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Thursday, April 24, 2008

Il Baratto per Santoro

IL VELTRUSCONI DELL'84 CHE PORTO' SANTORO TRA LE BRACCIA DELLA RAI

Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna

di Mauro Suttora

Libero, 24 aprile 2008

Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.

Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).

In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.

Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".

Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".

Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.

“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.

Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”

Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.

Mauro Suttora

Wednesday, January 12, 1994

Pannella svolta a destra

Oplà: Pannella fa un altro giro di valzer

Europeo, 12 gennaio 1994

E BRAVO MARCO CHE SORRIDE A DESTRA

Con Berlusconi e Bossi. Per rinviare le elezioni. E opporsi alla sinistra vincente. Dove vuole arrivare il leader radicale?

di Mauro Suttora

Un tempo la sua arma preferita era il digiuno. Ne ha fatti 16 per le cause più diverse: Cecoslovacchia invasa, divorzio, fame nel mondo. Oggi, invece, ha il telefonino. E alla fine, tempestato per giorni dalle sue chiamate, anche Silvio Berlusconi ha ceduto: è andato in piazza Duomo a Milano a a firmare per i suoi nuovi referendum, lo ha ricevuto nella propria villa di Arcore.

“Rieccolo”. Il soprannome che Fortebraccio aveva appioppato all’eterno Amintore Fanfani oggi si attaglia bene a Marco Pannella. In politica da 48 anni (la prima tessera, liberale, la prese quindicenne nel ‘45), sempre all’opposizione (tranne cento giorni nel ‘92 al Comune di Ostia), il leader radicale sembrava definitivamente tramontato.

Il colpo di grazia gliel’avevano dato le riunioni alle sette del mattino che aveva organizzato lo scorso maggio per difendere il Parlamento degli inquisiti. “Continuate ad essere irriconoscibili, scandalizzate, bestemmiate”: così Pier Paolo Pasolini esortò i radicali prima di morire, nel ‘75. Consiglio preso fin troppo alla lettera, in questi anni, da Pannella.

Invece, per l’ennesima volta, “il nostro Marco nazionale” (come lo chiama il suo peggior nemico, Eugenio Scalfari) è risorto. E’ lui, di nuovo, l’uomo del giorno, il protagonista di queste ultime settimane di vita politica. Il 12 gennaio la Camera è convocata per discutere la sua mozione di sfiducia al governo di Carlo Azeglio Ciampi: è riuscito a farla firmare a ben 150 deputati, quasi tutti della maggioranza.

Perché questa mossa? Il dibattito in Parlamento è un atto dovuto, come ritiene il presidente Oscar Luigi Scalfaro sempre rispettosissimo delle prerogative parlamentari, o è soltanto un espediente degli onorevoli indagati (“i carcerandi”, come li dileggia Gianfranco Miglio) per guadagnar tempo e rimandare ancora di un po’ le inevitabili elezioni?

E Pannella che fa? Di nuovo, forse solo per il gusto autolesionista di apparire al centro dell’attenzione, si mette alla testa del “partito degli inquisiti”, oppure la sua è una strategia lucida con precisi obiettivi?

“Ciampi deve scegliere da che parte stare”

“Pannella è soltanto uno specialista nell’intorbidare le acque, è un politichese fra i più consumati”, taglia corto Scalfari sulla prima pagina di Repubblica. E quasi accusa Scalfaro di essersi fatto plagiare dal capo radicale, visto che il presidente avrebbe potuto sciogliere le Camere già dal 20 dicembre.

Replica Pannella: “Anche votando a marzo, l’attuale governo resterebbe in carica fino a giugno. Ma Ciampi è ormai delegittimato: lui stesso ha dichiarato di aver esaurito il proprio compito dopo la riforma elettorale e la legge Finanziaria. E l’Italia non può certo permettersi di stare per mezzo anno senza un vero governo. Occorre quindi una nuova compagine, guidata dallo stesso Ciampi e con Mario Segni vicepresidente. Io mi propongo ministro degli Esteri”.

