Friday, August 13, 2021

Good morning, Afghanistan!






Gli americani se ne vanno lasciandosi dietro una scia di disastri, come in Vietnam, per chi lo ricorda. Vent’anni di guerra e occupazione inutili


di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021


Good morning, Afghanistan!

Chi ha più di 60 anni ricorda il disastro Vietnam: nel 1975, quando gli Usa se ne andarono, arrivò una dittatura comunista che dura tuttora e produsse milioni di profughi (fra cui i boat-people, con 250mila annegati) più una guerra contro la Cina.

In Cambogia, peggio: ecco Pol Pot e il più grosso genocidio della storia umana, in proporzione agli abitanti: tre milioni di cambogiani ‘borghesi’ sterminati su 7,5 milioni di abitanti in soli tre anni e mezzo.

Ora i talebani stanno per prendere Kabul. Non in sei mesi, come prevedevano gli americani, ma in pochi giorni. Sempre attendibile, la Cia.

L’Afghanistan diventerà un altro stato islamista da incubo come quello Isis in Siria e Iraq fino al 2017? O una nuova base mondiale per i terroristi, come ai tempi di Al Qaeda?

Non ci resta che auspicare un incubo minore: la solita teocrazia islamica già al potere negli anni 90 fino al 2001, donne schiavizzate in casa, monumenti non musulmani distrutti, un simpatico medioevo solo un po’ peggiore di Iran e Arabia Saudita.

Ma almeno senza ambizioni di esportare la loro ‘guerra santa’ nel mondo. E se proprio i talebani dovessero debordare (chi li arma?), speriamo che la prossimità geografica li indirizzi più contro Russia (remember Beslan?) e Cina (poveri uiguri) che verso l’Occidente.

Ah, grazie presidente Bush junior per questi vent’anni di guerra e occupazione inutili, cui ha contribuito anche l’Italia (con otto miliardi di euro e 55 morti, il doppio della strage irachena di Nassiriya). Tutti lo avvertivano che l’Afghanistan è da sempre indomabile, come dimostrato dalle sconfitte inglese e sovietica. 

Niente da fare: il complesso militare industriale Usa non poteva lasciarsi scappare un’occasione così ghiotta di spesa militare (mille miliardi di dollari) e profitti immensi, dopo la fine della guerra fredda.

Ci dispiace per le giovani afghane delle splendide foto di McCurry, che erano uscite felici di casa e avevano cominciato a studiare.

Ricorderemo con ammirazione almeno estetica, se non politica, il primo presidente dell’Afghanistan (per troppo poco) democratico, Karzai: elegantissimo, un vero signore.

Purtroppo naufragano le velleità degli ‘esportatori di democrazia’, in buona (con Emma Bonino ci avevo creduto anch’io) e cattiva fede (i neocon Usa). Hanno vinto i burka. E Massimo Fini, solitario fan italiano del mullah Omar.

Unici indifferenti, i coltivatori di papaveri. Quelli hanno continuato tranquilli a produrre oppio sotto qualsiasi regime: sovietici, talebani, americani.

Mauro Suttora


Friday, August 06, 2021

Rossi e Buffon: quanto è doloroso il viale del tramonto. Viva Aznavour

È sempre difficile dire basta per un campione. Ma una stella cometa c'è: Aznavour

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 agosto 2021


Evviva la sincerità. Gigi Buffon, 44 anni a gennaio, oggi ha spiegato a Repubblica perché continua a giocare. Lascia la Juve e va al Parma in serie B. Perché? “Mi sento un artista, quindi ho sempre il desiderio di mettere in mostra il gesto. Per appagamento personale e una certa dose di narcisismo”. 

Auguriamo al grande campione lo stesso successo che ha avuto il ritorno del 39enne Ibrahimovic al Milan.

Poche ore dopo, un altro mito dello sport mondiale rende invece noto il proprio ritiro a fine stagione: Valentino Rossi. Chi ha ragione? Il portierone o il dottore? Qual è il momento giusto per andarsene?

“Devi sapere lasciar la tavola/ la dignità devi salvar/ Alzarti con indifferenza/ mentre in silenzio soffri tu”, cantava Aznavour. Il quale peraltro si è esibito fino a 94 anni, pochi mesi prima di morire. Nello sport, nell’arte, in politica e in tutti i campi della vita compreso l’amore, è difficile dire basta. A volte impossibile. 

“Non vi preoccupate, sono morto tante volte”, dice Charlie Chaplin alla fine di ‘Luci della ribalta’. Ma in realtà, soltanto Gesù Cristo è risorto. E non per finire in serie B. 

Fa bene Buffon a giocare fino a quando si diverte. E a fregarsene di chi sentenzia che è meglio lasciare quando si è ancora all’apice del successo. Per evitare mestizie come quelle capitate a Valentino nelle ultime due stagioni.

Ma in fondo, cosa cambia? Se Napoleone non fosse scappato dall’Elba avrebbe evitato Waterloo, però avrebbe continuato l’esilio in un’isola vicina invece che lontana. 

Sono scommesse, qualcuno le vince: Muhammad Ali contro Foreman, Amintore ‘rieccolo’ Fanfani ancora premier a 79 anni, i ritorni di Churchill e De Gaulle negli anni ’50, Scalfari editorialista 97enne del suo giornale.

Buffon ha davanti a sé l’esempio del portiere inglese Shilton in campo fino a 47 anni, e anche il laziale Ballotta ne aveva quasi 44 quando disputò l’ultima partita in Champions. 

Quanto a Valentino Rossi, probabilmente lo ha tenuto in pista la voglia di raggiungere Giacomo Agostini (ritiratosi a 35 anni) nel numero dei GP vinti: 122 a 115, record inarrivabile perché allora si gareggiava contemporaneamente in due classi. O forse l’esempio di Max Biaggi, campione mondiale di Superbike a 41 anni.

Alla fine, comunque, decide il mercato. Oppure Spalletti, nel caso del suo martire personale Totti. Finché una squadra o una scuderia ti vogliono, perché no? 

La verità è che Sunset Boulevard è uno dei viali più belli e lunghi di Los Angeles, nessuna attinenza al malinconico film sul ‘Viale del Tramonto’ della patetica attrice che non vuole mollare. 

Ecco, piuttosto: “Non mollare mai”. Uno dei più agghiaccianti e popolari slogan degli ultimi tempi. Finché lo sventolano sventurati e svalvolati atleti vincitori alle Olimpiadi, li perdoniamo: sono solo vittime dei loro mental coach, ai quali tocca gasarli per guadagnarsi lo stipendio.

Il dramma è quando questa cieca ostinazione si impossessa di tutti noi. Raggiungendo lo zenit fra gli innamorati respinti, e allora gli esiti possono essere tragici: dalle molestie allo stalking, giù fino al femminicidio. 

Rischio che non corre il nostro amatissimo Buffon, felice marito di una delle donne più belle e intelligenti d’Europa.

Mauro Suttora

Tuesday, August 03, 2021

Covid: duecento milioni. Diamo un po' di numeri, con qualche sorpresa

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 agosto 2021

I contagi covid nel mondo supereranno fra poche ore la barriera dei 200 milioni. I decessi sono quattro milioni e 250mila. La letalità (rapporto morti/malati) è quindi del 2,1%: dimezzata rispetto alla prima ondata. E fra i dati ufficiali Oms troviamo parecchie sorprese.

L’Italia, innanzitutto: i casi aumentano, però abbiamo pochi decessi (ieri solo 20, assai meno dei 50 di Francia e Spagna) e il minimo di terapie intensive fra i grandi Paesi (249 contro 11mila in Usa, 2300 in Russia, 1800 in Spagna, e poi Francia 1200, Regno Unito 889, Giappone 700, Germania 376).

Buone notizie anche da Londra: casi giornalieri dimezzati a 21mila e decessi crollati a 24. Ottime notizie da tutta l’Europa dell’Est, che era stata risparmiata dalla prima ondata e invece devastata dalla seconda: Croazia solo 29 casi giornalieri, Slovenia 31, Slovacchia 6, Cechia 75, Polonia 91, Ungheria 155 (ma con un solo decesso e undici terapie intensive).

Può stare tranquillo anche chi parte per Grecia (duemila casi giornalieri ma appena otto morti) e Portogallo (1190 casi, nove decessi). Preoccupante invece la situazione in Russia, oltre che per i dati (ieri 785 decessi, superata nel mondo solo dai 1568 dell’Indonesia, e più dei 420 in India, 411 in Iran, 337 in Brasile e 129 negli Usa), anche per la loro scarsa attendibilità. 

Da due settimane infatti i morti appaiono fissi ogni giorno appena sotto gli 800, come se Putin avesse ordinato di non superare questa cifra (già un anno fa si scoprì che Mosca falsifica le proprie statistiche).

Nonostante gli allarmi sui nuovi lockdown totali, invece, la Cina ieri ha dichiarato solo 98 casi, nessun decesso e 24 terapie intensive. Peggio Cuba: 9279 contagi, 68 morti e 385 in rianimazione.

Israele ha denunciato per la prima volta nove morti, rispetto ai 2-3 giornalieri dell’ultimo mese, e ben 3130 casi. Tel Aviv cerca di rimediare con la terza dose del vaccino Pfizer per i +60 che hanno effettuato il richiamo almeno cinque mesi fa.

Tornando all’Italia, tranquillità ai nostri confini: ieri in Svizzera un solo morto e 36 terapie intensive, seppure con duemila casi; anche in Austria un solo decesso, e appena 364 nuovi contagi.

Il golpe in Tunisia, invece, si spiega con i suoi dati drammatici: ieri 209 morti e 609 in rianimazione. In proporzione ai 12 milioni di tunisini, sarebbe come se in Italia avessimo oltre mille morti al giorno (livello da noi mai raggiunto) e tremila terapie intensive.

