Punteggi "drogati" nei campi di Facebook. Distrutto l'orto del contadino virtuale
di Mauro Suttora
Libero, 25 febbraio 2010
Confesso: sono un drogato. E confesso ancora: sono un ladro. Da tre mesi ho sviluppato una dipendenza da Farmville. È il videogioco più popolare del mondo, 80 dei 400 milioni di utenti di Facebook ci passano almeno un’oretta al mese. I tossicodipendenti come me (siamo un milione e mezzo in Italia, 30 milioni nel mondo) ci vanno una volta al giorno, per seminare i propri campi virtuali, zapparli, raccogliere ogni tipo di frutta e verdura, e accumulare punti. Io fino a ieri ne avevo 170 mila, ed ero al 44° livello.
Ieri mattina, il dramma. Apro il computer e scopro che due dei miei «vicini di campo», mio cognato (il Lucignolo che mi ha iniziato al gioco) e l’industriale Livio, mi hanno improvvisamente sorpassato. Impossibile, perché non si può espandere più di tanto la fattoria virtuale, e il rendimento dei campi – come nella realtà – è quel che è. La coltura più redditizia, fra le 70 offerte, è quella del melone: i semi si comprano con 205 monete a campo, e dopo quattro giorni rendono 528 monete.
Chiamo mio cognato, che mi svela il segreto: «Vai sulla mia homepage e clicca sui link che ho inserito». Eseguo, e magicamente riesco a completare collezioni di farfalle e piume che mi danno un sacco di punti. Non c’ero mai riuscito, prima.
Insomma: si può rubare anche sui giochi di Facebook. Così ho superato Gabriella, la chirurga plastica di Roma che da mesi mi sovrastava dall’alto dei suoi 200 mila punti, e ho distanziato John, che nella vita vera fa manutenzione lavatrici a Bergamo.
Non che sia proprio un criminale. Diciamo che pratico l’elusione invece dell’evasione fiscale. La mia «tangente» è un link conosciuto da pochi, ma semipubblico, visto che circola fra molti giocatori. Impossibile capire chi ha «forzato» il sistema: un italiano? Un hacker californiano? Un genietto cinese di quelli che il governo di Pechino alleva in un’apposita università per mandare in tilt l’intero Occidente?
Passata l’euforia per la scorciatoia che mi ha fatto accumulare in mezz’ora più soldi e punti di quelli che avevo faticosamente guadagnato in un intero mese, mi è però venuta la depressione. Che gusto c’è a vincere barando? Anche perché su Farmville, come negli altri giochi di Facebook che in questi mesi hanno superato in popolarità ogni videogioco della storia, da Pacman a Tetris, non si vince nulla. Non esiste un traguardo, non esistono premi finali. Si può giocare in eterno, in teoria. «Farmville è una metafora della vita», ha commentato Rita, una mia colta collega che ho iniziato al gioco e che ama usare parole difficili.
Quindi fare il «birbantello», come direbbe Berlusconi, non mi ha reso felice. Anch’io mi sono associato al ruba-ruba nazionale, ma ho scoperto che è un passatempo privo di senso. Certo, con il link proibito ho accumulato tanta benzina per il mio trattore e per la trebbiatrice, così ogni giorno ci metterò cinque minuti invece di quindici per seminare e raccogliere. Ma vuoi mettere la soddisfazione di fertilizzare i campi dai vicini, modo lecito per aumentare i punti? Ogni volta che sullo schermo appare la scritta «Gabriella ti ringrazia per averla fertilizzata», con la sua attraente foto, mi sembra quasi di essere stato massaggiato da una escort. Perché, insomma, questi videogiochi sono un termometro della nostra solitudine. Per questo non ho installato internet a casa. Almeno nei week-end, mi disintossico. Non gioco a Farmville. E non rubo.
Mauro Suttora
Friday, February 26, 2010
Wednesday, February 24, 2010
intervista a Mastella
ORA CHIAMATEMI SAN CLEMENTE MARTIRE
«Finalmente perfino Di Pietro riconosce che certi magistrati hanno esagerato», dice l’ex ministro. «Però mia moglie resta in esilio, e io sono ancora perseguitato»
di Mauro Suttora
Oggi, febbraio 2010
Dopo la sua «svolta di Salerno», ora ad Antonio Di Pietro toccherà riabilitare anche l’ex amico Clemente Mastella?
Il capo dell’Italia dei Valori al congresso del proprio partito ha ammesso che il giustizialismo non paga, e che certi toni usati contro i politici inquisiti sono eccessivi. In particolare, Di Pietro ha dato via libera a Enzo De Luca, sindaco di Salerno e candidato Pd alla presidenza della Campania nelle prossime regionali del 28 marzo.
De Luca è incriminato in due processi per truffa, associazione a delinquere, concussione e falso. Cionostante, l’eroe di Mani Pulite riconosce che ha amministrato bene Salerno, e che ha le carte in regola per succedere ad Antonio Bassolino se batte il candidato Pdl Stefano Caldoro.
L’improvviso cambiamento ha scontentato molti nel partito, che l’anno scorso ha preso l’8 per cento alle europee (riquadro nella pagina seguente). In particolare Luigi De Magistris, l’ex magistrato che con le sue accuse contribuì a far dimettere nel 2008 Clemente Mastella da ministro della Giustizia, e di conseguenza a far cadere il governo Prodi, e a far tornare Silvio Berlusconi al potere.
Chi allora, meglio di Mastella, può commentare il clamorosodietrofront dipietrista?
«Non c’è peggior moralista di chi fa la morale agli altri, ma poi deve spiegare la provenienza di qualche scheletro nel proprio armadio», dice l’ex ministro. «Io sono stato distrutto politicamente dalle inchieste di De Magistris, che ora si rivelano senza fondamento. Nel frattempo, però, ho perso il posto da ministro, e un intero partito, l’Udeur. Mia moglie è da mesi costretta all’esilio: non può metter piede non solo nella nostra casa di Ceppaloni, ma in tutta la Campania. Tutta la mia famiglia è stata messa alla gogna...»
Beh, i suoi figli con i loro comportamenti estroversi hanno facilitato il compito dei vostri avversari politici.
«L’unico accenno a mio figlio nell’inchiesta riguarda un’auto che lui avrebbe avuto da un concessionario, e che invece ha pagato dandone in cambio un’altra. Andate a vedere che ha fatto il figlio di Di Pietro».
Mogli e amanti
Ma sua moglie doveva proprio darsi alla politica?
«Embè, e le mogli di Togliatti, di Fassino, di Bassolino? Meglio le mogli delle amanti, come si usa adesso? Almeno il cognome si sa, se la gente non la vuole non la vota».
E quando andò con suo figlio in elicottero al Gran premio di Monza?
«Era un elicottero privato, dell’Aci, che mi invitò e diede un passaggio pure a un altro ministro, Rutelli. Il giorno dopo avevo un impegno a Brescia, a Milano ci sarei comunque dovuto andare. È stata l’unica volta che mio figlio ha viaggiato con me, e non ha tolto il posto a nessuno».
Le accuse penali contro di lei riguardano decine di assunzioni all’Agenzia dell’Ambiente campana.
«Ho segnalato dei poveri cristi che avevano bisogno di lavorare. Per contratti di soli tre mesi. E alla fine, sa quanti erano direttamente riferibili a me e a mia moglie? Tre».
Le raccomandazioni sono un cancro italiano.
«Ma rispetto a un bisogno, c’è il dovere di farle. Se hanno i requisiti, se non scavalcano chi ha più diritto... Ma, anche qui: quante raccomandazioni hanno fatto gli altri, e anche l’Italia dei Valori?»
Lei ripete sempre: guardate gli altri.
«E certo. Sono stato l’unico preso di mira, guarda caso dopo che sono diventato ministro della Giustizia. Perché solo io devo passare sotto le forche caudine?»
Forse perché è di Benevento...
«Buona battuta, ma la verità è proprio questa: sono come Calimero, piccolo e nero. Capo di un partito piccolo, ex dc, meridionale. E senza grandi giornali dietro».
Come il suo ex «fratello gemello» del Ccd, Casini?
«Per amor di Dio, lasciamo stare».
Beh, non faccia troppo la vittima: è sempre eurodeputato.
«Sso bene che nella vita e nella politica ci sono alti e bassi. L’anno scorso, quando il Pdl mi ha candidato, nessuno pensava che ce l’avrei fatta. Invece ho preso 115 mila preferenze».
Sua moglie non può entrare in Campania, ma definirla «esiliata» non è eccessivo? In fondo abitate nella vostra seconda casa a Roma. E anche quella ha fatto notizia: ottenuta a basso prezzo da un ente.
«È proprio ciò che sta capitando a mia moglie quello che mi fa impazzire di rabbia. Se la prendono con lei per attaccare me. Accusata di tentata corruzione per avere fatto nominare due primari. Uno non lo conosceva, l’altro era della Margherita. E l’appartamento di Roma l’ho avuto con un mutuo dopo trent’anni che ci abitavamo».
Come Casini?
«Per carità, lasciamo stare. Come tutti, compresi ex ministri Pd».
Molti esponenti del suo partito sono andati con Di Pietro.
«È questa la cosa più incredibile. In Campania i due terzi degli Idv sono ex Udeur. E sarebbero questi i “nuovi“? Che contorsionisti, che acrobazie».
Ora che fa a Bruxelles?
«Mi occupo di tonno, di coralli. E imparo il francese»
Mauro Suttora
L'UDEUR SI PRESENTA NELLE REGIONI DEL SUD
Colpito, ma non affondato. Quel che resta dell’Udeur, il partito di Mastella, si presenta con proprie liste, alleato del Popolo della libertà, nelle quattro regioni del Sud che vanno al voto il 28 marzo: Campania (dove i sondaggi lo accreditano del 5 per cento), Puglia (1,5%), Calabria (3%) e Basilicata.
La signora Mastella, che non può entrare in Campania, medita di fare comizi con un suo «avatar» a tre dimensioni: «Da cinquanta metri la differenza non si nota».
Intanto il Campanile, il giornale dell’Udeur che usufruisce di un finanziamento statale di un milione e 300 mila euro annui come testata di partito, è stato appena acquistato dagli editori di un altro minuscolo quotidiano nato tre mesi fa, Il clandestino, fino a pochi giorni fa diretto da Pierluigi Diaco. Nella proprietà figura Luigi Crespi, l’ex sondaggista di Berlusconi incarcerato per bancarotta quattro anni fa.
Fino al 2008 l’Udeur aveva 14 deputati e tre senatori, determinanti per la risicata maggioranza del governo Prodi di centrosinistra.
QUANTI EX MASTELLIANI CON DI PIETRO
Beppe Grillo, gli europarlamentari De Magistris e Sonia Alfano, i giornalisti simpatizzanti Marco Travaglio e Paolo Flores D’Arcais sono furibondi: nell’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro, abbondano i dirigenti ex mastelliani. Soprattutto al Sud: l’ex dc di lungo corso e sottosegretario Pino Pisicchio e il consigliere regionale campano Giuseppe Maisto (appena approdati nel nuovo partito di Francesco Rutelli), i senatori Nello Di Nardo e Stefano Pedica, il deputato Mimmo Porfidia e il calabro-genovese Salvatore Cosma.
In realtà Clemente e Tonino, in nome della comune origine sannita, si sono sempre intesi. Eccoli (foto accanto) felici pochi anni fa al festival di Telese (Benevento), che l’Udeur di Mastella organizzava, invitando spesso Di Pietro.
«Nel ‘94 lo conobbi perché mi avevano accusato di essermi fregato 82 milioni di vestiti», ricorda Mastella, «e io gli dissi: “Ecché me li sono portati via co’ llu cammiòn?“ Negli anni ‘90 avevamo rapporti tramite suo cognato Gabriele Cimadoro, deputato Ccd e oggi Idv».
ORA MASTELLA È COLLEGA DI DE MAGISTRIS
«No, non l’ho mai incrociato. Se gli parlerei? Non credo abbia voglia di farlo, né vedo perché dovrei farlo io», dice Clemente Mastella.
Scherzi del destino: dall’anno scorso sono eurodeputati sia lui, sia Luigi De Magistris, 42 anni (qui accanto), suo grande accusatore quand’era magistrato a Catanzaro, e Mastella ministro della Giustizia. Il conflitto fra i due fu epocale, finì di fronte al Csm. E intere procure (Catanzaro contro Salerno) si fecero guerra l’una con l’altra.
«Finalmente perfino Di Pietro riconosce che certi magistrati hanno esagerato», dice l’ex ministro. «Però mia moglie resta in esilio, e io sono ancora perseguitato»
di Mauro Suttora
Oggi, febbraio 2010
Dopo la sua «svolta di Salerno», ora ad Antonio Di Pietro toccherà riabilitare anche l’ex amico Clemente Mastella?
Il capo dell’Italia dei Valori al congresso del proprio partito ha ammesso che il giustizialismo non paga, e che certi toni usati contro i politici inquisiti sono eccessivi. In particolare, Di Pietro ha dato via libera a Enzo De Luca, sindaco di Salerno e candidato Pd alla presidenza della Campania nelle prossime regionali del 28 marzo.
De Luca è incriminato in due processi per truffa, associazione a delinquere, concussione e falso. Cionostante, l’eroe di Mani Pulite riconosce che ha amministrato bene Salerno, e che ha le carte in regola per succedere ad Antonio Bassolino se batte il candidato Pdl Stefano Caldoro.
L’improvviso cambiamento ha scontentato molti nel partito, che l’anno scorso ha preso l’8 per cento alle europee (riquadro nella pagina seguente). In particolare Luigi De Magistris, l’ex magistrato che con le sue accuse contribuì a far dimettere nel 2008 Clemente Mastella da ministro della Giustizia, e di conseguenza a far cadere il governo Prodi, e a far tornare Silvio Berlusconi al potere.
Chi allora, meglio di Mastella, può commentare il clamorosodietrofront dipietrista?
«Non c’è peggior moralista di chi fa la morale agli altri, ma poi deve spiegare la provenienza di qualche scheletro nel proprio armadio», dice l’ex ministro. «Io sono stato distrutto politicamente dalle inchieste di De Magistris, che ora si rivelano senza fondamento. Nel frattempo, però, ho perso il posto da ministro, e un intero partito, l’Udeur. Mia moglie è da mesi costretta all’esilio: non può metter piede non solo nella nostra casa di Ceppaloni, ma in tutta la Campania. Tutta la mia famiglia è stata messa alla gogna...»
Beh, i suoi figli con i loro comportamenti estroversi hanno facilitato il compito dei vostri avversari politici.
«L’unico accenno a mio figlio nell’inchiesta riguarda un’auto che lui avrebbe avuto da un concessionario, e che invece ha pagato dandone in cambio un’altra. Andate a vedere che ha fatto il figlio di Di Pietro».
Mogli e amanti
Ma sua moglie doveva proprio darsi alla politica?
«Embè, e le mogli di Togliatti, di Fassino, di Bassolino? Meglio le mogli delle amanti, come si usa adesso? Almeno il cognome si sa, se la gente non la vuole non la vota».
E quando andò con suo figlio in elicottero al Gran premio di Monza?
«Era un elicottero privato, dell’Aci, che mi invitò e diede un passaggio pure a un altro ministro, Rutelli. Il giorno dopo avevo un impegno a Brescia, a Milano ci sarei comunque dovuto andare. È stata l’unica volta che mio figlio ha viaggiato con me, e non ha tolto il posto a nessuno».
Le accuse penali contro di lei riguardano decine di assunzioni all’Agenzia dell’Ambiente campana.
«Ho segnalato dei poveri cristi che avevano bisogno di lavorare. Per contratti di soli tre mesi. E alla fine, sa quanti erano direttamente riferibili a me e a mia moglie? Tre».
Le raccomandazioni sono un cancro italiano.
«Ma rispetto a un bisogno, c’è il dovere di farle. Se hanno i requisiti, se non scavalcano chi ha più diritto... Ma, anche qui: quante raccomandazioni hanno fatto gli altri, e anche l’Italia dei Valori?»
Lei ripete sempre: guardate gli altri.
«E certo. Sono stato l’unico preso di mira, guarda caso dopo che sono diventato ministro della Giustizia. Perché solo io devo passare sotto le forche caudine?»
Forse perché è di Benevento...
«Buona battuta, ma la verità è proprio questa: sono come Calimero, piccolo e nero. Capo di un partito piccolo, ex dc, meridionale. E senza grandi giornali dietro».
Come il suo ex «fratello gemello» del Ccd, Casini?
«Per amor di Dio, lasciamo stare».
Beh, non faccia troppo la vittima: è sempre eurodeputato.
«Sso bene che nella vita e nella politica ci sono alti e bassi. L’anno scorso, quando il Pdl mi ha candidato, nessuno pensava che ce l’avrei fatta. Invece ho preso 115 mila preferenze».
Sua moglie non può entrare in Campania, ma definirla «esiliata» non è eccessivo? In fondo abitate nella vostra seconda casa a Roma. E anche quella ha fatto notizia: ottenuta a basso prezzo da un ente.
«È proprio ciò che sta capitando a mia moglie quello che mi fa impazzire di rabbia. Se la prendono con lei per attaccare me. Accusata di tentata corruzione per avere fatto nominare due primari. Uno non lo conosceva, l’altro era della Margherita. E l’appartamento di Roma l’ho avuto con un mutuo dopo trent’anni che ci abitavamo».
Come Casini?
«Per carità, lasciamo stare. Come tutti, compresi ex ministri Pd».
Molti esponenti del suo partito sono andati con Di Pietro.
«È questa la cosa più incredibile. In Campania i due terzi degli Idv sono ex Udeur. E sarebbero questi i “nuovi“? Che contorsionisti, che acrobazie».
Ora che fa a Bruxelles?
«Mi occupo di tonno, di coralli. E imparo il francese»
Mauro Suttora
L'UDEUR SI PRESENTA NELLE REGIONI DEL SUD
Colpito, ma non affondato. Quel che resta dell’Udeur, il partito di Mastella, si presenta con proprie liste, alleato del Popolo della libertà, nelle quattro regioni del Sud che vanno al voto il 28 marzo: Campania (dove i sondaggi lo accreditano del 5 per cento), Puglia (1,5%), Calabria (3%) e Basilicata.
La signora Mastella, che non può entrare in Campania, medita di fare comizi con un suo «avatar» a tre dimensioni: «Da cinquanta metri la differenza non si nota».
Intanto il Campanile, il giornale dell’Udeur che usufruisce di un finanziamento statale di un milione e 300 mila euro annui come testata di partito, è stato appena acquistato dagli editori di un altro minuscolo quotidiano nato tre mesi fa, Il clandestino, fino a pochi giorni fa diretto da Pierluigi Diaco. Nella proprietà figura Luigi Crespi, l’ex sondaggista di Berlusconi incarcerato per bancarotta quattro anni fa.
Fino al 2008 l’Udeur aveva 14 deputati e tre senatori, determinanti per la risicata maggioranza del governo Prodi di centrosinistra.
QUANTI EX MASTELLIANI CON DI PIETRO
Beppe Grillo, gli europarlamentari De Magistris e Sonia Alfano, i giornalisti simpatizzanti Marco Travaglio e Paolo Flores D’Arcais sono furibondi: nell’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro, abbondano i dirigenti ex mastelliani. Soprattutto al Sud: l’ex dc di lungo corso e sottosegretario Pino Pisicchio e il consigliere regionale campano Giuseppe Maisto (appena approdati nel nuovo partito di Francesco Rutelli), i senatori Nello Di Nardo e Stefano Pedica, il deputato Mimmo Porfidia e il calabro-genovese Salvatore Cosma.
In realtà Clemente e Tonino, in nome della comune origine sannita, si sono sempre intesi. Eccoli (foto accanto) felici pochi anni fa al festival di Telese (Benevento), che l’Udeur di Mastella organizzava, invitando spesso Di Pietro.
«Nel ‘94 lo conobbi perché mi avevano accusato di essermi fregato 82 milioni di vestiti», ricorda Mastella, «e io gli dissi: “Ecché me li sono portati via co’ llu cammiòn?“ Negli anni ‘90 avevamo rapporti tramite suo cognato Gabriele Cimadoro, deputato Ccd e oggi Idv».
ORA MASTELLA È COLLEGA DI DE MAGISTRIS
«No, non l’ho mai incrociato. Se gli parlerei? Non credo abbia voglia di farlo, né vedo perché dovrei farlo io», dice Clemente Mastella.
Scherzi del destino: dall’anno scorso sono eurodeputati sia lui, sia Luigi De Magistris, 42 anni (qui accanto), suo grande accusatore quand’era magistrato a Catanzaro, e Mastella ministro della Giustizia. Il conflitto fra i due fu epocale, finì di fronte al Csm. E intere procure (Catanzaro contro Salerno) si fecero guerra l’una con l’altra.
Friday, February 19, 2010
La Bonino fa ingelosire Pannella
MARCO SI SENTE TRASCURATO, LA DELFINA È SEMPRE IN TV
di Mauro Suttora
Libero, 19 febbraio 2010
Non sarà che Marco Pannella è geloso di Emma Bonino? Perché il capo radicale tuona contro la censura, lamenta che non lo fanno parlare in tv, minaccia di chiedere asilo politico all’estero. Dati alla mano, ha ragione: le sue ultime apparizioni risalgono a quasi un anno fa, quando disse «Hai la faccia come il c…» a Dario Franceschini durante Ballarò, e per rimediare un invito ad Anno Zero dovette fare uno sciopero della sete. Poi nient’altro, tranne un picco d’ascolto la settimana scorsa con la «iena» Lucci che lo provocava: «Fatti visitare l’ano, che ne ha viste di cotte e di crude». Pronta la risposta del tremendo ottantenne: «Fattelo esaminare tu, frocione».
Però la Bonino non è colpita dallo stesso ostracismo Rai-Mediaset. Difficile che lo sia, essendo la massima protagonista della sfida più importante del voto del 28 marzo: quella sul filo del rasoio con Renata Polverini per la regione Lazio. Quindi tanti inviti per lei, nessuno per Marco. Pannella ne soffre. La coppia più longeva della politica italiana (lottano assieme da 35 anni) rischia di incrinarsi causa jalousie? Emma, per non peggiorare le cose, ha rifiutato una comparsata da Porta a porta offertale a titolo di briciola risarcitoria dal detestato Vespa.
