Sunday, January 15, 2023

Contro gli opposti estremisti: confinofobi e confinofili



Le frontiere sono neutrali. Dipende da come le si usa, in ogni ambito. Senza confini la realtà stessa non esisterebbe. L'unico spazio in-finito (senza con-fini) è l'universo 

di Mauro Suttora

Huffingtonpost, 15 gennaio 2023 

Va di moda dire "i confini non esistono", o al contrario condannare chi li varca clandestinamente. Anzi, è proprio questo uno dei principali nuovi confini, in politica: più che fra destra e sinistra, ricchi e poveri, borghesi e proletari, oggi ci dividiamo fra buonisti, internazionalisti, cosmopoliti globalisti da una parte, e sovranisti, nazionalisti, localisti noglobal dall'altra. Gli uni accusano gli altri di essere élites consumiste senza radici né valori, oppure fascistoidi retrogradi, chiusi e razzisti. 

La verità è che le frontiere sono neutrali. Dipende da come le si usa, in ogni ambito. Senza confini la realtà stessa non esisterebbe. L'unico spazio in-finito (senza con-fini) è l'universo. Ogni volta che aumenta la portata dei nostri radiotelescopi, scopriamo nuove galassie a milioni di anni luce.

Ma passando dal macro al micro, il confine è essenziale. Tutte le cellule degli organismi viventi hanno come propria frontiera la membrana. Se la cellula impazzisce e si moltiplica sconfinatamente, ecco i tumori. 

Idem nella fisica: in ogni elemento gli atomi possiedono un confine ben preciso fra il nucleo di protoni e gli elettroni che girano attorno. Provate a scindere il nucleo, a violare le sue frontiere interne, e scatenerete una reazione nucleare. Non per nulla i greci già 2500 anni fa l'avevano battezzato a-tomo: inscindibile. 

Insomma, come dicono i filosofi: sono proprio i confini a definire l'essere, l'essenza. Il nostro corpo è protetto dalla frontiera della pelle. Provate a romperla: morirete dissanguati. Da quando l'uomo è uscito dalle caverne costruendosi la prima capanna, il perimetro dei muri ha stabilito i confini della tranquillità garantita alla sua famiglia.

Cosicché, mi permetto di confutare il titolo dell'ultimo lavoro teatrale degli ottimi Stefano Mancuso e Matteo Caccia, che sta girando l'Italia: 'I confini non esistono'. 

Loro lo spiegano così: "Uno spettacolo che incrocia le narrazioni di due esperti nei loro campi: la botanica e le relazioni umane. Mancuso e Caccia intrecciano storie di piante e di uomini che hanno come comune denominatore quello dei confini. Confini fisici o confini mentali, luoghi nei quali sembrerebbe impossibile accedere, e dove invece uomini e piante riescono a spingersi anche contro la volontà di pochi. In un momento storico in cui varcare i confini è considerato un errore, spesso un delitto, Mancuso e Caccia attraverso le storie di alberi o arbusti, uomini o donne, restituiscono un’antica verità che sembra ormai impronunciabile: i confini sono una convenzione, un’invenzione dell’uomo. Ma in natura i confini non esistono".

Mi sembra invece che la natura, ma anche la cultura, li smentiscano. 

Ho approfondito la questione nel libro 'Confini, storia e segreti delle nostre frontiere' (ed. Neri Pozza, 2021), scritto mentre il mondo intero era confinato nelle proprie case, città, regioni e stati dal lockdown per il covid. 

Altri due virus, prima e dopo, hanno agitato la nostra vita pubblica, facendoci riscoprire confini che ci illudevamo aver sorpassato, almeno in Europa: le frontiere bloccate contro i migranti, e quelle ucraine attaccate da Putin. 

Epidemia, violenza, guerra. Manca solo la fame, ed ecco tornati i quattro cavalieri dell'apocalisse. Quindi forse è meglio non praticare una rimozione quasi psicanalitica nei confronti dei confini. Perché, come ha scritto Regis Debray nel suo 'Elogio delle Frontiere', "di frontiere non ne sono mai state create tante come negli ultimi anni: 27mila chilometri a partire dal 1991". 

È un bene, un male? Il Museo delle frontiere a Bard (Aosta) scioglie saggiamente il dilemma: "Un confine può dividere e opporre, ma anche distinguere senza separare. I limiti territoriali, sociali, culturali, religiosi ed etnici sono un dato di fatto, in sè né positivo né negativo: inevitabile, e forse anche utile e necessario. Dipende solo da noi farne buon uso". 

Perché anche il castello con le mura più alte e inespugnabili è dotato di un ponte levatoio, attraverso cui passano ospitalità, curiosità, apertura e accoglienza. "C'è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce", canta Leonard Cohen.

Wednesday, January 11, 2023

Un piccolo capolavoro

di Mauro Suttora

Nel libro 'L'ora più dolce' di Alessandra Zenarola (ed.Tabula Fati, 2022) non succede nulla. Per questo è un piccolo capolavoro. I dieci mesi di ospedalizzazione della mamma dell'autrice non contengono colpi di scena. La fine è nota. Sono uguali alle malattie e traversie di tutte le nostre mamme ultraottantenni, fra sedie a rotelle, letti, pantofoline e badanti ucraine. Udine è uguale a tutte le altre cento città d'Italia da centomila abitanti, la vera ricchezza del nostro Paese. 

La vita di provincia tranquilla e sonnolenta, tanto noiosa quanto rassicurante, è uguale per tutti noi boomers 60enni che assistiamo la generazione precedente, i fortunati che ebbero 30 anni negli anni 60, il decennio più strepitoso del secolo scorso.

Zenarola non è una scrittrice. È un'entomologa. È capace di tenerci attanagliati alla pagina elencando tuttissimi i dettagli di una scena, in presa diretta, in tempo reale. Un'intera vita minuto per minuto: l'innaffiatoio rosa, la cena in pizzeria, il caffè alla macchinetta, il bicchiere di vino in casa. 
Dialoghi stenografici precisi, implacabili, divertenti. Humour dry, secco come quello di Jerome K. Jerome. Due donne in Friuli invece di Tre uomini in barca. Esilarante l'episodio della bara del padre/marito che il dirigente del cimitero non trova più.

A ogni capitolo il flashback di una biografia della mamma che è anche autobiografia dell'autrice. Milioni di noi possono immedesimarsi nelle vacanze in Liguria, nei soggiorni in montagna, nei paesi dei parenti dove nulla succede, in agosto come in qualsiasi giorno dell'anno.