Mauro Suttora

 

Thursday, July 29, 2021

Concerto per il Bangladesh: mezzo secolo di carità in musica

L’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con l'idea di George Harrison

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 29 luglio 2021

È tutto cominciato 50 anni fa al Madison Square Garden di New York: l’era dei grandi concerti rock di beneficenza inizia l′1 agosto 1971 con quello per il Bangladesh organizzato da George Harrison.

Il più giovane e tranquillo dei Beatles era appassionato di India da quando, primo al mondo, inserì un sitar nella canzone ‘Norwegian Wood’. Poi l’infatuazione per il guru Maharishi, le inascoltabili nenie indiane piazzate nei dischi dei Fab Four e il pellegrinaggio collettivo sul Gange (dove fece gettare le sue ceneri nel 2001). L’atarassia raggiunta grazie all’induismo gli servì soprattutto per sopportare il tradimento della moglie Pattie Boyd col suo migliore amico, Eric Clapton.

Quando scoppia la guerra di indipendenza del Bangladesh contro il Pakistan, a ruota arriva una tremenda carestia. Il sitarista Ravi Shankar (poi padre di Norah Jones) prega Harrison di fare qualcosa. E in sole cinque settimane George organizza il concerto di raccolta fondi.

È la quinta grande storica esibizione rock dopo quelle di Monterey 1967 (con gli hippies di San Francisco), Woodstock 1969, Altamont con il morto durante il set degli Stones, e l’annuale kermesse europea dell’isola di Wight, dal 1968 al ’70.

Ma è il primo benefit concert. Un centinaio di milioni di dollari andarono agli affamati grazie agli incassi di biglietti, dischi e film. Però le liti col fisco Usa che non voleva applicare l’aliquota agevolata riconosciuta alle fondazioni (Harrison non pensò a costituirne una) si protrassero per dieci anni.

Musicalmente, il concerto fu un miracolo. Harrison riuscì a riportare Bob Dylan su un palco Usa dopo ben cinque anni. E se John Lennon avesse accettato di esibirsi senza Yoko, e Paul McCartney si fosse irrigidito per la presenza dell’odiato manager Allen Klein, si sarebbero riformati i Beatles.

Infatti il batterista Ringo Starr era presente, anche se dimenticò le parole della sua canzone (‘It Don’t Come Easy’). Nel supergruppo brillavano Clapton alla chitarra solista e al piano Leon Russell, reduce da un trionfale tour mondiale con Joe Cocker.

Probabilmente la versione di ‘My Sweet Lord’ del concerto è migliore di quella con cui Harrison aveva appena dominato le hit parades del pianeta. Era lui il Beatle che, dopo lo scioglimento del 1970, aveva raccolto i maggiori successi. Lennon lo eguagliò pochi mesi dopo con ‘Imagine’. E McCartney solo nel 1973 con ‘My love’.

Dopo il concerto per il Bangladesh sono state tante le buone cause accoppiate a buona musica, fino all’ineguagliato exploit intercontinentale del 1985 con il Live Aid di Bob Geldof, e ai numerosi Pavarotti & Friends.

Dal No Nukes del 1979 al concerto per New York dopo l′11 settembre 2001, fino all’ultimo prima della pandemia, per le vittime degli incendi in Australia nel febbraio 2020, le rockstar si sono esibite spesso gratis.

A volte perfino troppo, quando hanno approfittato dei benefit concert per rinverdire fortune declinanti. Scherzò una volta Jackson Browne: “Cosa farebbero Crosby, Stills e Nash senza i charity?”

Mauro Suttora

Tuesday, July 27, 2021

Lo spirito olimpico sembrava aleggiare su Tokyo...

...poi è arrivato Butbul

Il judoka israeliano boicottato due volte. Prima un algerino, poi un sudanese si sono ritirati per solidarietà ai palestinesi

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 27 luglio 2021 


Alla fine Tohar Butbul, il campione di judo israeliano, è stato eliminato da un sudcoreano ai quarti di finale. Ma per arrivarci Butbul ha disputato un solo incontro, perché tutti i suoi avversari sparivano. Prima un algerino, poi un sudanese. Si sono ritirati in nome della solidarietà al popolo palestinese. L’algerino subito spedito a casa e punito dalla sua stessa federazione. Il sudanese non si sa. Ma se dovessero prendere piede questi boicottaggi individuali, le olimpiadi potrebbero anche chiudere. E lo sport stesso perderebbe di significato.

Eppure era iniziata bene. Per la prima volta a Tokyo una cerimonia inaugurale ha commemorato gli 11 atleti israeliani trucidati nel 1972 da un commando palestinese a Monaco. E per la seconda volta partecipa ai giochi una squadra di rifugiati, aumentati a 29 dai 10 di Rio. Fra loro Dina Puryunes Langerudi, campionessa iraniana di taekwondo scappata in Olanda nel 2015. E tanti siriani, congolesi, eritrei, afghani. Anche un pugile venezuelano.

Insomma, lo spirito olimpico sembrava aleggiare sul Giappone. Non come nel 2008, quando Putin invase la Georgia proprio alla vigilia dei giochi di Pechino, infrangendo la regola bimillenaria della tregua olimpica. O come nel 1980 e 1984, quando le olimpiadi di Mosca e Los Angeles furono dimezzate dai boicottaggi prima di decine di Paesi anticomunisti e poi comunisti.

Quanto politica e sport debbano rimanere separati, è argomento controverso. Il boicottaggio più lungo è stato quello contro il Sudafrica, fino alla fine dell’apartheid nel 1991. Ma era giustificato: i razzisti bianchi pretendevano di mandare alle olimpiadi solo atleti bianchi (in alternativa, una volta proposero spudoratamente una squadra di soli neri). La Nuova Zelanda, unico Paese che nel rugby accettava di incontrare il Sudafrica, fu a sua volta boicottata.

Per il resto, poca roba. L’unica a rifiutarsi di andare a Berlino nel 1936 per i giochi di Hitler fu la Spagna, vittima dei franchisti appoggiati dai nazisti. Nel 1956 Olanda e Svizzera non parteciparono alle olimpiadi di Melbourne dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, ed egualmente Egitto, Iraq e Libano per la guerra di Suez.

Ma Israele fa parte del Cio (Comitato olimpico internazionale), e non discrimina i propri atleti arabi. È stata espulsa da parecchie federazioni sportive asiatiche su impulso dell’Iran, trovando accoglienza in Europa. Però nel 2019 proprio la federazione internazionale judo ha bandito per quattro anni Teheran da ogni gara dopo che gli ayatollah ordinarono a un atleta di non battersi con un israeliano.

Insomma, fra boicottaggi e controboicottaggi, collettivi e individuali, continentali e regionali, si rischia di non finirla più. Innumerevoli sono infatti i conflitti nel mondo. Ed è triste che gli unici presi di mira siano gli israeliani. Dopo che Tohar Butbul sconfisse un judoka degli Emirati ad Abu Dhabi nel 2017, quello non solo rifiutò di stringergli la mano, ma gli voltò la schiena. E quando un altro israeliano vinse l’oro, gli Emirati impedirono che si alzasse la sua bandiera e si suonasse il suo inno, sostituito da quello del Cio.

Ma forse, con fine humour ebraico, la verità l’ha scritta un commentatore di Tel Aviv: “Altro che politica, il judoka algerino ‘chickened out’”. È scappato per paura di perdere. Come un pollo. O un coniglio.

Mauro Suttora 

Saturday, July 24, 2021

Arrestato Barrack, ex padrone della Costa Smeralda. Ma la giustizia italiana aspetta ancora

di Mauro Suttora


HuffPost, 24 luglio 2021


Hanno arrestato Tom Barrack, proprietario della Costa Smeralda dal 2003 al 2012. La comprò dal fondatore Aga Khan per 280 milioni di euro, rivendendola all'emiro del Qatar per 680. Plusvalenza di 400 milioni e 170 milioni di tasse evase, secondo la procura di Tempio Pausania.

Ma le manette ai polsi del finanziere libano-americano non le ha fatte scattare la giustizia italiana. Dopo anni di indagini, da noi il processo non è ancora iniziato. 

Barrack, amicissimo di Trump, è finito in carcere a Los Angeles perché non aveva dichiarato di fare il lobbista per conto degli Emirati Arabi Uniti. Reato grave negli Usa: data la vicinanza col presidente, questo suo grande finanziatore poteva influire sulla politica estera statunitense.

E pensare che Barrack non è riuscito a influire neanche sul piccolo comune di Arzachena (Olbia). Il consorzio Costa Smeralda da decenni cerca di costruire altri hotel di lusso sui suoi 2.400 ettari, ma le leggi sarde lo bloccano. Ecco perché l'Aga Khan vendette, e anche Barrack se n'è andato.


Lo intervistai (https://www.newsweek.com/vacationing-mr-b-135963per Newsweek nel 2003 a Porto Cervo, era arrivato da poco. La Sardegna quell'estate produceva foto incredibili, Berlusconi in bandana scarrozzava Blair. Fareed Zakaria, direttore del settimanale Usa, non mi credeva quando gli descrivevo la Dolce vita della Costa Smeralda, fra il Billionaire di Briatore, Naomi Campbell e Heidi Klum, Valentino e Gwyneth Paltrow, gli eccessi sugli yacht e le imprese di attori, calciatori e proto-olgettine. Eppure il mio articolo superò l'esame dei severi fact-checkers di Newsweek.


Quella che non è stata superata quasi vent'anni dopo è la lentezza della giustizia italiana. Bypassata su Barrack da quella Usa, che lo ha arrestato per fatti di due anni fa. Sempre a Tempio non hanno ancora rinviato a giudizio il figlio di Grillo: prossima udienza a novembre, con calma.

