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Wednesday, October 11, 2017

Parla Bossi: indipendenza e autonomia



Dopo il referendum in Catalogna, quelli in Lombardia e Veneto

di Mauro Suttora

Oggi, 5 ottobre 2017

«La Catalogna è la locomotiva della Spagna. Come la Lombardia per l’Italia. Si assomigliano». Esattamente trent’anni fa Umberto Bossi divenne senatùr: fu eletto con lo 0,5% che la Lega Lombarda racimolò alle politiche 1987.

Oggi il suo sogno si realizza. Ma a Barcellona. Qui in Italia Bossi si trova in minoranza nel suo stesso partito: la Lega non vuole più l’indipendenza. Si accontenta dell’autonomia, e per ottenerla ha indetto referendum in Lombardia e Veneto (le regioni che governa) il prossimo 22 ottobre.

Il referendum catalano è stato subito dichiarato illegale dal governo spagnolo. Che ha fatto intervenire la polizia per chiudere una settantina dei duemila seggi elettorali. Alla fine il risultato è stato ambiguo: il 90 per cento ha detto sì all’indipendenza, però hanno votato solo quattro elettori su dieci. Così tutti hanno potuto cantare vittoria.

«Ma lo stato-nazione, in Spagna come in Italia, è in crisi», dice Bossi a Oggi. «Conosco la Catalogna. Madrid ha tradito le aspettative. Lo stato centrale trasforma le democrazie in monarchie. Tutti ora pensano che il problema sia l’Europa. Ma in realtà il problema è lo stato centrale».

Lo stato centrale in Spagna è guidato dal premier di centrodestra Mariano Rajoy. Che ha sempre disprezzato la minaccia di secessione di Barcellona. Anche nel giorno del referendum l’ha bollata come «una sceneggiata».

Partiti spagnoli uniti

Nessun partito nazionale - i socialisti, i “grillini” di sinistra Podemos, i radicali di centro Ciudadanos - appoggia gli indipendentisti catalani.
La frattura quindi non è politica, ma geografica. Le immagini dei vecchietti sanguinanti colpiti dai poliziotti spagnoli con proiettili di gomma ai seggi hanno fatto il giro del mondo. Quasi comica la Guardia Civil (i carabinieri spagnoli) che si scontra con i pompieri (bomberos) catalani e con i poliziotti locali, inerti e complici dei propri connazionali. Ma alla fine hanno votato per la secessione solo due dei sette milioni di abitanti della Catalogna.
     
La ferita però resta aperta. Bossi incolpa i magistrati spagnoli: «Si sono inventati perfino che il presidente catalano avrebbe rubato fondi allo stato. Anche a Milano mi hanno accusato di essere un ladro. Ma io ho lasciato la Lega con un bilancio attivo di 41 milioni di euro. Comunque la repressione non riesce mai a ottenere il suo scopo. Porta solo maggiore determinazione per ottenere l’obiettivo della Catalogna libera».

Libertà. Per Bossi si conquista solo con la secessione: «L’autonomia è il contrario dell’indipendenza. Ci danno un po’ di soldi solo per non farci andar via. Ma il nord si sta deindustrializzando, le aziende chiudono. Quindi per necessità anche noi indipendentisti ci accontentiamo dell’autonomia che vuole Salvini».

Cosa significa, in concreto? «Se la Lombardia avesse lo statuto speciale come Trentino, Friuli, Sicilia o Sardegna, recupereremmo la metà dei 57 miliardi annui di residuo fiscale che oggi lo stato trattiene. E l’economia ripartirebbe».

Ma è proprio l’accusa che gli spagnoli rivolgono ai catalani: la rivolta dei ricchi. «No, dei liberi», mormora il senatur.

Prima del referendum catalano del 1 ottobre pochi sapevano del voto in Lombardia e Veneto. Ora l’attenzione aumenta. Hanno votato per indire la consultazione elettorale il centrodestra (che governa le due regioni con i leghisti Roberto Maroni e Luca Zaia) e il M5s. Ma anche vari sindaci lombardo-veneti del Pd sono favorevoli.
Mauro Suttora


Wednesday, October 09, 2013

Maroni con la moglie a Roma


L'ex ministro dell'Interno, ora presidente della Lombardia e capo della Lega Nord, fotografato per la prima volta a spasso con la consorte per turismo nella capitale

Oggi, 2 ottobre 2013

di Mauro Suttora

Era uno dei segreti meglio custoditi d’Italia: la moglie di Roberto Maroni, già ministro dell’Interno, da sei mesi presidente della regione Lombardia e segretario della Lega Nord. Mai un’apparizione in pubblico assieme al marito, mai un’intervista o una dichiarazione.