Ma è fatale: nelle prossime settimane tutti i riflettori punteranno su lei, e superMarco resterà in ombra. Anche perché, incredibilmente, Pannella alle regionali non si può candidare. È stato condannato per «cessione di droga»: pena accessoria, la perdita dell’elettorato passivo. Le famose «disubbidienze civili», quando con l’ora 87enne Stanzani e la deputata Rita Bernardini distribuiva spinelli in piazza Navona.
Intanto, con il fido Beltrandi è riuscito a piazzare il siluro del regolamento pre-elettorale Rai nella commissione di Vigilanza. La sinistra strepita, perché il deputato radicale se l’è fatto votare dal centrodestra. Mentre la Bonino deve mediare: da candidata Pd, non può litigare sempre con tutti (il passatempo preferito di Marco).
Eppure, la coppia sembra inossidabile. Ci aveva provato Berlusconi a farla scoppiare dieci anni fa, bollando la Bonino come «protesi di Pannella». Emma era reduce dall’exploit del ’99: otto per cento alle europee, dodici per cento al Nord con punte del 18 in molte città, da Monza a Treviso, secondo partito dopo Forza Italia. Mettere il nome «Bonino» sulla lista radicale, invece del «Pannella» condannato al 2-3 per cento perenne, aveva provocato il miracolo. Propiziato anche da una valanga di spot con l’immagine efficiente e moderna della commissaria Ue.
Ma l’insulto berlusconiano ha sortito l’effetto opposto: appiccicare ancor più Emma a Marco. Una lealtà autodistruttiva ma ammirevole, quella della Bonino «governativa» al vecchiaccio incorreggibilemte anarchico. Perché tutti, per spiccare il volo, hanno prima o poi abbandonato il libertario logorroico: da Rutelli a Capezzone, da Quagliariello al ministro Elio Vito. Lei no, fedelissima nei decenni come quella coriacea cuneese che è. Non si è mai sentita appesantire le ali dalla zavorra pannelliana.
Così Emma svolazza disinvolta da Davos a Frosinone, da Soros a Esterino Montino, e accumula poltrone: ministra con Prodi, ora vicepresidente del Senato. Rendendo un po’ duro per Pannella l’atteggiarsi a «partigiano anti-regime», mentre alla Bonino lo stesso regime offre le massime cariche. Matteotti non fece una gran carriera sotto Mussolini…
Non esiste spiegazione politica alla coppia Emma-Marco. Forse un buon psicanalista. Ma naturalmente Pannella ha sbattuto la sua telegenica nuova coda di cavallo bianca in faccia anche a Fagioli, l’ex guru di Bertinotti del quale si era invaghito un anno fa. Lo spettacolo continua. Faville e scintille garantite, come sempre fra i radicali.
di Mauro Suttora
Libero, 19 febbraio 2010
Non sarà che Marco Pannella è geloso di Emma Bonino? Perché il capo radicale tuona contro la censura, lamenta che non lo fanno parlare in tv, minaccia di chiedere asilo politico all’estero. Dati alla mano, ha ragione: le sue ultime apparizioni risalgono a quasi un anno fa, quando disse «Hai la faccia come il c…» a Dario Franceschini durante Ballarò, e per rimediare un invito ad Anno Zero dovette fare uno sciopero della sete. Poi nient’altro, tranne un picco d’ascolto la settimana scorsa con la «iena» Lucci che lo provocava: «Fatti visitare l’ano, che ne ha viste di cotte e di crude». Pronta la risposta del tremendo ottantenne: «Fattelo esaminare tu, frocione».
Però la Bonino non è colpita dallo stesso ostracismo Rai-Mediaset. Difficile che lo sia, essendo la massima protagonista della sfida più importante del voto del 28 marzo: quella sul filo del rasoio con Renata Polverini per la regione Lazio. Quindi tanti inviti per lei, nessuno per Marco. Pannella ne soffre. La coppia più longeva della politica italiana (lottano assieme da 35 anni) rischia di incrinarsi causa jalousie? Emma, per non peggiorare le cose, ha rifiutato una comparsata da Porta a porta offertale a titolo di briciola risarcitoria dal detestato Vespa.
Ma è fatale: nelle prossime settimane tutti i riflettori punteranno su lei, e superMarco resterà in ombra. Anche perché, incredibilmente, Pannella alle regionali non si può candidare. È stato condannato per «cessione di droga»: pena accessoria, la perdita dell’elettorato passivo. Le famose «disubbidienze civili», quando con l’ora 87enne Stanzani e la deputata Rita Bernardini distribuiva spinelli in piazza Navona.
Intanto, con il fido Beltrandi è riuscito a piazzare il siluro del regolamento pre-elettorale Rai nella commissione di Vigilanza. La sinistra strepita, perché il deputato radicale se l’è fatto votare dal centrodestra. Mentre la Bonino deve mediare: da candidata Pd, non può litigare sempre con tutti (il passatempo preferito di Marco).
Eppure, la coppia sembra inossidabile. Ci aveva provato Berlusconi a farla scoppiare dieci anni fa, bollando la Bonino come «protesi di Pannella». Emma era reduce dall’exploit del ’99: otto per cento alle europee, dodici per cento al Nord con punte del 18 in molte città, da Monza a Treviso, secondo partito dopo Forza Italia. Mettere il nome «Bonino» sulla lista radicale, invece del «Pannella» condannato al 2-3 per cento perenne, aveva provocato il miracolo. Propiziato anche da una valanga di spot con l’immagine efficiente e moderna della commissaria Ue.
Ma l’insulto berlusconiano ha sortito l’effetto opposto: appiccicare ancor più Emma a Marco. Una lealtà autodistruttiva ma ammirevole, quella della Bonino «governativa» al vecchiaccio incorreggibilemte anarchico. Perché tutti, per spiccare il volo, hanno prima o poi abbandonato il libertario logorroico: da Rutelli a Capezzone, da Quagliariello al ministro Elio Vito. Lei no, fedelissima nei decenni come quella coriacea cuneese che è. Non si è mai sentita appesantire le ali dalla zavorra pannelliana.
Così Emma svolazza disinvolta da Davos a Frosinone, da Soros a Esterino Montino, e accumula poltrone: ministra con Prodi, ora vicepresidente del Senato. Rendendo un po’ duro per Pannella l’atteggiarsi a «partigiano anti-regime», mentre alla Bonino lo stesso regime offre le massime cariche. Matteotti non fece una gran carriera sotto Mussolini…
Non esiste spiegazione politica alla coppia Emma-Marco. Forse un buon psicanalista. Ma naturalmente Pannella ha sbattuto la sua telegenica nuova coda di cavallo bianca in faccia anche a Fagioli, l’ex guru di Bertinotti del quale si era invaghito un anno fa. Lo spettacolo continua. Faville e scintille garantite, come sempre fra i radicali.
Wednesday, February 17, 2010
C'è chi nega l'eccidio in foiba
IL GIORNO DELLA MEMORIA PER I PROFUGHI
Fuggirono in 350 mila dall'Istria dopo la guerra. Ora un libro riaccende le polemiche
di Mauro Suttora
Oggi, 10 febbraio 2010
Se Joze Pirjevec, storico dell’università di Capodistria (Slovenia), avesse pubblicato il suo libro in Austria, avrebbe rischiato il carcere. Com’è capitato a David Irving, il professore inglese condannato a tre anni nel 2006 per avere negato l’Olocausto degli ebrei.
Il 10 febbraio di ogni anno, da un lustro, l’Italia celebra per legge il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dei 350 mila esuli giuliano-dalmati. Quanti furono i connazionali «infoibati», cioé gettati vivi e legati da fil di ferro nelle grotte carsiche vicino a Trieste dai partigiani comunisti jugoslavi? Neanche il numero si sa: da cinque a diecimila. Perché è stato impossibile recuperare e contare tutte le salme.
Quest’anno le polemiche sono rinfocolate dal libro Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi). Nel quale Pirjevec nega che l’eccidio delle foibe possa essere definito «genocidio». A suo avviso non ci fu un massacro premeditato, ma solo sporadici episodi, peraltro giustificati dall’odio anti-italiano attizzato dai fascisti negli anni precedenti. Il perfetto «negazionista», insomma.
«Non auspico censure»
Chissà cosa succederebbe se qualcuno osasse scrivere un simile libro contro gli ebrei. «Non auspico certo censure, né tanto meno il carcere per reati d’opinione», commenta con Oggi Brunello Vandano, 90 anni, uno fra gli ultimi testimoni diretti di quell’epoca. «Però io a Fiume negli anni ‘30 ci sono cresciuto e, contrariamente a quel che sostiene il libro, non ho assistito da parte italiana a crudeltà tali contro sloveni e croati da giustificare le vendette del dopoguerra. Anzi, quella città, a parte pochi fanatici fascisti, era un modello di convivenza interetnica. Oltre a italiani e slavi c’erano ebrei, ungheresi, tedeschi e nessun odio razziale. Fu un modello di cosmopolitismo».
Su quell’epoca felice Vandano ha appena pubblicato un bel romanzo, Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani).
«Nel ‘45 i massacri avvennero in ogni direzione», dice Vandano, «non solo contro gli italiani. Nel libro descrivo l’eccidio di Bleiburg, in cui i titini uccisero decine di migliaia di profughi slavi in fuga, molti dei quali civili. Le donne stuprate in massa prima di essere finite. I comunisti ammazzarono anche partigiani cetnici serbi e domobranci sloveni, colpevoli solo di non stare con Tito».
Un inferno, insomma, dal quale scapparono tutti gli italiani. Intere città (Fiume, Pola, Zara) si svuotarono quasi completamente. Una perfetta pulizia etnica, come poi negli anni ‘90.
«Giusto castigo popolare»
L’esule Ennio Milanese ha raccolto nel libro Il ricordo più lungo (Accadueo) un articolo contro i profughi scampati alle foibe scritto su L’Unità del 30 novembre ‘46 da Piero Montagnani, poi senatore Pci: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città. [Alcuni di loro] sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava. Gli altri sono incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste».
Fuggirono in 350 mila dall'Istria dopo la guerra. Ora un libro riaccende le polemiche
di Mauro Suttora
Oggi, 10 febbraio 2010
Se Joze Pirjevec, storico dell’università di Capodistria (Slovenia), avesse pubblicato il suo libro in Austria, avrebbe rischiato il carcere. Com’è capitato a David Irving, il professore inglese condannato a tre anni nel 2006 per avere negato l’Olocausto degli ebrei.
Il 10 febbraio di ogni anno, da un lustro, l’Italia celebra per legge il Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dei 350 mila esuli giuliano-dalmati. Quanti furono i connazionali «infoibati», cioé gettati vivi e legati da fil di ferro nelle grotte carsiche vicino a Trieste dai partigiani comunisti jugoslavi? Neanche il numero si sa: da cinque a diecimila. Perché è stato impossibile recuperare e contare tutte le salme.
Quest’anno le polemiche sono rinfocolate dal libro Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi). Nel quale Pirjevec nega che l’eccidio delle foibe possa essere definito «genocidio». A suo avviso non ci fu un massacro premeditato, ma solo sporadici episodi, peraltro giustificati dall’odio anti-italiano attizzato dai fascisti negli anni precedenti. Il perfetto «negazionista», insomma.
«Non auspico censure»
Chissà cosa succederebbe se qualcuno osasse scrivere un simile libro contro gli ebrei. «Non auspico certo censure, né tanto meno il carcere per reati d’opinione», commenta con Oggi Brunello Vandano, 90 anni, uno fra gli ultimi testimoni diretti di quell’epoca. «Però io a Fiume negli anni ‘30 ci sono cresciuto e, contrariamente a quel che sostiene il libro, non ho assistito da parte italiana a crudeltà tali contro sloveni e croati da giustificare le vendette del dopoguerra. Anzi, quella città, a parte pochi fanatici fascisti, era un modello di convivenza interetnica. Oltre a italiani e slavi c’erano ebrei, ungheresi, tedeschi e nessun odio razziale. Fu un modello di cosmopolitismo».
Su quell’epoca felice Vandano ha appena pubblicato un bel romanzo, Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani).
«Nel ‘45 i massacri avvennero in ogni direzione», dice Vandano, «non solo contro gli italiani. Nel libro descrivo l’eccidio di Bleiburg, in cui i titini uccisero decine di migliaia di profughi slavi in fuga, molti dei quali civili. Le donne stuprate in massa prima di essere finite. I comunisti ammazzarono anche partigiani cetnici serbi e domobranci sloveni, colpevoli solo di non stare con Tito».
Un inferno, insomma, dal quale scapparono tutti gli italiani. Intere città (Fiume, Pola, Zara) si svuotarono quasi completamente. Una perfetta pulizia etnica, come poi negli anni ‘90.
«Giusto castigo popolare»
L’esule Ennio Milanese ha raccolto nel libro Il ricordo più lungo (Accadueo) un articolo contro i profughi scampati alle foibe scritto su L’Unità del 30 novembre ‘46 da Piero Montagnani, poi senatore Pci: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre città. [Alcuni di loro] sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava. Gli altri sono incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste».
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Monday, February 15, 2010
'Mussolini segreto': un libro da leggere
di Clementina Gily, docente di Estetica all'Università di Napoli
4 febbraio 2010
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Via Monte di Dio - Napoli
Antonio Alosco, Clementina Gily, Antonio Sarubbi
presentano il libro curato da Mauro Suttora:
Claretta Petacci, Mussolini segreto (Rizzoli)
coordina Nico Pirozzi
Testo dell'intervento:
Questo diario è un documento storico, i personaggi sono tutti noti, le storie anche – nei risvolti quotidiani, nei commenti personali, nulla c’è di eccezionalmente diverso da quella storia letta nei libri. Colpa forse anche del lavoro di ritaglio fatto da chi, per molti anni, ha tenuto gelosamente riposti questi diari, resistendo alle richieste che ne faceva la famiglia Petacci, i genitori e la sorella Myriam, cioè i sopravvissuti alla vicenda. Perché non sopravvissero dei Petacci né Marcello, il fratello, 35 anni, né Claretta, 33, alla tragedia finale di Mussolini, 63 –
sull’età c’è da tornare – e, sappiamo dalle parole dell’allora piccolissimo Ferdinando, figlio di Marcello, non sopravvisse nemmeno la mente del fratellino più grande.
Ferdinando, la cui vita è stata così duramente segnata da quegli eventi, ipotizza che tanta difficoltà nel concedere i manoscritti di Claretta indichi che i fratelli dovessero essere”spie o tramite tra Churchill e Mussolini”: se no, perché tanta decisione nell’esecuzione e tanta prudenza nel tutelare gli scritti? Potevano rendere difficili i rapporti internazionali dell’Italia, nel clima teso della guerra fredda. Ipotesi che nel libro non trova conferma né smentita: sarà perché tutto quel che poteva confermare è stato soppresso, o perché forse una spia non avrebbe trascritto nel diario anche cose pericolose – non è dato sapere.
Il libro perciò è un diario, che conviene commentare come tale. È una scrittura interessante, e val la pena di mettere quanto possibile tra parentesi la politica: allora come ora, avvelenerebbe il discorso, porterebbe ad affermazioni fuori luogo. Mentre il diario è particolare ed inaspettato: non è esattamente un libro che si legge di un fiato, perché ovviamente ripete sempre un po’ gli stessi temi ed atteggiamenti – nonostante Mauro Suttora abbia agito sul testo limando le ripetizioni più frequenti, come si fa quando si passa dai testi di una scrittura privata alla stampa.
Il diario insiste per forza su fatti personali, che anche per i personaggi storici sono sempre gli stessi. Le mogli, i figli, le amanti, la gelosia, i discorsi da innamorati, le telefonate a ripetizione: più o meno, ci sono in ogni pagina. E quando il racconto è giornaliero e minuzioso - “verbalizza”, dice Suttora per indicare la scrittura di Claretta – ci si affida all’eterno ritorno della storia.
Eppure, è un libro di piacevole lettura. Certo, c’è il gusto del gossip, del privato un po’ spiato, vero luogo cult del contemporaneo: e nella discrezione, nel palpito, ha il pregio di ricordare a chi ha qualche decennio di troppo, come fosse affascinante, finché rimaneva pieno di curiosità e di garbo, i protagonisti si nascondevano – non questa esibizione di oggi, volgare anche quando non sia puro commercio. Sono personaggi che palpitano per i pettegolezzi e le spiate continue, persino il prepotente Duce conserva remore e pudori, mostra una umanità ricca e spesso rispettosa delle regole comuni – non si può fare quel che ad altri non è concesso, quindi almeno l’apparenza...
Ma, soprattutto, quel che rende il libro molto interessante è che Claretta scrive bene, ricerca la forma migliore tra i pronomi personali ed il racconto in terza persona, il resoconto dei dialoghi e la prosa, introduce percorsi ad effetto tra le affettuosità da innamorati; trascrive con una puntigliosità che fa pensare Claretta sentisse profondamente il proprio ruolo di testimone della storia.
Ed ecco che conviene riflettere sulle età degli amanti, trent’anni di differenza lasciano pensare ad un tranello del potere verso la ragazzina – i primi contatti precedono di molto il rapporto amoroso. Ma è la ragazzina, vicina di casa, che si fa trovare dovunque, che manda bigliettini intraprendenti – forse anche pensando alle raccomandazioni, cha fa, anche se sia lui che lei protestano la loro onestà, è una protesta relativa, non assoluta, si capisce da quel che dicono – ed è lui che nicchia, che pensa ad una infatuazione di ragazza. Claretta ha probabilmente già a scuola appreso a guardare al Duce, che ha coltivato da subito il mito; lui giornalista e futurista, spinto dalla povertà e dal bisogno di potere, da una vita di pericoli e di difficoltà, ha ben compreso l’importanza dei rituali politici. È la lezione di tutte le monarchie e di tutte le leadership, anche democratiche.
Ne ha fatto l’apoteosi moderna, ma così ha trasformato le forze negative in positive; non ha rispetto della libertà del cittadino, ma il credere nel culto del migliore e della forza, lo spinge ad essere tale, a superare gli altri in cultura e prontezza. Non stringe trame e mafie: cerca di possedere quelle doti che vanta nel popolo italiano, che dice sagace e di azione eccellente, contro i commercianti inglesi, i corrotti francesi, i troppo teorici tedeschi (racconta che se un tedesco vedesse una porta con su scritto 'Paradiso' e un’altra 'Conferenza sul Paradiso', non avrebbe dubbi a scegliere la seconda).
Queste doti ritiene di averle al massimo, coltiva una enorme fiducia in sé, nella propria forza e bellezza, vuole
elevarsi al di sopra di tutti – è il merito che si attribuisce anche grazie alle donne. Nei loro confronti l’apoteosi dell’uomo dà luogo ad un vero e proprio harem (prima di stancarmi ho segnato Sarfatti, Pallottelli, Dalser, Ceccato, Brambilla Carminati, e l’onnipresente Ruspi, ospitata in Villa Torlonia… non mancano ritrattini spinti di Maria José col suo principe un po’…): è la sofferenza costante di Claretta, quando dopo la ragazzina viene la donna, che d’istinto sa tra tante chi è il pericolo; lamenta di tutte, non della moglie – che pure era destinataria di molte circospezioni, da parte del Duce, che ancora ha rabbia per un tradimento di Donna Rachele. Quanta più improntitudine c’è oggi! L’apoteosi del sesso conserva un minimo rispetto, pur scatenando la guerra delle donne.
Il Mussolini segreto ha momenti di difficoltà, di pessimismo persino, di desiderio di conferma, di ricordi della gioventù: ma soprattutto compare colto e capace; sa che la sua lettura dei giornali e della storia vale più degli altri, e la tiene allenata: sta spesso a leggere, con Claretta, parla di politica e di musica, ha gusti alti se non d’elite, si occupa di cinema, in cui gode il sostegno del figlio Vittorio. Di Hitler critica l’egocentrismo, l’esaltazione del sé, lui sa stare al suo posto, sa i suoi limiti.
Nel Diario di Claretta compare un uomo, discutibile come tutti, ma un uomo intelligente ed autocritico, che conosce il pericolo e la storia, si tormenta e si misura – sembrerebbe una strategia più che una qualità, la prepotenza, di chi sa che gli uomini, soggiogati, consentono le imprese - meglio che se liberi. Ovviamente, un liberale fa scelta diversa: ma non è violenza, è ideologia. Tutto da discutere – io ho scritto una monografia su
Ugo Spirito e conosco il corporativismo come teoria – pertanto, vi esimo dai miei giudizi, visto che sono già stati espressi.
Concludiamo: è un libro da leggere. Soprattutto, è un libro che fa pensare con nostalgia a quanto l’oggi sia più modesto e più banale. Non possiamo leggere ancora diari: ma poi di chi? Chi li va scrivendo mai? Forse Ghedini, o Bonaiuti… ma cosa saprebbero imitare di questo stile? Il suo valore non è nella retorica, è nel cuore fresco, che anche nella verbalizzazione risulta sincero, e mostra chiare doti d’intelligenza e sensibilità. Potrebbero le chiacchieratissime ragazze d’oggi, che tanto sgomitano per una comparsata commercialissima, essere capaci di questo stile, che, si arguisce dai pochissimi sic di Suttora, dimostra che la ragazza che si era fermata al ginnasio, evidentemente curava la sua scrittura con lo stesso amore del suo cuore?
http://www.giornalewolf.it/public/W%20Gily%20Memoria%20Viva%20Claretta.pdf"
4 febbraio 2010
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Via Monte di Dio - Napoli
Antonio Alosco, Clementina Gily, Antonio Sarubbi
presentano il libro curato da Mauro Suttora:
Claretta Petacci, Mussolini segreto (Rizzoli)
coordina Nico Pirozzi
Testo dell'intervento:
Questo diario è un documento storico, i personaggi sono tutti noti, le storie anche – nei risvolti quotidiani, nei commenti personali, nulla c’è di eccezionalmente diverso da quella storia letta nei libri. Colpa forse anche del lavoro di ritaglio fatto da chi, per molti anni, ha tenuto gelosamente riposti questi diari, resistendo alle richieste che ne faceva la famiglia Petacci, i genitori e la sorella Myriam, cioè i sopravvissuti alla vicenda. Perché non sopravvissero dei Petacci né Marcello, il fratello, 35 anni, né Claretta, 33, alla tragedia finale di Mussolini, 63 –
sull’età c’è da tornare – e, sappiamo dalle parole dell’allora piccolissimo Ferdinando, figlio di Marcello, non sopravvisse nemmeno la mente del fratellino più grande.
