LA MANOVRA NON TOCCA I MILIARDARI
di Mauro Suttora
Oggi, 2 giugno 2010
Coincidenza sfortunata: proprio nel giorno in cui suo padre ha imposto agli italiani sacrifici per 24 miliardi di euro, Pier Silvio Berlusconi ha varato il proprio nuovo maxiyacht da 18 milioni, lungo 37 metri. È vero, così il cantiere Ferretti di Ancona lavora e non licenzia i dipendenti. Ma Pier Silvio si era già fatto costruire tre anni fa dal cantiere anconetano un altro yacht da trenta metri: Suegno, costato dieci milioni. Aveva proprio bisogno di un secondo piroscafo?
La verità è che i ricchi non piangono mai. Non solo in Italia. I miliardari greci sbevazzano come sempre negli hotel a cinque stelle di Gstaad o Saint Moritz, mentre i loro compatrioti ad Atene sono in mutande. A New York gli speculatori responsabili della crisi mondiale continuano a incassare bonus da milioni di dollari. E nella nuova lista dei 5.700 evasori italiani con sette miliardi nascosti in Svizzera ci sono industrialotti lombardi, stilisti, attori, notai, avvocati e anche molte casalinghe, mogli prestanome dei suddetti.
Neanche un centesimo viene tolto dalla «manovra» di Berlusconi ai ricchi come lui. Obama ha aumentato le imposte sui redditi oltre i 200 mila dollari (160 mila euro). In Italia invece chi lavora viene tassato fino al 43 per cento, mentre le rendite da capitale rimangono al 12,5. Industriali, finanzieri e banchieri possono stare tranquilli.
Il governo Prodi aveva cercato di imporre un tetto di 270 mila euro annui per tutti i manager pubblici. Risultato: Pier Francesco Guarguagliani di Finmeccanica (oggi nei guai con la moglie per fondi neri) l’anno scorso ha intascato più di cinque milioni e mezzo. C’è il divieto di cumulo di cariche? Lucio Stanca è sia deputato, sia capo dell’Expo 2015 di Milano, per un totale di 650 mila euro. E come lui decine di politici con doppio incarico.
Non è questione di destra o sinistra. Il principale fustigatore dei potenti in Italia, Beppe Grillo, è lui stesso un ricco milionario che ama scorrazzare in motoscafo per la Costa Smeralda. E così l’ex eroe della sinistra tv, Michele Santoro, che ha scandalizzato i propri fans con la trattativa da una quindicina di milioni per il prepensionamento Rai alla verde età di 58 anni.
L’Italia ha il terzo debito pubblico del pianeta: 1.800 miliardi di euro. Ci superano solo Stati Uniti e Giappone, in cifre assolute. E in percentuale sul Pil, siamo i peggiori d’Europa: 115 per cento nel 2009, come la Grecia. Ciononostante, i nostri politici anche quest’anno riescono a spendere il 5 per cento in più di quel che incassano con le tasse. La manovra di questi giorni serve solo a rallentare l’allargamento del buco, non a tapparlo.
Eppure, tutti si sentono in diritto di protestare. Soprattutto i più ricchi. Sentite: «La nostra indipendenza va salvaguardata anche sotto il profilo economico», strillano i magistrati, «minacciati» come tutti i pubblici dipendenti dal blocco degli aumenti automatici triennali (per tutti, anche asini e pigri), oltre che da un prelievo del cinque per cento sui redditi oltre i 90 mila euro l’anno (ovvero la quasi totalità dei magistrati). Medici e primari da cinquemila euro netti al mese piangono: «Interventi tanto vergognosi quanto iniqui».
I dirigenti pubblici preparano i soliti ricorsi al Tar. «Guadagno 289 mila euro l’anno, ma alla Telecom erano due milioni e mezzo», dice Giuseppe Sala, direttore generale del comune di Milano. Ognuno guarda a chi prende di più. Bruno Vespa, dal «basso» del suo milione e 200 mila euro annui, invidia Santoro. E i tagli non toccano i prepensionati d’oro, come il dirigente della regione Sicilia Pier Carmelo Russo che cinque mesi fa ha agguantato 6.462 euro netti mensili a 47 anni, per poi vedersi nominare assessore all’Energia.
Le statistiche sono chiare: negli ultimi dieci anni i redditi dei dipendenti pubblici sono aumentati del 42%. Quasi il doppio dei privati, esposti alla concorrenza con l’estero. Eppure, all’ultimo momento la loro potente lobby ha fatto aumentare da 130 a 150 mila euro la soglia per il prelievo del 10%. E chissà di quali altri «ammorbidimenti» godranno i ricchi prima che i decreti tagliaspesa diventino realtà.
