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Thursday, October 10, 2024

Come si manganella l’uomo di sinistra che pubblica un post filoisraeliano

Ricordate Marco Boato? Su Facebook condivide il pensiero di una donna araba che si sente libera perché vive in Israele. Reazioni (anche da compagni di partito e affini): assetati di sangue, colonialisti, gente di m., servo dei razzisti, servo dei suprematisti e così via.

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 ottobre 2024

Povero Marco Boato. Monumento vivente dell'ecologismo, a 80 anni è presidente dei verdi italiani, resuscitati grazie al 7% alle europee in Avs (Alleanza verdi sinistra). Fondatore di Lotta continua nel 1968, sei legislature alle spalle, la prima con i radicali nel 1979: in totale 60 anni di politica.

Sempre attivissimo, ieri ha pubblicato su Facebook questo post: “Sono una donna araba, posso andare all’università, posso essere una dottoressa, posso candidarmi per una carica, perché io vivo in Israele”.

È stato subissato di insulti, anche da parte di compagni di partito, tanto che ha risposto: “A questo post, non mio ma semplicemente da me condiviso, vedo che sono seguiti oltre 150 commenti. Qualcuno/a ha chiesto di rimuoverlo, cosa che mi guardo bene dal fare, anche se il tenore insultante nei miei confronti di qualche commento mi indurrebbe a farlo. Ognuno/a ha detto la sua, attribuendo a questo semplice post intenzioni fuorvianti e allargando la discussione oltre ogni misura. Sono per la libertà di pensiero e di parola e ripudio ogni forma di censura, anche di eventuale auto-censura.

Certo che questo clima di odio mi fa orrore. Si invoca la pace, ma si usano parole di guerra. Per questo ho evitato di intervenire ulteriormente. Mi dispiace per qualche amico/a che evidentemente non lo capisce. Non vorrei essere diventato anch’io un ‘nemico’ per qualcuno/a, ma mi sottraggo a questa dinamica per me inaccettabile. Rispetto”.

Ecco un florilegio dei commenti ricevuti.

Anna Merlino: “Che persone orrende hai cooptato in questo post, Marco Boato: il peggio del razzismo coloniale, negazionisti dell’orrore, gente che gode ad eliminare fisicamente un’intera popolazione, accecati dalla loro presunta superiorità. Che gente di m.”.

“Sempre assetati di sangue, ma vi rilassate ogni tanto? Vi piace così tanto fare i colonialisti? Sono più di 70 anni che martoriate un’intera area, in nome di un non precisato diritto divino. Basta!”.

Valeria Manna: “Mi domando proprio perché abbia pubblicato una pubblicità così assurda di Israele. Davvero”.

Anna Merlino bis: “Evidentemente la pensa proprio così, si scoprono cose nuove, anche se condivido la militanza nello stesso partito, resto stupita dalla vera natura di certi ‘compagni’”.

Chiara Santacroce: “Ti rendi conto che hai postato una boiata, che in questo momento è persino criminale (come lo Stato di Israele)? Sì? Allora levala, va”.

Stefano Apuzzo, già deputato verde, candidato Avs alle europee 2024: “Marco, fallo per la tua lucidità e onestà intellettuale, leva sta merda!”.

“[Questa donna] può anche essere massacrata impunemente dall’esercito suprematista bianco e fascio sionista, con tutti i suoi figli e figlie piccole, in Gaza, Cisgiordania, Libano, Iraq, Siria, Iran. Può anche essere considerata una sub umana, cittadina di serie C nello Stato teocratico, razzista e colonialista d'Israele!”.

Cesare Manca: “Come sei caduto un basso Marco Boato vergogna”.

Rita Barbieri, ex assessore municipale Sel a Milano: “Post penoso e stupido! Ma alla sua età ha ancora bisogno di accreditarsi come servo dell’impero suprematista e razzista? Spero in una risposta a tono dalle donne palestinesi”.

Danilo Zappitelli: “Si deve far perdonare il suo passato. Anche lui tiene famiglia. Da lotta continua a famiglia continua”.

Maria Teresa Murgia: “Sei un influencer di Israele per caso?”

Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Friday, February 26, 2010

Farmville taroccato

Punteggi "drogati" nei campi di Facebook. Distrutto l'orto del contadino virtuale

di Mauro Suttora

Libero, 25 febbraio 2010

Confesso: sono un drogato. E confesso ancora: sono un ladro. Da tre mesi ho sviluppato una dipendenza da Farmville. È il videogioco più popolare del mondo, 80 dei 400 milioni di utenti di Facebook ci passano almeno un’oretta al mese. I tossicodipendenti come me (siamo un milione e mezzo in Italia, 30 milioni nel mondo) ci vanno una volta al giorno, per seminare i propri campi virtuali, zapparli, raccogliere ogni tipo di frutta e verdura, e accumulare punti. Io fino a ieri ne avevo 170 mila, ed ero al 44° livello.