Ma Zenarola è capace di trasformare questo nulla in un ricchissimo tutto. Racconta pomeriggi di noia, profumi di caldarroste a novembre, giornate calde o fredde, umide o piovose, amori lontani di madre e figlia, convegni di presentazione del dottissimo libro della mamma sulla storia di Fagagna. Ecco, le basta scrivere Fagagna, questo nome così buffo, per trasfigurare magicamente un paesino friulano in un luogo universale.

La media borghesia intellettuale delle Zenarolas che esisteva fino a 20-30 anni fa oggi si è numericamente ristretta. Per questo ne abbiamo nostalgia, adesso che la tenaglia sociale si è allargata: da una parte immotivate e volgari ricchezze, dall'altra nuovi lumpenproletari a 1200 mensili. Entrambi esibizionisti e infantili. Invece mamma Zenarola teneva per sè come gioielli i preziosi fogli delle sue ricerche compilate nell'archivio di stato che dirigeva.

Questo libro eleva la sociologia ad aneddoto, la narrativa è sempre superiore alla saggistica, e quindi ci fa innamorare di tutti i suoi personaggi, così veri e reali: infermiere e oss, zie zitelle, parenti timorati o scapestrati, medici solleciti oppure odiosi, fratelli capaci di riparare tapparelle, padri che corrono a giocare al casinò.
Buona lettura.

Tuesday, December 27, 2022

La Croazia nell'euro riunisce l'Adriatico, come ai tempi della Repubblica veneziana



Dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 27 dicembre 2022 

Risorge il Leone di San Marco: dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti.

La Croazia adotta la nostra moneta: entra nell'eurozona e nello spazio Schengen. Viene così ripristinata l'unità economica e politica fra Veneto, Friuli, Istria, isole del Carnaro e Dalmazia rotta nel 1797: in quell'anno Napoleone invase Venezia, la repubblica più antica, ricca, civile e tollerante del mondo, e poi la diede all'Austria con il trattato di Campoformio. 

Da Ancona a Pola, da Pescara a Zara, da Bari a Spalato e giù fino a Ragusa/Dubrovnik (anch'essa repubblica indipendente per secoli fino al 1808), il mare Adriatico tornerà ad essere "golfo di Venezia", com'era denominato su tutti gli atlanti fino al '700. 

Quindi la Croazia, dopo la Slovenia nel 2004, fa ingresso a pieno titolo nell'Europa unita, abbandonando la propria moneta (kuna) per l'euro. Porta in dote il suo porto principale, Fiume/Rijeka, che come Trieste non era mai stato veneziano: fino al 1918 fu lo sbocco al mare dell'Ungheria, così come il capoluogo giuliano era il porto dell'asburgica Vienna. 

Per la verità un'unità adriatica si era già ripristinata nel 1815-66, quando da Venezia alle bocche di Cattaro/Kotor, oggi porto montenegrino, comandava l'impero austriaco. Ma fu appunto una dominazione straniera, contestata sia dagli irredentisti italiani (Niccolò Tommaseo veniva da Sebenico, e dalmata era pure Antonio Baiamonti, sindaco di Spalato fino al 1880), sia dai nazionalisti croati. 

Non è un caso che gli unici due stati italiani non risorti con la Restaurazione del 1815 siano stati Venezia e Genova: erano repubbliche, quindi invise ai regni nuovamente padroni d'Europa dopo la ventata democratica napoleonica.

Il ritorno di Veneto e Friuli all'Italia nel 1866, dopo la terza guerra d'indipendenza, incattivì l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Da allora in Istria e Dalmazia gli austriaci si vendicarono favorendo i croati rispetto agli italiani. Così esasperarono gli opposti nazionalismi fra due popolazioni che sotto Venezia avevano convissuto pacificamente per secoli, con proficua divisione del lavoro: marinai e pescatori gli italiani, contadini i croati. Un esempio di tolleranza per gli attuali irriducibili sciovinismi dell'est europeo, dalla Bosnia alla Russia, dal Kosovo all'Ucraina, dalla Serbia alla Crimea. 

Nella nostra parte del continente l'Unione europea ha fatto dimenticare il sangue degli ultimi cent'anni. Oggi a Gorizia, città martire della prima guerra mondiale, la nostra frontiera con la Slovenia è impercettibile quanto quelle con Francia o Austria. E Trieste ha sorpassato l'incubo dei carri armati comunisti incombenti sul Carso fino al 1989.

Festeggia Renzo Codarin, presidente dell'Anvgd (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia): "Si ricompone l'unità dell'italianità adriatica. Accogliamo con favore la completa integrazione della Croazia nell'Unione europea, che abolisce il confine sloveno-croato e restituisce continuità territoriale a Istria, Carnaro e Dalmazia".

Ma non c'è alcun accento revanscista da parte dei 350mila esuli italiani del 1947: "Abbiamo vissuto con dolore e sofferenza l'imposizione di confini che seguivano la logica della guerra fredda, senza considerazione per le istanze dell’italianità autoctona e del principio di autodeterminazione dei popoli. Ora gli esuli, i loro discendenti e le comunità italiane di Slovenia e Croazia potranno finalmente ritrovarsi nella lingua, cultura e tradizioni comuni, all'interno di una struttura statuale libera e democratica, con la salvaguardia delle culture locali".

 

Friday, December 16, 2022

L'incredibile vita di Sinisa Mihajlovic da Vukovar, figlio orgoglioso dell'illusorio melting pot jugoslavo



Sport e politica, guerra e pace, trofei e turbolenze. Padre serbo, mamma croata, misto proprio come Tito. Si è occupato poco di politica, ma non ha rinnegato le sue origini: "Rimango serbo, con qualunque governo"

di Mauro Suttora

Huffpost.it, 16 dicembre 2022

L'incredibile vita di Sinisa Mihajlovic si dipana fra sport e politica, guerra e pace, trofei e turbolenze. I suoi trionfi sul campo li conosciamo tutti: nove fra scudetti, coppe Italia e supercoppe con Lazio e Inter, la coppa delle Coppe laziale del 1999 (compagno di Mancini, Nedved, Vieri, Nesta), e soprattutto la Champions League vinta da una squadra dell'est (l'unica oltre allo Steaua Bucarest), la mitica Stella Rossa di Belgrado nel 1991, aggiudicata ai rigori in finale a Bari contro l'Olympique di Marsiglia. 