Ferdinando, la cui vita è stata così duramente segnata da quegli eventi, ipotizza che tanta difficoltà nel concedere i manoscritti di Claretta indichi che i fratelli dovessero essere”spie o tramite tra Churchill e Mussolini”: se no, perché tanta decisione nell’esecuzione e tanta prudenza nel tutelare gli scritti? Potevano rendere difficili i rapporti internazionali dell’Italia, nel clima teso della guerra fredda. Ipotesi che nel libro non trova conferma né smentita: sarà perché tutto quel che poteva confermare è stato soppresso, o perché forse una spia non avrebbe trascritto nel diario anche cose pericolose – non è dato sapere.
Il libro perciò è un diario, che conviene commentare come tale. È una scrittura interessante, e val la pena di mettere quanto possibile tra parentesi la politica: allora come ora, avvelenerebbe il discorso, porterebbe ad affermazioni fuori luogo. Mentre il diario è particolare ed inaspettato: non è esattamente un libro che si legge di un fiato, perché ovviamente ripete sempre un po’ gli stessi temi ed atteggiamenti – nonostante Mauro Suttora abbia agito sul testo limando le ripetizioni più frequenti, come si fa quando si passa dai testi di una scrittura privata alla stampa.
Il diario insiste per forza su fatti personali, che anche per i personaggi storici sono sempre gli stessi. Le mogli, i figli, le amanti, la gelosia, i discorsi da innamorati, le telefonate a ripetizione: più o meno, ci sono in ogni pagina. E quando il racconto è giornaliero e minuzioso - “verbalizza”, dice Suttora per indicare la scrittura di Claretta – ci si affida all’eterno ritorno della storia.
Eppure, è un libro di piacevole lettura. Certo, c’è il gusto del gossip, del privato un po’ spiato, vero luogo cult del contemporaneo: e nella discrezione, nel palpito, ha il pregio di ricordare a chi ha qualche decennio di troppo, come fosse affascinante, finché rimaneva pieno di curiosità e di garbo, i protagonisti si nascondevano – non questa esibizione di oggi, volgare anche quando non sia puro commercio. Sono personaggi che palpitano per i pettegolezzi e le spiate continue, persino il prepotente Duce conserva remore e pudori, mostra una umanità ricca e spesso rispettosa delle regole comuni – non si può fare quel che ad altri non è concesso, quindi almeno l’apparenza...
Ma, soprattutto, quel che rende il libro molto interessante è che Claretta scrive bene, ricerca la forma migliore tra i pronomi personali ed il racconto in terza persona, il resoconto dei dialoghi e la prosa, introduce percorsi ad effetto tra le affettuosità da innamorati; trascrive con una puntigliosità che fa pensare Claretta sentisse profondamente il proprio ruolo di testimone della storia.
Ed ecco che conviene riflettere sulle età degli amanti, trent’anni di differenza lasciano pensare ad un tranello del potere verso la ragazzina – i primi contatti precedono di molto il rapporto amoroso. Ma è la ragazzina, vicina di casa, che si fa trovare dovunque, che manda bigliettini intraprendenti – forse anche pensando alle raccomandazioni, cha fa, anche se sia lui che lei protestano la loro onestà, è una protesta relativa, non assoluta, si capisce da quel che dicono – ed è lui che nicchia, che pensa ad una infatuazione di ragazza. Claretta ha probabilmente già a scuola appreso a guardare al Duce, che ha coltivato da subito il mito; lui giornalista e futurista, spinto dalla povertà e dal bisogno di potere, da una vita di pericoli e di difficoltà, ha ben compreso l’importanza dei rituali politici. È la lezione di tutte le monarchie e di tutte le leadership, anche democratiche.
Ne ha fatto l’apoteosi moderna, ma così ha trasformato le forze negative in positive; non ha rispetto della libertà del cittadino, ma il credere nel culto del migliore e della forza, lo spinge ad essere tale, a superare gli altri in cultura e prontezza. Non stringe trame e mafie: cerca di possedere quelle doti che vanta nel popolo italiano, che dice sagace e di azione eccellente, contro i commercianti inglesi, i corrotti francesi, i troppo teorici tedeschi (racconta che se un tedesco vedesse una porta con su scritto 'Paradiso' e un’altra 'Conferenza sul Paradiso', non avrebbe dubbi a scegliere la seconda).
Queste doti ritiene di averle al massimo, coltiva una enorme fiducia in sé, nella propria forza e bellezza, vuole
elevarsi al di sopra di tutti – è il merito che si attribuisce anche grazie alle donne. Nei loro confronti l’apoteosi dell’uomo dà luogo ad un vero e proprio harem (prima di stancarmi ho segnato Sarfatti, Pallottelli, Dalser, Ceccato, Brambilla Carminati, e l’onnipresente Ruspi, ospitata in Villa Torlonia… non mancano ritrattini spinti di Maria José col suo principe un po’…): è la sofferenza costante di Claretta, quando dopo la ragazzina viene la donna, che d’istinto sa tra tante chi è il pericolo; lamenta di tutte, non della moglie – che pure era destinataria di molte circospezioni, da parte del Duce, che ancora ha rabbia per un tradimento di Donna Rachele. Quanta più improntitudine c’è oggi! L’apoteosi del sesso conserva un minimo rispetto, pur scatenando la guerra delle donne.
Il Mussolini segreto ha momenti di difficoltà, di pessimismo persino, di desiderio di conferma, di ricordi della gioventù: ma soprattutto compare colto e capace; sa che la sua lettura dei giornali e della storia vale più degli altri, e la tiene allenata: sta spesso a leggere, con Claretta, parla di politica e di musica, ha gusti alti se non d’elite, si occupa di cinema, in cui gode il sostegno del figlio Vittorio. Di Hitler critica l’egocentrismo, l’esaltazione del sé, lui sa stare al suo posto, sa i suoi limiti.
Nel Diario di Claretta compare un uomo, discutibile come tutti, ma un uomo intelligente ed autocritico, che conosce il pericolo e la storia, si tormenta e si misura – sembrerebbe una strategia più che una qualità, la prepotenza, di chi sa che gli uomini, soggiogati, consentono le imprese - meglio che se liberi. Ovviamente, un liberale fa scelta diversa: ma non è violenza, è ideologia. Tutto da discutere – io ho scritto una monografia su
Ugo Spirito e conosco il corporativismo come teoria – pertanto, vi esimo dai miei giudizi, visto che sono già stati espressi.
Concludiamo: è un libro da leggere. Soprattutto, è un libro che fa pensare con nostalgia a quanto l’oggi sia più modesto e più banale. Non possiamo leggere ancora diari: ma poi di chi? Chi li va scrivendo mai? Forse Ghedini, o Bonaiuti… ma cosa saprebbero imitare di questo stile? Il suo valore non è nella retorica, è nel cuore fresco, che anche nella verbalizzazione risulta sincero, e mostra chiare doti d’intelligenza e sensibilità. Potrebbero le chiacchieratissime ragazze d’oggi, che tanto sgomitano per una comparsata commercialissima, essere capaci di questo stile, che, si arguisce dai pochissimi sic di Suttora, dimostra che la ragazza che si era fermata al ginnasio, evidentemente curava la sua scrittura con lo stesso amore del suo cuore?
http://www.giornalewolf.it/public/W%20Gily%20Memoria%20Viva%20Claretta.pdf"
Wednesday, February 10, 2010
Mussolini: che ci faceva alle donne?
LE RIVELAZIONI DEL DIARIO DI CLARETTA
Insaziabile vitellone, il duce fu un boia solo per Ida Dalser, fatta morire in manicomio. Le sue amanti invece non le lasciò mai. Anzi, voleva mantenerle tutte
Oggi, 3 febbraio 2010
di Mauro Suttora
Povero Benito. Altro che boia, come appare in Vincere, il film di Marco Bellocchio con Vittoria Mezzogiorno. Lì Mussolini fa rinchiudere in manicomio la (presunta) prima moglie Ida Dalser, causandone la morte. Stesso destino per il figlio avuto dalla Dalser, Benitino.
Ma questo è l’unico caso in cui il dittatore si comportò male (anzi, da assassino) con una delle sue numerose amanti. Di quasi tutte le altre rimase amico anche dopo la fine della relazione. Lo dimostra il libro Mussolini segreto (Rizzoli), ovvero i diari della favorita Claretta Petacci, resi pubblici dopo settant’anni dall’Archivio di Stato.
Il tappeto “galeotto”
Bastava che le ex si presentassero imploranti a Palazzo Venezia, e per quasi tutte c’era una sinecura, una somma mensile, una consolazione. Magari in cambio di un rapporto consumato sui due piedi (anzi, sui due stivali, che il duce non si levava), o in ginocchio, o addirittura sul tappeto. Alla faccia della moglie Rachele e di Claretta, che era gelosissima.
Se poi c’erano in ballo figli illegittimi, Benito si trasformava addirittura in papà amorevole: alla madre arrivavano come alimenti ben più delle famose «mille lire al mese», cioè quelle che nell’omonima canzone del 1939 erano lo stipendio sognato dagli italiani. Insomma, più che playboy crudele, o inesausto vitellone romagnolo, il «duce che seduce» era una vittima delle donne che possedeva.
E loro non si facevano scrupolo nello «spolparlo». «Quella donna è una spugna, credo che spenda tutto dalla sarta. Esagera: le ho dato ventimila per tre mesi, e lei ne voleva mille in più. Che miseria. Quella scena mi ha disgustato».
Così Mussolini si lamenta con Claretta il 30 ottobre 1938. Ce l’ha con Romilda Ruspi, ex favorita che gli ha dato un figlio, con la quale tradisce Claretta.
Il 55enne Benito in quel periodo è completamente succube della Petacci, che allora ha meno della metà dei suoi anni: 26. L’amante più famosa nella storia d’Italia abita in famiglia a Roma proprio accanto a Villa Torlonia, sulla via Nomentana, dove il dittatore vive con la possessiva moglie e i figli più giovani.
Così Renzo De Felice, massimo storico del fascismo, descrive Mussolini: «Dopo la proclamazione dell’impero nel 1936 si rinchiuse in se stesso. Non aveva amici, non frequentava nessuno fuori dai rapporti d’ufficio, diffidava di tutto e si sentiva circondato da collaboratori fragili e insicuri».
Il problema è che il duce in quegli anni è costretto a telefonare almeno una dozzina di volte al giorno a Claretta. La quale lo sospetta - e a ragione - di incontrare altre amanti a Palazzo Venezia e perfino a Villa Torlonia.
Lì infatti, in una dépendance nel grande parco, alloggia assieme alla sorella (impiegata del principe Torlonia) la bellissima Romilda. Che è amante del duce fin dalla fine degli anni Venti, quando Benito si trasferisce nella villa da via Rasella. E nel 1929 ha avuto un figlio da lui, Massimo. Cosicché anche di sera, tornato a casa, gli tocca chiamare ogni mezz’ora Claretta per tranquillizzarla. Paradossalmente, la Petacci è più serena se Benito è nel suo ufficio di Palazzo Venezia, lontano dalla Ruspi.
Com’è noto, l’elenco delle conquiste femminile del dittatore è sterminato. «Quando abitavo in via Rasella ero un chiavatore», si vanta lui stesso il 12 maggio 1938 con Claretta, la quale annota diligentemente le sue parole sul diario.
“Tre donne per sera”
«Avevo quattordici donne, il pensiero di essere di una sola mi era inconcepibile. C’è stato un periodo che ne prendevo tre-quattro per sera, una dopo l’altra. Una volta alle otto la Rismondo, alle nove la Sarfatti, alle dieci la Magda [Magda Brard Borgo (1903-’98), pianista bretone], e poi all’una una brasilera terribile. Questo ti dà l’idea della mia sessualità».
Quand’era ancora socialista, a Milano, l’anarchica Leda Rafanelli (1880-1971) prima di cedere lo fece penare parecchio. Mussolini era già sposato con Rachele, e probabilmente anche con Ida Dalser (1880-1937).
La più bella fu Angela Cucciati, e il fatto che fosse sposata con il capetto fascista milanese Bruno Curti non rappresentò un ostacolo: da lei Benito ebbe una figlia, Elena, che nacque nel 1922.
“Cornelia Tanzi, frigida”
Mussolini mantenne la Cucciati e la figlia Elena dopo il naufragio del matrimonio della donna. La quale ogni tanto andava personalmente da Milano a Roma a ritirare l’«assegno di mantenimento». Gli incontri intimi col duce si esaurirono solo con l’apparire della stella di Claretta, verso il 1936. Ma la figlia Elena Curti era con Mussolini a Dongo nel 1945, quando venne arrestato. E Claretta era gelosa anche di lei.
Una delle amanti più singolari del duce fu Cornelia Tanzi. Scrittrice, gli inviava una lettera al giorno. Anche lei fu eclissata da Claretta, e si mise (fra gli altri) con il poeta romano Trilussa. Benito il 19 febbraio 1938 la descrive così alla Petacci: «Ha gambe lunghe, è esile, sottile, alta, bruna. Ma frigida, fredda fino all’inverosimile. Figurati che non ha mai sentito nulla neanche con me. Veniva lì, si spogliava, faceva cadere la camicia, si vedevano queste due gambe lunghe, si metteva lì e via, senza scomporsi. Sempre indifferente, si rivestiva e andava via. Tutto in meno di mezz’ora. Ti dico la verità: l’ultima volta per me è stata una cosa laboriosa e faticosa, perché non mi andava. Poi, non so, aveva un profumo quel giorno, un odorino disgustoso... Scusa, ma sai come sono sensibile a queste cose.
“L’avrei bastonata”
«No, non l’ho mai amata e sentivo di essere un miserabile, non dovevo farlo. Non so nemmeno io perché, sono un animale. Ho pensato: “Chissà se adesso che ha l’amico sarà meno frigida e mi riuscirà di farla scuotere“. Niente, è stata più fredda di sempre, più indifferente, ed io più di lei. Dopo ho provato disgusto. Avrei voluto bastonarla, l’avrei buttata per terra».
Ma questo duce volgare e animalesco si trasforma a volte in padre amorevole verso i propri figli segreti. Come con Duilio e Adua, che Mussolini dice di avere avuto da Alice De Fonseca Pallottelli. Lei il 16 luglio 1938 gli scrive che i bimbi sono ammalati, e lui le telefona. La Pallottelli gli dice: «Duilio ha avuto una forte dissenteria, credevo di perderlo. Ha vomitato tutta la notte. Vorrei portarlo al mare a Pesaro». Mussolini le chiede se ha bisogno di soldi. E lei: «No, per ora ce la faccio».
Mauro Suttora
Insaziabile vitellone, il duce fu un boia solo per Ida Dalser, fatta morire in manicomio. Le sue amanti invece non le lasciò mai. Anzi, voleva mantenerle tutte
Oggi, 3 febbraio 2010
di Mauro Suttora
Povero Benito. Altro che boia, come appare in Vincere, il film di Marco Bellocchio con Vittoria Mezzogiorno. Lì Mussolini fa rinchiudere in manicomio la (presunta) prima moglie Ida Dalser, causandone la morte. Stesso destino per il figlio avuto dalla Dalser, Benitino.
Ma questo è l’unico caso in cui il dittatore si comportò male (anzi, da assassino) con una delle sue numerose amanti. Di quasi tutte le altre rimase amico anche dopo la fine della relazione. Lo dimostra il libro Mussolini segreto (Rizzoli), ovvero i diari della favorita Claretta Petacci, resi pubblici dopo settant’anni dall’Archivio di Stato.
Il tappeto “galeotto”
Bastava che le ex si presentassero imploranti a Palazzo Venezia, e per quasi tutte c’era una sinecura, una somma mensile, una consolazione. Magari in cambio di un rapporto consumato sui due piedi (anzi, sui due stivali, che il duce non si levava), o in ginocchio, o addirittura sul tappeto. Alla faccia della moglie Rachele e di Claretta, che era gelosissima.
Se poi c’erano in ballo figli illegittimi, Benito si trasformava addirittura in papà amorevole: alla madre arrivavano come alimenti ben più delle famose «mille lire al mese», cioè quelle che nell’omonima canzone del 1939 erano lo stipendio sognato dagli italiani. Insomma, più che playboy crudele, o inesausto vitellone romagnolo, il «duce che seduce» era una vittima delle donne che possedeva.
E loro non si facevano scrupolo nello «spolparlo». «Quella donna è una spugna, credo che spenda tutto dalla sarta. Esagera: le ho dato ventimila per tre mesi, e lei ne voleva mille in più. Che miseria. Quella scena mi ha disgustato».
Così Mussolini si lamenta con Claretta il 30 ottobre 1938. Ce l’ha con Romilda Ruspi, ex favorita che gli ha dato un figlio, con la quale tradisce Claretta.
Il 55enne Benito in quel periodo è completamente succube della Petacci, che allora ha meno della metà dei suoi anni: 26. L’amante più famosa nella storia d’Italia abita in famiglia a Roma proprio accanto a Villa Torlonia, sulla via Nomentana, dove il dittatore vive con la possessiva moglie e i figli più giovani.
Così Renzo De Felice, massimo storico del fascismo, descrive Mussolini: «Dopo la proclamazione dell’impero nel 1936 si rinchiuse in se stesso. Non aveva amici, non frequentava nessuno fuori dai rapporti d’ufficio, diffidava di tutto e si sentiva circondato da collaboratori fragili e insicuri».
Il problema è che il duce in quegli anni è costretto a telefonare almeno una dozzina di volte al giorno a Claretta. La quale lo sospetta - e a ragione - di incontrare altre amanti a Palazzo Venezia e perfino a Villa Torlonia.
Lì infatti, in una dépendance nel grande parco, alloggia assieme alla sorella (impiegata del principe Torlonia) la bellissima Romilda. Che è amante del duce fin dalla fine degli anni Venti, quando Benito si trasferisce nella villa da via Rasella. E nel 1929 ha avuto un figlio da lui, Massimo. Cosicché anche di sera, tornato a casa, gli tocca chiamare ogni mezz’ora Claretta per tranquillizzarla. Paradossalmente, la Petacci è più serena se Benito è nel suo ufficio di Palazzo Venezia, lontano dalla Ruspi.
Com’è noto, l’elenco delle conquiste femminile del dittatore è sterminato. «Quando abitavo in via Rasella ero un chiavatore», si vanta lui stesso il 12 maggio 1938 con Claretta, la quale annota diligentemente le sue parole sul diario.
“Tre donne per sera”
«Avevo quattordici donne, il pensiero di essere di una sola mi era inconcepibile. C’è stato un periodo che ne prendevo tre-quattro per sera, una dopo l’altra. Una volta alle otto la Rismondo, alle nove la Sarfatti, alle dieci la Magda [Magda Brard Borgo (1903-’98), pianista bretone], e poi all’una una brasilera terribile. Questo ti dà l’idea della mia sessualità».
Quand’era ancora socialista, a Milano, l’anarchica Leda Rafanelli (1880-1971) prima di cedere lo fece penare parecchio. Mussolini era già sposato con Rachele, e probabilmente anche con Ida Dalser (1880-1937).
La più bella fu Angela Cucciati, e il fatto che fosse sposata con il capetto fascista milanese Bruno Curti non rappresentò un ostacolo: da lei Benito ebbe una figlia, Elena, che nacque nel 1922.
“Cornelia Tanzi, frigida”
Mussolini mantenne la Cucciati e la figlia Elena dopo il naufragio del matrimonio della donna. La quale ogni tanto andava personalmente da Milano a Roma a ritirare l’«assegno di mantenimento». Gli incontri intimi col duce si esaurirono solo con l’apparire della stella di Claretta, verso il 1936. Ma la figlia Elena Curti era con Mussolini a Dongo nel 1945, quando venne arrestato. E Claretta era gelosa anche di lei.
Una delle amanti più singolari del duce fu Cornelia Tanzi. Scrittrice, gli inviava una lettera al giorno. Anche lei fu eclissata da Claretta, e si mise (fra gli altri) con il poeta romano Trilussa. Benito il 19 febbraio 1938 la descrive così alla Petacci: «Ha gambe lunghe, è esile, sottile, alta, bruna. Ma frigida, fredda fino all’inverosimile. Figurati che non ha mai sentito nulla neanche con me. Veniva lì, si spogliava, faceva cadere la camicia, si vedevano queste due gambe lunghe, si metteva lì e via, senza scomporsi. Sempre indifferente, si rivestiva e andava via. Tutto in meno di mezz’ora. Ti dico la verità: l’ultima volta per me è stata una cosa laboriosa e faticosa, perché non mi andava. Poi, non so, aveva un profumo quel giorno, un odorino disgustoso... Scusa, ma sai come sono sensibile a queste cose.
“L’avrei bastonata”
«No, non l’ho mai amata e sentivo di essere un miserabile, non dovevo farlo. Non so nemmeno io perché, sono un animale. Ho pensato: “Chissà se adesso che ha l’amico sarà meno frigida e mi riuscirà di farla scuotere“. Niente, è stata più fredda di sempre, più indifferente, ed io più di lei. Dopo ho provato disgusto. Avrei voluto bastonarla, l’avrei buttata per terra».