Scopriamo che è ancora in corso il processo per la strage di Bologna di 41 anni fa, hanno appena trovato un nuovo colpevole. E a Genova dopo tre anni il ponte è stato ricostruito, ma non siamo arrivati neanche all'udienza preliminare. Il direttore di Newsweek non ci crederebbe.

Mauro Suttora

Wednesday, July 14, 2021

A Cuba mancano polli e uova. E da 62 anni la libertà

Se gli Usa togliessero l'embargo andrebbe un po' meglio. Ma la dittatura resterebbe

di Mauro Suttora

HuffPost

, 14 luglio 2021

È colpa degli Stati Uniti. No, di Obama che non ha tolto tutto l’embargo. No, di Trump che lo ha inasprito. No, di Biden che non ha tolto gli inasprimenti di Trump. Macché, i cubani si rivoltano perché la pandemia ha fatto sparire i turisti, principale fonte di reddito.

È buffo leggere le spiegazioni sulle proteste a Cuba. Di solito manca sempre una parola. Una parolina semplice, antica, tremenda: dittatura.

Da 62 anni nella maggiore isola caraibica non c’è libertà. Ma poiché la libertà non si mangia, i nostalgici del comunismo sono convinti che i cubani scendano in piazza perché invece mancano polli, uova ed elettricità.

Il che è vero. Ed è anche vero che se gli Usa togliessero l’embargo l’economia andrebbe meglio. Ma Cuba resterebbe una dittatura. E peggio di una dittatura c’è soltanto una dittatura ereditaria. Come quella dei Duvalier haitiani o dei Kim coreani.

I fratelli Castro cubani dimostrano che il potere assoluto allunga la vita. Fidel è morto a 90 anni, Raul li ha compiuti un mese fa. Ma ad aprile ha compiuto un errore imperdonabile: ha passato lo scettro di segretario del partito comunista a Miguel Diaz.

Perché un errore? Perché peggio di una dittatura ereditaria c’è solo una dittatura senza dittatori. Miguel non ha carisma, e un Paese che ha prodotto il più grande mito del ’900, il comandante Che Guevara, non può essere comandato da un burocrate poliziesco laureato in ingegneria elettronica.

Il quale l’altro ieri ha compiuto il secondo errore. Invece di rispondere ai giovani rivoltosi “Avete ragione, vi daremo più polli, più uova, meno controlli su internet e più visti per gli Usa”, ha detto: “Cari giovani libertari, ora arrivano i miei squadristi in borghese, i guardiani della rivoluzione cubana invece che iraniana, e vi menano”.

Può anche darsi che ce la faccia. In Venezuela Maduro è da anni sull’orlo del crollo, la fame è la stessa, ma i suoi poliziotti, militari e manganellatori fanno il loro mestiere.

Il mestiere più difficile è però quello di presidente degli Stati Uniti. Il gigante che sta a cento miglia da quella grande prigione a cielo aperto che è Cuba, la quale a sua volta contiene la piccola prigione Usa di Guantanamo.

Le hanno tentate tutte. Il volenteroso Obama ha tolto metà embargo, ha ‘aperto’ alla dittatura, ha portato quasi un milione di ricchi turisti Usa di nuovo a Cuba in crociera, e i cubani con i dollari hanno comprato tanti polli e uova. Ma niente libertà: sempre divise, soldati, burocrati, partito unico, carcere per artisti, intellettuali, dissidenti. Per i gay un po’ meglio, ma guardate il film ‘Prima che sia notte’ di Julian Schnabel.

Il sesso a pagamento sul Malecon ora è per ogni gusto. Gli ultimi difensori del castrismo, attestati sull’obiezione multiuso “E allora Batista?” (invece delle foibe), sanno bene che ai tempi del precedente dittatore filo-Usa, nel 1958, il numero delle prostitute cubane equivaleva all’attuale. Stessa fame.

Il povero Obama era anche andato a Cuba, come il papa, gli Stones e Madonna. Niente da fare, non hanno innescato alcuna glasnost e perestroika cubana. Permessa solo la piccola proprietà privata di ristoranti e b&b.

Poi Trump, per ringraziare i fascisti cubani in esilio che lo fecero vincere in Florida, ripristinò le chiusure, compresa quella delle preziose rimesse dall’estero (stipendio medio cubano: 80€).

Ora Biden è indeciso fra carota e bastone. Da 60 anni il regime cubano dà la colpa del proprio disastro all’embargo Usa. Togliere l’alibi può servire?

Da noi gli illusi del ‘socialismo tropicale’ sono pari ai delusi. Commovente l’anno scorso l’ingenuità con cui abbiamo accolto a Crema i 50 medici e infermieri spediti dalla propaganda cubana ad “aiutarci”. Fingendo di non sapere che i due terzi dei loro stipendi portavano valuta al governo.

Ora scopriamo che l’“ottima” sanità dell’Avana ha vaccinato solo il 15%, e che il virus impazza. L′11 luglio Cuba ha avuto 6.923 nuovi casi e 47 morti. Anche le terapie intensive sono più delle nostre.

Ma è da trent’anni, dal crollo dell’Urss, che il regime cubano è in rianimazione. Magari adesso, dopo i fratelli sovietici e venezuelani, arriverà la falce e martello dei cinesi con nuove bombole di ossigeno.

Mauro Suttora 

Monday, July 12, 2021

Gli inglesi usciti dall'Europa sono più europei che mai


I fischi all'inno, le simulazioni in campo, la medaglia "dismessa"... C'era una volta l'eccezione british  

di Mauro Suttora

HuffPost, 12 luglio 2021


Sorpresa: proprio ora che sono usciti dall’Europa, gli inglesi sembrano essere profondamente europei, tendenza Europa del sud, diciamo. E recidivi: criticati dal mondo intero per aver fischiato gli inni nazionali delle squadre avversarie a inizio partita, hanno ripetuto la performance ieri sera con l’Italia (specialità nostra, ricordate i fischi del ’90 all’inno argentino? Solo che noi ora gli altri inni non li fischiamo più). Fischi e buu che sono tornati ogni volta che gli azzurri impostavano un’azione. Lontani i tempi in cui i tifosi inglesi erano rinomati perché si limitavano a cori di sostegno alla propria squadra, rispettando le altre.

E i cascatori? Pensavamo che le sceneggiate fossero una nostra specialità, ma Sterling e compagni hanno dimostrato di avere ottimamente imparato la lezione, tipo Ciro Immobile, che però ci ha provato una volta sola. “Sono iniziati i tuffi”, si è lamentato l’allenatore inglese col quarto uomo alla prima caduta di un nostro giocatore. Ma poi i suoi hanno inventato spinte e prodotto smorfie di esagerazione che l’arbitro avrebbe potuto punire, visto che esistono i falli di simulazione.

Il catenaccio, poi. A metà ripresa e per tutti i supplementari è avvenuto un miracolo: gli italiani padroni del campo, sembravamo noi gli spagnoli del tikitaka. Uno snervante possesso palla perché quelli si sono rinchiusi nel loro fortino, rinunciando a giocare. Terrorizzati dal nostro contropiede, anche dopo l’uscita dello stellare Chiesa hanno mirato solo a fare passare il tempo, sperando nella roulette dei rigori.

Ben altre sono le regole del fair play, parola che dovremo abbandonare per una traduzione italiana, perché pure gli inglesi talvolta si scordano che significhi. Talvolta, perché per fortuna c’è quel gran signore di Gary Lineker che prima ha implorato i tifosi di non fischiare il nostro inno, e poi si è complimentato per la nostra vittoria: “meritata”, ha scritto su Twitter.

Ma l’apoteosi è arrivata alla fine, quando i loro giocatori si sono tolti la medaglia d’argento ricevuta alla premiazione, uno dopo l’altro. Uno spettacolo incredibile in mondovisione. Accettare le sconfitte con dignità è una delle principali regole dello sport. Anche questa parola inglese, da loro dimenticata. Pure il brasiliano Neymar si è tolto la medaglia l’altra sera, battuto dall’Argentina. Ma sono abitudini sudamericane, appunto.

Non infieriamo sulla resurrezione dei teppisti, che hanno assaltato i nostri tifosi prima e dopo la partita. Ci avevano detto che gli hooligans ubriachi erano quasi spariti dopo la strage dell’Heysel nel 1985. Invece ieri in centinaia hanno cercato di entrare a Wembley senza biglietto, e 45 sono stati arrestati nella guerriglia dopo la partita. E probabilmente erano sobri quando puntavano il laser al volto del portiere danese Kasper Schmeichel per disturbarlo durante i rigori.

Mattarella, infine. Più imperturbabile di un inglese, si è leggermente mosso dopo il gol italiano. Non conosciamo le regole del protocollo internazionale, ma nel 1982 il re spagnolo accolse caloroso Pertini accanto a lui in tribuna. Il povero Mattarella invece era desolantemente solo, ignorato dal principe William.

Insomma, dicevano a noi Pigs: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, indebitati, indisciplinati, inaffidabili. Ora invece assistiamo sgomenti alla scomparsa dell’english style, quello che fa dir loro “I beg your pardon”, imploro il vostro perdono, invece di un semplice “scusi”. L’aplomb è emigrato da Londra ed è volato a Madrid posandosi su Luis Enrique, il gentiluomo spagnolo di questi europei, e fratello gemello di Pep Guardiola che, dopo la sconfitta in finale di Champion’s, la sua medaglia se l’à baciata e tenuta lo stesso.

Aveva proprio ragione Salgari: il suo campione della flemma era Yanez de Gomera, portoghese.

