignoti», mormora sconsolato Giovalli.
Mauro Suttora
Oggi, 15 giugno 2009
«Come sta, Giovalli?»
«Ho visto tempi migliori».
Secondo piano dell'ospedale di Ibiza. Roberto Giovalli parla a fatica, ma non ha perso il senso dell'humour. Lo hanno massacrato di botte nella sua isola di Formentera. È intubato. Occhi gonfi, viso irriconoscibile.
«Tornavo a casa da solo in auto verso l'una di notte. Erano in quattro. Ho avuto solo il tempo di scorgerne uno. Parlava spagnolo. Mi ha colpito in testa con un bastone grosso così. Poi mi hanno legato le mani con un filo della luce strappato all'entrata. Mi hanno avvolto la testa in un paio di miei pantaloni trovati in cortile. E hanno cominciato a colpirmi, in silenzio. Dappertutto: in faccia, sulla testa, sul corpo...»
Arriva un'infermiera, gli dà un aggeggio in cui deve soffiare e fare alzare una pallina. Serve per controllare i polmoni. Ha avuto un versamento, costole incrinate.
Questo 52enne piemontese, poco conosciuto al grande pubblico, è un monumento della tv italiana. Un quarto di secolo fa era accanto a Silvio Berlusconi. Le sue invenzioni geniali fecero decollare Italia Uno. Negli anni '90 mollò tutto ed emigrò a Formentera. Nel 2001 tornò in Italia per trasformare La Sette in un canale da 7-10 per cento: il terzo polo fra Rai e Mediaset, con Gad Lerner, Fabio Fazio e Luciana Littizzetto. La politica lo impedì.
Così Giovalli, intascati sette miliardi di liquidazione, è tornato nel suo paradiso terrestre. Dove legge, guarda film, macina decine di chilometri di footing. Ogni tanto qualcuno dall'Italia gli propone qualcosa (la presidenza di Federbasket), Berlusconi continua a corteggiarlo. Lui gentilmente rifiuta. Un intellettuale. Un originale. «Il Guru», lo hanno soprannominato i (tanti) amici di Formentera.
E adesso, il paradiso che per lui improvvisamente diventa inferno. Rapina? Giovalli teneva la porta di casa aperta tutto il giorno. Gli hanno rubato il portafogli, ma dentro non sono entrati. Messaggio mafioso, vendetta, regolamento di conti? Giovalli non ha mai avuto proprietà o iniziative economiche da queste parti. Dopo vent'anni è ancora in affitto. «Assieme ad altri aveva aperto un chiringuito, il 10,7 (l'altezza in chilometri dell'unica strada di Formentera), ma lo hanno subito rivenduto», ci dicono gli amici spagnoli e italiani al ristorante Sa Sargantana.
Mistero. Nessuno sembra voler male al mite Guru, qui sull'isola. «I picchiatori sono venuti da fuori», dice la Guardia Civil. Probabilmente sono scappati in motoscafo subito dopo la spedizione punitiva. Difficile e rischioso che si siano mescolati ai turisti dell’unico traghetto per Ibiza. O che abbiano pernottato nella piccola Formentera, dove gli alberghi si contano sulle dita di una mano. Forse erano qui da giorni, lo pedinavano.
Giovalli è un solitario, ma sempre circondato da amici. Quella era una delle poche sere in cui è rincasato da solo. Aveva una coppia di ospiti italiani in una dépendance a pochi metri da casa. Ma quando sono rientrati loro, più tardi, non si sono accorti di nulla. Li ha svegliati la Guardia Civil alle tre. Nel frattempo Giovalli, grondante sangue, era riuscito a slegarsi, a trascinarsi fino all’auto e a guidare verso la strada principale, dove ha chiesto aiuto.