Quello era uno squadrone con dentro anche Dejan Savicevic e Stevan Stojanovic, ma purtroppo fu anche un veicolo della propaganda serba, responsabile in quello stesso periodo della guerra civile che insanguinò per dieci anni l'ex Jugoslavia (con 100mila morti). Mihajlovic c'entrava poco. Anzi, era il tipico prodotto dell'illusorio melting pot, il miscuglio di nazionalità con cui il dittatore comunista Tito cercò invano di superare l'odio secolare fra serbi, croati, sloveni, kosovari, bosniaci. 

Padre serbo, mamma croata (misto proprio come Tito, croato-sloveno), Sinisa nacque a Vukovar, città sul Danubio al confine fra Serbia e Croazia. Portava lo stesso cognome del capo partigiano monarchico, leader durante la Seconda guerra mondiale dei cetnici serbi distrutti da Tito: nessuna parentela. 

La guerra civile degli anni 90 iniziò proprio a Vukovar, che subì stragi e la pulizia etnica serba. Ma il ventenne Sinisa se n'era già andato a giocare per il Voivodina, squadra della regione autonoma ungherese jugoslava. Poi l'approdo nella incandescente Belgrado. Da sempre i tifosi dello Stella Rossa trasformavano le partite con la Dinamo Zagabria croata in una similguerra (e viceversa). Ma quando scoppiò la guerra vera i capi degli ultras nazionalisti si arruolarono, e alcuni furono in seguito processati per crimini di guerra come il loro presidente Slobodan Milosevic. 

Il provvidenziale acquisto miliardario della Roma, e poi quello della Sampdoria, tolsero Mihajlovic dall'inferno jugoslavo. Anche se lui quando tirava le sue famose punizioni dimostrava la stessa precisione e potenza di un cecchino di Sarajevo. Sinisa si è occupato poco di politica, ma da orgoglioso campione non ha rinnegato le sue origini: "Rimango serbo, con qualunque governo".  

Qualche intemperanza e insulto di troppo contro un giocatore rumeno e uno africano gli hanno procurato giorni di squalifica. Ma tutti lo hanno sempre lodato come giocatore e allenatore corretto, carismatico, trascinante. Per fortuna gli unici campi di battaglia della sua vita sono stati quelli degli stadi. E anche l'ultima battaglia, persa, l'ha combattuta per tre anni con il suo proverbiale coraggio da leone.

Wednesday, December 14, 2022

Nel magico mondo europeo, dove riuscire a farsi eleggere deputato è un affarone



Quanto è generoso il carrozzone dell'Ue. Per cinque anni, garantiti, senza rischio di interruzione

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 14 dicembre 2022


Nel magico mondo dell'Ue, riuscire a farsi eleggere eurodeputato rappresenta un affare da due milioni e mezzo. In cinque anni, garantiti, senza rischio di interruzione per elezioni anticipate. Ogni europarlamentare, infatti, percepisce 6.300 euro al mese di stipendio netto (8.000 lordi, aliquota agevolata), più 4.300 di spese generali, più un’indennità di 300 euro per ogni giorno di presenza. Basta firmare, anche alle 8 del mattino (e poi andarsene) o alle 10 di sera (appena arrivati), per far scattare la giornata. Come un qualsiasi furbetto del cartellino. Quindi molti arrivano il lunedì sera a Bruxelles o Strasburgo, e ripartono per casa al venerdì mattina. Tre giorni pieni posson bastare, se sembrano cinque. E si lavora solo tre settimane al mese. Perciò, totale diaria (300 euro per 15 giorni): 1500 euro.

Poi ci sono i cosiddetti fondi 400, che vengono dati ai gruppi parlamentari: 2.630 euro mensili. I viaggi da e per casa in classe business sono rimborsati integralmente. Oltre a questi, vengono erogati 350 euro al mese di rimborso per viaggi al di fuori dello Stato di elezione, per motivi diversi dalle riunioni ufficiali. Così si arriva a un totale netto mensile di 18mila euro. 

Ma gli eurodeputati hanno diritto anche a 21.200 euro per pagare portaborse. Al massimo tre a Bruxelles, e quanti vogliono nel proprio collegio. Un grillino, Ignazio Corrao (ora passato ai verdi), nel 2014 aveva battuto ogni record: ne aveva assunti undici, creandosi benemerenze nel suo territorio. 

Quanto siano importanti gli assistenti dei deputati lo sta dimostrando in questi giorni lo scandalo Qatargate. Sono spesso più competenti degli eletti (soprattutto di quelli digiuni in inglese o francese) nel districarsi fra burocrazia e regolamenti Ue. Passano da un europarlamentare all'altro finché riescono a "stabilizzarsi" facendosi assumere dai gruppi o dal Parlamento. 

 Dopo gli scandali dei parenti assunti come portaborse (ricordate il Trota figlio di Umberto Bossi?), il malcostume è stato vietato. Risultato: il fidanzato della figlia di un'eurodeputata italiana di destra ha dovuto aspettare anni prima di sposarla. Ha assistito la futura suocera fino a fine mandato.

 Poi ci sono le pubbliche relazioni. Ogni deputato può invitare a Bruxelles 110 visitatori all’anno, in gruppi di almeno dieci. Agli ospiti vengono rimborsati viaggi (nove cent a km, quindi dall’Italia da 180 a 360 euro), pasti (40 euro) e hotel (60 euro). In media, 540 euro a testa. Totale mensile per i nostri rappresentanti in Europa: 44.280 euro. Mezzo milione all’anno, da moltiplicare per i cinque anni della legislatura. Più i fringe benefit: limousine da e per l’aeroporto di Strasburgo, palestra di 2.150 mq con piscina, sauna, solarium, corsi di yoga, body sculpt, kick boxing, zumba.

 Poi ci sono i costi generali. L’Europarlamento ha un costo annuo di 1,75 miliardi. Diviso 751 deputati, fanno 2,3 milioni a testa. Le pensioni sono generose: a partire dai 63 anni garantiscono 1.400 euro per ogni mandato, fino ai 5.650 dai vent’anni in poi. Infine, ecco le indennità per i trombati: un mese di stipendio per ogni anno di servizio a chi non viene rieletto. Un’eurodeputata di An nel 2014 ottenne 190mila euro dopo 25 anni. Per "reinserirsi".