“You are a good sport”, sei un amico, diceva sempre il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Ma ora allo sport delle latitudini londinesi sembra più attagliarsi questa sarcastica, feroce definizione: “Lo sport non ha niente a che fare col fair play. È legato ad astio, gelosia, vanagloria, noncuranza di qualsiasi regola, e al sadico piacere di assistere a manifestazioni di violenza. Insomma, è come la guerra. Ma senza l’esecuzione”.

Parola di George Orwell. Inglese.

Mauro Suttora

 

Saturday, July 10, 2021

Conte vs Draghi/ La commedia dell’ex premier nasconde la sconfitta di M5s

Dopo il Cdm che ha superato il giustizialismo di Bonafede, Conte attacca il governo, ma la sua capacità di nuocere è limitata. Conseguenze sul Pd

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 10 luglio 2021

Non si può dire che il governo sia arrivato sull’orlo della rottura, questo no. Ma Draghi ha dovuto imporsi, ha preteso l’unità e l’appoggio formale dei 5 Stelle alla riforma della giustizia penale, uno dei tasselli più importanti per avere i fondi del Recovery. I ministri grillini, e dietro di loro i gruppi parlamentari spaccati a metà, difendevano la riforma Bonafede, arrivando a ipotizzare l’astensione sulle modifiche proposte dalla ministra Cartabia, ma Draghi ha detto no. Si è così arrivati in modo molto laborioso a una nuova mediazione che ha ottenuto l’assenso di tutti. 

Problema risolto? Nemmeno per idea: a proposito della “improcedibilità” – la soluzione tecnica congegnata per superare la prescrizione – Conte ieri ha detto che “è tornata un’anomalia italiana”. Una premessa non incoraggiante per l’iter del ddl e per gli emendamenti che lo attendono in aula. 

Ma l’opposizione dei contiani, dice Mauro Suttora, giornalista e scrittore, attento osservatore della parabola grillina, “è ininfluente: il governo Draghi durerà almeno fino a gennaio, quando si eleggerà il successore di Mattarella. Conte fa solo ammuina. La vera novità è la rottura completa di Di Battista”. 

La mediazione Cartabia sulla prescrizione è una vittoria o una sconfitta per M5s?

È una sconfitta per i grillini e una vittoria per lo stato di diritto. Ma in realtà il vero problema non è la prescrizione. Alla prescrizione uno stato civile non deve neanche arrivare. Il vero nodo, quel che interessa l’Europa, è la lentezza della nostra giustizia. Proprio ieri c’è stata la prima udienza del processo al figlio di Grillo, per uno stupro di due anni fa. E c’è stato un ulteriore rinvio all’11 novembre, cioè fra quattro mesi. Assurdo. Così come non è accettabile che non sia ancora iniziato il processo per il ponte Morandi di Genova, dopo ben tre anni.

Si è saputo che sono stati i contiani a mettersi di traverso: la prescrizione era la loro linea del Piave. Se prima c’era qualche dubbio, forse ora non più: è Conte l’avversario n.1 di Draghi?

Conte continua a giurare di no, quindi probabilmente è vero. Ma è ininfluente: il governo Draghi durerà almeno fino a gennaio, quando si eleggerà il successore di Mattarella.

Il blocco contiano (parte di M5s, Fatto Quotidiano e toghe) punta davvero a far cadere il governo? Parrebbe fantascienza, ma parlano le azioni politiche.

Le azioni politiche di Conte sono la famosa “ammuina” in napoletano, “posturing” in inglese: dichiarazioni tanto roboanti quanto vuote, pronunciate a uso dei fans e dell’opinione pubblica. Una commedia.

Secondo le indiscrezioni, i parlamentari grillini erano per dire sì alla proposta Cartabia, i contiani per uscire dalla maggioranza. Questo che cosa ci dice della disfida Conte-Grillo?

È buffo che ora occorra distinguere fra grillini-grillini e grillini contiani. E ancor più comico che stiano litigando da mezzo mese su uno statuto che nessuno ha potuto leggere, neanche i parlamentari. Speriamo che non resti segreto almeno per i sette capetti grillini che dovrebbero dirimere la questione.

Dopo il Cdm, Conte è stato il più critico: sulla prescrizione, ha detto, si è “tornati a un’anomalia italiana”. Il suo partito è più vicino? Magari cominciando da una scissione dei gruppi parlamentari?

È irrilevante che i grillini si scindano. Ormai sono un moncherino di gruppo parlamentare che verrà spazzato via dal prossimo voto. Tutti i sondaggi dicono che in totale stanno al 15-17%, e che nessuna delle due fazioni supererà il 10% se si presenteranno divisi.

Secondo nostre informazioni, critiche pesanti ai ministri pentastellati vengono dai 5 Stelle presenti nella commissione Ambiente della Camera. Ad oggi, i parlamentari M5s di quella commissione non intendono votare il dl Semplificazioni bis. Come commenti?

Come sopra: sceneggiate. Al governo Draghi non c’è alternativa.

Durante la guerra fredda il Pci era escluso dal governo, adesso c’è una seconda guerra fredda e i 5 Stelle fanno parte dell’esecutivo. È un problema.

Per la verità dal 1976 al 1979 il Pci governò l’Italia assieme alla Dc, durante la solidarietà nazionale. Anche oggi c’è una solidarietà nazionale per il virus e il Recovery fund. I grillini sono inquietanti per la loro simpatia verso la Cina, Conte non ha preso le distanze dalla visita di Grillo all’ambasciatore cinese a Roma. Ma Di Maio come ministro degli Esteri sembra aver abbandonato le precedenti scivolate su Cina e Trump.

Ti faccio un nome: Di Battista. Ieri si è scagliato per la prima volta contro Di Maio e gli altri ministri grillini, definendoli “incapaci, pavidi, inadeguati”. È la rottura completa. Il travaglio di M5s quanto danneggia il Pd?

In teoria il Pd dovrebbe recuperare un po’ di voti dallo sfacelo grillino. Ma non gli è riuscita l’impresa di Salvini, che nell’anno dell’alleanza gialloverde aveva dimezzato i voti del M5s e raddoppiato i propri. Intanto, Letta nei sondaggi naviga mesto sotto il 20%. E i dirigenti Pd come Bettini e Zingaretti, che avevano incoronato Conte come nuovo leader della sinistra, si rendono conto dell’abbaglio preso.

Tuesday, June 29, 2021

Svizzera-Francia, cancellata la storica sconfitta di Marignano

di Mauro Suttora

HuffPost, 29 giugno 2021

Ieri sera la Svizzera ha compiuto un’impresa storica. Ha vendicato la sconfitta subìta nel 1515 a Marignano (oggi Melegnano, primo casello dell’Autosole), dopo la quale i francesi le imposero la pace perpetua con il divieto di attaccarla. 

Allora gli elvetici erano i soldati più forti del mondo. Non per nulla i Papi si circondarono di guardie svizzere per la loro difesa personale (non hanno più smesso). Sconfissero gli Asburgo, la Francia, la Borgogna. All’inizio del ’400 cominciarono a calare nella valle del Ticino dal cantone Uri, oltre il passo del San Gottardo, dilagando in Lombardia.

Il ducato di Milano pian piano perse il canton Ticino: prima Bellinzona, poi Locarno, infine Lugano. E nel 1512 gli svizzeri guidati dal cardinale Andreas Schiner di Sion, più bellicoso che pio, s’impadronirono di tutta la Lombardia. Misero sul trono come loro fantoccio il 19enne Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro.

Per tre anni a Milano comandò la soldataglia elvetica. Pochi lo ricordano, ufficialmente erano solo i protettori del giovane Sforza. Il quale è dipinto dallo storico Paolo Giovio come un ragazzo puzzolente, che si cambiava raramente gli indumenti intimi e aveva pidocchi nei capelli. Il governo lo annoiava, preferiva distrarsi  cacciando: donne e animali.

Nel 1515 sale sul trono di Francia un altro ventenne, Francesco I. E come prima cosa scende in Italia per riprendersi la Lombardia, già appartenuta a Carlo VIII e a suo zio Luigi XIII.

Lo scontro a Marignano è sanguinosissimo. Gli svizzeri, guidati dal cardinale Schiner in persona, perdono migliaia di soldati. Ma egualmente avrebbero vinto sui francesi se di notte non fossero sopraggiunti i veneziani di Bartolomeo d’Alviano a bastonarli definitivamente.

Così gli svizzeri devono ritornarsene in canton Ticino. Il confine da allora viene fissato arbitrariamente a Chiasso, sobborgo di Como. Diventerà la frontiera più antica e pacifica del mondo: mezzo millennio senza guerre.

Col trattato di Friburgo del 1516 i francesi costringono gli svizzeri alla neutralità: basta mercenari, restatevene fra le vostre montagne.

E così è stato, tranne la parentesi napoleonica che travolse la Svizzera assieme a tutta l’Europa.

Ieri sera è arrivata la vendetta elvetica. Come a Marignano, tutto si è deciso alla fine: con i due gol del pareggio rossocrociato negli ultimi sette minuti, e il rigore fallito da Mbappè. Il cardinale Schiner è risarcito.

Mauro Suttora

Rottura Grillo-Conte

CAOS M5S/ “Oggi Grillo dirà no a Conte, che farà una sua Dc con il Pd”

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 giugno 2021

Sfida M5s. Conte vuole un partito vero, non vuole essere un “prestanome”, né gli va bene una diarchia. Oggi la replica di Grillo

“Beppe ritiene che tutto vada bene così com’è salvo alcuni aggiustamenti” dice Conte in conferenza stampa. Lui invece, l’ex premier, dice di non potersi impegnare in un progetto in cui non crede, segnato da quelle che definisce “ambiguità”. E poi un duro colpo all’indirizzo del garante: nessuna diarchia, no “a un leader ombra affiancato da un prestanome”, serve “una profonda ristrutturazione” (grazie al nuovo statuto elaborato dall’ex capo del governo), “una più chiara identità politica”.