Quindi gli aggressori venivano da fuori. Ma quanto fuori? Dalla rutilante Ibiza (le isole sono praticamente attaccate, mezz'ora di traversata), dalla Spagna, dall'Italia? Qual era il messaggio del commando? «Volevano ucciderlo», dice l'amico più allarmista, «se fosse stato solo un avvertimento avrebbero mirato a gambe e braccia. È stato molto fortunato. Lo ha salvato il suo fisicaccio compatto».
Formentera è già affollata in giugno. Dietro a Giovalli molti vip italiani l'hanno scoperta: Carlo Sama (ex impero Ferruzzi-Gardini), Cristina Parodi e Giorgio Gori, Rosita Celentano, Bonolis, qualche calciatore. Negli ultimi dieci anni sempre più italiani, sempre meno tedeschi. Ma la tranquillità di ex riserva hippy è rimasta. L’isola è il contrario della Costa Smeralda e della Costa Brava. Il massimo del glamour è un aperitivo al tramonto sulla spiaggia Tiburon. E il massimo trofeo dei paparazzi è stato proprio Giovalli nudista sulla sabbia.
Da un anno il Guru ha anche smesso di fare lo scapolo ad oltranza. Sta con la minuta Erika, ex compagna di Renzo Rosso, padrone della Diesel. Ma, pure qui, con discrezione: mai stato a casa di lei, mai incontrati i tre figli avuti da lei con l'ex.
Mistero. «Ho presentato denuncia contro ignoti», mormora sconsolato Giovalli.
Mauro Suttora
Anna Maria Corazza eurodeputata
Amore e parmigiano: così ho conquistato la Svezia
PROTAGONISTE E SORPRESE DELLE ELEZIONI
Emiliana purosangue, è famosa a Stoccolma per il suo sito gastronomico e un marito importante. E ora si è fatta eleggere all' Europarlamento
di Mauro Suttora
Oggi, 24 giugno 2009
Abbiamo un'altra Carla Bruni in Europa . Un'altra donna italiana che ha sposato un importante uomo politico straniero, ed è diventata un personaggio nel suo nuovo Paese. Ma Anna Maria Corazza, 45 anni, ora ha perfino superato Carlà Sarkozy di Francia: ha infatti trionfato alle elezioni europee in Svezia, salendo dall' ottavo posto in lista del suo partito al secondo posto fra gli eletti. Da undici anni la signora Corazza è moglie di Carl Bildt, uno dei principali politici svedesi: ex premier, capo del Partito moderato (26 per cento dei voti, fa parte dei popolari europei), prestigiosi incarichi internazionali, e dal 2006 ministro degli Esteri. Oggi Bildt è una delle «tre B» in corsa per i massimi incarichi dell'Unione europea, con Tony Blair e José Manuel Barroso.
L' INCONTRO IN JUGOSLAVIA
Galeotta fu la ex Jugoslavia. Che negli anni Novanta non era proprio uno dei posti più romantici del mondo: guerre dappertutto, dalla Slovenia alla Croazia, dalla Bosnia al Kosovo. Ma è lì che Anna Maria, allora funzionaria Onu, incontrò nel 1996 Bildt per ragioni di lavoro. Allora lui era Alto rappresentante dell' Unione europea in Bosnia, la prima grande missione di pace gestita dalla Ue. La signora Corazza, nata a Roma, è emiliana purosangue: la sua famiglia era proprietaria delle terme di Tabiano, vicino a quelle di Salsomaggiore, e lì conserva un castello trasformato in hotel de charme. Dopo la laurea in Scienze politiche a Roma è andata a specializzarsi in California e alla Columbia University di New York.