La riservatezza è assoluta. Di lei si conosce soltanto il nome, Emilia Macchi, e la longevità del legame col suo Bobo. Si sono infatti conosciuti sui banchi del liceo classico Caroli di Varese nei primi anni Settanta. Lei era la figlia di uno dei fondatori dell’Aermacchi, storica fabbrica di aerei; lui figlio della buona borghesia di un paese della provincia, Lozza, ma estremista di sinistra e iscritto a Democrazia Proletaria fino all’età di 24 anni, quando incontra Umberto Bossi.

Lei è dirigente dell’Aermacchi
La signora Maroni gli ha dato tre figli: la primogenita Chelo, oggi 26enne, Filippo, 21, e Fabrizio, 16. E lavora come dirigente del personale nell’Aermacchi, che si è fusa con Alenia e fa parte del colosso Finmeccanica. È finita sui giornali soltanto l’anno scorso, quando il presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi è stato indagato per corruzione.

Contrariamente alla famiglia Bossi, la famiglia Maroni si è sempre tenuta lontano dalla politica. Da un quarto di secolo Bobo è il numero due della Lega, da vent’anni è a Roma come deputato e ministro, ma non risulta che Emilia fosse mai scesa a visitare il marito nella capitale. Lacuna colmata: ecco la coppia visitare le vie del centro come normali turisti, senza scorta. 

Per Maroni non sono tempi tranquilli. La Lega infatti è sempre attraversata da tensioni interne, e lui si appresta a lasciare la carica di segretario. Probabilmente a Matteo Salvini, visto che il sindaco di Verona Flavio Tosi è particolarmente inviso a Bossi.

Friday, December 07, 2012

Grillo: parlano gli antipartito del passato


di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012
Il Movimento 5 stelle non è il primo a voler «fare politica in modo pulito». Ecco l'opinione su Grillo dei leader dei movimenti «antisistema» degli ultimi 40 anni.  

MARIO CAPANNA (SESSANTOTTINI)
«Grillo mi è istintivamente simpatico, perché ci mette la faccia ed è molto documentato. Deve aver letto almeno due miei libri, sicuramente Coscienza globale. Ogni movimento allo stato nascente gode di un carisma temporaneo. Il problema è la durata. Durante la democrazia diretta assembleare del ’68 i leader dovevano meritarsi la loro qualifica giorno per giorno, nel confronto diretto con centinaia e migliaia di studenti. Oggi nella democrazia telematica manca il contatto diretto con i cuori e le menti. 
In rete circola una gran quantità di ciarpame. Casaleggio stesso dice che il web non è innocente, e teorizza il ruolo degli “influencer”. Grillo è sicuramente un “innovatore”: ora deve dimostrare di essere anche un “rinnovatore”. 
Lui unico controllore del marchio, lui che parla senza contraddittorio in rete e nei comizi: nel ’68 sarebbe stato inconcepibile, le assemblee erano luogo di confronto anche aspro, ma di dialogo. Oggi invece si rischia il solipsismo, si chiede solo di credere e aderire. Mi sorprende il modo in cui fa rispettare le regole del suo movimento, con diktat inappellabili».

MARCO PANNELLA (RADICALI)
«Il movimento grillino non è armato di esperienza. Siamo pronti a mettere a sua disposizione la nostra. Anche noi vogliamo un processo di Norimberga contro la partitocrazia degli ultimi 60 anni».
Marco Pannella vede Grillo adottare molte battaglie dei radicali, ma commettere errori come quello dei referendum contro i finanziamenti pubblici ai giornali del 2008: firme insufficienti, mezzo milione di sottoscrizioni al macero.
«Grillo sbaglia se rifiuta il dialogo, perché rischia di andare a sbattere politicamente e di subire la rivolta dei suoi stessi grillini. Se non passa da un piano monologante a dialogante, anche nell'online, con la sua scelta di impiccare tutto e tutti rischia di restarci lui, e di portare gli altri con sé. Senza soprattutto fare proposte, se non demagogiche e improvvisate, poco costruttive. 
Da Grillo attendo una politica che invece di centrare tutto sulla perversione degli avversari appoggi iniziative concrete, come facciamo noi da sempre. C'è il rischio che i candidati del Movimento 5 stelle riprendano il suo monologo perché sono stati formati a copiare con parole diverse le sue filippiche. Grillo ripete le stesse cose che i fascisti dicevano contro i parlamentari: tutti corrotti, tutti pezzi di m... Ma così non costruisce nulla».