La sfida per la leadership di M5s “è un braccio di ferro in cui ormai è difficile che uno dei due non perda la faccia” dice Mauro Suttora, giornalista e scrittore, un libro sui confini, ex inviato dei settimanali Europeo e Oggi, attento osservatore dei 5 Stelle. 

Ormai è una guerra di nervi e di comunicazione. Per Suttora, entrambi cercano di evitare lo spettro di Monti: una lista, più o meno personale, intorno al 10 per cento. E dire che una soluzione l’avrebbero; ma non la vogliono, o non la vedono.

In serata era annunciata la risposta di Grillo, poi il garante rinvia e dice che risponderà oggi. Cosa succede intorno all’“elevato”?

È un braccio di ferro in cui ormai è difficile che uno dei due non perda la faccia. Conte ha mandato in confusione Grillo, che ora ha paura di compiere un passo falso.

Su cosa staranno ragionando Grillo e il suo entourage?

La pretesa di Conte di fare votare il suo statuto così com’è, senza possibilità di emendarlo né da parte di Grillo né dei parlamentari, è irricevibile. E senza Conte i grillini crollano attorno al 10%.

Se il primo comandamento politico è rimanere in partita, chi oggi assicura di più questo obiettivo al Movimento? Grillo o Conte?

Entrambi. Conte c’è da tre anni, Grillo da trenta, visto che è dall’inizio degli anni 90 che i suoi spettacoli hanno assunto un’impronta politica. Da 15 anni invece è impegnato direttamente: prima coi Meetup, poi con gli amici di Grillo, e infine, dal 2009, con il Movimento 5 Stelle. Difficile che ora lui e i grillini della prima ora rinuncino a tutto, affidandosi mani e piedi a Conte, il quale fino al 2018 manco sapeva cosa fosse il M5s, non aveva mai partecipato a una sua iniziativa, e tuttora non è iscritto.

“Non ha senso imbiancare una casa che necessita di una profonda ristrutturazione”, ha detto Conte riferendosi a Grillo. Cosa vuole realmente l’uno e cosa vuole l’altro?

È proprio questo il loro dramma: nessuno affronta problemi concreti. Il loro dissidio non è sulle soluzioni da dare, non si dividono su quello. È soltanto uno scontro di ego: comando io, comandi tu. Come quando da bambini giocavamo e litigavamo su chi era il capo.

Dunque sono le personalità ad essere inconciliabili.

Sì e no. Sono agli antipodi: Grillo è irruento tanto quanto Conte è pacato. Tanto il primo è provocatorio, tanto il secondo è mellifluo. Poi, nelle coppie tutto può capitare. Poiché gli opposti si attraggono, se sapessero fondersi sarebbero un duo perfettamente complementare.

La mitica “base” di M5s, puntualmente evocata, ammesso che ci sia ancora, con chi sta?

I registrati alla piattaforma di Casaleggio non pagano un cent per l’iscrizione, che è gratuita. E quel che non costa niente non vale niente. Molti sono stati iscritti da amici, parenti e conoscenti che hanno bisogno di voti per farsi eleggere alle primarie online. Questa strana “base” è divisa a metà fra i fedeli al sogno originario di un movimento di rottura e la popolarità di Conte, l’unico che potrebbe arginare la frana elettorale che li ha dimezzati. Idem gli elettori.

Conte, per realizzare il suo progetto, ha ribadito di pensare ad un “campo largo”. Con chi lo fa? Con Letta? O con i voti degli elettori piddini?

Sono buffi i politici quando dicono che vogliono un “campo largo”. È ovvio che tutti mirino ad avere più voti possibile. E Conte è ormai fisso nel centrosinistra, dovrà allearsi col Pd.

Si trova una sintesi tra i due o no?

Non lo so. Se sono furbi, sì. Se sono onesti, no. Conte è un democristiano moderato, i grillini invece dicevano di essere rivoluzionari. Ma le auto blu trasformano tutti, e sia Conte che Grillo hanno già fatto parecchie capriole pur di rimanere al potere.

Rivoluzionari contro democristiani. Per forza che Grillo e i suoi non possono accettare lo statuto contiano. Sarebbe la loro eutanasia.

I grillini erano nati proprio per contestare i partiti soffocati da quegli statuti, con burocrazie, sedi e dirigenti locali. La famosa Casta. Ma loro ai valori fondanti hanno già rinunciato da tempo, e l’eutanasia si può praticare solo una volta. Parafrasando Francesco Ferrucci con Maramaldo, “tu uccidi un partito morto”.

“Una diarchia non sarebbe funzionale”, dunque no “a un leader ombra affiancato da un prestanome”, ha detto ancora Conte. Assomiglia tanto a una definizione brutale di come ha funzionato M5s fino ad oggi. Che ne pensi?

Certo. Glielo ha chiesto un giornalista nella conferenza stampa, e il povero Conte ha dovuto glissare: “Mi riferisco al futuro”.

Chiedono a Conte se ha un piano B e lui risponde che non ha doppie agende, no, non ha “nessun piano B”. Secondo te?

Se rompesse coi grillini non gli converrebbe fare una lista personale. Non avrebbe abbastanza soldi, e finirebbe come la lista Monti nel 2013, sotto il 10%.

In caso di rottura, che cosa succede? Ritieni che si vada verso la pseudo-Dc grillina che avevi preventivato, con Conte leader?

Sì, ma non avrebbe niente di grillino. Sarebbe un partito moderato.

Nel frattempo Di Maio con chi sta? Fa politica o aspetta che passi ’a nuttata?

Visto che lo statuto di Conte prevede un vicepresidente del nuovo partito, magari mira a quella poltrona. Ma penso che gli basti la Farnesina, almeno fino alle prossime elezioni. Poi uno brillante come lui non avrà difficoltà a riciclarsi.

Devi ammettere però che Di Maio non è grillino doc, è più qualcos’altro.

Di Maio, come Conte, è uno di quei meridionali con lingua sciolta e cervello fino. In più è composto come uno svizzero. Berlusconi lo adora.

Grillo non può sfiduciare Draghi perché ci ha messo la faccia. E Conte?

Nessuno può sfiduciare Draghi. Men che meno i grillini, i quali sperano che la legislatura duri il più possibile. Perché quando si voterà, di loro verrà rieletto solo uno su tre.

Federico Ferraù 

Monday, June 28, 2021

Olanda e Belgio, scherzi del destino pallonaro in una storia bimillenaria

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 giugno 2021

Tre ore hanno separato ieri il cammino di Olanda e Belgio: cacciata la prima dagli Europei a opera della Cechia, e giustiziere il secondo dei campioni uscenti portoghesi di Ronaldo. A completare l’overdose di notizie dal Benelux, nello stesso pomeriggio il premier lussemburghese Xavier Bettel ha annunciato di avere il Covid.

Scherzi del destino, ma solo gli ultimi nella storia bimillenaria di questi Paesi così vicini e lontani. Perché Gallia Belgica già si chiamava il nord della Francia nell’impero romano, eppure il Belgio ha conquistato soltanto 190 anni fa la sua indipendenza dall’Olanda, seguito a ruota dal Lussemburgo.

Tutta colpa di Lotario, il nipote di Carlomagno che nella tripartizione del Sacro romano impero ebbe la Lotaringia, oblunga creatura ficcata tra Francia e Germania, con le valli del Rodano e del Reno. Poi subentrano Lorena e Borgogna, e quando l’ultima regina borgognona sposa un Asburgo la frittata è fatta: i Paesi Bassi (Belgio più Olanda) diventano austriaci e poi spagnoli. 

Le sette province del nord, diventate protestanti, ci mettono 80 anni a cacciare gli spagnoli. Diventano la nazione più ricca e potente del mondo, sostituendo i regni iberici nei traffici oceanici. L’Olanda nel ’600 domina il pianeta da New Amsterdam (New York) a Batavia (Indonesia), passando per i Caraibi (Aruba, Curaçao, Sint Marteen), Suriname e Città del Capo. Le sue Compagnie delle Indie occidentali e orientali sono le prime multinazionali della storia.

Le guerre anglo-olandesi del ’700 stabiliscono il predominio britannico, ma l’Olanda conserva ricchezza e colonie. Intanto crescono le province cattoliche del sud (Fiandre, Brabante, Vallonia, oggi Belgio), rimaste alla Spagna e poi all’Austria.

Dopo Napoleone le Fiandre godono di un boom industriale pari a quello inglese, Anversa diventa il porto più trafficato del mondo. Ma la Restaurazione la consegna con Gand, Bruges e Liegi al regno d’Olanda, che ne approfitta per spostare i traffici sui propri porti di Amsterdam e Rotterdam. Così i belgi si ribellano e nel 1831 ottengono l’indipendenza ripristinando il confine religioso, mentre quello linguistico rimane misto: tuttora i fiamminghi parlano olandese nelle loro Fiandre, mentre i valloni sono francofoni.

Provate a usare il francese con un fiammingo a Bruxelles: vi risponderà in inglese.

Il Belgio si arricchisce enormemente fino a 60 anni fa sfruttando la colonia del Congo. Oggi Lukaku lo ha portato in cima alla classifica Fifa, ma sono milioni i suoi avi morti nelle piantagioni di caucciù.

La nazionale belga non era disprezzabile negli anni ’50, nel 1980 è battuta dalla Germania nella finale europea di Roma, però i successi internazionali arrivano solo nell’ultimo ventennio, in corrispondenza con il declino delle due grandi Olande: quella di Cruijff negli anni ’70, e lo squadrone Gullit-Van Basten-Rijkaard dieci anni dopo. 