 Anche il personale del Parlamento europeo è superpagato: uscieri e segretarie 4-6mila euro netti, traduttori 6-9mila, dirigenti fino a 16mila mensili. Al di là delle contrapposizioni, tutti i partiti accettano i privilegi dell’Europarlamento. Anche i grillini, dopo essersi fatti eleggere per combattere i privilegi della casta, rinunciano a soli mille euro mensili. 

Sunday, December 11, 2022

La mini naja di La Russa già una volta è stata un fiasco. Buona per chi voleva il basco da paracadutista



La introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità. "Così i giovani potevano mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini"

di Mauro Suttora

Huffpost, 11 dicembre 2022

Il 15 dicembre 1972 una legge permise l'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio in Italia. Per curiosa coincidenza, a mezzo secolo esatto di distanza il presidente del Senato Ignazio La Russa torna alla carica riproponendo la sua mini-naja volontaria, che già introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Questa volta dura sei settimane invece di tre, ma è prevedibile che provocherà le stesse polemiche di allora: "Ecco il militarista che resuscita i campi Dux di mussoliniana memoria!".
 

Quella mini-naja si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità: "Serve solo ad alimentare finanziariamente le associazioni d'arma", scrisse Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa, "che dalla fine del servizio di leva nel 2004 non hanno più migliaia di nuovi iscritti ogni anno, e stanno invecchiando. I giovani dopo sole tre settimane di corso possono mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini, privilegio un tempo riservato ai veri soldati".

Poi però l'idea fu adottata anche a sinistra, dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd) che non la ripristinò, ma disse che era comunque un buon modo per avvicinare i giovani alle forze armate. E anche il buon La Russa è stato umanizzato dall'imitazione di Fiorello, che lo ha dipinto come un innocuo fanatico non più dei manganelli, ma delle divise: da ministro le indossava ogni volta che poteva, quando andava a visitare i nostri soldati in Iraq o Afghanistan. 

Quindi adesso passare 40 giorni in caserma non appare più come un passatempo per criptofasci. Ma a cosa servirà? A familiarizzare i giovani con pistole e fucili? Un corso rapido per imparare a sparare può sicuramente essere completato in sei settimane. Così poi sarà più facile passare all'azione, come il signore di Fidene stamane.

Forse le più favorevoli a veder partire i propri figli, anche per periodi più lunghi, sono le mamme d'Italia. Le quali magari auspicano per i loro bamboccioni un contatto ravvicinato con i mitici caporali e sergenti che se non altro insegnavano loro a farsi da mangiare e rifarsi il letto. 

Ma per questo ci vorrebbero trasferimenti dall'altra parte d'Italia, mentre ormai anche il servizio civile volontario (8-12 mesi in un ente a 444 euro mensili per 25 ore settimanali, ora lo stanno facendo in 44mila) è a domicilio, nella stessa città di residenza. Insomma, i mammoni viziati non schiodano, restano a casa.

Invece La Russa pensa sicuramente a qualcosa di più virile. E nell'anno in cui Putin ha sdoganato dopo otto decenni l'idea di guerra in Europa, probabilmente ha centrato lo zeitgeist. Lo spirito del tempo spinge ad andare a vedere da vicino, se non altro per curiosità, quegli aggeggi che c'eravamo dimenticati esistessero, e che invece entrano in funzione per difendersi quando un dittatore invade un Paese: le armi. 

Quindi, se proprio vogliamo far familiarizzare i nostri pargoli con la nuova realtà bellica, non limitiamoci a mandarli dai simpatici alpini con le loro folcloristiche penne ed epiteti etilico-maschilisti. Organizziamo piuttosto stage educational per studiare, ad esempio, le blindature dei nostri ottimi veicoli Lince che si stanno fronteggiando nel Donbass.  Ne sono dotati sia i russi che gli ucraini: ai primi li abbiamo venduti, ai secondi regalati.

Oppure una mini-naja negli impianti Leonardo, apprezzatissimo esportatore di sistemi d'arma. È lì che si costruisce il futuro, con frontiere tecnologiche d'avanguardia. Eccellenze italiane: come moda, design, cibo, vino. Con notevoli sbocchi occupazionali, altro che punti in più per qualche noioso concorso parastatale. 

Friday, December 09, 2022

Odo falchi far festa. Grazie a Putin aumento record delle spese militari Usa



Hanno vinto loro, un voto quasi plebiscitario alla Camera su un incremento che supera perfino le richieste del presidente Biden. Soltanto la Cina tiene i livelli di Washington, che a questi ritmi presto arriveranno a mille miliardi

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 9 dicembre 2022  

Hanno vinto i falchi. La Camera Usa ha aumentato le spese militari dai 780 miliardi di dollari di quest'anno a 858 per l'anno prossimo. Un incremento impressionante: supera di ben 45 miliardi perfino la richiesta del presidente Joe Biden, il quale si sarebbe accontentato di 813 miliardi. Il dibattito ora passa al Senato, ma l'ampiezza bipartisan del voto alla Camera (350 sì contro 80 colombe) esclude sorprese. 

L'aumento-monstre ha due cause: la guerra in Ucraina e l'inflazione. 

Il bilancio militare 2023 prevede altri 800 milioni di armamenti per l'Ucraina. Che però sono una goccia rispetto ai 60 miliardi erogati extra-bilancio quest'anno in aiuti per Kiev, sia civili che bellici. Quanto all'inflazione, attualmente all'8% negli Usa, verrà compensata da un +4,6% per gli stipendi dei quasi tre milioni di militari statunitensi. 

Festeggiano i deputati democratici e repubblicani di decine di Stati: tutti quelli che hanno fabbriche d'armi nei propri collegi. La Lockheed sfornerà altri aerei F-35, la General Dynamics parteciperà all'espansione della marina da guerra: da 296 a 321 navi entro il 2030. Anche la nostra Fincantieri ne varerà qualcuna, con la sua sussidiaria americana.

Nel 1999 le spese militari statunitensi erano a 298 miliardi. Poi una progressione a razzo: le guerre in Iraq e Afghanistan le fecero lievitare fino ai 533 miliardi del 2005. Con Barack Obama l'aumento fu più contenuto: 633 miliardi del 2015. Sotto Donald Trump un altro salto di cento milioni annui. E ora le nuove minacce: soldati Usa in Europa aumentati da 80 a 100mila; dieci miliardi in più per Taiwan; il budget per le armi nucleari che passa da 43 a 51 miliardi annui.