«Poi ho lavorato alla Cooperazione col ministero degli Esteri italiano, all'Ocse, all'Unesco e alla Banca mondiale», ci dice. Infine l'Onu: prima al Commissariato dei rifugiati a Ginevra, poi dal 1992 nell'inferno della ex Jugoslavia: due anni in Serbia, due anni in Croazia e due anni in Bosnia. Nella Sarajevo crivellata dai colpi dei cecchini l'ambasciatore italiano Michele Valensise celebrò il matrimonio. Poi, la vita tranquilla di Stoccolma. Anche troppo, per l'intraprendente Anna Maria. Che mette su un sito Internet ( www.italiantradition.com ) per pubblicizzare i prodotti italiani. Innanzitutto quelli della sua Parma: il grana e il prosciutto. Nel 2002 scrive un libro, Da Parma con amore, che diventa un best seller in Svezia. Le affibbiano il soprannome «signora Parmigiano». «La mia famiglia aveva un'azienda agricola, sono cresciuta andando a prendere il latte in fattoria per portarlo al caseificio. E poi le mucche, i maiali...». Al figlio della signora Corazza, Gustav, 5 anni, è venuta una strana allergia: alle arachidi. E allora lei si è messa a studiare le etichette dei cibi per scopri re qual i componenti possono essere dannosi. «Il cibo è collegato alle quattro principali malattie dei tempi moderni: tumori, infarti, diabete e obesità. Di questo voglio occuparmi a Bruxelles», annuncia battagliera.
La campagna elettorale non è stata una passeggiata. «Ovviamente tutti i miei avversari, sia all'interno del partito sia all' esterno, mi hanno subito bollata come "la moglie del ministro". E essere raccomandati in Svezia, contrariamente a quanto accade troppo spesso in Italia, è peccato mortale. Qui c'è democrazia di base. Per questo ho dovuto sudare il doppio. Ma ce l'ho fatta». Le dispiace che Emma Bonino non sia più eurodeputata: «L' avevo conosciuta quand' era commissaria ai diritti umani della Ue, negli anni Novanta. Allora era l'unica a battersi per le donne oppresse dai talebani a Kabul, e ho cercato di aiutarla». Due mesi fa ha accompagnato i reali svedesi nel loro viaggio a Roma. La rivedremo presto, e spesso.
Mauro Suttora
PROTAGONISTE E SORPRESE DELLE ELEZIONI
Emiliana purosangue, è famosa a Stoccolma per il suo sito gastronomico e un marito importante. E ora si è fatta eleggere all' Europarlamento
di Mauro Suttora
Oggi, 24 giugno 2009
Abbiamo un'altra Carla Bruni in Europa . Un'altra donna italiana che ha sposato un importante uomo politico straniero, ed è diventata un personaggio nel suo nuovo Paese. Ma Anna Maria Corazza, 45 anni, ora ha perfino superato Carlà Sarkozy di Francia: ha infatti trionfato alle elezioni europee in Svezia, salendo dall' ottavo posto in lista del suo partito al secondo posto fra gli eletti. Da undici anni la signora Corazza è moglie di Carl Bildt, uno dei principali politici svedesi: ex premier, capo del Partito moderato (26 per cento dei voti, fa parte dei popolari europei), prestigiosi incarichi internazionali, e dal 2006 ministro degli Esteri. Oggi Bildt è una delle «tre B» in corsa per i massimi incarichi dell'Unione europea, con Tony Blair e José Manuel Barroso.
L' INCONTRO IN JUGOSLAVIA
Galeotta fu la ex Jugoslavia. Che negli anni Novanta non era proprio uno dei posti più romantici del mondo: guerre dappertutto, dalla Slovenia alla Croazia, dalla Bosnia al Kosovo. Ma è lì che Anna Maria, allora funzionaria Onu, incontrò nel 1996 Bildt per ragioni di lavoro. Allora lui era Alto rappresentante dell' Unione europea in Bosnia, la prima grande missione di pace gestita dalla Ue. La signora Corazza, nata a Roma, è emiliana purosangue: la sua famiglia era proprietaria delle terme di Tabiano, vicino a quelle di Salsomaggiore, e lì conserva un castello trasformato in hotel de charme. Dopo la laurea in Scienze politiche a Roma è andata a specializzarsi in California e alla Columbia University di New York.