GRAZIA FRANCESCATO (VERDI)
«Conosco Grillo da quando ero presidente del Wwf, e lui negli anni ’90 si avvicinava ai temi ecologisti. Il suo movimento nasce dalla voglia di buona politica. Io però non amo la mera protesta: slogan come “tutti a casa” o “tutti cretini e delinquenti” sono rozzi e sbagliati, ma soprattutto depistano dai veri problemi. Mi ricordano il Berlusconi “ghe pensi mi” di vent’anni fa. 
Noi verdi invece non volevamo capi carismatici, anche se avevamo personaggi di grande carisma come Alex Langer. Ma proprio lui ammoniva che il potere, il seggio elettivo, è come una centrale nucleare che emette radiazioni e rende dipendenti da piccoli e grandi privilegi. Per questo Michele Boato e molti altri praticarono la rotazione a metà mandato, dopo due anni e mezzo. Io stessa sono stata in Parlamento solo due anni, non ho il vitalizio e ho rifiutato il doppio incarico di presidente dei verdi (oggi sono in Sel). 
È importante che gli eletti abbiano un proprio lavoro al quale tornare: non devono essere costretti a dire sempre sì al capo per mancanza di alternative. Spero che dentro al M5S si sviluppi il senso critico: dalla protesta urlata occorre passare alla cultura della complessità. L’ecologia politica è nata 40 anni fa, ma vedo che i problemi sono sempre gli stessi».

GIANCARLO PAGLIARINI (LEGHISTI)
«Voterò Grillo: anche se sbaglia, non potrà fare peggio di tutti gli altri. A meno che non salti fuori qualcosa di veramente nuovo, come Oscar Giannino. Anche Umberto Ambrosoli, candidato del centrosinistra in Lombardia, non mi dispiace. Ma alcuni amici mi assicurano che nel Movimento 5 stelle ci sono ragazzi perbene e preparati che non hanno mai fatto politica, oltre a professionisti che lavorano. 
Come nella Lega Nord vent’anni fa. Io nel 1990 ero revisore dei conti in una multinazionale, stavo per emigrare in Nuova Zelanda. Mi avvicino alla Lega, e nel giro di quattro anni mi ritrovo ministro del Bilancio. E pensare che per la mia poltrona c’era gente che scalpitava da decenni e avrebbe ucciso la nonna… 
Sono rimasto in Parlamento fino al 2006, poi sono stato uno dei pochi a lasciare la Lega spontaneamente, senza venire espulso da Bossi. Ma nei movimenti di rottura come noi e il M5S sono necessari capi duri: chi fa il civile e l’educato non trova spazi nel monopolio della casta. Bossi era uno che scriveva sui muri e sui ponti. Leggo sempre il blog di Grillo, è fatto bene. Ma senza il federalismo neanche lui andrà da nessuna parte».
Mauro Suttora

Wednesday, October 14, 2009

Il film 'Barbarossa'

ALLA PRIMA DEL KOLOSSAL LEGHISTA CON L'EURODEPUTATO MARIO BORGHEZIO

di Mauro Suttora

Oggi, 3 ottobre 2009

«Il cinghiale è un simbolo celtico. E anche il bosco». Mario Borghezio si appassiona al film Barbarossa fin dalla prima scena. Federico di Svevia è a caccia in una foresta, ma caduto a terra rischia di essere sopraffatto da un cinghiale. Un Alberto da Giussano ragazzino lo salva con la sua faretra, e l’imperatore tedesco lo ringrazia regalandogli un pugnale.

Siamo alla prima del kolossal, in un cortile del castello Sforzesco a Milano. C’è tutto lo stato maggiore della Lega Nord. A due metri da noi, in prima fila, siedono il premier Silvio Berlusconi e il ministro Giulio Tremonti, accanto a Umberto Bossi e Roberto Maroni. Il film del regista Renzo Martinelli, prodotto dalla Rai, è costato 22 milioni.

«Roma era debole e malata anche ottocento anni fa», commenta Borghezio, quando sullo schermo appare un papa succube del Barbarossa. «Sempre luogo di intrallazzi». Gli intrallazzi per la verità non mancano anche fra i comuni lombardi. Alcuni (Pavia, Como, Cremona) parteggiano per l’imperatore contro Milano, Lodi ne chiede la completa distruzione. E anche nel Piemonte di Borghezio, il Monferrato ghibellino si contrappone ad Alessandria guelfa. «La madre dei collaborazionisti è sempre incinta», sussurra l’eurodeputato leghista.