Ma questo duce volgare e animalesco si trasforma a volte in padre amorevole verso i propri figli segreti. Come con Duilio e Adua, che Mussolini dice di avere avuto da Alice De Fonseca Pallottelli. Lei il 16 luglio 1938 gli scrive che i bimbi sono ammalati, e lui le telefona. La Pallottelli gli dice: «Duilio ha avuto una forte dissenteria, credevo di perderlo. Ha vomitato tutta la notte. Vorrei portarlo al mare a Pesaro». Mussolini le chiede se ha bisogno di soldi. E lei: «No, per ora ce la faccio».
Mauro Suttora
Il Vietnam di Bersani
LA CRISI DEL PD SECONDO PANSA, PASQUINO E CALDAROLA
Oggi, 3 febbraio 2010
di Mauro Suttora
Ogni settimana uno scivolone. Prima la sconfitta alle primarie in Puglia, dove il Partito democratico col suo 26 per cento si è fatto battere da Nichi Vendola, capo di un partitino del due per cento (Sinistra e libertà). Poi le dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Delbono, per i favori alla ex amante e segretaria. Infine la scelta del candidato governatore in Campania, Vincenzo De Luca, contestata da Antonio Di Pietro.Che succede al partito guidato da Pier Luigi Bersani? «Rischia di fare la fine della Dc», avverte Giampaolo Pansa. «È nato male, rimetterlo assieme sarà complicato», sentenzia Gianfranco Pasquino. «Anche Bersani segue il destino dei segretari del pd, che durano pochi mesi», commenta Giuseppe Caldarola con Oggi.
Abbiamo chiesto a questi tre personaggi, che il Pd lo conoscono molto da vicino, di spiegare la crisi che avviluppa il primo partito d’opposizione a meno di due mesi dalle delicate elezioni regionali. E, in particolare, il travaglio personale del segretario Bersani che, in sella da appena tre mesi, sembra già logorato. Tanto che l’ex premier Romano Prodi chiede pubblicamente (e polemicamente): «Chi comanda nel Pd?»
«Quello di Bersani non è un Vietnam che riguarda solo lui. La disfatta tocca l’intero progetto del Partito democratico»: Pasquino da New York, dove è fellow dell’Italian Academy alla Columbia University, fornisce un giudizio drastico. Il professore conosce bene i suoi polli: è stato infatti senatore della Sinistra indipendente, e poi del Pds, dal 1983 al ‘96. L’anno scorso è stato l’unico nella sinistra bolognese a opporsi a Delbono, ma con una lista civica personale ha raccolto solo il due per cento. Allora sembrava un grillo parlante.
«Appetito sessuale»
Oggi, dopo il disastro, accusa: «L’irrefrenabile appetito sessuale del sindaco era conosciuto da tutti, si sapeva dei suoi viaggi frequenti con la segretaria. Ma, come ho detto, il problema non è personale, è di struttura. Basta vedere la fine che hanno già fatto i due fondatori del Pd: Fassino e Rutelli. Dopo appena due anni il primo è sparito, il secondo se n’è andato. Il disastro, dopo Veltroni e Franceschini, è oggi ereditato da Bersani, che è l’uomo più capace, affidabile e competente. Ha dimostrato effettive capacità di governo quand’era ministro».
E allora, come mai non riesce a governare il suo partito?
«Perché il Pd è ormai composto da duecentomila persone che non saprebbero in quale altro modo vivere se perdessero la propria carica di consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale, regionale, parlamentare o funzionario nominato in qualche ente. Non hanno una professione alla quale tornare, sono obbligati a fare politica per sempre. Perfino Ghedini può permettersi di litigare con Berlusconi, riprenderebbe a fare l’avvocato. Invece la casta dei politici di professione è inamovibile».
È l’argomento di Berlusconi contro «i politici che non hanno mai lavorato».
«Non è un insulto. Avrei qualche difficoltà a dire se e quando D’Alema o Fassino, e lo dico con affetto, hanno mai lavorato».
Qual è la soluzione, allora?
«Non il limite dei mandati, che ora colpisce i sindaci dopo otto anni. Un giovane che si dà alla politica può pianificare la propria carriera e, passando da un consiglio comunale alla Provincia, alla Regione e poi al Parlamento, coprendo tutto il cursus honorum dopo quarant’anni arriva alla pensione. Ecco perché quasi tutti i giovani politici oggi, al di là della retorica e delle loro polemiche contro i “vecchi”, sono solo ambiziosi arrivisti».
E allora? «Dovremmo eleggere soltanto chi ha già una posizione professionale alla quale fare ritorno».
Dc con pci? «impossibile»
Anche Giuseppe Caldarola è stato nel cuore del potere Ds. Direttore dell’Unità dal ‘96 al ‘98, deputato fino a due anni fa, se n’è andato alla nascita del Pd: «Che in realtà non è mai nato, perché non si possono mettere assieme le culture di Pci e Dc».
Bersani sembrava il candidato ideale.
«Ma il partito democratico mangerà anche lui. È incredibile la refrattarietà di questa formazione a qualsiasi leader. E non se ne esce con le ricette di Cacciari o Chiamparino su nuovi Ulivi o chissà cos’altro. Bersani è una persona piacevole e concreta, ma è il contrario del leader politico moderno, perché non ama il palcoscenico e non trascina. Potrebbe essere una risorsa, ma non per quella macchina tritasassi che è il Pd».
Quindi?
«Sciogliere il Pd e tornare a prima: una partito socialista moderno, come la tedesca Spd, che si allea a un centro cattolico moderato in attesa del declino di Berlusconi».
«Ma l’unica cosa che Bersani non può permettersi di fare è attendere», tuona Pansa, che ha trasferito la sua storica rubrica Bestiario dall’Espresso al quotidiano Il Riformista.
«“Meglio tirare a campare che tirare le cuoia” era il motto di Andreotti, ma ormai il partito democratico è balcanizzato. Ci sono tanti clan regionali comandati da cacicchi. Bersani può solo usare la poca forza rimasta per cambiare politica e linguaggio, scardinando una linea che non dà più frutti».
No ai clandestini
Per esempio? «Dica che i magistrati non devono andare in tv, scrivere sui giornali, partecipare a convegni politici ed essere eletti in Parlamento. Combatta gli evasori fiscali permettendo di scaricare le spese, cosicché tutti chiederanno le ricevute. Ammetta che gli immigrati clandestini aumentano la criminalità...».
Oggi, 3 febbraio 2010
di Mauro Suttora
Ogni settimana uno scivolone. Prima la sconfitta alle primarie in Puglia, dove il Partito democratico col suo 26 per cento si è fatto battere da Nichi Vendola, capo di un partitino del due per cento (Sinistra e libertà). Poi le dimissioni del sindaco di Bologna Flavio Delbono, per i favori alla ex amante e segretaria. Infine la scelta del candidato governatore in Campania, Vincenzo De Luca, contestata da Antonio Di Pietro.Che succede al partito guidato da Pier Luigi Bersani? «Rischia di fare la fine della Dc», avverte Giampaolo Pansa. «È nato male, rimetterlo assieme sarà complicato», sentenzia Gianfranco Pasquino. «Anche Bersani segue il destino dei segretari del pd, che durano pochi mesi», commenta Giuseppe Caldarola con Oggi.
Abbiamo chiesto a questi tre personaggi, che il Pd lo conoscono molto da vicino, di spiegare la crisi che avviluppa il primo partito d’opposizione a meno di due mesi dalle delicate elezioni regionali. E, in particolare, il travaglio personale del segretario Bersani che, in sella da appena tre mesi, sembra già logorato. Tanto che l’ex premier Romano Prodi chiede pubblicamente (e polemicamente): «Chi comanda nel Pd?»
«Quello di Bersani non è un Vietnam che riguarda solo lui. La disfatta tocca l’intero progetto del Partito democratico»: Pasquino da New York, dove è fellow dell’Italian Academy alla Columbia University, fornisce un giudizio drastico. Il professore conosce bene i suoi polli: è stato infatti senatore della Sinistra indipendente, e poi del Pds, dal 1983 al ‘96. L’anno scorso è stato l’unico nella sinistra bolognese a opporsi a Delbono, ma con una lista civica personale ha raccolto solo il due per cento. Allora sembrava un grillo parlante.
«Appetito sessuale»
Oggi, dopo il disastro, accusa: «L’irrefrenabile appetito sessuale del sindaco era conosciuto da tutti, si sapeva dei suoi viaggi frequenti con la segretaria. Ma, come ho detto, il problema non è personale, è di struttura. Basta vedere la fine che hanno già fatto i due fondatori del Pd: Fassino e Rutelli. Dopo appena due anni il primo è sparito, il secondo se n’è andato. Il disastro, dopo Veltroni e Franceschini, è oggi ereditato da Bersani, che è l’uomo più capace, affidabile e competente. Ha dimostrato effettive capacità di governo quand’era ministro».
E allora, come mai non riesce a governare il suo partito?
«Perché il Pd è ormai composto da duecentomila persone che non saprebbero in quale altro modo vivere se perdessero la propria carica di consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale, regionale, parlamentare o funzionario nominato in qualche ente. Non hanno una professione alla quale tornare, sono obbligati a fare politica per sempre. Perfino Ghedini può permettersi di litigare con Berlusconi, riprenderebbe a fare l’avvocato. Invece la casta dei politici di professione è inamovibile».
È l’argomento di Berlusconi contro «i politici che non hanno mai lavorato».
«Non è un insulto. Avrei qualche difficoltà a dire se e quando D’Alema o Fassino, e lo dico con affetto, hanno mai lavorato».
Qual è la soluzione, allora?
«Non il limite dei mandati, che ora colpisce i sindaci dopo otto anni. Un giovane che si dà alla politica può pianificare la propria carriera e, passando da un consiglio comunale alla Provincia, alla Regione e poi al Parlamento, coprendo tutto il cursus honorum dopo quarant’anni arriva alla pensione. Ecco perché quasi tutti i giovani politici oggi, al di là della retorica e delle loro polemiche contro i “vecchi”, sono solo ambiziosi arrivisti».
E allora? «Dovremmo eleggere soltanto chi ha già una posizione professionale alla quale fare ritorno».
Dc con pci? «impossibile»
Anche Giuseppe Caldarola è stato nel cuore del potere Ds. Direttore dell’Unità dal ‘96 al ‘98, deputato fino a due anni fa, se n’è andato alla nascita del Pd: «Che in realtà non è mai nato, perché non si possono mettere assieme le culture di Pci e Dc».
Bersani sembrava il candidato ideale.
«Ma il partito democratico mangerà anche lui. È incredibile la refrattarietà di questa formazione a qualsiasi leader. E non se ne esce con le ricette di Cacciari o Chiamparino su nuovi Ulivi o chissà cos’altro. Bersani è una persona piacevole e concreta, ma è il contrario del leader politico moderno, perché non ama il palcoscenico e non trascina. Potrebbe essere una risorsa, ma non per quella macchina tritasassi che è il Pd».
Quindi?
«Sciogliere il Pd e tornare a prima: una partito socialista moderno, come la tedesca Spd, che si allea a un centro cattolico moderato in attesa del declino di Berlusconi».
«Ma l’unica cosa che Bersani non può permettersi di fare è attendere», tuona Pansa, che ha trasferito la sua storica rubrica Bestiario dall’Espresso al quotidiano Il Riformista.
«“Meglio tirare a campare che tirare le cuoia” era il motto di Andreotti, ma ormai il partito democratico è balcanizzato. Ci sono tanti clan regionali comandati da cacicchi. Bersani può solo usare la poca forza rimasta per cambiare politica e linguaggio, scardinando una linea che non dà più frutti».
No ai clandestini
Per esempio? «Dica che i magistrati non devono andare in tv, scrivere sui giornali, partecipare a convegni politici ed essere eletti in Parlamento. Combatta gli evasori fiscali permettendo di scaricare le spese, cosicché tutti chiederanno le ricevute. Ammetta che gli immigrati clandestini aumentano la criminalità...».
Wednesday, February 03, 2010
Berlusconi e Craxi a Portofino
SILVIO APPRENDISTA DA BETTINO
Oggi, 25 gennaio 2010
«Ricordo bene quella giornata. Era un sabato di giugno 1988 e con mio padre stavamo tornando da Bologna a Milano. Ci chiamò Berlusconi e ci invitò a Portofino. Così con l’aereo atterrammo a Genova invece che a Milano. Fu una serata piacevolissima, tutta fra uomini. Non c’erano né mia madre, né mia sorella né Veronica, che di solito partecipavano agli incontri di famiglia. Berlusconi ci ospitò nella sua villa e mio padre ripartì la mattina dopo perché aveva un impegno. Io invece tornai a Milano con i Berlusconi».
Abbiamo chiesto a Bobo Craxi di commentare e situare le foto esclusive di queste pagine. Che descrivono bene l’atmosfera dei festosi anni Ottanta, quando tutto sembrava facile e il successo arrideva ai socialisti.
Oggi, nel decennale della morte di Craxi, metà Italia lo condanna come «latitante pregiudicato», mentre l’altra metà vorrebbe riabilitarlo come statista, intestandogli una strada. «Fu un protagonista della storia della Repubblica», ha commentato Berlusconi, «ed era mio amico».
All’apogeo del potere
Craxi era diventato presidente del Consiglio nel 1983, suscitando grandi speranze: per la prima volta un uomo di sinistra a capo del governo, dopo vent’anni di democristiani a guidare le coalizioni di centrosinistra. Sandro Pertini primo presidente della Repubblica nel 1978, Giovanni Spadolini primo premier laico tre anni dopo.
Infine Craxi. Che nell’87, dopo quattro anni di governo, deve cederlo ai democristiani in nome della «staffetta»: prima a Fanfani, poi a Goria, infine all’arcinemico Ciriaco de Mita. Ma Bettino continuava a essere l’uomo politico più importante e riverito d’Italia. Nonché detestato, dalle opposizioni.
Alla sua ombra, stava crescendo un certo Silvio Berlusconi. Imprenditore di successo, ma anche debitore di favori da parte del Psi. Se nel 1984 Craxi in persona non lo avesse salvato con un decreto d’urgenza, le sue tre televisioni sarebbero state oscurate dai pretori. La legge italiana, infatti, a quel tempo non permetteva la trasmissione in contemporanea di segnali tv su tutto il territorio nazionale da parte di privati.
Amici di famiglia
«Con Berlusconi eravamo amici di famiglia», ricorda Bobo. «Ci si vedeva a Milano e io ero amico di Dudi [Pier Silvio, ndr], anche se la differenza di età non ci permetteva di avere interessi in comune. Più che altro l’amicizia era cementata dalla comune fede milanista: in seguito Berlusconi mi fece entrare nel consiglio d’amministrazione del Milan. Ci vedevamo allo stadio, quindi, e spesso nelle trasferte del Milan in Coppa dei Campioni. Era lo squadrone di Sacchi e Gullit, ricordo la prima volta che lo seguimmo in una partita internazionale. Eravamo andati a Gijon, nelle Asturie».
E a Portofino le famiglie Craxi e Berlusconi non si frequentavano?
«No, che io ricordi quella fu la prima sera assieme. Noi, quando andavamo a Portofino, di solito eravamo ospiti della famiglia Recchi. Berlusconi invece a quell’epoca aveva una villa diversa dall’attuale, piuttosto scomoda da raggiungere perché ci si approdava solo in barca. Poi l’ha venduta agli stilisti Dolce e Gabbana. Ricordo che quella sera fu abbastanza complicato tornare a casa, imbarcandoci di notte dopo la cena».
Scena della classica «schitarrata», il ristorante più classico di Portofino: Puny, il locale di Luigi Miroli nella piazzetta centrale. Adesso Puny è in chiusura invernale, ma Miroli da casa sua ricorda quei tempi: «Ero onorato di avere spesso fra i miei ospiti sia Craxi, sia Berlusconi. Ma forse quella fu la prima sera che fecero tavolata assieme».
Ugole socialiste
Il nome del chitarrista, l’Apicella di allora, non se lo ricorda più nessuno. «Ma ho bene in mente il repertorio», dice Bobo, «perché era quello per cui andavano pazzi sia Berlusconi, sia mio padre: Yves Montand, Henri Salvador, Charles Trenet, e qualsiasi nota che profumasse di Francia anni Cinquanta».
Craxi non cantava, ma amava circondarsi di cantanti: alla corte del Garofano non mancavano le serate all’insegna dell’ugola, fosse quella di Caterina Caselli o di Tony Renis. E in questo mondo conviviale e festaiolo Berlusconi ci sguazzava felice, potendo stare al centro dell’attenzione grazie alle proprie doti canore.
Amicizia a parte, sul rapporto Craxi-Berlusconi sono stati scritti libri. In queste foto, specialmente in quella in cui Silvio si tiene a rispettosa distanza da Craxi padre e figlio che posano assieme, si intuisce il senso di gratitudine e di deferenza che l’attuale premier aveva per il capo socialista. Probabilmente l’unico uomo politico di professione che lui, imprenditore brianzolo, non solo riusciva a sopportare, ma ammirava sinceramente.
«Eppure venivano da mondi totalmente diversi», commenta Bobo. «Mio padre era un politico di razza, dotato di profonda cultura storica e democratica. Era il classico figlio dei partiti e del partito. Berlusconi, al contrario, era un self made man. L’unico tratto comune che vedo fra i due, in politica, è che Berlusconi ha perfezionato il modello di “leader carismatico” iniziato da mio padre. Ma per il resto, considerarlo l’erede di Craxi non mi pare corretto. Berlusconi ha ereditato più Dc che Psi. La maggioranza dei socialisti, infatti, non è entrata in Forza Italia».
In queste foto, però, c’è l’idea di un Berlusconi «apprendista» di Craxi. E che cinque anni più tardi, alla caduta rovinosa del Psi e di mezza Dc, ne colmerà il vuoto.
Litigata sulla droga
Fra i personaggi di quella stagione a Portofino appare anche Francesco Cardella, fondatore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti a Trapani. «Proprio la droga in quel periodo mi fece litigare con mio padre», ricorda Bobo, «perché io non condivisi la linea dura adottata dal Psi nell’88. Lui si arrabbiò molto con me, ma io lo avvertii che ci stavamo allontanando dai giovani». Si allontanava anche la stagione del «movimentismo» Psi con i radicali, che aveva portato al referendum contro il nucleare l’anno precedente. Craxi non era più capo del governo e aveva rifiutato di abbassarsi a diventare ministro in quelli di Goria e De Mita. Ma rimaneva più in sella che mai, e quando De Mita cadde promosse l’alleanza del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), che guidò l’Italia per un quadriennio. Fino al crollo di Tangentopoli. Che fece improvvisamente ingiallire tutte queste foto.
Mauro Suttora
Oggi, 25 gennaio 2010
«Ricordo bene quella giornata. Era un sabato di giugno 1988 e con mio padre stavamo tornando da Bologna a Milano. Ci chiamò Berlusconi e ci invitò a Portofino. Così con l’aereo atterrammo a Genova invece che a Milano. Fu una serata piacevolissima, tutta fra uomini. Non c’erano né mia madre, né mia sorella né Veronica, che di solito partecipavano agli incontri di famiglia. Berlusconi ci ospitò nella sua villa e mio padre ripartì la mattina dopo perché aveva un impegno. Io invece tornai a Milano con i Berlusconi».
Abbiamo chiesto a Bobo Craxi di commentare e situare le foto esclusive di queste pagine. Che descrivono bene l’atmosfera dei festosi anni Ottanta, quando tutto sembrava facile e il successo arrideva ai socialisti.
Oggi, nel decennale della morte di Craxi, metà Italia lo condanna come «latitante pregiudicato», mentre l’altra metà vorrebbe riabilitarlo come statista, intestandogli una strada. «Fu un protagonista della storia della Repubblica», ha commentato Berlusconi, «ed era mio amico».
All’apogeo del potere
Craxi era diventato presidente del Consiglio nel 1983, suscitando grandi speranze: per la prima volta un uomo di sinistra a capo del governo, dopo vent’anni di democristiani a guidare le coalizioni di centrosinistra. Sandro Pertini primo presidente della Repubblica nel 1978, Giovanni Spadolini primo premier laico tre anni dopo.
Infine Craxi. Che nell’87, dopo quattro anni di governo, deve cederlo ai democristiani in nome della «staffetta»: prima a Fanfani, poi a Goria, infine all’arcinemico Ciriaco de Mita. Ma Bettino continuava a essere l’uomo politico più importante e riverito d’Italia. Nonché detestato, dalle opposizioni.
Alla sua ombra, stava crescendo un certo Silvio Berlusconi. Imprenditore di successo, ma anche debitore di favori da parte del Psi. Se nel 1984 Craxi in persona non lo avesse salvato con un decreto d’urgenza, le sue tre televisioni sarebbero state oscurate dai pretori. La legge italiana, infatti, a quel tempo non permetteva la trasmissione in contemporanea di segnali tv su tutto il territorio nazionale da parte di privati.
Amici di famiglia
«Con Berlusconi eravamo amici di famiglia», ricorda Bobo. «Ci si vedeva a Milano e io ero amico di Dudi [Pier Silvio, ndr], anche se la differenza di età non ci permetteva di avere interessi in comune. Più che altro l’amicizia era cementata dalla comune fede milanista: in seguito Berlusconi mi fece entrare nel consiglio d’amministrazione del Milan. Ci vedevamo allo stadio, quindi, e spesso nelle trasferte del Milan in Coppa dei Campioni. Era lo squadrone di Sacchi e Gullit, ricordo la prima volta che lo seguimmo in una partita internazionale. Eravamo andati a Gijon, nelle Asturie».
E a Portofino le famiglie Craxi e Berlusconi non si frequentavano?
«No, che io ricordi quella fu la prima sera assieme. Noi, quando andavamo a Portofino, di solito eravamo ospiti della famiglia Recchi. Berlusconi invece a quell’epoca aveva una villa diversa dall’attuale, piuttosto scomoda da raggiungere perché ci si approdava solo in barca. Poi l’ha venduta agli stilisti Dolce e Gabbana. Ricordo che quella sera fu abbastanza complicato tornare a casa, imbarcandoci di notte dopo la cena».