Ieri mattina, il dramma. Apro il computer e scopro che due dei miei «vicini di campo», mio cognato (il Lucignolo che mi ha iniziato al gioco) e l’industriale Livio, mi hanno improvvisamente sorpassato. Impossibile, perché non si può espandere più di tanto la fattoria virtuale, e il rendimento dei campi – come nella realtà – è quel che è. La coltura più redditizia, fra le 70 offerte, è quella del melone: i semi si comprano con 205 monete a campo, e dopo quattro giorni rendono 528 monete.

Chiamo mio cognato, che mi svela il segreto: «Vai sulla mia homepage e clicca sui link che ho inserito». Eseguo, e magicamente riesco a completare collezioni di farfalle e piume che mi danno un sacco di punti. Non c’ero mai riuscito, prima.

Insomma: si può rubare anche sui giochi di Facebook. Così ho superato Gabriella, la chirurga plastica di Roma che da mesi mi sovrastava dall’alto dei suoi 200 mila punti, e ho distanziato John, che nella vita vera fa manutenzione lavatrici a Bergamo.

Non che sia proprio un criminale. Diciamo che pratico l’elusione invece dell’evasione fiscale. La mia «tangente» è un link conosciuto da pochi, ma semipubblico, visto che circola fra molti giocatori. Impossibile capire chi ha «forzato» il sistema: un italiano? Un hacker californiano? Un genietto cinese di quelli che il governo di Pechino alleva in un’apposita università per mandare in tilt l’intero Occidente?

Passata l’euforia per la scorciatoia che mi ha fatto accumulare in mezz’ora più soldi e punti di quelli che avevo faticosamente guadagnato in un intero mese, mi è però venuta la depressione. Che gusto c’è a vincere barando? Anche perché su Farmville, come negli altri giochi di Facebook che in questi mesi hanno superato in popolarità ogni videogioco della storia, da Pacman a Tetris, non si vince nulla. Non esiste un traguardo, non esistono premi finali. Si può giocare in eterno, in teoria. «Farmville è una metafora della vita», ha commentato Rita, una mia colta collega che ho iniziato al gioco e che ama usare parole difficili.

Quindi fare il «birbantello», come direbbe Berlusconi, non mi ha reso felice. Anch’io mi sono associato al ruba-ruba nazionale, ma ho scoperto che è un passatempo privo di senso. Certo, con il link proibito ho accumulato tanta benzina per il mio trattore e per la trebbiatrice, così ogni giorno ci metterò cinque minuti invece di quindici per seminare e raccogliere. Ma vuoi mettere la soddisfazione di fertilizzare i campi dai vicini, modo lecito per aumentare i punti? Ogni volta che sullo schermo appare la scritta «Gabriella ti ringrazia per averla fertilizzata», con la sua attraente foto, mi sembra quasi di essere stato massaggiato da una escort. Perché, insomma, questi videogiochi sono un termometro della nostra solitudine. Per questo non ho installato internet a casa. Almeno nei week-end, mi disintossico. Non gioco a Farmville. E non rubo.

Mauro Suttora

Wednesday, April 15, 2009

Il cowboy di Castelliri

ANITO E LE SUE MUCCHE, SOLO CONTRO TUTTI

Castelliri (Frosinone), 15 aprile 2009

dal nostro inviato Mauro Suttora

E morto il vitellino appena nato. Mentre Anito De Gasperis era in ospedale, la mucca che lo ha partorito di notte nel bosco non è riuscita a riscaldarlo abbastanza. Il figlio di Anito ha chiamato il veterinario, sono corsi su, lo hanno avvolto in una coperta: troppo tardi, troppo freddo.

Anito è il mandriano di Castelliri (Frosinone) diventato famoso dopo le sue due apparizioni su Striscia la notizia: i tremila compaesani lo odiano perché le sue mucche invadono i loro terreni, rovinandoli. «L’anno scorso le tue uàcc mi song mangiat tutt il granone!», gli ha urlato in faccia una donna.

Anito, che si chiama così in omaggio alla focosa Anita moglie di Garibaldi, ha fatto onore al suo nome e non si è tirato indietro durante le risse televisive: «Parli con la faccia o con il c…?», ha apostrofato il sindaco omonimo Sandro De Gasperis («Parente? No, per carità»). Un altro paesano si è beccato un «’mbecill», un altro «’mbrugliunn», finché una donna lo ha minacciato agitandogli la mano a due centimetri dal viso: «Ca tong ‘na pizza, mannaggia!»

Spettacolari baruffe ciociare finite su Youtube e Facebook, aizzate da Capitan Ventosa: quel tizio di Striscia che va in giro a vendicare soprusi con lo sturacessi in testa. Alla fine però Anito, circondato da decine di paesani infuriati, viene spinto, cade, batte la testa, sviene e finisce all’ospedale di Sora.