Poi si vedono gli esattori imperiali che si fanno odiare estorcendo ai lombardi tasse del trenta per cento: «Il disprezzo per i cittadini, allora come oggi, passa attraverso imposte esose e persecuzione fiscale. Così nasce la richiesta di libertà».

I milanesi sono divisi fra i sottomessi al Barbarossa e chi, come Alberto da Giussano (Raz Degan), vuole ribellarsi: «C’è sempre chi rinuncia a combattere, ma la storia costringe a prendere decisioni. La libertà non la regala nessuno, bisogna lottare per conquistarla. Alcuni padani capiscono che sono in stato di schiavitù, ma altri si tirano indietro. Anche oggi abbondano i rinunciatari».

Barbarossa circonda Milano con il suo esercito: «Per fortuna adesso non siamo più assediati, però siamo sempre insidiati dai mille traffici del potere centralista romano», commenta Borghezio.

Rasa al suolo la capitale lombarda nel 1162, Federico ne disperde gli abitanti sopravvissuti in sei direzioni diverse: «Roma da sempre vince e divide, ci mette gli uni contro gli altri. Solo la divisione fra padani consente al padrone di comandare».

Cominciano le prime riunioni segrete a Pontida: «Sembrano i primi incontri della Lega, ai tempi del secessionismo. Anche noi avevamo paura di essere ascoltati dal nemico. E quel Barozzi, emissario imperiale, i ricorda certi prefetti, simboli del governo centrale».

Per Borghezio, insomma, la lotta per l’autonomia è uguale oggi come nel dodicesimo secolo. Le somiglianze fra la Lega lombarda di allora e quella odierna sono tante: «La rapina fiscale è uguale, ma allora come ora ci sono i risvegliatori di popoli: Alberto da Giussano, Umberto Bossi. E il Carroccio resta il nostro simbolo primordiale».

Arriva la riscossa finale con la battaglia di Legnano, 1176: il Barbarossa si ritira in Germania dopo la vittoria dei lombardi. Che prevalgono anche grazie all’invenzione dei carri dotati di falci, che sterminano i cavalieri tedeschi: «La grande risorsa del fai da te padano...», commenta soddisfatto Borghezio. Che alla fine del film si alza e si mette in fila dietro a Bossi verso il catering.

Anche i leghisti ora hanno il loro Braveheart. E non dovranno più applaudire il Mel Gibson eroe medievale della Scozia indipendente. Unica concessione: per venderlo all’estero, il film ha dovuto essere intitolato al Barbarossa. Ma il vero protagonista si chiama Alberto/Umberto.

Mauro Suttora

Thursday, May 20, 1999

Elezione del nuovo presidente Ciampi

CIAMPI IN PILLOLE

di Mauro Suttora

Oggi, 20 maggio 1999

MOGLIE
Franca Pilla, 74 anni, di Reggio Emilia, simpatica, estroversa, decisa, ironica, laureata in Lettere moderne, figlia del cassiere molisano della Banca d’Italia prima a Reggio Emilia e poi a Livorno: «È meno noiosa di suo marito», ha detto Pierferdinando Casini a Porta a porta, scusandosi poi per la gaffe. 53 anni di matrimonio (1946), ha conosciuto Carlo Azeglio all’università di Pisa durante la guerra.

È stata lei a indirizzarlo verso l’economia spingendolo a tentare il concorso per la Banca d’Italia, vinto nel ‘46. Si fa confezionare gli abiti nella sartoria romana di Eurilla Gismondi, la stessa di Natalia Ginzburg, Nilde Iotti, Rosetta Loy.
«A mia moglie lei sta molto simpatico», disse Ciampi a Umberto Bossi.
Unica litigata memorabile: «Lo fece novo» (come dicono a Livorno), quando scoprì in ritardo che il marito aveva rinunciato allo stipendio di 400 milioni annui come governatore della Banca d’Italia, accontentandosi dei 160 milioni della pensione.

Si sveglia alle sei e mezzo e legge subito i giornali, proponendo la prima rassegna stampa al marito. Ogni giorno la coppia legge cinque quotidiani: Corriere della Sera, Repubblica, Messaggero, Stampa e Sole. Detesta stare ai fornelli e delega le incombenze di cucina alla donna di servizio emiliana, la vecchia «tata» che è ormai una di famiglia. 
Parla perfettamente l’inglese, come il marito, che quando era alla Banca d’Italia accompagnava spesso nei viaggi all’estero (molto meno dopo che divenne presidente del Consiglio, nel ‘93-’94).