Scena della classica «schitarrata», il ristorante più classico di Portofino: Puny, il locale di Luigi Miroli nella piazzetta centrale. Adesso Puny è in chiusura invernale, ma Miroli da casa sua ricorda quei tempi: «Ero onorato di avere spesso fra i miei ospiti sia Craxi, sia Berlusconi. Ma forse quella fu la prima sera che fecero tavolata assieme».
Ugole socialiste
Il nome del chitarrista, l’Apicella di allora, non se lo ricorda più nessuno. «Ma ho bene in mente il repertorio», dice Bobo, «perché era quello per cui andavano pazzi sia Berlusconi, sia mio padre: Yves Montand, Henri Salvador, Charles Trenet, e qualsiasi nota che profumasse di Francia anni Cinquanta».
Craxi non cantava, ma amava circondarsi di cantanti: alla corte del Garofano non mancavano le serate all’insegna dell’ugola, fosse quella di Caterina Caselli o di Tony Renis. E in questo mondo conviviale e festaiolo Berlusconi ci sguazzava felice, potendo stare al centro dell’attenzione grazie alle proprie doti canore.
Amicizia a parte, sul rapporto Craxi-Berlusconi sono stati scritti libri. In queste foto, specialmente in quella in cui Silvio si tiene a rispettosa distanza da Craxi padre e figlio che posano assieme, si intuisce il senso di gratitudine e di deferenza che l’attuale premier aveva per il capo socialista. Probabilmente l’unico uomo politico di professione che lui, imprenditore brianzolo, non solo riusciva a sopportare, ma ammirava sinceramente.
«Eppure venivano da mondi totalmente diversi», commenta Bobo. «Mio padre era un politico di razza, dotato di profonda cultura storica e democratica. Era il classico figlio dei partiti e del partito. Berlusconi, al contrario, era un self made man. L’unico tratto comune che vedo fra i due, in politica, è che Berlusconi ha perfezionato il modello di “leader carismatico” iniziato da mio padre. Ma per il resto, considerarlo l’erede di Craxi non mi pare corretto. Berlusconi ha ereditato più Dc che Psi. La maggioranza dei socialisti, infatti, non è entrata in Forza Italia».
In queste foto, però, c’è l’idea di un Berlusconi «apprendista» di Craxi. E che cinque anni più tardi, alla caduta rovinosa del Psi e di mezza Dc, ne colmerà il vuoto.
Litigata sulla droga
Fra i personaggi di quella stagione a Portofino appare anche Francesco Cardella, fondatore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti a Trapani. «Proprio la droga in quel periodo mi fece litigare con mio padre», ricorda Bobo, «perché io non condivisi la linea dura adottata dal Psi nell’88. Lui si arrabbiò molto con me, ma io lo avvertii che ci stavamo allontanando dai giovani». Si allontanava anche la stagione del «movimentismo» Psi con i radicali, che aveva portato al referendum contro il nucleare l’anno precedente. Craxi non era più capo del governo e aveva rifiutato di abbassarsi a diventare ministro in quelli di Goria e De Mita. Ma rimaneva più in sella che mai, e quando De Mita cadde promosse l’alleanza del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), che guidò l’Italia per un quadriennio. Fino al crollo di Tangentopoli. Che fece improvvisamente ingiallire tutte queste foto.
Mauro Suttora
Thursday, January 28, 2010
Il Foglio su 'Mussolini segreto'
Smemorie finiane. Divorzio e memoria. Rileggere Dino Grandi per capire certe passioni da divorzio breve. Rileggere Claretta sulla razza
Il Foglio, 28 gennaio 2010
di Francesco Agnoli
La prima: da tempo alcuni parlamentari che furono di An si battono per il divorzio breve. Tra costoro Maria Ida Germontani, i cui disegni di legge sono applauditi dall’associazione radicale per il divorzio breve. I dati sono questi: i divorzi crescono ogni anno e con essi le problematiche connesse all’equilibrato sviluppo psicologico di figli che possiedono un solo o più di due genitori. Quanto a quest’ultimi, secondo il presidente nazionale dell’Ami, l’associazione matrimonialisti italiani, “ogni anno in Italia si separano circa 160 mila persone e centomila sono i nuovi divorziati. “E’ un fenomeno che riguarda per lo più operai, impiegati ed insegnanti. Le separazioni e i divorzi, dati gli obblighi economici e le spese che determinano, trasformano questi lavoratori in veri e propri ‘clochard’”.
Secondo l’Ami il 25 per cento degli ospiti delle mense dei poveri sono separati e divorziate. Nell’80 per cento dei casi si tratta di padri separati, obbligati a mantenere moglie e figli e senza più risorse per sopravvivere. Molti di questi dormono in auto e i più fortunati (circa 500 mila) sono tornati nelle loro famiglie d’origine (fonte Apcom).
Di fronte a questo disastro non sarebbe meglio, piuttosto che facilitare ancora il divorzio, puntare su una rinascita del senso della famiglia, che renda quantomeno meno frequenti certi drammi umani?
In verità le battaglie della Germontani rammentano quanto racconta il vaticanista Benny Lai nel suo “Il mio Vaticano” (Rubbettino). All’indomani della consultazione referendaria sul divorzio del 1974, l’ex ministro degli Esteri e Guardasigilli fascista Dino Grandi espresse a Benny Lai la sua soddisfazione per l’esito, spiegandogli che si era giunti finalmente a quello che anche lui e Mussolini avrebbero voluto, tanti anni prima:
“Mussolini pretendeva che la Santa Sede, la quale aveva rafforzato la sua stretta neutralità dopo l’intervento dell’Italia in guerra, si schierasse a favore delle potenze dell’Asse. A sua volta Hitler insisteva, con la sua nota stupidità, che l’Italia rompesse con la Santa Sede. A quel tempo… toccava a me provvedere alla redazione del nuovo codice civile. Ebbene, ricevetti ordini perentori da Mussolini di stendere gli articoli relativi
al matrimonio in modo che fossero in contrasto all’articolo 34 del concordato…
Allora mi ribellai, mi ribellai per ragioni tattiche”, così che alla fine Mussolini disse: “Questi preti mi hanno fregato. Forse tu hai ragione (a dire che non è questo il momento opportuno, ndr) ma la prima cosa che farò dopo la guerra sarà la denuncia del concordato”.
Seconda riflessione: non molto tempo fa Gianfranco Fini ebbe a spiegare che la chiesa non aveva fatto abbastanza contro le leggi razziali del 1938. Un’accusa singolare. Ancora più singolare vista l’idea di Fini, ripetuta più volte, sulla necessità che la chiesa non invada spazi che non le appartengono. Recentemente è uscito il diario di Claretta Petacci, “Mussolini segreto”, a cura di Mauro Suttora (Rizzoli). Ne consiglio la lettura al presidente della Camera. Potrà trovarci ad esempio queste frasi: “8 ottobre 1938. Mussolini è indignato con Pio XI, che ha dichiarato ‘spiritualmente siamo tutti semiti’ e chiede di riconoscere la validità dei matrimoni religiosi misti tra ebrei e cattolici. ‘Tu non sai il male che fa questo Papa alla chiesa. Mai Papa fu tanto nefasto alla religione come questo. Ci sono cattolici profondi che lo ripudiano. Ha perduto quasi tutto il mondo. La Germania completamente… E lui fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto’.
‘Adesso sta facendo una campagna contraria per questa cosa dei matrimoni. Vorrei vedere che un italiano si sposasse con una negra… Lui dia pure il permesso, io non darò mai il consenso…Ha scontentato tutti i cattolici, fa discorsi cattivi e sciocchi. Quello dice: ‘Compiangere gli ebrei’, e dice: ‘Io mi sento simile a loro’… E’ il colmo’”.
10 novembre 1938. Il governo approva il decreto legge sulla razza che entrerà in vigore una settimana dopo. Benito ne parla a Claretta: “‘Oggi abbiamo trattato la questione degli ebrei. Certamente sua santità solleverà delle proteste, perché non riconosceremo i matrimoni misti. Se la Chiesa vorrà farne, faccia pure’”.
“16 novembre 1938. Nuovo sfogo contro Pio XI. ‘Ah no! Qui il Vaticano vuole la rottura. Ed io romperò, se continuano così. Troncherò ogni rapporto, torno indietro, distruggo il patto. Sono dei miserabili ipocriti. Ho proibito i matrimoni misti, e il Papa mi chiede di far sposare un italiano con una negra’”.
Per la storia: il Mussolini socialista, prima di divenire il duce, spiegava che la chiesa era contro la scienza: scrisse
infiniti articoli su Galilei e Giordano Bruno, e si dilettò nel confermare il materialismo di Marx alla luce di Darwin
in un articolo intitolato “Centenario darwiniano”. Si riteneva molto scientifico. Infatti volle che il Manifesto della Razza del 1938 avesse il crisma della scienza: fu firmato non dai “pipistrelli” che hanno paura della scienza, dalle “pallide ombre del medioevo”, come il giovane Benito chiamava i sacerdoti, ma da dieci scienziati-scientisti, tra i più “in” dell’epoca: antropologi, medici e zoologi.
Il Foglio, 28 gennaio 2010
di Francesco Agnoli
La prima: da tempo alcuni parlamentari che furono di An si battono per il divorzio breve. Tra costoro Maria Ida Germontani, i cui disegni di legge sono applauditi dall’associazione radicale per il divorzio breve. I dati sono questi: i divorzi crescono ogni anno e con essi le problematiche connesse all’equilibrato sviluppo psicologico di figli che possiedono un solo o più di due genitori. Quanto a quest’ultimi, secondo il presidente nazionale dell’Ami, l’associazione matrimonialisti italiani, “ogni anno in Italia si separano circa 160 mila persone e centomila sono i nuovi divorziati. “E’ un fenomeno che riguarda per lo più operai, impiegati ed insegnanti. Le separazioni e i divorzi, dati gli obblighi economici e le spese che determinano, trasformano questi lavoratori in veri e propri ‘clochard’”.
Secondo l’Ami il 25 per cento degli ospiti delle mense dei poveri sono separati e divorziate. Nell’80 per cento dei casi si tratta di padri separati, obbligati a mantenere moglie e figli e senza più risorse per sopravvivere. Molti di questi dormono in auto e i più fortunati (circa 500 mila) sono tornati nelle loro famiglie d’origine (fonte Apcom).
Di fronte a questo disastro non sarebbe meglio, piuttosto che facilitare ancora il divorzio, puntare su una rinascita del senso della famiglia, che renda quantomeno meno frequenti certi drammi umani?
In verità le battaglie della Germontani rammentano quanto racconta il vaticanista Benny Lai nel suo “Il mio Vaticano” (Rubbettino). All’indomani della consultazione referendaria sul divorzio del 1974, l’ex ministro degli Esteri e Guardasigilli fascista Dino Grandi espresse a Benny Lai la sua soddisfazione per l’esito, spiegandogli che si era giunti finalmente a quello che anche lui e Mussolini avrebbero voluto, tanti anni prima:
“Mussolini pretendeva che la Santa Sede, la quale aveva rafforzato la sua stretta neutralità dopo l’intervento dell’Italia in guerra, si schierasse a favore delle potenze dell’Asse. A sua volta Hitler insisteva, con la sua nota stupidità, che l’Italia rompesse con la Santa Sede. A quel tempo… toccava a me provvedere alla redazione del nuovo codice civile. Ebbene, ricevetti ordini perentori da Mussolini di stendere gli articoli relativi
al matrimonio in modo che fossero in contrasto all’articolo 34 del concordato…
Allora mi ribellai, mi ribellai per ragioni tattiche”, così che alla fine Mussolini disse: “Questi preti mi hanno fregato. Forse tu hai ragione (a dire che non è questo il momento opportuno, ndr) ma la prima cosa che farò dopo la guerra sarà la denuncia del concordato”.
Seconda riflessione: non molto tempo fa Gianfranco Fini ebbe a spiegare che la chiesa non aveva fatto abbastanza contro le leggi razziali del 1938. Un’accusa singolare. Ancora più singolare vista l’idea di Fini, ripetuta più volte, sulla necessità che la chiesa non invada spazi che non le appartengono. Recentemente è uscito il diario di Claretta Petacci, “Mussolini segreto”, a cura di Mauro Suttora (Rizzoli). Ne consiglio la lettura al presidente della Camera. Potrà trovarci ad esempio queste frasi: “8 ottobre 1938. Mussolini è indignato con Pio XI, che ha dichiarato ‘spiritualmente siamo tutti semiti’ e chiede di riconoscere la validità dei matrimoni religiosi misti tra ebrei e cattolici. ‘Tu non sai il male che fa questo Papa alla chiesa. Mai Papa fu tanto nefasto alla religione come questo. Ci sono cattolici profondi che lo ripudiano. Ha perduto quasi tutto il mondo. La Germania completamente… E lui fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto’.
‘Adesso sta facendo una campagna contraria per questa cosa dei matrimoni. Vorrei vedere che un italiano si sposasse con una negra… Lui dia pure il permesso, io non darò mai il consenso…Ha scontentato tutti i cattolici, fa discorsi cattivi e sciocchi. Quello dice: ‘Compiangere gli ebrei’, e dice: ‘Io mi sento simile a loro’… E’ il colmo’”.
10 novembre 1938. Il governo approva il decreto legge sulla razza che entrerà in vigore una settimana dopo. Benito ne parla a Claretta: “‘Oggi abbiamo trattato la questione degli ebrei. Certamente sua santità solleverà delle proteste, perché non riconosceremo i matrimoni misti. Se la Chiesa vorrà farne, faccia pure’”.
“16 novembre 1938. Nuovo sfogo contro Pio XI. ‘Ah no! Qui il Vaticano vuole la rottura. Ed io romperò, se continuano così. Troncherò ogni rapporto, torno indietro, distruggo il patto. Sono dei miserabili ipocriti. Ho proibito i matrimoni misti, e il Papa mi chiede di far sposare un italiano con una negra’”.
Per la storia: il Mussolini socialista, prima di divenire il duce, spiegava che la chiesa era contro la scienza: scrisse
infiniti articoli su Galilei e Giordano Bruno, e si dilettò nel confermare il materialismo di Marx alla luce di Darwin
in un articolo intitolato “Centenario darwiniano”. Si riteneva molto scientifico. Infatti volle che il Manifesto della Razza del 1938 avesse il crisma della scienza: fu firmato non dai “pipistrelli” che hanno paura della scienza, dalle “pallide ombre del medioevo”, come il giovane Benito chiamava i sacerdoti, ma da dieci scienziati-scientisti, tra i più “in” dell’epoca: antropologi, medici e zoologi.
Wednesday, January 27, 2010
Mentana torna a Mediaset?
IMPERO MEDIASET, IL FONDATORE DEL TG5 E IL PARTITO DELL'AMORE
Un anno fa Mentana se ne andava da Matrix tra dure polemiche. Ora, le clamorose voci di un ritorno. E Feltri, a sorpesa, lo benedice
di Mauro Suttora
Oggi, 27 gennaio 2010
Vittorio Feltri, ha sentito che Enrico Mentana torna a Mediaset?
«Davvero? A me non risulta».
A noi sì: ci sarebbe già stato un incontro diretto Mentana-Silvio Berlusconi, poi uno con Fedele Confalonieri, e adesso la pace attende solo di essere ratificata da Berlusconi junior, Pier Silvio.
«Mah, se succederà, sarà un bene per tutti: con Mentana in Tv ci guadagna la Tv, e soprattutto lui. È un conduttore capacissimo, un fuoriclasse. Un po' meno bravo come ospite: l'ho visto a disagio ultimamente».
Fra i giornalisti berlusconiani lui è considerato il moderato, lei l'estremista.
«Ma facciamo due mestieri diversi. Io dirigo un giornale d'opinione, lui a Matrix metteva lì cinque ospiti e li faceva parlare. Io mi devo esporre, altrimenti senza opinioni che razza di giornale d' opinione farei? E devono essere opinioni forti, che non facciano addormentare i lettori, se no loro smettono di comprare il Giornale. Mentana invece prima faceva un telegiornale che doveva accontentare tutti senza sbilanciarsi troppo. Perché in prima serata sei obbligato a essere ecumenico, non puoi fare il fazioso. E poi Matrix, in cui non doveva prendere posizione. Questo non vuol dire disistima da parte mia verso Mentana, anzi: ripeto che è bravissimo».
Il ritorno di Mentana all'ovile è il primo risultato del «partito dell'amore»? Berlusconi dopo l' assalto subìto il 13 dicembre ha annunciato che «l'amore trionferà contro l'odio e l'invidia». Ha cominciato lui, perdonando il figliol prodigo?
«Berlusconi fa le cose che reputa convenienti, e ha una speciale abilità nel farlo. Come Mentana, d'altronde».
Però dopo la cacciata di un anno fa da Matrix Mentana era molto arrabbiato. Non sono neppure riusciti a mettersi d'accordo su che cosa fosse successo, se dimissioni o licenziamento. Poi si è sfogato scrivendo contro Berlusconi un intero libro, in cui ha accusato le Tv Mediaset di essere militarizzate, al servizio dei suoi interessi politici.
«Erano anni che Mentana non si trovava bene a Mediaset. E quando sei irritato, lasci anche solo per un'impuntatura. Era un rapporto che si poteva benissimo rappattumare, ma sotto incazzatura detesti tutto e tutti. Mentana aveva bisogno di sfogarsi, e lo ha fatto scrivendo un libro fondamentale di cui non è fregato nulla a nessuno».
E allora cosa sarà successo, per farli riavvicinare?
«Ma niente, il tempo medica tutto. È come quando si litiga con la moglie: lì per lì la vuoi lasciare, poi ci ripensi e si fa la pace. Mentana ha capito di avere pestato una m... Pardon, poi dicono che sono volgare... Ha capito di essere scivolato su una buccia di banana, e siccome oltre che a essere bravo è anche intelligente, è tornato sui suoi passi. Inutile stare lì a rodersi e a far niente. Sempre che questo ritorno si avveri».
"USATO SICURO COME RONALDINHO"?
Ma per Mediaset il recupero di Mentana non rischia di essere una minestra riscaldata?
«Mentana rappresenta sempre una garanzia. Come quei grandi campioni un po' usati ma sicuri, tipo Ronaldinho...».
Tornerà a Matrix, al posto del povero Alessio Vinci che non ha fatto grandi ascolti e viene regolarmente battuto da Bruno Vespa?
«Alessio Vinci è tutt'altro che un fesso, è bravo a fare Tv di qualità e sicuramente avrà successo con un programma diverso».
A proposito, Feltri, lei come si trova con un giornale diverso?
«Quand'ero a Libero dicevano che ero il grillo parlante di Berlusconi. Ora invece mi accusano di prendere ordini da lui. Però gli stessi dicono anche che lo danneggio perché ho criticato Fini. Insomma, che si mettano d' accordo con loro stessi. Ultimamente, poi, quando ho criticato anche Berlusconi perché non abbassa le tasse, a Repubblica si sono stupiti per la mia indipendenza, ed eccoli tutti lì a chiedersi cosa c'è sotto. Non capiscono, forse perché non sanno bene cos'è l'indipendenza...».
IL FIGLIOL PRODIGO: PERSONAGGI E INTERPRETI
Fedele Confalonieri, 72 anni, presidente di Mediaset, con Enrico Mentana, 55, e Pier Silvio Berlusconi, 40, vicepresidente Mediaset. Il premier Silvio Berlusconi, 73, padrone delle tv Mediaset, e Vittorio Feltri, 66, direttore del quotidiano Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi.
Nel febbraio 2009 Mentana aveva lasciato burrascosamente Mediaset dopo il rifiuto di trasmettere uno speciale di Matrix su Eluana Englaro in prima serata su Canale 5. Nel suo libro Passionaccia (Rizzoli), uscito a maggio, Mentana scrive che Mediaset è un «comitato elettorale».
Mauro Suttora
Un anno fa Mentana se ne andava da Matrix tra dure polemiche. Ora, le clamorose voci di un ritorno. E Feltri, a sorpesa, lo benedice
di Mauro Suttora
Oggi, 27 gennaio 2010
Vittorio Feltri, ha sentito che Enrico Mentana torna a Mediaset?
«Davvero? A me non risulta».
A noi sì: ci sarebbe già stato un incontro diretto Mentana-Silvio Berlusconi, poi uno con Fedele Confalonieri, e adesso la pace attende solo di essere ratificata da Berlusconi junior, Pier Silvio.
«Mah, se succederà, sarà un bene per tutti: con Mentana in Tv ci guadagna la Tv, e soprattutto lui. È un conduttore capacissimo, un fuoriclasse. Un po' meno bravo come ospite: l'ho visto a disagio ultimamente».
Fra i giornalisti berlusconiani lui è considerato il moderato, lei l'estremista.
«Ma facciamo due mestieri diversi. Io dirigo un giornale d'opinione, lui a Matrix metteva lì cinque ospiti e li faceva parlare. Io mi devo esporre, altrimenti senza opinioni che razza di giornale d' opinione farei? E devono essere opinioni forti, che non facciano addormentare i lettori, se no loro smettono di comprare il Giornale. Mentana invece prima faceva un telegiornale che doveva accontentare tutti senza sbilanciarsi troppo. Perché in prima serata sei obbligato a essere ecumenico, non puoi fare il fazioso. E poi Matrix, in cui non doveva prendere posizione. Questo non vuol dire disistima da parte mia verso Mentana, anzi: ripeto che è bravissimo».
Il ritorno di Mentana all'ovile è il primo risultato del «partito dell'amore»? Berlusconi dopo l' assalto subìto il 13 dicembre ha annunciato che «l'amore trionferà contro l'odio e l'invidia». Ha cominciato lui, perdonando il figliol prodigo?
«Berlusconi fa le cose che reputa convenienti, e ha una speciale abilità nel farlo. Come Mentana, d'altronde».
Però dopo la cacciata di un anno fa da Matrix Mentana era molto arrabbiato. Non sono neppure riusciti a mettersi d'accordo su che cosa fosse successo, se dimissioni o licenziamento. Poi si è sfogato scrivendo contro Berlusconi un intero libro, in cui ha accusato le Tv Mediaset di essere militarizzate, al servizio dei suoi interessi politici.