Lo incontriamo quando torna a casa, pochi giorni dopo: nulla di grave. Intanto, però, il vitello è morto. A parte la tristezza per quegli occhioni sbarrati del cadavere in cortile, è un danno anche economico: «I vitelli me li pagano 2.500 euro se li porto al mattatoio, se invece li macello io valgono cinquemila», spiega. E attacca il sindaco: «Tutta colpa sua. Sono dieci anni che mi perseguita, aizza tutti contro di me. Ha fatto venire Striscia e non sa che mi ha fatto un favore, perché prima l’avevo chiamata io tre-quattro volte, ma non mi avevano risposto».

In questa Italia da Far West dove per risolvere le liti fra cowboys e agricoltori si va in tv, Anito ci espone le sue ragioni: «Castelliri ha 1.200 ettari di bosco comunale, in montagna. Qui è Lazio, ma fino al 1860 c’erano i Borboni, non il Papa. Da sempre gli abitanti possono pascolare e raccogliere legna e funghi nella foresta. Io mi limito a esercitare il diritto di pascolo pagando regolarmente la “fida” al Comune, e rispettando gli usi civici».

La accusano di spadroneggiare con il suo bestiame, di rovinare gli ulivi nei campi altrui.
Anito s’infervora: «Sono loro a occupare abusivamente ettari ed ettari di terre civiche, senza che nessuno si preoccupi di reintegrarle nel demanio collettivo! Venite, venite su e vi faccio vedere».

Ci inerpichiamo per i monti Simbruini sotto la pioggia, sulla jeep. Metà delle sue 80 mucche e 40 vitelli stanno in un avvallamento del bosco in una situazione penosa: il recinto è pieno di fango, dove affondano per metà le zampe degli animali.

Perché non le tiene riparate sotto un capannone? Basta questa domanda a dare la stura a un fiume in piena: «E quello che chiedo da sempre al sindaco, ma dice che per costruire ci vogliono trentamila metri quadri di terreno…» E poi via a forza di Pua (Piani urbanistici attuativi), contributi comunitari, diffide, regolamenti e verifiche demaniali.

In questi dieci anni Anito è diventato espertissimo di leggi, ci mostra documenti dell’800 e mappe con tutte le particelle del territorio di Castelliri. «Mi hanno denunciato ottanta volte per pascolo abusivo: mai condannato. Tre uomini incappucciati mi hanno aggredito: venti punti in testa. Pochi giorni fa il tribunale di Sora ha annullato una multa di 50 mila euro della guardia di finanza, e così ha sbloccato i contributi europei». Che sono ? «Sessantamila euro l’anno, 500 a capo. Però me ne hanno fatti spendere centomila in avvocati, ho solo debiti».

Saliamo ancora per la foresta, dall’altra parte c’è l’Abruzzo. Arriviamo a un altipiano dove stanno pascolando le altre mucche, ecco una staccionata di legno lungo la provinciale per Sora: «L’avevo fatta per proteggerle dalle auto, ma il sindaco me l’ha demolita a metà. Invece i proprietari di un mobilificio hanno potuto mettere questa cancellata di ferro».

Il terreno non è loro? «Le terre demaniali non si possono vendere né prendere per usucapione, sono di tutti. Si possono dare in concessione, ma solo ai residenti del comune».

Il figlio maggiore di Anito, Danilo, è tornato da Torino, dove si sta laureando in ingegneria meccanica, per aiutare suo fratello Sergio, 21 anni, che lavora alla Fiat di Cassino, a tenere le mucche mentre il padre era in ospedale. Ora le spinge giù verso il recinto, a fine giornata. «Tutte vacche marchigiane di razza: non fanno latte, ma la carne è pregiata».

Insomma, Anito, di quanti ettari ha bisogno? «Quattrocento». Un po’ tanti: un terzo del bosco demaniale di Castelliri. «Ma ogni mucca per pascolare ha bisogno di un ettaro di prato, oppure di quattro ettari di bosco». E non può dargli fieno? «No, perché la carne me la pagano cinque euro al chilo, e il fieno costa sei». Ma le mucche non rovinano il sottobosco, mangiando tutti i germogli? «No, quelle sono le capre. Le mucche sono ghiotte di erbacce e trifoglio, disboscano e fanno bene agli alberi».

Ci sono altri allevatori nella zona? «Sì, nei comuni vicini: Sora, Veroli. A Castelliri sono l’unico. Ma col sindaco di prima non avevo problemi».

Come nella canzone di Georges Brassens La cattiva reputazione, Anito in paese non ha amici. Non gli resta che sperare nel prossimo sindaco, che verrà eletto fra due mesi. Quello attuale deve lasciare, dopo dieci anni.

Intanto, per risolvere il caso del cowboy di Castelliri, a Frosinone si è riunito d’urgenza in prefettura il Comitato provinciale per la sicurezza. Presente l’intero gotha delle autorità: prefetto, viceprefetti, procuratore capo, questore, comandanti provinciali di carabinieri, guardia di finanza, forestale e guardie provinciali, direttore dell’Asl, responsabile del servizio veterinario…
La guerra di Anito contro tutti continua.

Mauro Suttora