Questa è la spiegazione ufficiale, istituzionale. Ma c’è anche un secondo movente, squisitamente politico, nella mossa di Pannella. E’ lui stesso a confessarlo: “Ciampi deve scegliere: o sta con il Pds e il partito di Repubblica, o prende Segni e me. Così gli elettori potranno decidere subito fra due schieramenti”.

Figurarsi se quel vecchio volpone di Ciampi cadrà nella trappola di Marco. Il presidente del Consiglio sa che, se la sinistra vincerà, potrà continuare a stare al suo posto: Achille Occhetto gli ha già offerto quella poltrona. D’altra parte, Ciampi aveva già inserito ministri di area pidiessina in questo governo: soltanto l’assoluzione della Camera a Bettino Craxi provocò le loro immediate dimissioni.

Il terzo motivo, inconfessabile, della mozione Pannella, è infine quello di prender tempo. Non tanto per rinviare le elezioni (“Mi vanno bene ad aprile”), quanto per guadagnare giorni preziosi alla raccolta di firme sui suoi referendum. “Siamo a 100mila, più le 60mila che finora ha preso la Lega”, dicono al club Pannella a Roma. Tutte firme che rischiano di essere buttate.

Lega incinta di liberaldemocrazia.

E’ probabile che ciò accada. Ma i referendum sono serviti a Pannella per allearsi alla Lega Nord. Com’è scoppiato questo nuovo, improvviso amore? Il leader radicale è stato l’unico ospite esterno (applauditissimo) al congresso leghista del 12 dicembre. Pannella, per la verità, si dichiara federalista da sempre. Seguace di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e del loro Manifesto di Ventotene per un’Europa unita e federale, nell’87 ha fatto anche cambiar nome al gruppo radicale della Camera, che da allora si chiama “federalista europeo”.

“Pannella sta mettendo incinta la Lega”, scherza Valerio Zanone. “Le sta inoculando il seme della liberaldemocrazia, e la Lega gode”, precisa Ottavio Lavaggi, deputato pri, anch’egli nuovo fan del Carroccio. Ma c’è anche un dato umano: molti leghisti hanno votato radicale prima di sposare Umberto Bossi.

Pannella ha sempre scelto i propri alleati con pragmatismo spregiudicato: chi ci sta, ci sta. Il divorzio lo conquistò in compagnia del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini. Contro la fame nel mondo si alleò con i democristiani, per difendere Enzo Tortora con i socialisti.

Questa volta, sui referendum lanciati da lui e da illustri politologi come Angelo Panebianco e Saverio Vertone (Corriere della Sera), Marcello Pera (La Stampa), dal filosofo Giulio Giorello e dall’economista Antonio Martino (preside della Luiss, l’università della Confindustria), c’è stata soltanto la Lega. Ma lui li aveva proposti a tutti i partiti.

Non più tardi di un mese fa, d’altronde, Pannella ha appoggiato, assieme al Pds, il radicale Francesco Rutelli a Roma, Adriano Sansa a Genova e vari altri nuovi sindaci di sinistra. Adesso invece passa il suo tempo ad attaccare Occhetto. Perché? “La sinistra può vincere solo con me e Segni, come a Roma. Altrimenti è un bidone”, risponde lui. Pannella l’indispensabile. Pannella il salvifico. “Ha una concezione tolemaica di se stesso”, è la descrizione ironica di Scalfari, “è lui l’asse della verità gravitazionale, misconosciuto però da tutti. Di qui la sua paranoia vittimista”.

Con Scalfari l’odio è profondo. I due si conoscono da 40 anni: bazzicavano entrambi la corrente di sinistra del Pli. Insieme hanno fondato il partito radicale nel ‘55. Poi però Scalfari ne divenne il vicesegretario, si volle alleare con il Psi (nel ‘60), e cacciò Pannella (allora filo-comunista) all’opposizione.

“Marco è un esibizionista logorroico”, dice Scalfari. E Pannella ricambia: “Scalfari è un libertino mascherato da tartufo: con una mano indica il Dio della democrazia, con l’altra tocca le cosce della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava”.