FIGLI
Gabriella, coniugata Giordano, ha la cattedra di Storia italiana contemporanea presso la Facoltà di conservazione dei beni culturali all’università della Tuscia a Viterbo. È la sua consigliere politica più fidata e ascoltata. 
«Però perfino lei, che di politica ne capisce e spesso ci prende, sosteneva che non sarei stato eletto», ha confidato Ciampi a Bruno Tabacci del Ccd.  Per anni ha insegnato in un’università della Campania, e il padre si è sempre rifiutato di raccomandarla per farla trasferire a Roma, dove vive. 
«Con i miei figli non ci sono remore formali: parliamo molto, con grande libertà di espressione e di linguaggio, senza alcuna paura delle parole».

Claudio, dirigente della Bnl (Banca nazionale del lavoro), dal 1997 è amministratore delegato di Credifarma, una società partecipata della Bnl specializzata nella fattorizzazione dei crediti vantati dalle farmacie nei confronti del Servizio sanitario nazionale.
Appassionato di bridge. A Santa Severa ha una casa proprio di fronte a quella dei genitori, in una villa quadrifamiliare divisa con la sorella di Francesco Cossiga, Antonietta (che ospita spesso l’ex presidente), con un professore e con l’ex comandante dei carabinieri di Santa Severa in pensione.
Tre nipotine: due da Claudio (Margherita e Virginia) e una da Gabriella: Maria.
Il nipote Paolo, 41 anni, è il più giovane dei sei figli (in ordine d’età: Francesco, 57 anni, Laura, Pietro, Letizia, Giovanna e Paolo) dell’unico fratello Giuseppe, morto nel ‘98. Gestisce a Livorno il più antico negozio di ottica della città, fondato dal bisnonno Temistocle Azeglio Ciampi.

CASA A ROMA
130metri quadri nel quartiere Trieste-Salario, via Anapo 28, un attico con vista sul parco di villa Ada, tappezzato di quadri di post-macchiaioli di Livorno. Ci stanno dagli anni Sessanta, quando l’allora quarantenne Carlo Azeglio arrivò a Roma con la famiglia dalla filiale di Macerata, per lavorare all’ufficio studi della Banca d’Italia.

CASA A SANTA SEVERA
Ci va anche nei fine settimana invernali. È una villa nella zona più bella, più verde, più quieta e più vecchia, con le residenze fatte costruire negli anni Trenta dalla cooperativa «28 ottobre» (anniversario della Marcia su Roma) formata da gerarchi e alti papaveri del regime fascista.
Quando vuol fare bella figura con gli ospiti si fa portare a casa la cena direttamente dall’albergo Due pini: i due figli del proprietario si mettono la giacca bianca e servono a tavola.
Gioca a scopone scientifico in coppia con la moglie al circolo nautico di Santa Severa. Una volta, invitati alle isole Eolie dal loro grande amico Umberto Colombo, già presidente dell’Enea, vinsero un torneo di scopone.

SOLDI
Guadagna 76 milioni lordi al mese, la pensione della banca d’Italia. Investe i risparmi soltanto in titoli di Stato. «Non ho mai posseduto un’azione, non perché lo ritenga errato, ma fin da quando ero giovane ritenevo che non fosse appropriato per un dipendente della Banca d’Italia acquistare azioni».

Nonostante il suo reddito da 917 milioni annui, a Ciampi piace minimizzare, e ama addirittura definirsi «piccolo borghese»: «Il mio stile di vita è quello dell’agiatezza piccolo borghese. È una definizione che non mi infastidisce, perché la condizione di piccolo borghese è la forza dell’Italia. Da quando ho raggiunto una situazione professionale grazie alla quale non dovevo più aspettare con trepidazione il 27 del mese, il problema danaro per me si è chiuso. Se invece di avere un pattino possedessi una barca di 50 metri, avrei naturalmente esigenze diverse. Ma lo spirito della mia famiglia è così, molto semplice».
Mauro Suttora

Wednesday, January 12, 1994

Pannella svolta a destra

Oplà: Pannella fa un altro giro di valzer

Europeo, 12 gennaio 1994

E BRAVO MARCO CHE SORRIDE A DESTRA

Con Berlusconi e Bossi. Per rinviare le elezioni. E opporsi alla sinistra vincente. Dove vuole arrivare il leader radicale?

di Mauro Suttora

Un tempo la sua arma preferita era il digiuno. Ne ha fatti 16 per le cause più diverse: Cecoslovacchia invasa, divorzio, fame nel mondo. Oggi, invece, ha il telefonino. E alla fine, tempestato per giorni dalle sue chiamate, anche Silvio Berlusconi ha ceduto: è andato in piazza Duomo a Milano a a firmare per i suoi nuovi referendum, lo ha ricevuto nella propria villa di Arcore.