«Erano anni che Mentana non si trovava bene a Mediaset. E quando sei irritato, lasci anche solo per un'impuntatura. Era un rapporto che si poteva benissimo rappattumare, ma sotto incazzatura detesti tutto e tutti. Mentana aveva bisogno di sfogarsi, e lo ha fatto scrivendo un libro fondamentale di cui non è fregato nulla a nessuno».
E allora cosa sarà successo, per farli riavvicinare?
«Ma niente, il tempo medica tutto. È come quando si litiga con la moglie: lì per lì la vuoi lasciare, poi ci ripensi e si fa la pace. Mentana ha capito di avere pestato una m... Pardon, poi dicono che sono volgare... Ha capito di essere scivolato su una buccia di banana, e siccome oltre che a essere bravo è anche intelligente, è tornato sui suoi passi. Inutile stare lì a rodersi e a far niente. Sempre che questo ritorno si avveri».
"USATO SICURO COME RONALDINHO"?
Ma per Mediaset il recupero di Mentana non rischia di essere una minestra riscaldata?
«Mentana rappresenta sempre una garanzia. Come quei grandi campioni un po' usati ma sicuri, tipo Ronaldinho...».
Tornerà a Matrix, al posto del povero Alessio Vinci che non ha fatto grandi ascolti e viene regolarmente battuto da Bruno Vespa?
«Alessio Vinci è tutt'altro che un fesso, è bravo a fare Tv di qualità e sicuramente avrà successo con un programma diverso».
A proposito, Feltri, lei come si trova con un giornale diverso?
«Quand'ero a Libero dicevano che ero il grillo parlante di Berlusconi. Ora invece mi accusano di prendere ordini da lui. Però gli stessi dicono anche che lo danneggio perché ho criticato Fini. Insomma, che si mettano d' accordo con loro stessi. Ultimamente, poi, quando ho criticato anche Berlusconi perché non abbassa le tasse, a Repubblica si sono stupiti per la mia indipendenza, ed eccoli tutti lì a chiedersi cosa c'è sotto. Non capiscono, forse perché non sanno bene cos'è l'indipendenza...».
IL FIGLIOL PRODIGO: PERSONAGGI E INTERPRETI
Fedele Confalonieri, 72 anni, presidente di Mediaset, con Enrico Mentana, 55, e Pier Silvio Berlusconi, 40, vicepresidente Mediaset. Il premier Silvio Berlusconi, 73, padrone delle tv Mediaset, e Vittorio Feltri, 66, direttore del quotidiano Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi.
Nel febbraio 2009 Mentana aveva lasciato burrascosamente Mediaset dopo il rifiuto di trasmettere uno speciale di Matrix su Eluana Englaro in prima serata su Canale 5. Nel suo libro Passionaccia (Rizzoli), uscito a maggio, Mentana scrive che Mediaset è un «comitato elettorale».
Mauro Suttora
Emma Bonino e Renata Polverini
LAZIO, LA DISFIDA DELLE RAGAZZE
Chi sono (davvero) le due donne che si contendono Roma
Da una parte c'è la sindacalista di Destra spesso apprezzata anche dalla Sinistra. Dall'altra, la radicale valorizzata da Berlusconi. Ecco le protagoniste delle Regionali
di Mauro Suttora
Oggi, 27 gennaio 2010
La sede del suo sindacato, l'Ugl, è in via Margutta, la strada più chic di Roma. Come se a Milano i metalmeccanici stessero in via Montenapoleone. Ma non è l' unico miracolo compiuto da Renata Polverini, capa dell'Unione generale del lavoro (l'ex Cisnal neofascista). Milena Gabanelli, in Report, ha formulato dubbi sul numero reale dei suoi iscritti. La Ugl ne vanta più di due milioni. Qualcuno mormora che a questa cifra bisognerebbe togliere uno zero. E lei, Renata, non smentisce: «Non fatemi parlare, ne avrei di cose da raccontare...», minaccia. Come dire: così fan tutti, controllate anche i cinque milioni di iscritti alla Cgil, i quattro della Cisl, i due della Uil. Con tanto di moltiplicazione di poltrone (e stipendi) nei consigli di amministrazione Inps e di tutti gli altri enti dove ai sindacati spettano posti.
Il palazzo di via Margutta è di proprietà, come l'attiguo Hotel de Russie, dei conti Vaselli: palazzinari in affari per centinaia di milioni con il Comune di Roma. Uno di loro è stato condannato a quattro anni come complice di Ciancimino, e ha latitato per tre anni. Il canone d' affitto all'Ugl non è noto, ma potrebbe diventare fonte di conflitto d'interessi se Renata Polverini fosse eletta governatrice.
Emma Bonino, invece, di iscritti ne ha solo 200: tanti erano quelli al suo partito radicale a metà gennaio. C'è da dire che la tessera va rinnovata ogni anno e costa parecchio: 200 euro. Ma i numeri non sono mai stati un problema per lei e Marco Pannella. Anche con tremila iscritti e solo il tre per cento dei voti, negli ultimi quarant' anni hanno cambiato l' Italia: divorzio, aborto, obiezione di coscienza, diritti gay, nucleare, finanziamento pubblico ai partiti... Ora lottano per il testamento biologico, sull' onda dei casi di Piero Welby ed Eluana Englaro.
Il periodo d'oro di Emma (così la chiamavano tutti, finché la sua omonima Marcegaglia è diventata presidente Confindustria: ora bisogna specificare) è stato dal 1994 al '99, quando fu commissaria europea ai Diritti umani. Andò in Afghanistan nel '97, quando nessuno si preoccupava di al Qaeda e talebani. Ci litigò subito, loro la arrestarono. Per dieci anni ammonì invano sulle stragi nella ex Jugoslavia, finché la Nato dovette intervenire in Kosovo. Tutto il mondo la lodò, l'Economist scrisse addirittura che era stata la migliore commissaria Ue. Risultato: il governo italiano non le rinnovò il mandato. Altrimenti ci sarebbe lei ora sulla poltrona del Segretario generale Onu, al posto dell'incolore Ban Ki Moon.
«E pensare che in Europa l'ho mandata io, peccato ora averla contro», sospira Silvio Berlusconi. È vero: sedici anni fa, quando fu premier la prima volta, la preferì a (indovinate chi?) Giorgio Napolitano, anche lui in lizza per Bruxelles. Poi però nel ' 99 Silvio s'ingelosì perché alle Europee la Bonino pigliò l'8 per cento dei voti (con punte del 18 nelle città del Nord, secondo partito dopo Forza Italia). E le stroncò la carriera, insultandola come «protesi di Pannella».
Così i radicali si ributtarono a sinistra, dov' erano già stati fino agli anni ' 80, e nel 2006 Romano Prodi nominò Emma ministro delle Politiche comunitarie. Oggi la Bonino è vicepresidente del Senato, e sta simpatica a tutti: dagli industriali a Rifondazione comunista, dalle sorelle Fendi ai profughi uiguri del Turkestan cinese. Sarà un po' difficile per lei occuparsi di Frosinone dopo aver volato per vent' anni fra Il Cairo e New York. Ma a sinistra nessun altro se l'è sentita di candidarsi nel Lazio dopo lo scandalo trans di Piero Marrazzo.
Oltre all'inedito duello fra donne, quel che è incredibile è che la Polverini e la Bonino si stimano. Quindi, una volta tanto, niente risse sul nulla, e molta concretezza. Entrambe sono «trasversali», parola assai quotata nella Casta politica: di solito è sinonimo d' inciucio o trasformismo (oggi a destra, domani a sinistra, e viceversa). Nel loro caso, invece, è ammirazione sincera quella che gli avversari provano per le due «ragazze». Anche perché la Polverini si dichiara di destra, «ma socialista e antiliberista»: non per nulla, il Msi si chiamava Movimento «sociale». Per lei voteranno i diseredati delle borgate romane, ma forse non tutti i forzitalioti perché è finiana.
LIBERISTA DI SINISTRA
La Bonino, viceversa, anche se candidata della sinistra è liberista (contro l'articolo 18 ha promosso un referendum) e filo-Stati Uniti. Ma Paolo Ferrero (Rifondazione) dice: «Emma ci piace». Prima don na a capo di u n sindacato in Europa, la frangetta di Renata assomiglia a quella di un altro volto emergente della politica italiana: Debora Serracchiani, parrocchia opposta (democratica). Di solito le riunioni e le trattative sindacali vanno avanti per ore, fino a notte fonda. La Polverini ha introdotto una nuova regola: tutti a casa entro le cinque. Per non escludere le donne, con i figli che tornano da scuola. Un piccolo accorgimento che vale quanto un'intera legge per le pari opportunità. Insomma, quella fra Polverini e Bonino sarà una sfida tra due vere femministe.
Mauro Suttora
Figlia di sindacalista
RENATA POLVERINI
Nata a Roma nel 1962, sua madre era sindacalista Cisnal nel supermercato Sma dove lavorava. Cresciuta in collegio a Focene (Roma). Sposata senza figli, ha sempre lavorato come funzionaria Cisnal, il sindacato vicino al Msi che nel ' 95 si trasforma in Ugl. Nel 2006 diventa segretaria dell' Ugl, prima donna in Europa a guidare un sindacato nazionale. Vicina a Gianfranco Fini, è criticata dal Giornale di Feltri, ma appoggiata dall'Udc di Casini.
STA CON FINI, MA LE PIACE D' ALEMA
Renata Polverini, 47 anni, a una manifestazione Ugl al Circo Massimo. Ha seguito Gianfranco Fini nello sdoganamento dell' estrema destra. Ma le piace anche D' Alema (Pd): «È strutturato, dimostra ciò che pensa».
EMMA BONINO
Nata nel 1948 a Bra (Cuneo) da una famiglia di agricoltori. Nubile, laureata alla Bocconi, abortisce e finisce in carcere con Adele Faccio. Da sempre con i radicali, è entrata in Parlamento nel '76 in jeans e zoccoli da femminista. Due anni dopo con Adelaide Aglietta fa passare la legge sull' aborto. Eurodeputata dal 1979, è stata commissaria Ue. Si è battuta contro la fame nel mondo, per il tribunale Onu, contro l'infibulazione e per i diritti delle donne arabe.
COPPIA (POLITICA) CON PANNELLA
Emma Bonino, 61, con Marco Pannella, 79. La Bonino è una dei pochi radicali rimasti fedeli al capo. Tutti gli altri (Rutelli, Capezzone, Teodori, Quagliariello) se ne sono andati. Nel '99 l' exploit: 8 per cento alle Europee.
Chi sono (davvero) le due donne che si contendono Roma
Da una parte c'è la sindacalista di Destra spesso apprezzata anche dalla Sinistra. Dall'altra, la radicale valorizzata da Berlusconi. Ecco le protagoniste delle Regionali
di Mauro Suttora
Oggi, 27 gennaio 2010
La sede del suo sindacato, l'Ugl, è in via Margutta, la strada più chic di Roma. Come se a Milano i metalmeccanici stessero in via Montenapoleone. Ma non è l' unico miracolo compiuto da Renata Polverini, capa dell'Unione generale del lavoro (l'ex Cisnal neofascista). Milena Gabanelli, in Report, ha formulato dubbi sul numero reale dei suoi iscritti. La Ugl ne vanta più di due milioni. Qualcuno mormora che a questa cifra bisognerebbe togliere uno zero. E lei, Renata, non smentisce: «Non fatemi parlare, ne avrei di cose da raccontare...», minaccia. Come dire: così fan tutti, controllate anche i cinque milioni di iscritti alla Cgil, i quattro della Cisl, i due della Uil. Con tanto di moltiplicazione di poltrone (e stipendi) nei consigli di amministrazione Inps e di tutti gli altri enti dove ai sindacati spettano posti.
Il palazzo di via Margutta è di proprietà, come l'attiguo Hotel de Russie, dei conti Vaselli: palazzinari in affari per centinaia di milioni con il Comune di Roma. Uno di loro è stato condannato a quattro anni come complice di Ciancimino, e ha latitato per tre anni. Il canone d' affitto all'Ugl non è noto, ma potrebbe diventare fonte di conflitto d'interessi se Renata Polverini fosse eletta governatrice.
Emma Bonino, invece, di iscritti ne ha solo 200: tanti erano quelli al suo partito radicale a metà gennaio. C'è da dire che la tessera va rinnovata ogni anno e costa parecchio: 200 euro. Ma i numeri non sono mai stati un problema per lei e Marco Pannella. Anche con tremila iscritti e solo il tre per cento dei voti, negli ultimi quarant' anni hanno cambiato l' Italia: divorzio, aborto, obiezione di coscienza, diritti gay, nucleare, finanziamento pubblico ai partiti... Ora lottano per il testamento biologico, sull' onda dei casi di Piero Welby ed Eluana Englaro.
Il periodo d'oro di Emma (così la chiamavano tutti, finché la sua omonima Marcegaglia è diventata presidente Confindustria: ora bisogna specificare) è stato dal 1994 al '99, quando fu commissaria europea ai Diritti umani. Andò in Afghanistan nel '97, quando nessuno si preoccupava di al Qaeda e talebani. Ci litigò subito, loro la arrestarono. Per dieci anni ammonì invano sulle stragi nella ex Jugoslavia, finché la Nato dovette intervenire in Kosovo. Tutto il mondo la lodò, l'Economist scrisse addirittura che era stata la migliore commissaria Ue. Risultato: il governo italiano non le rinnovò il mandato. Altrimenti ci sarebbe lei ora sulla poltrona del Segretario generale Onu, al posto dell'incolore Ban Ki Moon.
«E pensare che in Europa l'ho mandata io, peccato ora averla contro», sospira Silvio Berlusconi. È vero: sedici anni fa, quando fu premier la prima volta, la preferì a (indovinate chi?) Giorgio Napolitano, anche lui in lizza per Bruxelles. Poi però nel ' 99 Silvio s'ingelosì perché alle Europee la Bonino pigliò l'8 per cento dei voti (con punte del 18 nelle città del Nord, secondo partito dopo Forza Italia). E le stroncò la carriera, insultandola come «protesi di Pannella».
Così i radicali si ributtarono a sinistra, dov' erano già stati fino agli anni ' 80, e nel 2006 Romano Prodi nominò Emma ministro delle Politiche comunitarie. Oggi la Bonino è vicepresidente del Senato, e sta simpatica a tutti: dagli industriali a Rifondazione comunista, dalle sorelle Fendi ai profughi uiguri del Turkestan cinese. Sarà un po' difficile per lei occuparsi di Frosinone dopo aver volato per vent' anni fra Il Cairo e New York. Ma a sinistra nessun altro se l'è sentita di candidarsi nel Lazio dopo lo scandalo trans di Piero Marrazzo.
Oltre all'inedito duello fra donne, quel che è incredibile è che la Polverini e la Bonino si stimano. Quindi, una volta tanto, niente risse sul nulla, e molta concretezza. Entrambe sono «trasversali», parola assai quotata nella Casta politica: di solito è sinonimo d' inciucio o trasformismo (oggi a destra, domani a sinistra, e viceversa). Nel loro caso, invece, è ammirazione sincera quella che gli avversari provano per le due «ragazze». Anche perché la Polverini si dichiara di destra, «ma socialista e antiliberista»: non per nulla, il Msi si chiamava Movimento «sociale». Per lei voteranno i diseredati delle borgate romane, ma forse non tutti i forzitalioti perché è finiana.
LIBERISTA DI SINISTRA
La Bonino, viceversa, anche se candidata della sinistra è liberista (contro l'articolo 18 ha promosso un referendum) e filo-Stati Uniti. Ma Paolo Ferrero (Rifondazione) dice: «Emma ci piace». Prima don na a capo di u n sindacato in Europa, la frangetta di Renata assomiglia a quella di un altro volto emergente della politica italiana: Debora Serracchiani, parrocchia opposta (democratica). Di solito le riunioni e le trattative sindacali vanno avanti per ore, fino a notte fonda. La Polverini ha introdotto una nuova regola: tutti a casa entro le cinque. Per non escludere le donne, con i figli che tornano da scuola. Un piccolo accorgimento che vale quanto un'intera legge per le pari opportunità. Insomma, quella fra Polverini e Bonino sarà una sfida tra due vere femministe.
Mauro Suttora
Figlia di sindacalista
RENATA POLVERINI
Nata a Roma nel 1962, sua madre era sindacalista Cisnal nel supermercato Sma dove lavorava. Cresciuta in collegio a Focene (Roma). Sposata senza figli, ha sempre lavorato come funzionaria Cisnal, il sindacato vicino al Msi che nel ' 95 si trasforma in Ugl. Nel 2006 diventa segretaria dell' Ugl, prima donna in Europa a guidare un sindacato nazionale. Vicina a Gianfranco Fini, è criticata dal Giornale di Feltri, ma appoggiata dall'Udc di Casini.
STA CON FINI, MA LE PIACE D' ALEMA
Renata Polverini, 47 anni, a una manifestazione Ugl al Circo Massimo. Ha seguito Gianfranco Fini nello sdoganamento dell' estrema destra. Ma le piace anche D' Alema (Pd): «È strutturato, dimostra ciò che pensa».
EMMA BONINO
Nata nel 1948 a Bra (Cuneo) da una famiglia di agricoltori. Nubile, laureata alla Bocconi, abortisce e finisce in carcere con Adele Faccio. Da sempre con i radicali, è entrata in Parlamento nel '76 in jeans e zoccoli da femminista. Due anni dopo con Adelaide Aglietta fa passare la legge sull' aborto. Eurodeputata dal 1979, è stata commissaria Ue. Si è battuta contro la fame nel mondo, per il tribunale Onu, contro l'infibulazione e per i diritti delle donne arabe.
COPPIA (POLITICA) CON PANNELLA
Emma Bonino, 61, con Marco Pannella, 79. La Bonino è una dei pochi radicali rimasti fedeli al capo. Tutti gli altri (Rutelli, Capezzone, Teodori, Quagliariello) se ne sono andati. Nel '99 l' exploit: 8 per cento alle Europee.
Wednesday, January 13, 2010
Presentazione libro a Napoli
Giovedì 4 febbraio 2010, ore 16
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14, Napoli
presentazione-dibattito del libro "Mussolini segreto" (Rizzoli), i diari di Claretta Petacci
modera: Nico Pirozzi, giornalista
partecipano:
Prof. Clementina Gily, docente di Estetica al Dipartimento di Filosofia dell'Università Federico II di Napoli
Prof. Antonio Sarubbi, docente di Storia delle dottrine politiche
Prof. Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea
Mauro Suttora, giornalista Rcs. curatore del libro
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14, Napoli
presentazione-dibattito del libro "Mussolini segreto" (Rizzoli), i diari di Claretta Petacci
modera: Nico Pirozzi, giornalista
partecipano:
Prof. Clementina Gily, docente di Estetica al Dipartimento di Filosofia dell'Università Federico II di Napoli
Prof. Antonio Sarubbi, docente di Storia delle dottrine politiche
Prof. Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea
Mauro Suttora, giornalista Rcs. curatore del libro
Alfano alle Maldive con la scorta
Il ministro della Giustizia, in vacanza con la famiglia, fa allontanare dei paparazzi. Abuso di potere? In realtà le cose stanno un po' diversamente...
di Mauro Suttora
Oggi, 13 gennaio 2009
Va bene che le Maldive sono un Paese di religione musulmana, ma è proprio necessaria una scorta di poliziotti italiani se un nostro politico ci va a trascorrere le vacanze private con la famiglia?
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha scelto questo paradiso nell’oceano Indiano per le ultime ferie di Natale e Capodanno. Dieci giorni di relax con moglie e figli nel villaggio Valtur sull’isola di Kihad. Meta prediletta di vip italiani, soprattutto nei periodi di alta stagione. Quest’anno alle Maldive c’erano, fra gli altri, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il presidente del Senato Renato Schifani, la cantante Carmen Consoli con la madre, e il giocatore del Milan Ronaldinho. Alta, quindi, anche la concentrazione di paparazzi nostrani. Compresi alcuni fra i più temibili, pure loro in trasferta da Roma: Maurizio Sorge e Massimiliano Scarfone. Quest’ultimo famoso per avere immortalato il portavoce di Romano Prodi Silvio Sircana con un trans, e più recentemente per l’altro scandalo trans con il governatore del Lazio Piero Marrazzo.
I due, come ha rivelato Gabriella Sassone sul Tempo e su Dagospia, erano sulle tracce di Eros Ramazzotti, a mollo in un altro atollo nonostante gli acquazzoni quasi perenni, con la nuova fidanzata bergamasca Marika Pellegrinelli e la figlia Aurora, con amichetta al seguito. «Ormai siamo degli habitués delle Maldive, ci veniamo ogni anno da tempo immemorabile», racconta Sorge a Oggi, «ma questa volta c’è stata una spiacevole novità per noi».
Avvisati dal loro «contatto» locale della presenza del ministro Alfano, i due fotografi hanno affittato un motoscafo da 400 cavalli e dopo tre ore di navigazione da Malè si sono appostati a qualche centinaio di metri dalla costa del villaggio Valtur, per immortalare il ministro sulla battigia. Ma i due agenti di scorta del ministro si sono accorti subito dei teleobiettivi che sbucavano dalle acque. E, come nel film di Vanzina Paparazzi, prima hanno raggiunto la barca dei fotografi intimando loro in modo piuttosto rude di allontanarsi. Poi hanno allertato la polizia maldiviana.
«In realtà siamo stati identificati grazie a un altro fotografo italiano che ha dato le nostre generalità alla polizia, per compiacenza», racconta Sorge. «Il nostro collaboratore maldiviano ci ha subito telefonato per dirci di tornarcene in Italia. La polizia aveva contattato anche lui per farci sapere che la prossima volta che torniamo alle Maldive a fare foto finiamo direttamente in galera. Ma che abbiamo fatto di male? Quale reato abbiamo commesso? Abbiamo bisogno pure noi di un Lodo Alfano? Mi pare incredibile che i politici italiani comandino anche all’estero...»