Fra Pannella e Silvio Berlusconi, invece, c’è simpatia. Al Cavaliere il leader radicale piace perché è l’uomo politico più spettacolare d’Italia. Una sua intervista a Mixer lo scorso maggio ha conquistato otto milioni di spettatori. E alle comunali di Roma Pannella è stato il più votato (dopo il missino Teodoro Buontempo) fra tutti i capilista: 14mila preferenze, il doppio di Enrico Montesano (il più gradito fra i pidiessini).

Le Tv Fininvest hanno aiutato molto il partito radicale sia nell’86 sia nel ‘92, quando Pannella minacciava di chiudere il Pr se non si fossero raggiunti 10mila e 30mila iscritti. Il leader radicale è un assiduo di tutti i programmi berlusconiani, dall‘“Uno contro tutti” di Maurizio Costanzo fino a “Scherzi a parte”. In questi giorni il Tg di Paolo Liguori (ex redattore di Radio radicale) su Italia Uno lo coccola, intervistandolo spesso.

Amore per Bossi, ostilità con Scalfari, sintonia con Berlusconi. Alle elezioni Pannella finirà nel blocco moderato? Con Mariotto Segni il rapporto è agrodolce: il capo del Pr si vanta di essere stato il primo a proporre, nell’86, il maggioritario uninominale, e di aver convinto lui Segni. Perfino con Gianfranco Fini c’è qualche punto di contatto: vent’anni fa Pannella fu l’unico a difendere il Msi dalla campagna per metterlo fuorilegge: “I veri fascisti oggi sono i democristiani”, sosteneva assieme a Pasolini. E nell’82 fu il primo segretario di partito che parlò a un congresso missino.

“Il Pds è l’erede della partitocrazia”.

Quel che è certo, è che Pannella non è catalogabile. E’ di destra o di sinistra? Domanda antica quanto lui stesso. Negli Anni ‘50, da liberale gobettiano, fece entrare il Pci nel parlamentino degli universitari italiani che presiedeva. Nel ‘59, assieme a Occhetto, cacciò Bettino Craxi dalla guida dell’Unione goliardica. Poi scrisse una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera, proponendo l’alternativa di sinistra.

Trent’anni fa Giancarlo Pajetta gli offrì un seggio da deputato (rifiutato) come indipendente di sinistra. Poi i rapporti si guastarono, perchè il Pci su divorzio e aborto non voleva attaccare troppo la Dc, mentre Pannella era un anticlericale acceso. “Furgone di immondizia”, lo apostrofò Fortebraccio, il corsivista dell’Unità.

Dopo che Occhetto ha cambiato nome al partito, Pannella è stato un interlocutore attento e speranzoso del nuovo Pds, che però oggi considera come “l’erede principale del regime partitocratico”. E’ stato anche uno dei fondatori di Alleanza democratica, “che adesso non mi invita neanche più alle sue riunioni”, si lamenta. E Leoluca Orlando? “Un piccolo Peron”, taglia corto. Insomma, la deriva a destra di Pannella sembra essere causata soprattutto da dissapori personali.

Dal ‘92 Pannella è il primo politico al mondo a farsi eleggere in liste con il proprio nome. Neanche il generale Charles De Gaulle era arrivato a tanto narcisismo. “Ma questa è la politica del futuro, basata sulle persone e non sugli apparati burocratici di partito. Si vota il singolo candidato, come in America”, si difende Marco. Che però è stato abbandonato da molti dei suoi compagni di un tempo: Massimo Teodori, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, Adelaide Aglietta.

In ogni caso, quello di Pannella è l’unico partito, assieme ai Verdi, a non essere mai stato indagato per tangenti. Anche Lega, Rifondazione e Msi hanno dirigenti inquisiti. I radicali no. Pannella l’incorruttibile vive solo per la politica, abita in una soffitta al quinto piano senza ascensore dietro la fontana di Trevi. Passa i Ferragosti a visitare prigioni, e Natali e Capodanni a concionare da Radio Radicale. Riuscirà a far parlare di sè anche dopo il Duemila, c’è da scommetterlo.

Mauro Suttora