“Rieccolo”. Il soprannome che Fortebraccio aveva appioppato all’eterno Amintore Fanfani oggi si attaglia bene a Marco Pannella. In politica da 48 anni (la prima tessera, liberale, la prese quindicenne nel ‘45), sempre all’opposizione (tranne cento giorni nel ‘92 al Comune di Ostia), il leader radicale sembrava definitivamente tramontato.

Il colpo di grazia gliel’avevano dato le riunioni alle sette del mattino che aveva organizzato lo scorso maggio per difendere il Parlamento degli inquisiti. “Continuate ad essere irriconoscibili, scandalizzate, bestemmiate”: così Pier Paolo Pasolini esortò i radicali prima di morire, nel ‘75. Consiglio preso fin troppo alla lettera, in questi anni, da Pannella.

Invece, per l’ennesima volta, “il nostro Marco nazionale” (come lo chiama il suo peggior nemico, Eugenio Scalfari) è risorto. E’ lui, di nuovo, l’uomo del giorno, il protagonista di queste ultime settimane di vita politica. Il 12 gennaio la Camera è convocata per discutere la sua mozione di sfiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi: è riuscito a farla firmare a ben 150 deputati, quasi tutti della maggioranza.

Perché questa mossa? Il dibattito in Parlamento è un atto dovuto, come ritiene il presidente Oscar Luigi Scalfaro sempre rispettosissimo delle prerogative parlamentari, o è soltanto un espediente degli onorevoli indagati (“i carcerandi”, come li dileggia Gianfranco Miglio) per guadagnar tempo e rimandare ancora di un po’ le inevitabili elezioni?

E Pannella che fa? Di nuovo, forse solo per il gusto autolesionista di apparire al centro dell’attenzione, si mette alla testa del “partito degli inquisiti”, oppure la sua è una strategia lucida con precisi obiettivi?

“Ciampi deve scegliere da che parte stare”

“Pannella è soltanto uno specialista nell’intorbidare le acque, è un politichese fra i più consumati”, taglia corto Scalfari sulla prima pagina di Repubblica. E quasi accusa Scalfaro di essersi fatto plagiare dal capo radicale, visto che il presidente avrebbe potuto sciogliere le Camere già dal 20 dicembre.

Replica Pannella: “Anche votando a marzo, l’attuale governo resterebbe in carica fino a giugno. Ma Ciampi è ormai delegittimato: lui stesso ha dichiarato di aver esaurito il proprio compito dopo la riforma elettorale e la legge Finanziaria. E l’Italia non può certo permettersi di stare per mezzo anno senza un vero governo. Occorre quindi una nuova compagine, guidata dallo stesso Ciampi e con Mario Segni vicepresidente. Io mi propongo ministro degli Esteri”.

Questa è la spiegazione ufficiale, istituzionale. Ma c’è anche un secondo movente, squisitamente politico, nella mossa di Pannella. E’ lui stesso a confessarlo: “Ciampi deve scegliere: o sta con il Pds e il partito di Repubblica, o prende Segni e me. Così gli elettori potranno decidere subito fra due schieramenti”.

Figurarsi se quel vecchio volpone di Ciampi cadrà nella trappola di Marco. Il presidente del Consiglio sa che, se la sinistra vincerà, potrà continuare a stare al suo posto: Achille Occhetto gli ha già offerto quella poltrona. D’altra parte, Ciampi aveva già inserito ministri di area pidiessina in questo governo: soltanto l’assoluzione della Camera a Bettino Craxi provocò le loro immediate dimissioni.

Il terzo motivo, inconfessabile, della mozione Pannella, è infine quello di prender tempo. Non tanto per rinviare le elezioni (“Mi vanno bene ad aprile”), quanto per guadagnare giorni preziosi alla raccolta di firme sui suoi referendum. “Siamo a 100mila, più le 60mila che finora ha preso la Lega”, dicono al club Pannella a Roma. Tutte firme che rischiano di essere buttate.

Lega incinta di liberaldemocrazia.