Soltanto la Cina sta incrementando le spese militari quanto Washington: raddoppiate in pochi anni, fino agli attuali 300 miliardi (come l'intera Europa). La Russia dichiarava una settantina di miliardi prima della guerra, ora Putin ne stanzia 140 per il 2023.  Ma gli Usa sono irraggiungibili: a questi ritmi, fra pochi anni arriveranno a mille miliardi. Quanto tutti gli altri stati della Terra messi assieme. 

Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Tuesday, November 22, 2022

Giganti del rock dai piedi di argilla. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, quei 13 che non sopportavano la vita



Folgorante libro di Paolo Vites: "Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock". Il critico musicale racconta il fenomeno dei musicisti uccisi dalla depressione

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 22 novembre 2022

Dopo quarant'anni esatti, resta imbattuto il record di Michael Jackson: il suo disco 'Thriller', uscito nel novembre 1982, con cento milioni di copie è ancora il disco più venduto della storia (il doppio del secondo, 'Dark side of the moon' dei Pink Floyd). Allora Jackson aveva 24 anni. A soli 50, nel 2009, muore per intossicazione di farmaci: propofol, lorazepam, midazolam, diazepam, lidocaina, efedrina. Tecnicamente non fu suicidio. Ma si trattò comunque di una morte provocata dall'autodistruzione, come quella di altre rockstar (Elvis Presley, Prince, Tom Petty) raccontate nell'ultimo, folgorante libro del critico musicale Paolo Vites: 'Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock' (Caissa Italia editore).

Vites tralascia la stranota lista dei rocker morti all'esatto scoccare dei loro 27 anni per droga e alcol, da Brian Jones ad Amy Winehouse, passando per i tre J (Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). Si concentra su tredici casi di musicisti che si sono suicidati in piena regola: impiccandosi, sparandosi o per overdose. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, da Whitney Houston alla cantante dei Cranberries, da quello degli Inxs ('in eccesso') a illustri sconosciuti come Neal Casal che solo Vites, superesperto di musica Usa, conosce. Tutti accomunati dalla depressione.

"Woodstock, 17 agosto 1969: salire sul palco, sedersi al proprio strumento di fronte a oltre mezzo milione di persone. Esibirsi. Quindici giorni dopo, quasi altrettanti spettatori all’Isola di Wight. Pochi anni dopo, il 28 luglio 1973, ancora sul palco per l’evento, come riportato nel Guinness dei primati, con «il pubblico più numeroso a un festival pop»: il Summer Jam al Watkins Glen, con oltre 600mila persone. Poi lo Stadio di Wembley, a Londra. E in mezzo gli stadi di tutta l’America, i teatri più lussuosi e ricchi di fama come la Royal Albert Hall di Londra, la Carnegie Hall di New York e l’Olympia di Parigi.  Il massimo a cui può aspirare un musicista rock, e non sono molti quelli che hanno toccato tali vette. Lui, Richard Manuel, insieme ai suoi compagni di The Band, è stato uno di quei giganti. Che purtroppo avevano dei piedi d’argilla, poiché vittime delle promesse e dei tradimenti del rock’n’roll".

Questo è l'inizio del capitolo sul pianista di The Band, il gruppo di Bob Dylan, che si è tolto la vita nel 1986. Lo si sente in The Weight, colonna sonora di Easy Rider; lo si vede nel film 'The Last Waltz' di Martin Scorsese. Si è appeso in bagno con il collo stretto nella sua cintura. Ma, attenti, quello di Vites non è un libro lugubre. Attraverso i suoi sapienti racconti si entra in un mondo che, come quello dello sport, è l'unico ad avere affascinato (e continua a farlo) miliardi di giovani in tutto il mondo negli ultimi 70 anni. E pazienza se in qualche caso non c'è il lieto fine.

Penso di essere l'unico oltre a Vites, in Italia, a ricordarsi di Phil Ochs. Ne ero un fan maniacale, avevo imparato a memoria la sua canzone più famosa ('I ain't marchin' anymore', Non marcio più) e la infliggevo cantandola con la chitarra ai miei compagni di liceo a Udine. I quali, con finezza friulana, si vendicarono soprannominandomi per scherzo 'Fin Occh'. Non ricordavo che questo autore di inni antimilitaristi preziosi quanto quelli di Dylan, colonna sonora delle marce contro la guerra in Vietnam (uno per tutti: 'There but for fortune', interpretato da Joan Baez) si fosse impiccato nel 1976. Questa mia mancanza di ricordi è forse uno dei motivi del suo gesto. 

Ma qualcuno si è sparato anche nel pieno della notorietà. Come Luigi Tenco, poche ore dopo essersi esibito a Sanremo di fronte a decine di milioni di telespettatori. Certo, Tenco era stato appena escluso dal festival 1967. E lo scrisse perfino sul biglietto d'addio: "Protesto contro un pubblico che manda 'Io, tu e le rose' in finale". Non risulta che l'incolpevole Orietta Berti abbia particolarmente sofferto per l'accusa contro la sua canzone, che arrivò quinta. Vinse Iva Zanicchi. E se le due brave e simpatiche cantanti ci fanno ancora compagnia dopo oltre mezzo secolo, forse Tenco ha portato loro fortuna. In ogni caso, ricorda Vites, l'ultima inchiesta sulla sua morte si è conclusa solo nel 2015. Evidentemente i complottisti, convinti per decenni che fu omicidio, non sono nati ora con vaccini e covid.

Il godibilissimo (nonostante l'argomento) libro di Vites scava a fondo, e inserisce il fenomeno dei musicisti che rinunciano alla vita in un quadro più ampio: quello della depressione, malattia che colpisce una quantità incredibile di persone.

"Nel 2030 la depressione diventerà la prima causa al mondo di giornate di lavoro perse per disabilità, superando le malattie cardiovascolari", scrive Vites. "L'Oms stima che sarà più diffusa di cancro, patologie cardiache e Alzheimer. In Italia 3,5 milioni di persone combattono contro la depressione, in Europa 35 milioni. In dieci anni la sua incidenza è aumentata del 18%. Nel mondo colpisce quasi cinque persone su cento: 322 milioni. Un male che non conosce confini: colpisce chiunque, anche se prevalentemente i redditi medi e bassi. Nel 2015 si sono suicidati in 788 mila: è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni".

Rock and roll will never die, ma ogni tanto qualche rockstar non sopporta la vita. 