Tuttavia per entrambe il carniere è scarsissimo: l’Olanda agguanta solo gli Europei 1988 e perde tre finali mondiali; zero titoli per il Belgio.

Mancini e Vialli ora sperano di ripetere l’impresa del 1990, quando la loro Sampdoria vinse la finale di Coppa Uefa contro l’Anderlecht di Bruxelles. Ma sarà dura quanto per Gimondi fronteggiare Merckx. È il dramma di essere campioni, ma contemporanei di un cannibale. Lo stesso problema dei ciclisti olandesi: tutti ottimi, da Zoetemelk a Mollema. Ma perennemente sovrastati dai belgi, fossero Rik Van Looy o Evenepoel. Anche perché le ‘classiche’ si corrono in Belgio: l’Olanda è piatta. Come la sua nazionale di calcio ieri.

Mauro Suttora

Wednesday, June 23, 2021

Trent'anni dopo le guerre dell'ex Jugoslavia, Slovenia e Croazia litigano ancora

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 giugno 2021

Trent'anni fa, il 25 giugno 1991, iniziò il decennio delle guerre in Jugoslavia. Slovenia e Croazia si dichiararono indipendenti, ma il presidente fasciocomunista della Serbia Slobodan Milosevic non accettò lo smembramento dell'ex dittatura di Tito, morto dieci anni prima.

Il conflitto con la Slovenia si risolse in dieci giorni con qualche decina di morti. La guerra serbo-croata invece durò quattro anni, coinvolse la Bosnia e fu sanguinosissima: quasi centomila morti.

Nel 1999, infine, l'appendice del Kosovo: per liberare la provincia albanese della Serbia evitando altri genocidi di civili come quello bosniaco di Srebrenica (settemila assassinati sotto gli occhi dell'Onu) dovette scendere in campo la Nato. Che è ancora lì, compreso il contingente italiano.

Oggi è inimmaginabile una guerra civile nel cuore dell'Europa. Slovenia e Croazia sono nella Ue, la frontiera con l'Italia non esiste più. 
Il problema è che anche trent'anni fa nessuno ipotizzava un ritorno alle armi. Anzi, il crollo del comunismo sembrava aprire un'era di pace per il nostro continente (che in effetti è tuttora in corso, a parte il buco nero jugoslavo).

Com'è potuta accadere, allora, una simile tragedia? I nostalgici del maresciallo Tito danno a lui il merito di aver mantenuto la pace per 35 anni fra cinque nazionalità, tre religioni e due alfabeti, seppure al prezzo della mancanza di libertà: "Morto lui, sono rinati gli antichi odi".

Gli storici non comunisti invece addossano proprio al regime titoista la responsabilità della seconda guerra civile jugoslava (la prima, assieme alla guerra di liberazione dai nazisti, costò un milione di morti nel 1941-45): "Gli odi etnici erano stati solo repressi dalla dittatura, ma più le pentole accumulano pressione, maggiore è lo scoppio finale".

In ogni caso, anche negli anni '90 avvennero crudeltà inimmaginabili. Quando andai in Jugoslavia per il settimanale Europeo con Gianfranco Moroldo, storico fotografo di Oriana Fallaci, scoprimmo che, come nei film di Kusturica, la guerra cominciava ogni giorno dopo le cinque del pomeriggio: quando i combattenti di entrambe le parti si ubriacavano. "Non farmi più tornare fra questi pazzi", mi disse Moroldo, "io ho visto guerre in tutto il mondo, dal Medio Oriente al Vietnam, ma questa è peggio. Non esiste un fronte definito. Di morire per un proiettile vagante non ho voglia".
Eravamo vicino a Knin, in Kraina, fra tigri di Arkan serbe cristiane ortodosse armate di cucchiai dai bordi affilati per cavare gli occhi ai nemici, e frati francescani croati cattolici che impugnavano il mitra.

E oggi? Il generale serbo Ratko Mladic, 78 anni, condannato come criminale di guerra per il massacro di Srebrenica, ha avuto l'ergastolo confermato in appello appena due settimane fa dal tribunale dell'Aia. Carcere a vita anche per il 76enne Radovan Karadzic, già presidente serbo della Bosnia, che sta per essere trasferito dall'Olanda in un carcere britannico.

Tutta la ex Jugoslavia adesso è lontanissima dalle follie omicide degli anni '90. L'Istria, rimasta indenne dal conflitto, è spartita fra Slovenia e Croazia. Ma scrivendo il libro 'Confini' (ed. Neri Pozza, 2021) ho scoperto che il loro confine marittimo nel vallone di Pirano, a pochi chilometri dall'Italia, è ancora contestato dagli opposti nazionalismi sloveno e croato. 
Lubiana reclama un corridoio di accesso alle acque internazionali, Zagabria non accetta la sentenza di arbitrato. Nel 2020 la corte europea ha dichiarato di non essere competente. 
Così continuano i sequestri di pescherecci da una parte e dall’altra. Per la gioia dei delfini, arrivati numerosi nel golfo di Trieste: sono attratti dall’abbondanza di pesce provocata dall’assenza di pescatori.
Mauro Suttora

Saturday, June 19, 2021

Caos M5s: Conte vuole una nuova Dc grillina, ma deve fare i conti con Grillo e Casaleggio

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 19 giugno 2021

Ecco l’obiettivo: fare il partito di Conte. Ci siamo?

Certo. Era ora, sono passati quasi cinque mesi dalle sue dimissioni da premier. Passati a litigare col figlio di Casaleggio, fino a estrometterlo dal partito fondato dal padre.

Grillo non vuol essere emarginato. Riuscirà a impedirlo, oppure Conte è ormai troppo forte?

Conte è forte perché i sondaggi gli danno ancora una popolarità del 50 per cento, secondo solo a Draghi. Per questo i grillini si sono affidati totalmente a lui. Contemporaneamente, Grillo si è suicidato politicamente con il video isterico sul figlio accusato di stupro e con la sue 'cineserie'.

Ma il comico di Genova resta il padre-padrone dei grillini, impossibile emarginarlo. 

Gli iscritti hanno/avranno ancora voce o andiamo verso un partito come un altro?

In realtà gli iscritti 5 stelle non hanno mai avuto voce. Sfatiamo un mito. La tanto pubblicizzata democrazia diretta si risolveva in plebisciti con domande manipolate. 'Offerte che non si possono rifiutare', come diceva Marlon Brando nel Padrino. L'unico momento in cui gli iscritti contavano erano le primarie online per scegliere i candidati alle elezioni. Ma nel 2018 molti di loro, nei collegi uninominali, e tutti i ministri esterni furono scelti direttamente da Di Maio. Fra questi c'era proprio Conte, che quindi deve eterna gratitudine a Gigi. Da anni il Movimento 5 stelle è diventato un partito uguale agli altri.


Conte che partito vuole? Facci l’identikit politico.

Conte vuole una nuova Democrazia cristiana, perché è consustanzialmente un dc. Nei modi flautati, nel trasformismo, in tutto. Vuole essere la gamba di centro del centrosinistra.

Conte riuscirà a sostituire Grillo con Travaglio?

Né Grillo né Travaglio, con i loro estremismi, possono avere spazio nel nuovo partito moderato di Conte. 

Che ruolo ha Di Maio in questa partita?

Il ruolo del pesce in barile. Deve tenersi buoni sia Conte che Grillo, per non perdere i voti moderati del primo e quelli esagitati del secondo.

Prevedi malumori nella parte che dovrebbe seguire Conte, cioè l'attuale M5s al netto di chi seguirà o ha seguito Casaleggio? Fino a.... un'altra spaccatura?

Prima o poi la spaccatura è inevitabile. Probabilmente i movimentisti come Di Battista, Lezzi, Morra e i tanti rimasti ancora nel M5s finiranno in un nuovo partito, magari usufruendo dei servizi di Casaleggio, che medita vendetta.

In che modo Conte pensa di destabilizzare o indebolire Draghi e il governo? Che partita politica intende giocare?

Conte non vuole destabilizzare il governo Draghi. Anzi, spera che duri il più possibile, perché le prossime elezioni falcidieranno i grillini, riducendoli del 60-70 per cento. Però alzerà la voce, come Salvini, per accontentare gli estremisti come Di Battista e non perdere quel tipo di elettori.

M5S è il partito italiano più filo-cinese, come può far parte di un governo ultra-atlantista? Questa contraddizione rischia prima o poi di esplodere come problema politico?

Non penso, in Italia la politica estera interessa a pochi e non sposta voti.

Dopo la fine dei rapporti con Casaleggio, come verrà risolta la spinosa questione dei debiti nei confronti dell’Associazione Rousseau?

Se i grillini daranno al figlio di Casaleggio i 250mila euro pattuiti, non ci saranno problemi. Ma spero per loro che nell'accordo rientri anche una clausola, magari segreta, di 'non concorrenzialità' alle prossime elezioni politiche. Un partitino Casaleggio-Di Battista-Paragone potrebbe rosicchiare un 5-10 per cento ai grillini. 

Letta-Conte, da tempo si annusano, ma la fusione fredda non scatta. Cambierà qualcosa? E produrrà subito effetti in vista delle prossime amministrative?

Alle amministrative di autunno grillini e Pd saranno in concorrenza. Anche dove avranno un candidato unico, come a Napoli, le liste saranno separate. Né vedo possibilità di fusione in seguito. Al massimo di annessione da parte del Pd, se i grillini andranno sotto il 10 per cento.


Qual è il tuo pronostico su Roma?

Ballottaggio Pd-centrodestra. La Raggi non dovrebbe superare il 15 per cento.