Mauro Suttora
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Wednesday, June 09, 2010
Thursday, September 10, 2009
Italia seconda al mondo nell'export di armi
CLAMOROSO: PER LA PRIMA VOLTA SUPERIAMO RUSSIA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, CINA E GERMANIA. IMBARAZZO A SINISTRA
di Mauro Suttora
Libero, 10 settembre 2009
L’Italia balza al secondo posto nella classifica mondiale delle esportazioni di armi. È questo il clamoroso dato contenuto nell’ultimo rapporto del Congresso Usa, che ogni anno calcola l’export bellico. Nel 2008 le aziende italiane (quasi tutte del gruppo pubblico Finmeccanica) hanno firmato contratti per 3,7 miliardi di dollari, più che triplicando il risultato dell’anno precedente. Siamo superati soltanto dagli Stati Uniti, che con i loro 37 miliardi controllano più dei due terzi del mercato mondiale.
Per la prima volta nella storia l’Italia supera i tradizionali Paesi esportatori: la Russia innanzitutto, che si è fermata a 3,5 miliardi rispetto agli oltre dieci del 2007. Ma anche tutti gli altri concorrenti che ci hanno sempre sopravanzato: Gran Bretagna, che nel 2007 era terza con nove miliardi, Cina (quasi quattro miliardi), Francia (1,8 miliardi) e Germania (1,5). Due anni fa l’Italia si era fermata a un miliardo, settima in classifica.
Il mercato mondiale delle armi è caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno. La firma di una singola maxicommessa per centinaia di milioni basta a ribaltare le statistiche. Ma per l’Italia l’ultimo decennio è stato in costante ascesa: dai soli 200 milioni di dollari esportati nel 2000, ai 600 del 2004, fino al miliardo e mezzo del 2005. Anche il mercato globale si è espanso: l’export bellico totale è raddoppiato dai 28 miliardi del 2003 ai 60 del 2007. Nel 2008 la recessione ha ridotto del sette per cento i fatturati, facendoli scendere a 55 miliardi. E l’Italia ha approfittato del crollo dei concorrenti per piazzarsi al secondo posto.
Nessun organo di stampa italiano ha finora dato notizia dell’exploit, riprendendo lo scoop del corrispondente militare del New York Times Thom Shanker pubblicato il 7 settembre. Eppure anche l’Herald Tribune (edizione europea del quotidiano americano) ha ripreso l’articolo tre giorni fa. L’export di armi è infatti un argomento politicamente delicato, soprattutto a sinistra. Non fa piacere agli antimilitaristi sapere che sono soprattutto aziende statali a vendere sistemi d’arma italiani nel mondo. Anche sotto il governo Prodi.
Al primo posto si piazza Agusta con nuovi contratti per oltre due miliardi di dollari (soprattutto elicotteri alla Turchia), poi Alenia con 400 milioni e Oto Melara con 260. Seguono Fincantieri (230 milioni), Simmel (220 milioni in munizioni e spolette) e Iveco (160). Poi ancora aziende Finmeccanica: Selex (140 milioni) e Galileo Avionica (60). Infine Avio, Microtecnica e Selex Communications.
Pure nel settore “armi piccole e leggere” (pistole e fucili, anche da caccia e sportivi) siamo i secondi del mondo, superati solo dagli Stati Uniti. In questo caso i dati provengono dall’Onu, e risalgono al 2006. L’Italia ha esportato per 434 milioni di dollari. I nostri principali acquirenti sono Usa e Paesi europei. Leader mondiale è la bresciana Beretta, che è anche la più antica fabbrica d’armi al mondo: 2.500 dipendenti, fatturato sui 400 milioni di euro. La sua fabbrica in Maryland (Usa) sta sfornando l’ultimo ordine di 25 mila pistole M9 per l’esercito americano.
Gli Stati Uniti rappresentano la nuova frontiera anche per Finmeccanica. Il colosso guidato da Pier Francesco Guarguaglini (60 mila dipendenti e 15 miliardi di fatturato, non solo nell’industria bellica), al terzo posto fra le aziende europee del settore difesa, lo scorso ottobre ha acquistato la Drs, società di punta del complesso militare-industriale Usa, con i suoi diecimila dipendenti e tre miliardi di fatturato. È diventata così la prima al mondo per le tecnologie con i raggi infrarossi, sempre più utilizzate sui campi di battaglia.