«Poi ho lavorato alla Cooperazione col ministero degli Esteri italiano, all'Ocse, all'Unesco e alla Banca mondiale», ci dice. Infine l'Onu: prima al Commissariato dei rifugiati a Ginevra, poi dal 1992 nell'inferno della ex Jugoslavia: due anni in Serbia, due anni in Croazia e due anni in Bosnia. Nella Sarajevo crivellata dai colpi dei cecchini l'ambasciatore italiano Michele Valensise celebrò il matrimonio. Poi, la vita tranquilla di Stoccolma. Anche troppo, per l'intraprendente Anna Maria. Che mette su un sito Internet ( www.italiantradition.com ) per pubblicizzare i prodotti italiani. Innanzitutto quelli della sua Parma: il grana e il prosciutto. Nel 2002 scrive un libro, Da Parma con amore, che diventa un best seller in Svezia. Le affibbiano il soprannome «signora Parmigiano». «La mia famiglia aveva un'azienda agricola, sono cresciuta andando a prendere il latte in fattoria per portarlo al caseificio. E poi le mucche, i maiali...». Al figlio della signora Corazza, Gustav, 5 anni, è venuta una strana allergia: alle arachidi. E allora lei si è messa a studiare le etichette dei cibi per scopri re qual i componenti possono essere dannosi. «Il cibo è collegato alle quattro principali malattie dei tempi moderni: tumori, infarti, diabete e obesità. Di questo voglio occuparmi a Bruxelles», annuncia battagliera.
La campagna elettorale non è stata una passeggiata. «Ovviamente tutti i miei avversari, sia all'interno del partito sia all' esterno, mi hanno subito bollata come "la moglie del ministro". E essere raccomandati in Svezia, contrariamente a quanto accade troppo spesso in Italia, è peccato mortale. Qui c'è democrazia di base. Per questo ho dovuto sudare il doppio. Ma ce l'ho fatta». Le dispiace che Emma Bonino non sia più eurodeputata: «L' avevo conosciuta quand' era commissaria ai diritti umani della Ue, negli anni Novanta. Allora era l'unica a battersi per le donne oppresse dai talebani a Kabul, e ho cercato di aiutarla». Due mesi fa ha accompagnato i reali svedesi nel loro viaggio a Roma. La rivedremo presto, e spesso.
Mauro Suttora
Rosaria Capacchione non eletta
Stop a donna coraggio, la camorra ringrazia
PROTAGONISTE E SORPRESE DELLE ELEZIONI
Rosaria Capacchione , «capolista» del Pd al Sud, sconfitta nel voto per Bruxelles
di Mauro Suttora
Oggi, 24 giugno 2009
Incredibile: la «capolista» del Partito democratico alle Europee nella circoscrizione meridionale, Rosaria Capacchione, 49 anni, non è stata eletta. I dirigenti le avevano offerto il secondo posto in lista, dietro all' ex ministro dell' Agricoltura Paolo De Castro. Lei, giornalista del quotidiano Il Mattino nella redazione di Caserta, aveva accettato. Non che tenesse particolarmente alla carriera politica. Era diventata famosa per i suoi articoli sulla camorra, come lo scrittore Roberto Saviano, autore di Gomorra . Il suo libro sui boss casalesi, L' oro della camorra, pubblicato lo scorso dicembre da Rizzoli, è alla terza edizione. E lei ha ottenuto 73 mila preferenze. Ma questo non le è valso uno dei quattro seggi a Bruxelles conquistati dal Pd nel Sud.
SUPERATA DAGLI ASSESSORI
È arrivata soltanto all' ottavo posto in classifica, superata non solo da De Castro che la precedeva e dall' eurodeputato uscente Pittella, ma da altri rodati politici locali, fra i quali alcuni assessori regionali alle Attività produttive. Cioè proprio il settore più appetito per i fondi europei che distribuisce. E che troppo spesso finisce nella cronaca nera, per le truffe perpetrate ai danni del bilancio comunitario. Naturalmente Rosaria è amareggiata, ma non vuole polemizzare: «Da lunedì sono tornata al mio lavoro a Caserta, e dovrò pagare 20 mila euro di debiti con la tipografia per i volantini. Tutti i ragazzi che hanno lavorato con me era no volontari, ed è stata un' esperienza entusiasmante. Per lottare contro la camorra non c' è bisogno di andare a Bruxelles. In Campania abbiamo avuto 60 mila voti. Però il Partito democratico non mi ha appoggiato come forse era nelle previsioni».