Friday, November 18, 2022

Le ragazze dell'Iran. Dopo Gandhi nessuno come loro



Vogliamo fare qualcosa di concreto per la più grande rivoluzione nonviolenta da decenni? Andiamo a vedere “Gli orsi non esistono” (come per noi le loro proteste), il film di Panahi rinchiuso in carcere per aver chiesto notizie di un collega scomparso

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 18 novembre 2022 

Chi vuole fare qualcosa di piccolo ma concreto per l'Iran e la sua rivoluzione nonviolenta, la più grande dai tempi di Gandhi, corra a vedere il film "No Bears", Gli orsi non esistono. È uscito in Italia da cinque settimane, però è ancora reperibile nei cinema d'essai. 

Il suo regista persiano, Jafar Panahi, 62 anni, è stato arrestato il 22 luglio ed è incarcerato nella famigerata prigione di Evin a Teheran. La stessa dove fino al 1979 lo scià torturava i suoi oppositori (soprattutto comunisti), dove gli ayatollah continuano a gettare i propri oppositori, dov'è stata tenuta la nostra Alessia Piperno.

 Panahi c'è finito semplicemente perché aveva osato andare a chiedere informazioni su un suo collega scomparso in detenzione, senza notizie. E ora è finito anche lui nel buco nero della repressione, condannato a sei anni. 

Non è la prima volta. Ex assistente del famoso regista Abbas Kiarostami, amico del premio Oscar Asghar Farhadi, era già stato arrestato nel 2010 per aver partecipato alle periodiche proteste contro il regime. Condannato anche allora a sei anni, con il divieto di girare film per venti, farsi intervistare, viaggiare all'estero. Ma lui riesce a uscire, continua indomito a lavorare in clandestinità. E a collezionare premi nei festival, da Cannes a Berlino.

Anche 'Gli orsi non esistono' è un capolavoro, e infatti ha vinto il premio della Giuria a Venezia lo scorso settembre. È incredibile come Panahi abbia contemporaneamente scritto, diretto, prodotto e recitato questo film, di cui è il protagonista.

La storia è la sua: un regista che per lavorare deve nascondersi in un povero e polveroso villaggio iraniano al confine con la Turchia, da dove istruisce via computer i suoi attori che recitano un'altra storia-verità nella prima città turca dopo la frontiera.

Ma Panahi, con il suo tranquillo testone quadrato alla Prodi, rimane invischiato anche in una disputa medievale nel paesino dov'è rifugiato, con tanto di ragazza promessa in sposa dai suoi genitori che si ribella, perché vuole scappare col suo vero amore.

Insomma, c'è tutto l'attuale dramma dell'Iran in questo film, compresa la spiegazione del perché i pasdaran riescano a resistere all'ondata delle donne e dei giovani: il problema è che la polizia morale (e assassina) è ancora maggioritaria nell'immensa campagna persiana arretrata, dove basta un bacio per essere lapidati.

E anche il titolo del film è tragicamente adeguato: 'Gli orsi non esistono'. Così come non esistono per noi le notizie dall'Iran, occupati come siamo da Ucraina (e ci mancherebbe), Meloni e dalle nostre innumerevoli deputate desiderose di allattare in aula. 

Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino. 

Wednesday, November 02, 2022

Riccardo Lombardi, capo socialista

Cosa facevano gli antifascisti nel 1922? La storia di Riccardo Lombardi

di Mauro Suttora

Nel suo ultimo libro Antonio Alosco racconta il Lombardi ventunenne, figlio di un capitano dei carabinieri toscano, studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare, negli anni della sua formazione politica attraverso posizioni che lo rendono un personaggio "amletico"

HuffPost, 2 Novembre 2022

La marcia su Roma, i fascisti, va bene. Ma cosa facevano gli antifascisti, nel 1922? Quelli che poi sarebbero diventati i capi partigiani, i padri della Repubblica?

Su uno di loro ferma l'attenzione Antonio Alosco, già docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, col suo ultimo libro 'Riccardo Lombardi, un personaggio amletico' (ed. la Bussola).

Nelle famose foto della Liberazione a Milano, aprile 1945, Lombardi è lo spilungone che sovrasta gli altri leader antifascisti in parata: Pertini, Parri, Longo, Mattei, Solari, La Malfa. 

Aveva partecipato all'ultimo drammatico incontro con Mussolini in arcivescovado per conto del suo partito d'Azione, e poi divenne prefetto di Milano. 

Tutti lo ricordiamo come massimo dirigente del Psi fino alla morte, nel 1984 (soffriva ancora i postumi di un pestaggio fascista). 

Ma nel 1922 il ventunenne Lombardi, figlio di un capitano dei carabinieri toscano e della figlia del notaio di Regalbuto (Enna), era studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare. Che gli andava stretto, contrariamente al fratello Ruggero diventato poi deputato dc fino al 1968 e sottosegretario al Turismo e spettacolo nei primi centrosinistra di Moro e Fanfani.

Riccardo invece, eterno dissenziente, già allora scalpitava. Tanto da meritarsi le attenzioni poco benevole di Giovanni Gronchi, futuro presidente e allora capo del sindacato cattolico, incline a espellerlo perché troppo vicino ai socialisti. 

In quella Milano ribollente Lombardi si trovò a difendere la redazione dell'Avanti! assaltata dagli squadristi dell'ex direttore Mussolini.

Non immaginava certo, il giovane Lombardi, che un giorno avrebbe diretto proprio lui il quotidiano del Psi, succedendo a un Nenni carico di livore personale dopo la sconfitta del fronte socialcomunista nel 1948 (anche per questo Alosco definisce Nenni "mediocre politico").

Lombardi difese il capo socialista Turati dai picchiatori fascisti in Galleria, e divenne un Ardito del popolo, corpo paramilitare di sinistra che sfidava le squadre di destra sul loro stesso terreno, la violenza. 

Lasciò i popolari troppo accomodanti con Mussolini per un partitino di cristiani di sinistra che non ebbe fortuna. 

Come dargli torto? Nel partito popolare l'unico ad accorgersi della pericolosità della legge elettorale Acerbo fu il fondatore don Sturzo, che perciò fu fatto fuori dai giovani moderati come Gronchi e, inopinatamente, De Gasperi.

Lombardi invece, dopo una sbandata per il Pci, si aggregò ai fratelli Rosselli in Giustizia e libertà. Incarcerato e torturato per un volantinaggio a Milano nel 1930, durante il ventennio mascherò la sua attività antifascista dietro a una rispettabile attività: ingegnere per una ditta tedesca di pompe idrauliche.