In effetti, è la prima volta che la scorta di un politico italiano allontana dei fotografi in suolo straniero. Ma al ministero dell’Interno l’Ucis (Ufficio centrale scorte) spiega che i poliziotti sono stati assegnati obbligatoriamente ad Alfano perché, come ministro della Giustizia, è particolarmente esposto alle minacce di mafiosi e camorristi. È lui, infatti, il titolare dell’applicazione dell’articolo 41 bis, cioè il regime di carcere duro che tanto fa infuriare i boss. «La scorta è indisponibile», dicono al Viminale: quindi la decide il Comitato per l’ordine e la sicurezza, e neppure il ministro stesso è libero di rinunciarci. Insomma, il suo non è stato un capriccio in nome della privacy.
Nei viaggi all’estero devono portarsi dietro sempre la scorta anche i presidenti della Repubblica, del Consiglio, e quelli di Camera e Senato. Ma loro per ragioni protocollari. Per i ministri più esposti, invece, decidono caso per caso i dirigenti della Pubblica sicurezza. E, paradossalmente, il fatto che le Maldive siano uno dei luoghi più tranquilli al mondo accresce, invece di diminuire, il rischio: un eventuale attentato potrebbe essere pianificato con più facilità.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 13 gennaio 2009
Va bene che le Maldive sono un Paese di religione musulmana, ma è proprio necessaria una scorta di poliziotti italiani se un nostro politico ci va a trascorrere le vacanze private con la famiglia?
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha scelto questo paradiso nell’oceano Indiano per le ultime ferie di Natale e Capodanno. Dieci giorni di relax con moglie e figli nel villaggio Valtur sull’isola di Kihad. Meta prediletta di vip italiani, soprattutto nei periodi di alta stagione. Quest’anno alle Maldive c’erano, fra gli altri, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il presidente del Senato Renato Schifani, la cantante Carmen Consoli con la madre, e il giocatore del Milan Ronaldinho. Alta, quindi, anche la concentrazione di paparazzi nostrani. Compresi alcuni fra i più temibili, pure loro in trasferta da Roma: Maurizio Sorge e Massimiliano Scarfone. Quest’ultimo famoso per avere immortalato il portavoce di Romano Prodi Silvio Sircana con un trans, e più recentemente per l’altro scandalo trans con il governatore del Lazio Piero Marrazzo.
I due, come ha rivelato Gabriella Sassone sul Tempo e su Dagospia, erano sulle tracce di Eros Ramazzotti, a mollo in un altro atollo nonostante gli acquazzoni quasi perenni, con la nuova fidanzata bergamasca Marika Pellegrinelli e la figlia Aurora, con amichetta al seguito. «Ormai siamo degli habitués delle Maldive, ci veniamo ogni anno da tempo immemorabile», racconta Sorge a Oggi, «ma questa volta c’è stata una spiacevole novità per noi».
Avvisati dal loro «contatto» locale della presenza del ministro Alfano, i due fotografi hanno affittato un motoscafo da 400 cavalli e dopo tre ore di navigazione da Malè si sono appostati a qualche centinaio di metri dalla costa del villaggio Valtur, per immortalare il ministro sulla battigia. Ma i due agenti di scorta del ministro si sono accorti subito dei teleobiettivi che sbucavano dalle acque. E, come nel film di Vanzina Paparazzi, prima hanno raggiunto la barca dei fotografi intimando loro in modo piuttosto rude di allontanarsi. Poi hanno allertato la polizia maldiviana.
«In realtà siamo stati identificati grazie a un altro fotografo italiano che ha dato le nostre generalità alla polizia, per compiacenza», racconta Sorge. «Il nostro collaboratore maldiviano ci ha subito telefonato per dirci di tornarcene in Italia. La polizia aveva contattato anche lui per farci sapere che la prossima volta che torniamo alle Maldive a fare foto finiamo direttamente in galera. Ma che abbiamo fatto di male? Quale reato abbiamo commesso? Abbiamo bisogno pure noi di un Lodo Alfano? Mi pare incredibile che i politici italiani comandino anche all’estero...»
In effetti, è la prima volta che la scorta di un politico italiano allontana dei fotografi in suolo straniero. Ma al ministero dell’Interno l’Ucis (Ufficio centrale scorte) spiega che i poliziotti sono stati assegnati obbligatoriamente ad Alfano perché, come ministro della Giustizia, è particolarmente esposto alle minacce di mafiosi e camorristi. È lui, infatti, il titolare dell’applicazione dell’articolo 41 bis, cioè il regime di carcere duro che tanto fa infuriare i boss. «La scorta è indisponibile», dicono al Viminale: quindi la decide il Comitato per l’ordine e la sicurezza, e neppure il ministro stesso è libero di rinunciarci. Insomma, il suo non è stato un capriccio in nome della privacy.
Nei viaggi all’estero devono portarsi dietro sempre la scorta anche i presidenti della Repubblica, del Consiglio, e quelli di Camera e Senato. Ma loro per ragioni protocollari. Per i ministri più esposti, invece, decidono caso per caso i dirigenti della Pubblica sicurezza. E, paradossalmente, il fatto che le Maldive siano uno dei luoghi più tranquilli al mondo accresce, invece di diminuire, il rischio: un eventuale attentato potrebbe essere pianificato con più facilità.
Mauro Suttora
Tuesday, January 05, 2010
Pravda: Mussolini segreto
href="http://http://www.pravda.ru/news/world/17-11-2009/330627-mussolini-0">
il libro verrà tradotto dalla casa editrice russa Ripol
Интимные фантазии Муссолини опубликованы в книге мемуаров
17.11.2009 | Источник: Правда.Ру
Книга под названием "Неизвестный Муссолини", в основу которой легли дневники любовницы Бенито Муссолини Кларетты Петаччи , опубликованы в Италии. В книгу вошли записи, сделанные Клареттой в период с 1932 по 1938 годы и до сих пор хранившиеся в архиве ее единственного наследника - племянника Фернандо, живущего в американском штате Аризона.
Кларетта Петаччи, отец которой был личным лечащим врачом Папы Римского Пия XI, познакомилась с Муссолини в 1932 году. Ей тогда было 20 лет, ему - 49 лет. Они поддерживали связь до самой своей смерти - до апреля 1945 года, когда их казнили итальянские партизаны, напоминает Associated Press.
Смотрите фоторепортаж о секретах Муссолини.
В своих дневниках Петаччи делала много замечаний относительно политических взглядов своего любовника - к примеру, писала, что он ненавидит арабов и евреев, не приемлет браки между итальянцами и темнокожими жителями североафриканских колоний.
Кроме того, Кларетта сделала записи о нескольких встречах Муссолини с Гитлером, процитировав в своем дневнике слова любовника о фюрере: "На самом деле он очень сентиментален. При виде меня он прослезился, потому что действительно мне симпатизирует. Правда, иногда у него случаются выпады ярости, которые могу контролировать только я".
Нашлось в дневниках Петаччи место и для интимных откровений. Она подробно описывала сексуальные фантазии итальянского диктатора и рассказывала, как Муссолини просил у нее прощения за свои измены.
il libro verrà tradotto dalla casa editrice russa Ripol
Интимные фантазии Муссолини опубликованы в книге мемуаров
17.11.2009 | Источник: Правда.Ру
Книга под названием "Неизвестный Муссолини", в основу которой легли дневники любовницы Бенито Муссолини Кларетты Петаччи , опубликованы в Италии. В книгу вошли записи, сделанные Клареттой в период с 1932 по 1938 годы и до сих пор хранившиеся в архиве ее единственного наследника - племянника Фернандо, живущего в американском штате Аризона.
Кларетта Петаччи, отец которой был личным лечащим врачом Папы Римского Пия XI, познакомилась с Муссолини в 1932 году. Ей тогда было 20 лет, ему - 49 лет. Они поддерживали связь до самой своей смерти - до апреля 1945 года, когда их казнили итальянские партизаны, напоминает Associated Press.
Смотрите фоторепортаж о секретах Муссолини.
В своих дневниках Петаччи делала много замечаний относительно политических взглядов своего любовника - к примеру, писала, что он ненавидит арабов и евреев, не приемлет браки между итальянцами и темнокожими жителями североафриканских колоний.
Кроме того, Кларетта сделала записи о нескольких встречах Муссолини с Гитлером, процитировав в своем дневнике слова любовника о фюрере: "На самом деле он очень сентиментален. При виде меня он прослезился, потому что действительно мне симпатизирует. Правда, иногда у него случаются выпады ярости, которые могу контролировать только я".
Нашлось в дневниках Петаччи место и для интимных откровений. Она подробно описывала сексуальные фантазии итальянского диктатора и рассказывала, как Муссолини просил у нее прощения за свои измены.
Fidel e Gheddafi, dittatori eterni
La revolucion cubana compie 51 anni. Ma anche il despota libico scala la classifica
di Mauro Suttora
Libero, 2 gennaio 2010
A Capodanno la revolucion cubana compie 51 anni, e Fidel Castro consolida la sua posizione in testa alla classifica dei dittatori più longevi del mondo. Certo, da due anni ha lasciato il potere al fratello Raul. Dispotismi dinastici, come nella Corea del Nord dei Kim padre e figlio, o nell’autoritaria Singapore. Ma Fidel è ancora presidente del partito comunista, e a 84 anni continua la sua serena vecchiaia, anche se qualche perfido lo chiama «coma andante». Spirerà tranquillo nel proprio letto. Come tutti i tiranni moderni tranne Hitler, Mussolini, Saddam Hussein e Ceausescu (eliminati dopo la sconfitta, però). Insomma, di tirannicidi nel mondo moderno neanche l’ombra.
Il 67enne Muammar Gheddafi, che imperversa in Libia da ben quattro decenni, è lanciatissimo in classifica: ha appena scavalcato l’albanese Hoxha e fra due anni supererà Bongo del Gabon, morto di tumore a giugno. Meglio di lui solo il sultano del Brunei, l’uomo più ricco del mondo che promette di durare a lungo, visto che ha 63 anni.
Dopo il crollo del comunismo nel 1989 sembrava che per gli stati totalitari di ogni colore i giorni fossero contati. Invece oggi non solo Amnesty International registra ben 80 dittature nel mondo (su 192 stati membri dell’Onu), ma la professione di tiranno resta una delle più sicure e fruttuose. Anche quando si viene cacciati e spediti in esilio. È capitato ai peggiori: Bokassa, Idi Amin, Pol Pot. Per non parlare di Stalin, Mao o Franco, accuditi e riveriti fino all’ultimo respiro.
Le dittature più coriacee rimangono quelle comuniste. La Cina ha appena condannato il dissidente Liu Xiaobo a undici anni per un semplice reato d’opinione. Vietnam e Laos, come Cuba, sono ancora oppressi da falce e martello. Ed è difficile definire ideologicamente i generali birmani che tengono prigioniera la Nobel della Pace Aung San Suu Kyi da vent’anni, quando vinse le elezioni. Però stanno in piedi grazie all’appoggio della Cina.
E pensare che quella del «dittatore» è un’invenzione italiana: sia 2.500 anni fa, sia con Mussolini che ha riproposto il duce contemporaneo. Aristotele individuò tre tipi di tiranno: il demagogo che esercita il potere in nome degli umili, l’eletto legittimamente che poi si avvinghia alla poltrona, e il monarca degenerato che aumenta i privilegi dei ricchi. Nel primo caso si può individuare il prototipo del moderno dittatore di sinistra (Lenin, Mao, oggi il venezuelano Chavez), nel secondo quello di destra (Mussolini, Hitler), e nell’ultimo figure come lo scià di Persia Reza Pahlevi (ottavo nella nostra classifica). Dove situare l’iraniano Ahmadinejad è più complicato: despota laico per conto di una teocrazia collettiva.
Non sempre la parola ‘dittatore’ ha avuto connotati negativi. Garibaldi, per esempio, nel 1860 di proclamò tale dopo aver conquistato le Due Sicilie, e mezza Italia applaudì. Ma anche oggi in alcuni ambienti desiderosi di «stabilità» (nonché di treni puntuali) risultano appetibili figure come quella del tiranno soft di Singapore Lee Kuan Yew e di suo figlio, celebrati perfino da Fareed Zakaria, direttore del settimanale americano Newsweek. Viceversa, secondo Freedom House le otto dittature peggiori sono: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan.
«D’altra parte, due Paesi su cinque nel Consiglio di sicurezza dell’Onu – quello più vasto e quello più popolato, Russia e Cina – sono dittature, o almeno regimi autoritari», conclude sconsolato il professor Larry Diamond dell’università di Stanford (California). «E bloccano col veto quasi tutte le proposte di condanna per violazioni di diritti umani da parte delle Nazioni Unite». Tranquilli, quindi, comandante Fidel e colonnello Muammar: lunga vita a voi e ai vostri simili.
di Mauro Suttora
Libero, 2 gennaio 2010
A Capodanno la revolucion cubana compie 51 anni, e Fidel Castro consolida la sua posizione in testa alla classifica dei dittatori più longevi del mondo. Certo, da due anni ha lasciato il potere al fratello Raul. Dispotismi dinastici, come nella Corea del Nord dei Kim padre e figlio, o nell’autoritaria Singapore. Ma Fidel è ancora presidente del partito comunista, e a 84 anni continua la sua serena vecchiaia, anche se qualche perfido lo chiama «coma andante». Spirerà tranquillo nel proprio letto. Come tutti i tiranni moderni tranne Hitler, Mussolini, Saddam Hussein e Ceausescu (eliminati dopo la sconfitta, però). Insomma, di tirannicidi nel mondo moderno neanche l’ombra.
Il 67enne Muammar Gheddafi, che imperversa in Libia da ben quattro decenni, è lanciatissimo in classifica: ha appena scavalcato l’albanese Hoxha e fra due anni supererà Bongo del Gabon, morto di tumore a giugno. Meglio di lui solo il sultano del Brunei, l’uomo più ricco del mondo che promette di durare a lungo, visto che ha 63 anni.
Dopo il crollo del comunismo nel 1989 sembrava che per gli stati totalitari di ogni colore i giorni fossero contati. Invece oggi non solo Amnesty International registra ben 80 dittature nel mondo (su 192 stati membri dell’Onu), ma la professione di tiranno resta una delle più sicure e fruttuose. Anche quando si viene cacciati e spediti in esilio. È capitato ai peggiori: Bokassa, Idi Amin, Pol Pot. Per non parlare di Stalin, Mao o Franco, accuditi e riveriti fino all’ultimo respiro.
Le dittature più coriacee rimangono quelle comuniste. La Cina ha appena condannato il dissidente Liu Xiaobo a undici anni per un semplice reato d’opinione. Vietnam e Laos, come Cuba, sono ancora oppressi da falce e martello. Ed è difficile definire ideologicamente i generali birmani che tengono prigioniera la Nobel della Pace Aung San Suu Kyi da vent’anni, quando vinse le elezioni. Però stanno in piedi grazie all’appoggio della Cina.
E pensare che quella del «dittatore» è un’invenzione italiana: sia 2.500 anni fa, sia con Mussolini che ha riproposto il duce contemporaneo. Aristotele individuò tre tipi di tiranno: il demagogo che esercita il potere in nome degli umili, l’eletto legittimamente che poi si avvinghia alla poltrona, e il monarca degenerato che aumenta i privilegi dei ricchi. Nel primo caso si può individuare il prototipo del moderno dittatore di sinistra (Lenin, Mao, oggi il venezuelano Chavez), nel secondo quello di destra (Mussolini, Hitler), e nell’ultimo figure come lo scià di Persia Reza Pahlevi (ottavo nella nostra classifica). Dove situare l’iraniano Ahmadinejad è più complicato: despota laico per conto di una teocrazia collettiva.
Non sempre la parola ‘dittatore’ ha avuto connotati negativi. Garibaldi, per esempio, nel 1860 di proclamò tale dopo aver conquistato le Due Sicilie, e mezza Italia applaudì. Ma anche oggi in alcuni ambienti desiderosi di «stabilità» (nonché di treni puntuali) risultano appetibili figure come quella del tiranno soft di Singapore Lee Kuan Yew e di suo figlio, celebrati perfino da Fareed Zakaria, direttore del settimanale americano Newsweek. Viceversa, secondo Freedom House le otto dittature peggiori sono: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan.
«D’altra parte, due Paesi su cinque nel Consiglio di sicurezza dell’Onu – quello più vasto e quello più popolato, Russia e Cina – sono dittature, o almeno regimi autoritari», conclude sconsolato il professor Larry Diamond dell’università di Stanford (California). «E bloccano col veto quasi tutte le proposte di condanna per violazioni di diritti umani da parte delle Nazioni Unite». Tranquilli, quindi, comandante Fidel e colonnello Muammar: lunga vita a voi e ai vostri simili.
Monday, December 28, 2009
Fiume negli anni Trenta
Nel romanzo Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani) il novantenne Brunello Vandano ricorda gli amori di una civiltà magica
di Mauro Suttora
Oggi, 10 dicembre 2009
«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»
Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.
«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».
Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.
Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.
Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 10 dicembre 2009
«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»
Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.
«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».
Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.
Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.
Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».
Mauro Suttora
Monday, December 21, 2009
Il Mattino: Le ossessioni private di Mussolini
Nelle memorie della Petacci, amante del duce, le conferme dei ricordi di Bottai e Ciano. Il dittatore si sfogava contro ebrei e francesi e si vantava del suo petto che piaceva alle donne
di Aurelio Lepre
Il Mattino (Napoli), domenica 20 dicembre 2009
La biografia di un uomo politico, la ricerca delle motivazioni personali che ne determinano l'azione, è tanto più importante quanto più potere ha concentrato nelle sue mani. Per questo motivo, anche i particolari della vita di Mussolini che potrebbero sembrare insignificanti devono essere attentamente studiati. Senza i diari di Bottai e di Ciano la sua personalità non potrebbe essere illuminata a sufficienza: dal loro ravvicinato punto di vista, i due gerarchi del fascismo osservavano Mussolini con notevole perspicuità.
Claretta Petacci, l'amante del duce, non aveva certo le capacità intellettuali di Bottai e di Ciano e il suo diario, di cui viene ora pubblicata una edizione ridotta, è perciò meno interessante dei diari dei due gerarchi. Ma non privo di utilità. Anzitutto per diverse conferme. Alcuni giudizi di Mussolini - per esempio sugli ebrei, sui rapporti con la Chiesa, su Pio XI, su Hitler, sulla Spagna di Franco - che in Ciano e Bottai appaiono più sfumati, perché passati attraverso il filtro di chi sa che un giorno le sue pagine potranno essere lette come un documento storico, nel diario della Petacci risultano molto più forti.
Mussolini s'infuriava leggendo le rassegne della stampa estera e di quella antifascista; si abbandonava a lunghe e minacciose tirate contro gli ebrei, così da sembrarne quasi ossessionato quanto ne era Hitler; esprimeva sul re e su casa Savoia giudizi aspri e sprezzanti.
Quando si metteva in pantofole, Mussolini diventava ancora più battagliero di quando calzava gli stivali. Voleva sterminare tutti gli ebrei, si scagliava con violenza contro gli italiani che nell'Africa orientale convivevano con donne nere: "Questi schifosi di italiani distruggeranno in meno di sette anni un impero. Non hanno coscienza della razza, non hanno dignità".
Tuonava contro i francesi: "Porci schifosi questi francesi, lurida gente, ora si mangiano il fegato dalla bile che io li ho mollati del tutto. Del resto pagano il fio della sterilità voluta dalle loro donne".
In queste pagine c'è, naturalmente, anche un Mussolini diverso, intimo. Si diverte ai film di Stanlio e Ollio, ma non capisce i cartoni animati. Fa l'amante appassionato e qualche volta un po' lamentoso per gelosia (anche se, nello stesso tempo, tradisce la Petacci).
Si preoccupa di come appare al pubblico: "La mia voce era metallica, dura, decisa?"; "È vero che ho una bella bocca? Sai, lo ha detto il dentista a mia moglie, pensa". Un uomo sulla spiaggia gli dice: "Mussolini, tu hai il torso più perfetto di tutta la spiaggia". E lui corregge: "D'Italia". Ma poi ammette: "Le gambe storte mi rovinano".
Per questo, forse. riempie l'Italia dei suoi busti di marmo e si fa filmare a torso nudo mentre trebbia il grano.
La parte del diario che viene ora pubblicata termina il 20 dicembre del 1938. Manca meno di un anno allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma non se ne avverte nessun presentimento.
di Aurelio Lepre
Il Mattino (Napoli), domenica 20 dicembre 2009
La biografia di un uomo politico, la ricerca delle motivazioni personali che ne determinano l'azione, è tanto più importante quanto più potere ha concentrato nelle sue mani. Per questo motivo, anche i particolari della vita di Mussolini che potrebbero sembrare insignificanti devono essere attentamente studiati. Senza i diari di Bottai e di Ciano la sua personalità non potrebbe essere illuminata a sufficienza: dal loro ravvicinato punto di vista, i due gerarchi del fascismo osservavano Mussolini con notevole perspicuità.
Claretta Petacci, l'amante del duce, non aveva certo le capacità intellettuali di Bottai e di Ciano e il suo diario, di cui viene ora pubblicata una edizione ridotta, è perciò meno interessante dei diari dei due gerarchi. Ma non privo di utilità. Anzitutto per diverse conferme. Alcuni giudizi di Mussolini - per esempio sugli ebrei, sui rapporti con la Chiesa, su Pio XI, su Hitler, sulla Spagna di Franco - che in Ciano e Bottai appaiono più sfumati, perché passati attraverso il filtro di chi sa che un giorno le sue pagine potranno essere lette come un documento storico, nel diario della Petacci risultano molto più forti.
Mussolini s'infuriava leggendo le rassegne della stampa estera e di quella antifascista; si abbandonava a lunghe e minacciose tirate contro gli ebrei, così da sembrarne quasi ossessionato quanto ne era Hitler; esprimeva sul re e su casa Savoia giudizi aspri e sprezzanti.
Quando si metteva in pantofole, Mussolini diventava ancora più battagliero di quando calzava gli stivali. Voleva sterminare tutti gli ebrei, si scagliava con violenza contro gli italiani che nell'Africa orientale convivevano con donne nere: "Questi schifosi di italiani distruggeranno in meno di sette anni un impero. Non hanno coscienza della razza, non hanno dignità".