Wednesday, June 16, 2021

Euro 2020, Finlandia-Russia e gli eroici soldati sciatori che nel 1940 bloccarono Stalin

di Mauro Suttora

HuffPost, 16 giugno 2021

Oggi alle 15 si gioca Russia-Finlandia. La Russia è 38esima nel ranking Fifa, la Finlandia 54esima. Ma è la prima volta nella storia che i finlandesi riescono a qualificarsi alla fase finale di un campionato europeo o mondiale. E sono reduci dalla clamorosa vittoria sulla Danimarca, decima al mondo.
Quindi godono dell'abbrivio dell'entusiasmo, il famoso 'momentum'. Diversamente dai russi, reduci dal deprimente 0-3 contro il Belgio di superLukaku. Il Belgio guida la classifica Fifa e arrivò terzo all'ultimo mondiale, ma resta sempre un Paese di 11 milioni di abitanti rispetto ai 144 della Russia. Figurarsi se i russi dovessero sfigurare anche contro la Finlandia, che ha appena cinque milioni di abitanti.

I finlandesi noi li conosciamo bene: sono arrivati secondi nel girone eliminatorio vinto dall'Italia nel 2019, battendo Grecia, Bosnia, Armenia e Liechtenstein.
Ma gli amanti della storia conoscono la Finlandia anche per altri motivi. Indro Montanelli, innanzitutto. Che nell’inverno 1939/40 scrisse articoli memorabili per il Corriere della Sera sulla guerra Finlandia-Urss. Scatenata da Stalin il quale, d'accordo con Hitler, voleva ingoiare il pacifico Paese in base alla parte segreta del patto Molotov-Ribbentrop. La Finlandia aveva conquistato l'indipendenza per la prima volta nella storia nel 1917, dopo essere stata sempre sottomessa nei secoli a Svezia o Russia. E a 30 sottozero resistette molto più a lungo dei poveri polacchi, appena spartiti fra nazisti e comunisti. Una guerra epica: 115 aerei finlandesi contro 2.300 sovietici.
Cosicché all'armistizio del marzo 1940 Stalin dovette accontentarsi di annettere la Carelia.

Nel dopoguerra, e fino al crollo del comunismo, la Finlandia ha poi dato il proprio nome allo stato di soggezione in cui cadono certe Nazioni deboli, succubi di vicini potenti e arroganti: "finlandizzazione". Urho Kekkonen, vecchio ed eterno presidente finlandese dagli anni 50 agli 80, guidava in sostanza un Paese satellite di Mosca, anche se rimaneva una libera democrazia. In cambio la Finlandia ebbe le Olimpiadi del 1952 e la conferenza di pace del 1975. Anche oggi a Cina e Russia piacerebbe 'finlandizzare' l'Europa intera.
Il terzo motivo per cui la Finlandia è conosciuta in Italia è la sua lingua impossibile: "ugrofinnico" è sinonimo di incomprensibile.

Il massimo dell'indecifrabilità fu raggiunto dall'incredibile impresa del 28 maggio 1987, quando il 18enne tedesco Mathias Rust riuscì a volare da Helsinki a Mosca su un piccolo aereo privato, atterrando industurbato davanti al Cremlino. Quella perforazione del massimo apparato militare mondiale da parte di un pacifista brufoloso provocò all'impero sovietico un'umiliazione da cui non si riprese più.  
Dopo di allora la Finlandia non ha più fatto notizia. Perché è un Paese civilissimo, dove quindi non succede mai niente. L'unica epopea è stata quella della Nokia, gigante dei telefonini negli anni 90, poi crollata e ora risorta. Questo articolo è scritto su un Nokia.

Per il resto, il maggior brivido che può scuotere la felice e monotona vita di un abitante di Helsinki è quello di imbarcarsi la sera dei weekend su un traghetto per Tallinn (Estonia). Oltrepassato il limite delle acque territoriali, sbronze a volontà: sui liquori non grava più la supertassa che cerca di limitare la piaga dell'alcolismo. Andate a vedere il film 'Un altro giro' e capirete.

Perciò, se alle 17 di oggi i calciatori finlandesi vincessero o anche solo pareggiassero contro la Russia, finirebbero nei libri di storia come gli eroici soldati sciatori finlandesi del 1940.
Mauro Suttora

Sunday, June 13, 2021

Quando la Sardegna “confinava” con il Principato di Monaco

Alla scoperta delle tante storie dei confini italiani con Mauro Suttora

di Roberto Roveda

Unione Sarda, 13 giugno 2021

A cavallo del Terzo millennio ci siamo sentiti tutti un po’ globalizzati e i confini sono sembrati retaggio di un passato destinato a cedere sempre più il passo alla libera circolazione delle persone, dei prodotti e delle idee. Nel giro di pochi anni però le cose sono cambiate rapidamente e drammaticamente, facendo tornare d’attualità le frontiere. Prima le crisi economica, poi l’aumento dei flussi migratori ed infine la pandemia da Coronavirus hanno fatto riapparire quei controlli sulle linee di confine che erano scomparsi da anni. 

Abbiamo così in un certo senso riscoperto che l’Italia prima o poi “finisce” per lasciare posto ad altre terre, lingue, culture e amministrazioni. Già, ma dove nascono i confini terrestri della nostra Penisola? E veramente, come si pensa spesso, coincidono con le Alpi e sono rimasti immutati nel corso dei secoli?

Le cose non sono così semplici, come ci racconta il giornalista Mauro Suttora nel suo Confini (Neri Pozza, 2021, pp. 288, anche e-book), vera miniera di storie, aneddoti e segreti riguardanti le frontiere italiane. Nel libro riviviamo, infatti, le tante vicissitudini attraverso le quali si sono formati i limiti geografici e linguistici del nostro Paese. 

Storie ricche di sorprese, dato che abbiamo terre patrie in cui si parla il tedesco (Alto-Adige), francese (Valle d’Aosta) e lo sloveno (nel Friuli) mentre l’italiano è l’idioma più diffuso in alcune aree della Svizzera ai confini con la Lombardia.

Storie inaspettate se pensiamo che per qualche decennio la Sardegna ha “confinato” addirittura con il Principato di Monaco, come ci conferma proprio Mauro Suttora:

“Per più di trent’anni, dal 1815 al 1848, il regno di Sardegna, che riuniva oltre all’isola, il Piemonte e la Liguria, aveva i propri confini in comune con il Principato monegasco, che all’epoca era grande dieci volte di più rispetto ad oggi e comprendeva anche Roccabruna e Mentone. Allo stesso tempo il regno sardo confinava con la vicina Francia. Insomma, per quanto sia un’isola la Sardegna non è per nulla estranea alle dinamiche di confine. Anzi, alla fine, la Sardegna è forse il regno antecedente all’Italia di cui mi occupo di più data la complessità delle vicende della nostra frontiera occidentale, quella con la Francia. E i sardi non sono estranei per nulla alle vicende delle nostre frontiere orientali come insegnano le vicende della Prima guerra mondiale”.

Ma cosa c’entra la Sardegna con i confini durante la Grande guerra?

“Per conquistare Gorizia nell’agosto 1916 muoiono cinquantamila soldati italiani contro quarantamila austriaci. In particolare, la battaglia di Doberdò del 6 agosto è ricordata come una delle più sanguinose della Prima guerra mondiale: cinquemila morti italiani, tremilacinquecento austriaci. Viene soprannominata “battaglia dei popoli” perché combattuta dai sardi della brigata Sassari contro reparti asburgici anch’essi a forte connotazione etnica: ungheresi, rumeni e sloveni”

Quello di Gorizia è un confine veramente tribolato…

“Come tutto il confine orientale, la cui costruzione è costata all’Italia seicento mila morti durante la Prima guerra mondiale e altre migliaia durante la Seconda, con tutto il corollario di esodi di popolazioni, stragi, foibe. Basti dire che Gorizia è passata di mano ben sette volte tra il 1916 e il 1946, un record mondiale!”.

Ma tutti i confini nazionali sono stati il frutto di lotte tanto terribili?

“Fortunatamente no. Il confine con la Svizzera è in pace da più di cinquecento anni, con l’eccezione delle guerre per il controllo della Valtellina, in Lombardia, che è stata occupata dagli Svizzeri dal 1512 al 1797. Il confine con la Francia ha una vicenda molto movimentata, piena di storie da raccontare però non ci è costato in termini di lutti quanto la frontiera orientale”.

Davvero la Francia ha cercato anche annettersi la Valle d’Aosta in anni non lontanissimi?

“Si, accadde nel 1945 e a favorire il tentativo fu il generale De Gaulle. A fermarlo fu una inedita convergenza d’intenti tra partigiani e fascisti”.

Ma noi italiani conosciamo i nostri confini?

“Assolutamente no. Siamo rimasti fermi a Mazzini che diceva che il nostro Paese ha i confini più belli, addirittura ‘sublimi’, perché è delimitato dalle Alpi a nord e dal mare a sud”.

E non è così?

“Ci sono moltissimi posti dove il confine terrestre con coincide con lo spartiacque delle Alpi. Come dico nel libro la pipì degli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) e Tarvisio (Udine) non finisce nel Po, ma nel mar Nero, attraverso il Danubio. In Lombardia, la Val di Lei, in provincia di Sondrio, fa parte invece del bacino idrografico del fiume Reno. Se aggiungiamo il fatto che spesso confini linguistici e geografici non coincidono per nulla - con il tedesco, il francese e lo sloveno parlato in terra italiana - abbiamo già capito quanto ci sia da scoprire sulla storia delle nostre frontiere”.

Roberto Roveda

Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Saturday, June 05, 2021

I socialisti che diventarono fascisti





















La tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del libro di uno dei suoi principali collaboratori

di Mauro Suttora 

HuffPost, 4 giugno 2021

La maggioranza dei dirigenti socialisti italiani aderì al fascismo. È questa la tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del nuovo libro di uno dei suoi principali collaboratori: Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea all’università di Napoli, autore di ‘I socialfascisti’ (D’Amico editore, 2021).