Ma perché Alosco lo definisce "amletico"? Perché Lombardi negli snodi fondamentali della sua vita politica esitò a scegliere. E quando scelse, ottenne a volte risultati opposti a quelli sperati. 

Sciolto il partito d'Azione, per esempio, non seguì La Malfa in quello repubblicano. Né confluì nell'approdo più naturale per un laico progressista come lui: la neonata socialdemocrazia di Saragat. 

Preferì il Psi allora stalinista quanto il Pci, forse influenzato dall'amatissima moglie, ex del dirigente comunista Li Causi. 

Battè Nenni al congresso socialista del 1948, ma poco dopo subì la rivincita dei frontisti di Morandi. Ancora nel 1959 criticò i socialisti tedeschi per la svolta moderata di Bad Godesberg. 

Si impegnò nel movimento per la pace, ma neppure lì scalfì l'egemonia Pci. 

Spinse per il centrosinistra, ma dopo un anno di governo con la Dc se ne dichiarò insoddisfatto. 

Appoggiò i radicali su divorzio e aborto, ma respinse l'iscrizione di Pannella al Psi.

Negli anni '60 e '70 si tenne lontano da incarichi ministeriali, facendo così conquistare alla sua corrente della sinistra Psi un'aura di estraneità al sottogoverno. 

Ma nel 1976 il suo contributo fu decisivo per l'ascesa di Craxi, il quale premiò i lombardiani De Michelis e Signorile. 

E quando negli anni '80 Lombardi sollevò la questione morale ("Abbiamo più socialisti in carcere ora che sotto il fascismo"), era troppo tardi. 

Amareggiato anche per l'iscrizione alla loggia P2 del suo allievo più brillante, Fabrizio Cicchitto, si spense pochi mesi dopo Berlinguer.

Mauro Suttora

Saturday, October 29, 2022

Il bipolarismo della Sapienza. Tutti hanno diritto di parola e i manifestanti hanno il diritto di non essere manganellati



La neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola e la seconda della prima

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 ottobre 2022

Basterebbe una modica quantità di Sapienza per ribadire due regole elementari: tutti hanno diritto di parola (perfino Capezzone), e i manifestanti inermi hanno il diritto di non essere manganellati. Invece la neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola, e la seconda della prima.

Sprofonderemo così di nuovo nella secolare guerra fascisti/comunisti? E dobbiamo chiedercelo proprio oggi, 28 ottobre? 

A giudicare da certe reazioni a caldo, pare di sì. I riflessi condizionati di sinistra di Ginevra Bompiani e Concita De Gregorio, in tv poche ore dopo i fatti, le hanno fatte pencolare automaticamente dalla parte degli studenti intolleranti. E sull'opposta barricata si sono alzati solo flebili appelli al var: "Vedremo i video della carica, se qualche agente ha esagerato verranno presi provvedimenti". 

Per la verità, il vizietto di zittire i fascisti (o reputati tali: sullo striscione del collettivo della Sapienza c'era scritto 'Capitalismo=fascismo', e perfino a un papa impedirono di parlare) viene da lontano. Nel 1972, tredicenne, reputai giunto il momento di farmi un'idea personale della politica, cosicché decisi di andare ai comizi di tutti i partiti prima delle elezioni. Quello del Msi (Mirko Tremaglia sul Sentierone di Bergamo) durò poco: fu subito interrotto da lanci di bottiglie della sinistra extraparlamentare. 

Ma anche la prima volta che l'estrema destra si affacciò al governo, nel 1960 (appoggio esterno a Tambroni), ai missini fu impedito di fare il loro congresso a Genova. In nome di una costituzione antifascista che però, proprio in quanto tale, permetteva anche ai fascisti del Msi di esistere, e quindi di riunirsi in congresso. Sempre a Genova, 31 anni dopo, le parti si invertirono: furono i poliziotti a trasformarsi direttamente in fascisti, anzi in nazisti, con le spedizioni punitive di Bolzaneto e scuola Diaz. Oggi troppi a sinistra evocano quel precedente sinistro. Per esorcizzarlo, certo, nessuno auspica la resurrezione dei black block. Ma sotto sotto la spiegazione è: ecco quel che succede appena governa la destra, via libera a Pinochet nel 2001 come nel 2022.  

Facciamo fatica a scorgere tratti cileni nel ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, seppure omonimo di Salvini. Sulle 'cariche di alleggerimento' di scelbiana memoria ci sono interpretazioni infinite. Tuttavia se uno vuole entrare nell'aula di in convegno autorizzato per menare Capezzone che sta lodando il capitalismo, è possibile che rischi un ematoma a una gamba. Il fatto è che il 7 novembre alla Sapienza ci sono le elezioni studentesche. La temperatura è alta. La lista di destra Azione universitaria mostra nel suo simbolo una innocua feluca, il berretto della goliardia, che però stilizzata ricorda vagamente una runa neonazi. 

Provocazioni estetiche subliminali a parte, la povera rettrice Antonella Polimeni ha il dovere di assicurare ordine, pace, libertà, democrazia e perfino diritto allo studio nella sua Sapienza. Che non è uno spazio extraterritoriale come Chinatown a Milano: scusate la banalità, ma se si commettono reati anche lì arriva la polizia. La quale, si spera, non commetta a sua volta reati: i manganelli gratuiti lasciamoli ai fascisti del 1922.

Friday, October 21, 2022

Meloni ribattezza i ministeri con bei nomi sovranisti



Il nazionalismo inizia dalle targhe: "Sovranità alimentare", "Made in Italy", "Natalità", "Sicurezza energetica"

di Mauro Suttora 

Huffpost, 21 ottobre 2022


Apprendiamo con sollievo che il nuovo ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, aggiungerà al suo dicastero anche la dicitura ufficiale "per la sovranità alimentare". Non capiamo bene cosa essa sia, ma siamo felici che i sovranisti abbiano deciso di sfogare il loro temibile, annunciato nazionalismo soltanto sui campi da arare e sulle nostre tavole da apparecchiare, invece che in ambiti più pericolosi e dannosi. 

Vogliono valorizzare il Made in Italy? Macché: quello è entrato nel nuovo nome del ministero dello Sviluppo economico. C'eravamo abituati al suo acronimo Mise, che sostituiva il vecchio ministero dell'Industria, e ora ce lo cambiano in dicastero delle "Imprese e made in Italy". I puristi della Crusca sussultano per il debutto dell'inglese nell'onomastica ministeriale, comunque buon lavoro al neoministro Adolfo Urso. 