Rosaria, in effetti, era stata invitata a stare in testa alla lista dei candidati. Ma adesso la sensazione è che il suo nome sia stato usato come uno specchio per le allodole. Se il Partito democratico non è più in grado di fare eleggere un «capolista», esponendolo alla figuraccia della «trombatura», forse ha ragione Gustavo Zagrebelski. L' ex presidente della Corte costituzionale ha lanciato l'allarme: «Nel Partito democratico al Sud si è aperta una questione morale. Il partito è in mano a cacicchi locali». I cacicchi erano dei capipopolo dell' America Latina. «Purtroppo i cacicchi imperversano non solo al Sud», commenta sconsolato Nando dalla Chiesa, esponente di quella «società civile antimafia» di cui fa parte la Capacchione.
PROTAGONISTE E SORPRESE DELLE ELEZIONI
Rosaria Capacchione , «capolista» del Pd al Sud, sconfitta nel voto per Bruxelles
di Mauro Suttora
Oggi, 24 giugno 2009
Incredibile: la «capolista» del Partito democratico alle Europee nella circoscrizione meridionale, Rosaria Capacchione, 49 anni, non è stata eletta. I dirigenti le avevano offerto il secondo posto in lista, dietro all' ex ministro dell' Agricoltura Paolo De Castro. Lei, giornalista del quotidiano Il Mattino nella redazione di Caserta, aveva accettato. Non che tenesse particolarmente alla carriera politica. Era diventata famosa per i suoi articoli sulla camorra, come lo scrittore Roberto Saviano, autore di Gomorra . Il suo libro sui boss casalesi, L' oro della camorra, pubblicato lo scorso dicembre da Rizzoli, è alla terza edizione. E lei ha ottenuto 73 mila preferenze. Ma questo non le è valso uno dei quattro seggi a Bruxelles conquistati dal Pd nel Sud.
SUPERATA DAGLI ASSESSORI
È arrivata soltanto all' ottavo posto in classifica, superata non solo da De Castro che la precedeva e dall' eurodeputato uscente Pittella, ma da altri rodati politici locali, fra i quali alcuni assessori regionali alle Attività produttive. Cioè proprio il settore più appetito per i fondi europei che distribuisce. E che troppo spesso finisce nella cronaca nera, per le truffe perpetrate ai danni del bilancio comunitario. Naturalmente Rosaria è amareggiata, ma non vuole polemizzare: «Da lunedì sono tornata al mio lavoro a Caserta, e dovrò pagare 20 mila euro di debiti con la tipografia per i volantini. Tutti i ragazzi che hanno lavorato con me era no volontari, ed è stata un' esperienza entusiasmante. Per lottare contro la camorra non c' è bisogno di andare a Bruxelles. In Campania abbiamo avuto 60 mila voti. Però il Partito democratico non mi ha appoggiato come forse era nelle previsioni».
Rosaria, in effetti, era stata invitata a stare in testa alla lista dei candidati. Ma adesso la sensazione è che il suo nome sia stato usato come uno specchio per le allodole. Se il Partito democratico non è più in grado di fare eleggere un «capolista», esponendolo alla figuraccia della «trombatura», forse ha ragione Gustavo Zagrebelski. L' ex presidente della Corte costituzionale ha lanciato l'allarme: «Nel Partito democratico al Sud si è aperta una questione morale. Il partito è in mano a cacicchi locali». I cacicchi erano dei capipopolo dell' America Latina. «Purtroppo i cacicchi imperversano non solo al Sud», commenta sconsolato Nando dalla Chiesa, esponente di quella «società civile antimafia» di cui fa parte la Capacchione.
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