E’ probabile che ciò accada. Ma i referendum sono serviti a Pannella per allearsi alla Lega Nord. Com’è scoppiato questo nuovo, improvviso amore? Il leader radicale è stato l’unico ospite esterno (applauditissimo) al congresso leghista del 12 dicembre. Pannella, per la verità, si dichiara federalista da sempre. Seguace di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e del loro Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale, nell’87 ha fatto anche cambiar nome al gruppo radicale della Camera, che da allora si chiama “federalista europeo”.

“Pannella sta mettendo incinta la Lega”, scherza Valerio Zanone. “Le sta inoculando il seme della liberaldemocrazia, e la Lega gode”, precisa Ottavio Lavaggi, deputato pri, anch’egli nuovo fan del Carroccio. Ma c’è anche un dato umano: molti leghisti hanno votato radicale prima di sposare Umberto Bossi.

Pannella ha sempre scelto i propri alleati con pragmatismo spregiudicato: chi ci sta, ci sta. Il divorzio lo conquistò in compagnia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini. Contro la fame nel mondo si alleò con i democristiani, per difendere Enzo Tortora con i socialisti.

Questa volta, sui referendum lanciati da lui e da illustri politologi come Angelo Panebianco e Saverio Vertone (Corriere della Sera), Marcello Pera (La Stampa), dal filosofo Giulio Giorello e dall’economista Antonio Martino (preside della Luiss, l’università della Confindustria), c’è stata soltanto la Lega. Ma lui li aveva proposti a tutti i partiti.

Non più tardi di un mese fa, d’altronde, Pannella ha appoggiato, assieme al Pds, il radicale Francesco Rutelli a Roma, Adriano Sansa a Genova e vari altri nuovi sindaci di sinistra. Adesso invece passa il suo tempo ad attaccare Occhetto. Perché? “La sinistra può vincere solo con me e Segni, come a Roma. Altrimenti è un bidone”, risponde lui. Pannella l’indispensabile. Pannella il salvifico. “Ha una concezione tolemaica di se stesso”, è la descrizione ironica di Scalfari, “è lui l’asse della verità gravitazionale, misconosciuto però da tutti. Di qui la sua paranoia vittimista”.

Con Scalfari l’odio è profondo. I due si conoscono da 40 anni: bazzicavano entrambi la corrente di sinistra del Pli. Insieme hanno fondato il partito radicale nel ‘55. Poi però Scalfari ne divenne il vicesegretario, si volle alleare con il Psi (nel ‘60), e cacciò Pannella (allora filo-comunista) all’opposizione.

“Marco è un esibizionista logorroico”, dice Scalfari. E Pannella ricambia: “Scalfari è un libertino mascherato da tartufo: con una mano indica il Dio della democrazia, con l’altra tocca le cosce della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava”.

Fra Pannella e Silvio Berlusconi, invece, c’è simpatia. Al Cavaliere il leader radicale piace perché è l’uomo politico più spettacolare d’Italia. Una sua intervista a Mixer lo scorso maggio ha conquistato otto milioni di spettatori. E alle comunali di Roma Pannella è stato il più votato (dopo il missino Teodoro Buontempo) fra tutti i capilista: 14mila preferenze, il doppio di Enrico Montesano (il più gradito fra i pidiessini).

Le Tv Fininvest hanno aiutato molto il partito radicale sia nell’86 sia nel ‘92, quando Pannella minacciava di chiudere il Pr se non si fossero raggiunti 10mila e 30mila iscritti. Il leader radicale è un assiduo di tutti i programmi berlusconiani, dall‘“Uno contro tutti” di Maurizio Costanzo fino a “Scherzi a parte”. In questi giorni il Tg di Paolo Liguori (ex redattore di Radio radicale) su Italia Uno lo coccola, intervistandolo spesso.

Amore per Bossi, ostilità con Scalfari, sintonia con Berlusconi. Alle elezioni Pannella finirà nel blocco moderato? Con Mariotto Segni il rapporto è agrodolce: il capo del Pr si vanta di essere stato il primo a proporre, nell’86, il maggioritario uninominale, e di aver convinto lui Segni. Perfino con Gianfranco Fini c’è qualche punto di contatto: vent’anni fa Pannella fu l’unico a difendere il Msi dalla campagna per metterlo fuorilegge: “I veri fascisti oggi sono i democristiani”, sosteneva assieme a Pasolini. E nell’82 fu il primo segretario di partito che parlò a un congresso missino.

“Il Pds è l’erede della partitocrazia”.