Insomma, nel panorama di crisi dell’industria metalmeccanica italiana (meno 30 per cento nel primo semestre 2009), le fabbriche di armi lavorano a pieno ritmo. In totale, il nostro settore bellico produce per sette miliardi e mezzo di euro annui (metà per l’estero, metà per le nostre forze armate) e dà lavoro a 50 mila persone.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, 10 settembre 2009
L’Italia balza al secondo posto nella classifica mondiale delle esportazioni di armi. È questo il clamoroso dato contenuto nell’ultimo rapporto del Congresso Usa, che ogni anno calcola l’export bellico. Nel 2008 le aziende italiane (quasi tutte del gruppo pubblico Finmeccanica) hanno firmato contratti per 3,7 miliardi di dollari, più che triplicando il risultato dell’anno precedente. Siamo superati soltanto dagli Stati Uniti, che con i loro 37 miliardi controllano più dei due terzi del mercato mondiale.
Per la prima volta nella storia l’Italia supera i tradizionali Paesi esportatori: la Russia innanzitutto, che si è fermata a 3,5 miliardi rispetto agli oltre dieci del 2007. Ma anche tutti gli altri concorrenti che ci hanno sempre sopravanzato: Gran Bretagna, che nel 2007 era terza con nove miliardi, Cina (quasi quattro miliardi), Francia (1,8 miliardi) e Germania (1,5). Due anni fa l’Italia si era fermata a un miliardo, settima in classifica.
Il mercato mondiale delle armi è caratterizzato da grandi fluttuazioni di anno in anno. La firma di una singola maxicommessa per centinaia di milioni basta a ribaltare le statistiche. Ma per l’Italia l’ultimo decennio è stato in costante ascesa: dai soli 200 milioni di dollari esportati nel 2000, ai 600 del 2004, fino al miliardo e mezzo del 2005. Anche il mercato globale si è espanso: l’export bellico totale è raddoppiato dai 28 miliardi del 2003 ai 60 del 2007. Nel 2008 la recessione ha ridotto del sette per cento i fatturati, facendoli scendere a 55 miliardi. E l’Italia ha approfittato del crollo dei concorrenti per piazzarsi al secondo posto.
Nessun organo di stampa italiano ha finora dato notizia dell’exploit, riprendendo lo scoop del corrispondente militare del New York Times Thom Shanker pubblicato il 7 settembre. Eppure anche l’Herald Tribune (edizione europea del quotidiano americano) ha ripreso l’articolo tre giorni fa. L’export di armi è infatti un argomento politicamente delicato, soprattutto a sinistra. Non fa piacere agli antimilitaristi sapere che sono soprattutto aziende statali a vendere sistemi d’arma italiani nel mondo. Anche sotto il governo Prodi.
Al primo posto si piazza Agusta con nuovi contratti per oltre due miliardi di dollari (soprattutto elicotteri alla Turchia), poi Alenia con 400 milioni e Oto Melara con 260. Seguono Fincantieri (230 milioni), Simmel (220 milioni in munizioni e spolette) e Iveco (160). Poi ancora aziende Finmeccanica: Selex (140 milioni) e Galileo Avionica (60). Infine Avio, Microtecnica e Selex Communications.
Pure nel settore “armi piccole e leggere” (pistole e fucili, anche da caccia e sportivi) siamo i secondi del mondo, superati solo dagli Stati Uniti. In questo caso i dati provengono dall’Onu, e risalgono al 2006. L’Italia ha esportato per 434 milioni di dollari. I nostri principali acquirenti sono Usa e Paesi europei. Leader mondiale è la bresciana Beretta, che è anche la più antica fabbrica d’armi al mondo: 2.500 dipendenti, fatturato sui 400 milioni di euro. La sua fabbrica in Maryland (Usa) sta sfornando l’ultimo ordine di 25 mila pistole M9 per l’esercito americano.
Gli Stati Uniti rappresentano la nuova frontiera anche per Finmeccanica. Il colosso guidato da Pier Francesco Guarguaglini (60 mila dipendenti e 15 miliardi di fatturato, non solo nell’industria bellica), al terzo posto fra le aziende europee del settore difesa, lo scorso ottobre ha acquistato la Drs, società di punta del complesso militare-industriale Usa, con i suoi diecimila dipendenti e tre miliardi di fatturato. È diventata così la prima al mondo per le tecnologie con i raggi infrarossi, sempre più utilizzate sui campi di battaglia.
Insomma, nel panorama di crisi dell’industria metalmeccanica italiana (meno 30 per cento nel primo semestre 2009), le fabbriche di armi lavorano a pieno ritmo. In totale, il nostro settore bellico produce per sette miliardi e mezzo di euro annui (metà per l’estero, metà per le nostre forze armate) e dà lavoro a 50 mila persone.
Mauro Suttora
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