“Furono tanti i socialisti che aderirono al fascismo, o si ritirarono dalla politica, o scrissero a Mussolini facendo atto di sottomissione, collaborando e affiancando il regime”, scrive Alosco. “In confronto a loro i socialisti fuoriusciti all’estero o clandestini in Italia appaiono una minoranza trascurabile”.

Senza nulla togliere agli eroi dell’antifascismo come Pertini, Nenni, i fratelli Rosselli, Lelio Basso o Ernesto Rossi, insomma, nel decennio del consenso al regime (1928-38) fra i socialisti prevalsero rassegnazione e “indifferentismo” (la definizione sconsolata che i marxisti ‘scientifici’ davano da Parigi della situazione italiana).

Alosco esamina i casi più eclatanti di passaggio dalla sinistra al fascismo. Arturo Labriola, fondatore del partito socialista a Napoli, economista, deputato, ministro del Lavoro con Giolitti nel 1921, finì sull’Aventino e scappò in Francia. Ma nel 1935 tornò clamorosamente in Italia, lodando Mussolini per la guerra d’Etiopia. Il duce lo ricevette in nome del comune passato soreliano, e trovò lavoro a lui e al figlio. Più in là il collaborazionismo di Labriola non si spinse, ma tanto bastò perché il partito socialista gli negasse un seggio alla Consulta nel 1945. 

L’anno dopo si fece eleggere in una lista liberale, e fu senatore fino al 1953 tornando a sinistra, tanto che fu capolista Pci alle comunali di Napoli nel 1956.

Un altro caso scandaloso fu quello di Emilio Caldara, primo sindaco socialista in una grande città, a Milano dal 1914 al 1920. Grazie alla sua buona amministrazione divenne più popolare di Turati, e portò il Psi al trionfo elettorale del 1919: primo partito col 32% (allora i fascisti ebbero solo 4mila voti).

Dopo lo scioglimento dei partiti e l’inizio della dittatura Caldara tornò a fare l’avvocato, ma nel 1934 chiese un colloquio a Mussolini, che conosceva bene come collega consigliere comunale a Milano. Gli propose di collaborare al corporativismo, che riteneva vicino agli ideali socialisti. Fu il duce a declinare l’offerta del gruppo di Caldara, per evitare frizioni con i sindacalisti fascisti.

Ma forse l’episodio più pregnante fu quello dell’intero gruppo dirigente della Cgl, il sindacato di sinistra. I suoi due primi segretari, Rinaldo Rigola e Ludovico d’Aragona, si offrirono anch’essi a Mussolini nel 1927, entusiasti per la Carta del lavoro fascista. L’unico a opporsi, dall’esilio parigino, fu Bruno Buozzi.

Anche Alberto Beneduce, issato dal duce alla testa dell’Iri nel 1933, era di sinistra, tanto da chiamare col bizzarro nome di Idea Nuova Socialista la figlia, poi moglie di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.

Tragico il destino di Nicola Bombacci, l’ex segretario nazionale socialista passato prima al Pci e poi al fascismo (Mussolini gli finanziò il giornale ‘La Verità’), fucilato a Dongo e appeso in piazzale Loreto col duce, Claretta e i gerarchi.

Ma il professore Alosco presenta molti altri casi di dirigenti politici e sindacali socialisti i quali via via chinarono la testa di fronte al fascismo, che acquistava un consenso sempre maggiore.

Nel 1932, per il decennale del regime, Mussolini era così saldo al potere che potè permettersi magnanimità: amnistiò i due terzi dei 1056 condannati per reati politici, e liberò 595 confinati.

Il crescente consenso deprimeva gli antifascisti fuoriusciti a Parigi, che passavano molto tempo in dispute ideologiche fra loro. Tutto sommato, lo sprezzante epiteto di “socialfascisti”, con cui il comunista Togliatti equiparava i socialisti antibolscevichi ai fascisti, aveva un fondamento nei fatti.

Mauro Suttora

Thursday, June 03, 2021

Caos M5S/ Iscritti, nome, simbolo: duello Casaleggio-Conte

intervista a Mauro Suttora

ilsussidiario.net, 3 giugno 2021 

Conte si aggiudica il primo round nello scontro con Casaleggio per avere gli elenchi degli iscritti. Ma quante saranno le riprese non è dato sapere, dunque la partita rimane aperta. Senza accordo si andrà alla battaglia legale, osserva Mauro Suttora, giornalista e scrittore, osservatore dei 5 Stelle dai tempi del Vaffa. I dati dei 180mila registrati a Rousseau sono un pretesto, perché in palio ci sono il nome e il simbolo del Movimento, senza i quali la leadership di Conte è solo virtuale.

La crisi di M5s rimane profonda ed è difficile prevederne le sorti. Alcuni punti fermi – per ora – secondo Suttora: Di Maio più contiano, crollo di consensi alle comunali, niente Draghi al Colle “perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti”.

Il Garante della privacy nel suo provvedimento ha stabilito che l’Associazione Rousseau deve consegnare al Movimento i dati personali degli iscritti. Sei sorpreso?

No. Se la Casaleggio fosse una semplice società di servizi che gestisce l’elenco degli iscritti grillini, sarebbe ovvio che dovrebbe consegnare l’indirizzario al legittimo proprietario, il Movimento 5 Stelle (M5s). Ma formalmente ha ragione Davide Casaleggio quando chiede al Garante di indicargli a chi consegnare i dati.

Dunque: l’Associazione Rousseau, dice il Garante, è responsabile del trattamento e M5s è il titolare. Casaleggio non è d’accordo e ha risposto che non saprebbe a chi darli, perché non si sa chi sia il rappresentante legale di M5s. Che ne pensi?

Hanno ragione entrambi. Vito Crimi è scaduto, tanto che il tribunale di Cagliari ha nominato un rappresentante pro tempore in un’altra causa. Ma sostanzialmente ormai c’è una frattura, e quindi prima o poi il figlio di Casaleggio dovrà cedere il malloppo. Vedremo in cambio di quanti soldi: ci sono centinaia di migliaia di euro in ballo.

Tutto questo vuol dire una cosa: battaglia legale.

Certo. È risibile l’ultimatum di cinque giorni imposto dal Garante. Qualsiasi Tar lo annullerebbe. Se il M5s avesse versato a Casaleggio i 400mila euro richiesti, la questione sarebbe già risolta. Grillo spinge per un accordo. Ma Conte ha voluto attendere la pronuncia del Garante. Nominato da lui, come insinua Casaleggio.

Come andrà a finire non lo sappiamo. Tu cosa dici?

È una disputa ridicola, anche perché iscriversi al M5s non costa nulla, quindi non vale nulla. Conte potrebbe quindi lasciare i 180mila registrati a Casaleggio e ricostituirsi da zero una nuova base di iscritti in pochi giorni, tramite un appello sui social degli eletti: i grillini più popolari, come lui, Di Maio, Taverna o Fico, hanno centinaia di migliaia di seguaci che aderirebbero subito.

E perché non lo fa?

Ma perché così perderebbe simbolo e nome, che verrebbero sfruttati da Casaleggio junior con i movimentisti Di Battista, Lezzi, Morra e Paragone.

Dunque Conte, nel frattempo, si ritrova leader dimezzato. Brutta faccenda.

E Casaleggio nota giustamente che Conte non è neppure iscritto al M5s, quindi ineleggibile alla sua guida.

Veniamo al fattore Di Maio. La sua svolta garantista non è stata presa benissimo all’interno di M5s. L’ha fatta solo perché è al governo oppure ha altre ambizioni? E quali?

Di Maio, per rendersi presentabile, ora rinnega gli innumerevoli Vaffa contro gli altri politici lanciati dai grillini negli ultimi 14 anni. Ma i Vaffa sono l’unica ragione sociale del M5s, che ancor oggi si definisce MoVimento con quella V maiuscola che sta per Vaffa e Vendetta. Sarebbe come chiedere al Milan di rinunciare ai colori rosso e nero, o all’Italia di abolire il tricolore.

Con chi sta Di Maio tra Conte e Casaleggio?

Con il più forte, che in questo momento è Conte.

Conte è un raffinato professionista. È stato capo del governo. Però non ha la cazzimma e l’astuzia di Di Maio. Chi sarà il leader?

Sono entrambi democristiani, tecnicamente perfetti nella loquela scioltissima e nella gestione del potere. Ma Conte nei sondaggi ha ancora un gradimento del 50%, doppio rispetto al guaglione che tre anni fa lo scelse prima come ministro, e poi come premier. L’unico errore di Di Maio.

Grillo ha chiuso?

Direi di sì, dopo il video isterico sul figlio.

Insomma qual è la posta in gioco? Sopravvivere alle comunali? Controllare i gruppi parlamentari per condizionare la partita del Colle? Fare un nuovo partito? O cos’altro?

Distinguiamo. Per Conte l’obiettivo è sfruttare al massimo, e in qualsiasi modo, la notorietà ottenuta con due anni e mezzo di guida del governo. Per i parlamentari grillini invece è sopravvivere, conservare il più a lungo possibile i 12mila euro di stipendio mensile agguantati per miracolo. Alle comunali di ottobre sarà già tanto se almeno a Napoli o a Roma supereranno il 10%. Nelle altre città sarà un disastro.

E alle presidenziali di gennaio?

Non voteranno Draghi, perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti, tranne una trentina di big che si ricicleranno in qualche modo.

È vero che c’è una pattuglia di pentastellati che preme su Conte perché ritiri l’appoggio al governo Draghi?

C’è di tutto lì dentro, governisti, antigovernativi, dibattistiani, dimaiani, contiani…

Federico Ferraù