Quel che è certo, è che Pannella non è catalogabile. E’ di destra o di sinistra? Domanda antica quanto lui stesso. Negli Anni ‘50, da liberale gobettiano, fece entrare il Pci nel parlamentino degli universitari italiani che presiedeva. Nel ‘59, assieme a Occhetto, cacciò Bettino Craxi dalla guida dell’Unione goliardica. Poi scrisse una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, proponendo l’alternativa di sinistra.

Trent’anni fa Giancarlo Pajetta gli offrì un seggio da deputato (rifiutato) come indipendente di sinistra. Poi i rapporti si guastarono, perchè il Pci su divorzio e aborto non voleva attaccare troppo la Dc, mentre Pannella era un anticlericale acceso. “Furgone di immondizia”, lo apostrofò Fortebraccio, il corsivista dell’Unità.

Dopo che Occhetto ha cambiato nome al partito, Pannella è stato un interlocutore attento e speranzoso del nuovo Pds, che però oggi considera come “l’erede principale del regime partitocratico”. E’ stato anche uno dei fondatori di Alleanza democratica, “che adesso non mi invita neanche più alle sue riunioni”, si lamenta. E Leoluca Orlando? “Un piccolo Peron”, taglia corto. Insomma, la deriva a destra di Pannella sembra essere causata soprattutto da dissapori personali.

Dal ‘92 Pannella è il primo politico al mondo a farsi eleggere in liste con il proprio nome. Neanche il generale Charles De Gaulle era arrivato a tanto narcisismo. “Ma questa è la politica del futuro, basata sulle persone e non sugli apparati burocratici di partito. Si vota il singolo candidato, come in America”, si difende Marco. Che però è stato abbandonato da molti dei suoi compagni di un tempo: Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta.

In ogni caso, quello di Pannella è l’unico partito, assieme ai Verdi, a non essere mai stato indagato per tangenti. Anche Lega, Rifondazione e Msi hanno dirigenti inquisiti. I radicali no. Pannella l’incorruttibile vive solo per la politica, abita in una soffitta al quinto piano senza ascensore dietro la fontana di Trevi. Passa i Ferragosti a visitare prigioni, e Natali e Capodanni a concionare da Radio Radicale. Riuscirà a far parlare di sè anche dopo il Duemila, c’è da scommetterlo.

Mauro Suttora

Friday, January 18, 1991

Il Friuli per il federalismo

IL CONSIGLIO REGIONALE CONDANNA A MORTE LO STATO CENTRALISTA


“Federalismo”, è la parola d’ordine del presidente Adriano Biasutti. Un neoleghista? Macché. Vuole solo affettare l’Italia, per servirla con contorno di Verdi. Ma non a Bossi


dal nostro inviato a Udine Mauro Suttora


Europeo, 18 gennaio 1991


Ottimo, il prosciutto crudo di Sauris. Delizioso quanto quello di San Daniele, l’altro rinomato affettato friulano. Non per nulla Adriano Biasutti, presidente dc del Friuli-Venezia Giulia, si è rifugiato proprio nella sua casa di montagna in questo paesino della Carnia dopo le polemiche sulla sua ultima clamorosa presa di posizione. Che, sintetizzata e tradotta dal politichese, si può riassumere in: “Facciamo a fette la penisola”. Per affettare meglio la Lega lombarda, spera sotto sotto l’intelligente Biasutti.


Non sono solo manovre di salumeria. Perla prima volta nella storia d’Italia il 19 dicembre 1990 una regione ha chiesto solennemente la sepoltura dello Stato centralista dopo 130 anni di vita. Passando, ovviamente, anche per la liquidazione della Prima repubblica. “L’Italia deve diventare uno Stato federale”, proclama la mozione approvata dal consiglio regionale friulano, con il sì di Biasutti. 

Non è certo una secessione come quella appena decisa dai vicini del Friuli, gli sloveni, contro la loro capitale Belgrado. Ma, se la parola “federalismo” ha un senso, è comunque un’intera regione che passa dalla parte di Umberto Bossi.


Lo spumante natalizio ha messo un po’ il silenziatore a questa rivolta contro Roma dell’estrema “marca nordorientale”. Ma il fuoco cova sotto la cenere. E l’incendio si sta spostando dalla Lombardia, dove ormai un terzo degli elettori è con la Lega, a tutto il Nordest. 

Ecco cosa dichiara il presidente della giunta veneta Franco Cremonese, dc: “Aumenta la domanda di autonomia… Il centralismo è sempre più insufficiente, povero di idee, incapace”. E Umberto Carraro, psi, presidente del consiglio regionale veneto, propone di eliminare ministeri come la Pubblica istruzione e l’Agricoltura, trasferendone le competenze alle regioni. 

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