Tuonava contro i francesi: "Porci schifosi questi francesi, lurida gente, ora si mangiano il fegato dalla bile che io li ho mollati del tutto. Del resto pagano il fio della sterilità voluta dalle loro donne".
In queste pagine c'è, naturalmente, anche un Mussolini diverso, intimo. Si diverte ai film di Stanlio e Ollio, ma non capisce i cartoni animati. Fa l'amante appassionato e qualche volta un po' lamentoso per gelosia (anche se, nello stesso tempo, tradisce la Petacci).
Si preoccupa di come appare al pubblico: "La mia voce era metallica, dura, decisa?"; "È vero che ho una bella bocca? Sai, lo ha detto il dentista a mia moglie, pensa". Un uomo sulla spiaggia gli dice: "Mussolini, tu hai il torso più perfetto di tutta la spiaggia". E lui corregge: "D'Italia". Ma poi ammette: "Le gambe storte mi rovinano".
Per questo, forse. riempie l'Italia dei suoi busti di marmo e si fa filmare a torso nudo mentre trebbia il grano.
La parte del diario che viene ora pubblicata termina il 20 dicembre del 1938. Manca meno di un anno allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma non se ne avverte nessun presentimento.
Wednesday, December 16, 2009
El Mundo (Spagna): La gran amante de Mussolini
LA OTRA BIOGRAFÍA
El Mundo quotidiano
Madrid
22 noviembre 2009
IRENE HDEZ. VELASCO
«Soy esclavo de tu carne. Tiemblo mientras lo digo, siento fiebre al pensar en tu cuerpecito delicioso que me quiero comer entero a besos. Y tú tienes que adorar mi cuerpo, el de tu gigante. Te deseo como un loco».
El 1 de febrero de 1938 la más famosa querida de la Historia de Italia anotó en su diario esa frase. Se la había dicho su adorado Ben, como llamaba en la intimidad a Benito Mussolini, su amante. Y ella, Clara Petacci, tenía en la vida dos pasiones: su ardiente amor por el dictador fascista y la obsesión desenfrenada de poner sobre el papel todo lo que salía de la boca de su ilustre amante.
Sólo en 1938 escribió 1.810 páginas con todos los detalles de su relación con el Duce, 29 años mayor que ella y al que fue fiel hasta la muerte. No en vano la Petacci fue asesinada junto a Benito Mussolini en abril de 1945, y su cuerpo colgado bocabajo junto al de él en una plaza de Milán para público escarnio.
BAJO TIERRA
Pero, antes de seguir a su amado en ese último viaje, Clara Petacci tuvo una intuición y dejó su voluminoso diario al cuidado de la condesa Rina Cervis, quien lo enterró en el jardín de su villa en Brescia. Allí estuvo hasta que en 1950 fue descubierto por una patrulla de carabinieri y confiscado. Desde entonces, durante 70 larguísimos años, todos los Gobiernos italianos han impuesto el secreto de Estado sobre esas páginas. Pero ahora, por primera vez, parte del diario de la favorita del Duce ha sido desclasificado. Concretamente, el segmento que abarca desde 1932 hasta 1938.
Un periodista, Mauro Suttora, ha buceado en esa montaña de folios. Y con lo más jugoso de los mismos ha escrito Mussolini secreto, un libro de 521 páginas que el pasado miércoles salió a la venta en Italia de la mano de la editorial Rizzoli y que ofrece un retrato íntimo (y en muchos aspectos desconocido) del dictador fascista en el que los sentimientos, los celos y las fantasías eróticas se entremezclan con la historia y la tragedia del fascismo.
Un solo ejemplo: en 1938, el año en que Hitler invadió Austria y en el que se firmó el acuerdo de Munich que entregaba a la Alemania nazi parte de Checoslovaquia, Mussolini se dedicaba a telefonear al menos una docena de veces al día (a razón de una llamada cada hora, desde las 9.00 a las 21.00 horas, fines de semana incluidos) a la celosísima Clara, quien le acusaba -y con razón- de tener otras amantes.
Mientras preparaba junto a Hitler la mayor tragedia de la Historia de la humanidad, el dictador fascista tenía también que emplearse a fondo en negar aventuras sexuales y en inventarse excusas con las que tranquilizar a su amante.
FAENAS SEXUALES
Por no hablar de que las ocasiones en las que en plan vodevil, escondido en un rincón de su casa y aterrado ante la posibilidad de que su mujer pudiera descubrirlo, Il Duce susurraba palabras de amor a su Claretta a través del teléfono. O de los berridos en plan cordero degollado con que solía rematar sus faenas sexuales:
-Su rostro está rígido, sus ojos centellean. Yo estoy sentada en el suelo. Él se desliza del sillón y se echa sobre mí, curvo. Siento que todos sus nervios están tensos. Lo aprieto contra mí. Lo beso y hacemos el amor con tanta furia que sus gritos parecen los de un animal herido. Después, agotado, se deja caer sobre la cama. Incluso cuando descansa es fuerte -dejó escrito la Petacci el 27 de febrero de 1938.
Gracias precisamente a los diarios de esa mujer, hija del que fuera médico personal del Papa Pío XI, emerge a la luz un Mussolini privado terriblemente antisemita («Los judíos son una raza despreciable», le confesó el 4 de noviembre de 1938 a su concubina), que no soporta al rey Víctor Manuel III, absolutamente fascinado por la Alemania nazi, que se jacta de que la princesa María José (la esposa del príncipe heredero) le tira los tejos en el terreno sexual, que considera a Franco «un idiota» y que sostiene con evidente desprecio que los españoles «son como los árabes».
Fue el 24 de abril de 1932 cuando, por pura casualidad, en la vida de Clara Petacci se cruzó Mussolini. La joven, una niña bien que entonces tenía 20 años, iba en el coche de su familia junto a su madre y su hermana cuando, de repente, un Alfa Romeo conducido por el Duce en persona les adelantó. Clara, que había crecido con el mito de Mussolini, reconoció a su ídolo y pidió a su chófer que le siguiera.
El dictador, que entonces tenía 49 años, llevaba 17 casado con donna Rachele y era padre de cinco hijos, se sintió halagado por el inmenso entusiasmo de la joven, paró su coche y bajó a saludar a la muchacha. Cuatro años más tarde, en 1936 y después de que la Petacci se casara con el teniente Riccardo Federico, Claretta y el Duce se convirtieron en amantes.
«Mussolini secreto». Ofrece un retrato íntimo del dictador fascista (Ed. Rizzoli). A la venta en Italia desde el miércoles.
El Mundo quotidiano
Madrid
22 noviembre 2009
IRENE HDEZ. VELASCO
«Soy esclavo de tu carne. Tiemblo mientras lo digo, siento fiebre al pensar en tu cuerpecito delicioso que me quiero comer entero a besos. Y tú tienes que adorar mi cuerpo, el de tu gigante. Te deseo como un loco».
El 1 de febrero de 1938 la más famosa querida de la Historia de Italia anotó en su diario esa frase. Se la había dicho su adorado Ben, como llamaba en la intimidad a Benito Mussolini, su amante. Y ella, Clara Petacci, tenía en la vida dos pasiones: su ardiente amor por el dictador fascista y la obsesión desenfrenada de poner sobre el papel todo lo que salía de la boca de su ilustre amante.
Sólo en 1938 escribió 1.810 páginas con todos los detalles de su relación con el Duce, 29 años mayor que ella y al que fue fiel hasta la muerte. No en vano la Petacci fue asesinada junto a Benito Mussolini en abril de 1945, y su cuerpo colgado bocabajo junto al de él en una plaza de Milán para público escarnio.
BAJO TIERRA
Pero, antes de seguir a su amado en ese último viaje, Clara Petacci tuvo una intuición y dejó su voluminoso diario al cuidado de la condesa Rina Cervis, quien lo enterró en el jardín de su villa en Brescia. Allí estuvo hasta que en 1950 fue descubierto por una patrulla de carabinieri y confiscado. Desde entonces, durante 70 larguísimos años, todos los Gobiernos italianos han impuesto el secreto de Estado sobre esas páginas. Pero ahora, por primera vez, parte del diario de la favorita del Duce ha sido desclasificado. Concretamente, el segmento que abarca desde 1932 hasta 1938.
Un periodista, Mauro Suttora, ha buceado en esa montaña de folios. Y con lo más jugoso de los mismos ha escrito Mussolini secreto, un libro de 521 páginas que el pasado miércoles salió a la venta en Italia de la mano de la editorial Rizzoli y que ofrece un retrato íntimo (y en muchos aspectos desconocido) del dictador fascista en el que los sentimientos, los celos y las fantasías eróticas se entremezclan con la historia y la tragedia del fascismo.
Un solo ejemplo: en 1938, el año en que Hitler invadió Austria y en el que se firmó el acuerdo de Munich que entregaba a la Alemania nazi parte de Checoslovaquia, Mussolini se dedicaba a telefonear al menos una docena de veces al día (a razón de una llamada cada hora, desde las 9.00 a las 21.00 horas, fines de semana incluidos) a la celosísima Clara, quien le acusaba -y con razón- de tener otras amantes.
Mientras preparaba junto a Hitler la mayor tragedia de la Historia de la humanidad, el dictador fascista tenía también que emplearse a fondo en negar aventuras sexuales y en inventarse excusas con las que tranquilizar a su amante.
FAENAS SEXUALES
Por no hablar de que las ocasiones en las que en plan vodevil, escondido en un rincón de su casa y aterrado ante la posibilidad de que su mujer pudiera descubrirlo, Il Duce susurraba palabras de amor a su Claretta a través del teléfono. O de los berridos en plan cordero degollado con que solía rematar sus faenas sexuales:
-Su rostro está rígido, sus ojos centellean. Yo estoy sentada en el suelo. Él se desliza del sillón y se echa sobre mí, curvo. Siento que todos sus nervios están tensos. Lo aprieto contra mí. Lo beso y hacemos el amor con tanta furia que sus gritos parecen los de un animal herido. Después, agotado, se deja caer sobre la cama. Incluso cuando descansa es fuerte -dejó escrito la Petacci el 27 de febrero de 1938.
Gracias precisamente a los diarios de esa mujer, hija del que fuera médico personal del Papa Pío XI, emerge a la luz un Mussolini privado terriblemente antisemita («Los judíos son una raza despreciable», le confesó el 4 de noviembre de 1938 a su concubina), que no soporta al rey Víctor Manuel III, absolutamente fascinado por la Alemania nazi, que se jacta de que la princesa María José (la esposa del príncipe heredero) le tira los tejos en el terreno sexual, que considera a Franco «un idiota» y que sostiene con evidente desprecio que los españoles «son como los árabes».
Fue el 24 de abril de 1932 cuando, por pura casualidad, en la vida de Clara Petacci se cruzó Mussolini. La joven, una niña bien que entonces tenía 20 años, iba en el coche de su familia junto a su madre y su hermana cuando, de repente, un Alfa Romeo conducido por el Duce en persona les adelantó. Clara, que había crecido con el mito de Mussolini, reconoció a su ídolo y pidió a su chófer que le siguiera.
El dictador, que entonces tenía 49 años, llevaba 17 casado con donna Rachele y era padre de cinco hijos, se sintió halagado por el inmenso entusiasmo de la joven, paró su coche y bajó a saludar a la muchacha. Cuatro años más tarde, en 1936 y después de que la Petacci se casara con el teniente Riccardo Federico, Claretta y el Duce se convirtieron en amantes.
«Mussolini secreto». Ofrece un retrato íntimo del dictador fascista (Ed. Rizzoli). A la venta en Italia desde el miércoles.
Psicanalisi di Berlusconi e Fini
MELUZZI: "PUER AETERNUS CONTRO SENEX PRAECOX"
Oggi, 9 dicembre 2009
di Mauro Suttora
«Berlusconi è un puer aeternus, un bambino eterno. Fini invece è il suo esatto contrario: un senex praecox, vecchio precoce».
Utilizza la psicanalisi junghiana, Alessandro Meluzzi, per spiegare come mai Silvio e Gianfranco, il premier e il presidente della Camera, non vanno d’accordo.
Psichiatra torinese 54enne, Meluzzi li conosce bene entrambi. Quindici anni fa partecipò alla grande avventura della nascita di Forza Italia, e fece notizia perché sconfisse l’attuale sindaco di Torino Sergio Chiamparino proprio nel collegio degli operai di Mirafiori, bastione comunista. Parlamentare fino al 2001, oggi è tornato a esercitare la sua professione e fa l’opinionista tv. Gli abbiamo chiesto una psicanalisi parallela dei due fondatori del Popolo delle Libertà, in dissidio continuo.
«Lo dico senza offesa: il 73enne Berlusconi conserva la struttura psicologica dell’eterno adolescente. Ama il movimento, privilegia ancora la creatività e l’ingenuità rispetto alla virtù politica della prudenza. L’ormai quasi 58enne Fini, invece, è nato vecchio. Ha dovuto crescere sotto l’ala del segretario Msi Giorgio Almirante, indossare il doppiopetto Lebole, responsabilizzarsi subito».
Questa tipologia psicologica si riverbera anche sui caratteri: «Berlusconi è un estroverso extratensivo», spiega Meluzzi, «esprime all’esterno i propri conflitti interiori. È trasparente, divide immediatamente tutti quelli che lo conoscono: o lo si ama, o lo si odia. Viceversa, Fini è un introverso intratensivo. Lo si vede da come si muove, dai suoi gesti. Tiene le emozioni dentro, è un realista compresso. Mi ricorda l’Ombra della sera, il reperto etrusco nel museo di Volterra: l’immagine della malinconica. Berlusconi invece è vitale, dionisiaco, orientato verso l’euforia: potrebbe essere una statuetta pompeiana».
Un paragone enologico? «Berlusconi è creativo, pétillant come lo champagne. Fini è tanninico come un barbera barricato. Anzi, essendo emiliano, come il lambrusco… E arriviamo a un’altra differenza fondamentale: Berlusconi è profondamente milanese, brianzolo: la Lombardia di Craxi, Bossi, Turati, Pirelli, Falck, don Giussani. Un cristiano-liberale con gli elementi di trasgressività connaturati al cattolicesimo. Al contrario, Fini rimane terragnamente bolognese, come Bersani, Prodi, Casini. È un laico moralista, antropologicamente non sorprende che ora vada a sinistra».
Ma fino a quindici anni fa era il capo del Msi, partito neofascista. «E che c’entra, anche i fascisti Mussolini e Bombacci furono socialisti. Il nonno di Fini era un militante comunista, il padre socialdemocratico. E lui è laicista. Filosoficamente, la sua categoria è la legge, mentre quella di Berlusconi è lo spirito. Non parliamo poi della fisiognomica…»
Oddio, Meluzzi, ora tira fuori Lombroso? «No, Kretschmer e i suoi biotipi. Berlusconi è fisicamente un brachitipo, al quale psichicamente corrisponde il ciclotimico. È un genio, un monstrum nel senso latino del termine. Contemporaneamente euforico e ossessivo, per lui ogni ostacolo è superabile. Volge al successo qualsiasi sfida, fa prevalere il principio di piacere su quello della realtà. Può cadere solo per una mancanza di attenzione al dettaglio, e per questo analizza iper-razionalmente tutto. Non ho mai visto nessuno rimanere sveglio fino alle quattro del mattino facendo crollare giovani con quarant’anni di meno, solo per decidere il colore dell’angolo di un manifesto.
«Fini invece è il classico longitipo astenico, e come tutti gli schizotimici è caratterizzato da dissociazione e malinconie aggressive. È frustrato dalla dimensione dell’eterno secondo, del delfino. Rischia di finire in carpione, diventando aceto a forza di stare lì ad aspettare come il principe Carlo d’Inghilterra, oppure di subire il destino dei tonni nelle tonnare. Terza ipotesi: si trasforma in squalo, mordendo la mano che l’ha nutrito».
Beh, intanto presiede la Camera: terza carica dello Stato.
«Per carità, gli è venuta la sindrome Pivetti».
Cioè?
«Irene Pivetti, che occupò la stessa poltrona e cadde vittima di un meccanismo mimetico, una curiosa simbiosi subalterna al presidente della Repubblica: allora Scalfaro, oggi Napolitano. Fini si atteggia e si sente come un fratello minore di Napolitano. D’altra parte sono figli della stessa cultura, antitetica a quella di Berlusconi uomo d’impresa, che per questo li detesta: quella dei politici di professione. Seppure uno ex fascista, e l’altro ex comunista».
A proposito di ex: anche Forza Italia ne ha prodotti molti. Uno di questi, il generale Luigi Caligaris, fra i fondatori del partito, commenta con Oggi: «Fini accusa il Pdl di essere una caserma? Beh, neanche nell’esercito ho trovato tanto dogmatismo come in Forza Italia. Berlusconi ha un carisma indiscutibile, ma i suoi partiti non sono un posto per noi liberali».
Oggi, 9 dicembre 2009
di Mauro Suttora
«Berlusconi è un puer aeternus, un bambino eterno. Fini invece è il suo esatto contrario: un senex praecox, vecchio precoce».
Utilizza la psicanalisi junghiana, Alessandro Meluzzi, per spiegare come mai Silvio e Gianfranco, il premier e il presidente della Camera, non vanno d’accordo.
Psichiatra torinese 54enne, Meluzzi li conosce bene entrambi. Quindici anni fa partecipò alla grande avventura della nascita di Forza Italia, e fece notizia perché sconfisse l’attuale sindaco di Torino Sergio Chiamparino proprio nel collegio degli operai di Mirafiori, bastione comunista. Parlamentare fino al 2001, oggi è tornato a esercitare la sua professione e fa l’opinionista tv. Gli abbiamo chiesto una psicanalisi parallela dei due fondatori del Popolo delle Libertà, in dissidio continuo.
«Lo dico senza offesa: il 73enne Berlusconi conserva la struttura psicologica dell’eterno adolescente. Ama il movimento, privilegia ancora la creatività e l’ingenuità rispetto alla virtù politica della prudenza. L’ormai quasi 58enne Fini, invece, è nato vecchio. Ha dovuto crescere sotto l’ala del segretario Msi Giorgio Almirante, indossare il doppiopetto Lebole, responsabilizzarsi subito».
Questa tipologia psicologica si riverbera anche sui caratteri: «Berlusconi è un estroverso extratensivo», spiega Meluzzi, «esprime all’esterno i propri conflitti interiori. È trasparente, divide immediatamente tutti quelli che lo conoscono: o lo si ama, o lo si odia. Viceversa, Fini è un introverso intratensivo. Lo si vede da come si muove, dai suoi gesti. Tiene le emozioni dentro, è un realista compresso. Mi ricorda l’Ombra della sera, il reperto etrusco nel museo di Volterra: l’immagine della malinconica. Berlusconi invece è vitale, dionisiaco, orientato verso l’euforia: potrebbe essere una statuetta pompeiana».
Un paragone enologico? «Berlusconi è creativo, pétillant come lo champagne. Fini è tanninico come un barbera barricato. Anzi, essendo emiliano, come il lambrusco… E arriviamo a un’altra differenza fondamentale: Berlusconi è profondamente milanese, brianzolo: la Lombardia di Craxi, Bossi, Turati, Pirelli, Falck, don Giussani. Un cristiano-liberale con gli elementi di trasgressività connaturati al cattolicesimo. Al contrario, Fini rimane terragnamente bolognese, come Bersani, Prodi, Casini. È un laico moralista, antropologicamente non sorprende che ora vada a sinistra».
Ma fino a quindici anni fa era il capo del Msi, partito neofascista. «E che c’entra, anche i fascisti Mussolini e Bombacci furono socialisti. Il nonno di Fini era un militante comunista, il padre socialdemocratico. E lui è laicista. Filosoficamente, la sua categoria è la legge, mentre quella di Berlusconi è lo spirito. Non parliamo poi della fisiognomica…»
Oddio, Meluzzi, ora tira fuori Lombroso? «No, Kretschmer e i suoi biotipi. Berlusconi è fisicamente un brachitipo, al quale psichicamente corrisponde il ciclotimico. È un genio, un monstrum nel senso latino del termine. Contemporaneamente euforico e ossessivo, per lui ogni ostacolo è superabile. Volge al successo qualsiasi sfida, fa prevalere il principio di piacere su quello della realtà. Può cadere solo per una mancanza di attenzione al dettaglio, e per questo analizza iper-razionalmente tutto. Non ho mai visto nessuno rimanere sveglio fino alle quattro del mattino facendo crollare giovani con quarant’anni di meno, solo per decidere il colore dell’angolo di un manifesto.
«Fini invece è il classico longitipo astenico, e come tutti gli schizotimici è caratterizzato da dissociazione e malinconie aggressive. È frustrato dalla dimensione dell’eterno secondo, del delfino. Rischia di finire in carpione, diventando aceto a forza di stare lì ad aspettare come il principe Carlo d’Inghilterra, oppure di subire il destino dei tonni nelle tonnare. Terza ipotesi: si trasforma in squalo, mordendo la mano che l’ha nutrito».
Beh, intanto presiede la Camera: terza carica dello Stato.
«Per carità, gli è venuta la sindrome Pivetti».
Cioè?
«Irene Pivetti, che occupò la stessa poltrona e cadde vittima di un meccanismo mimetico, una curiosa simbiosi subalterna al presidente della Repubblica: allora Scalfaro, oggi Napolitano. Fini si atteggia e si sente come un fratello minore di Napolitano. D’altra parte sono figli della stessa cultura, antitetica a quella di Berlusconi uomo d’impresa, che per questo li detesta: quella dei politici di professione. Seppure uno ex fascista, e l’altro ex comunista».
A proposito di ex: anche Forza Italia ne ha prodotti molti. Uno di questi, il generale Luigi Caligaris, fra i fondatori del partito, commenta con Oggi: «Fini accusa il Pdl di essere una caserma? Beh, neanche nell’esercito ho trovato tanto dogmatismo come in Forza Italia. Berlusconi ha un carisma indiscutibile, ma i suoi partiti non sono un posto per noi liberali».
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