Chissà invece se i sovranisti noEuro/pa, una volta così numerosi tra fratelli d'Italia, leghisti e grillini, si accontenteranno del maquillage agricolo. Perché a pensarci bene oggi non c'è molto di italiano in ciò che mangiamo. I nostri campi e allevamenti sono pieni di lavoratori immigrati: trovate un giovane italiano in stalle o fattorie. I camionisti stranieri che trasportano le derrate ogni notte da Puglia e Sicilia fanno concorrenza a quelli italiani. Stessa prevalenza fra i facchini degli ortomercati al nord, e tante benemerite bancarelle arabe nei mercati ortofrutta rionali.

I supermercati Carrefour sono francesi, i Lidl tedeschi, e assumono cassieri/e di ogni nazionalità. I rider che ci portano il cibo a casa non sono quasi mai italiani, i cinesi fanno incetta di bar, i ristoranti cercano disperati personale almeno italofono. Per non parlare dei prodotti. E non quelli esotici: i pomodori a grappolo vengono da serre olandesi, i limoni dal Sudafrica, le noci dalla California. La farina della nostra pasta è ucraina o dell'Iowa, i prosciutti sono cosce di maiali olandesi, i filetti di vitelli slavi, il miele rumeno. 

Insomma, la globalizzazione stravince da vent'anni, in barba a tutti gli Eataly per clienti danarosi. Quindi che caspita vorrà mai dire "sovranità alimentare"? Almeno Mussolini aveva la scusa delle sanzioni per la guerra in Etiopia, quando ci proponeva orzo al posto del caffè e karkadè invece del the. 

Nel 1993 un referendum decise col 70% di abolire il ministero dell'Agricoltura, visto che quasi tutte le competenze sono passate alle regioni. Poi è resuscitato col nome di "coordinamento delle politiche agricole", perché non sapevamo chi mandare alle trattative Ue di Bruxelles. Nel 2018 il governo Conte1 diede all'Agricoltura anche il Turismo, dopo un anno il Conte2 glielo tolse. Ora il Mipaaf (Ministero politiche agricole, alimentari e forestali) diventerà Mipafsa? Contorcimenti della burocrazia. 

Poi ci sarebbe anche la "natalità" aggiunta al ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, affidato all'ex femminista abortista radicale Eugenia Roccella. Forse in onore del suo nome: nata bene, Eu-genia. Altri motivi non riusciamo a trovarne, se non una riesumazione dell'invito fascista a procreare di più. Il che, in tempi di riduzione di emissioni e consumi per contrastare il riscaldamento globale, appare bizzarro. Ma la fantasia dei politici è tanta, sicuramente ci stupiranno anche con questi neologismi.

Wednesday, October 19, 2022

Berlusconi e Putin, amici machi



Si sono piaciuti subito, dal primo incontro al G8 di Genova. Da allora Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli, Putin ricambiava con tornei di judo e lotta con Van Damme, partite di hockey su ghiaccio, spettacoli di cosacchi, battute di caccia e pesca quasi artica e un cuore di cervo

di Mauro Suttora

Huffpost, 19 ottobre 2022 

Le venti bottiglie di lambrusco spedite da Silvio Berlusconi a Vladimir Putin per il suo 70esimo compleanno, il 7 ottobre, ricambiando le venti di vodka arrivate ad Arcore la settimana prima per l'86esimo dell'ex premier, non sono il regalo più originale della loro 'bromance' (brotherly romance, amore fraterno). 

Il massimo della stravaganza fu raggiunto nel 2017, quando Berlusconi gli portò a Sochi un copripiumino matrimoniale con la foto gigante di loro due che si stringono la mano, con sfondo di Colosseo e Cremlino. Lo confezionò Michele Cascavilla, proprietario del marchio Lenzuolissimi e autore del libro 'Le lenzuola del potere', prefazione di Silvio.

Soltanto il Covid è riuscito a interrompere la simpatica consuetudine annuale dei viaggi d'ottobre in Russia. Sono continuati anche dopo il 2011, quando Berlusconi perse palazzo Chigi, e dopo il 2013, quando l'ex premier fu estromesso anche dal Senato. 

Nel 2019, ultimo anno pre-virus, l'inossidabile coppia si è incontrata due volte: a giugno infatti Putin, invitato a Roma dal governo gialloverde di Conte, non rinunciò a vedere Silvio. Il quale, sostengono i maligni, chiese a Vladimir (Volodia) di non finanziare grillini e leghisti. Non per i soldi, ovviamente, che a Forza Italia non mancano. Era gelosia pura. 

Ma l'unico che può confermare questo veleno è Valentino Valentini, il Savoini forzista: da sempre pronube della coppia visto che mastica il russo, ma attualmente amareggiato dalla trombatura del 25 settembre dopo quattro legislature da deputato. 

I due amici machi si sono piaciuti subito. Il primo incontro avvenne al G8 di Genova del 2001. Si guardarono dritti negli occhi, e per una volta fu facile: Berlusconi ha solo quattro centimetri in meno del metro e 69 di Putin. Ma quel vertice fu rovinato dai no global, Silvio aveva ben altro cui pensare. La scintilla era comunque scoccata, e nel successivo anno e mezzo i due si videro per ben otto volte. Senza contare le vacanze estive delle due figlie di Putin a villa Certosa del 2002. 

Il 28 maggio di quell'anno rimane una data incisa nel cuore di Berlusconi. Lui la considera l'apice delle sue imprese politiche. Al vertice Nato di Pratica di Mare (fra Pomezia e Capocotta) riuscì quasi a far entrare la Russia nell'Alleanza atlantica. Erano i mesi dopo lo choc delle Torri Gemelle: la minaccia islamista fece chiudere gli occhi (non solo al nostro premier) sulle porcherie che andava combinando Putin in Cecenia. Tutto sommato l'idea di associare Mosca all'Occidente non era male. Ma come sempre Berlusconi ingigantisce tutto: "Quel giorno feci finire io cinquant'anni di guerra fredda". 

Freddo faceva sicuramente nel febbraio successivo: 30 gradi sotto zero a Zavidovo, parco dove il presidente russo regalò al nostro il famoso colbacco fuori misura, tipo cacciatore, con buffi paraorecchie di pelliccia. Poi gli propose di cenare fuori, nel bosco. Lo sventurato virilmente accettò.

Berlusconi ricambiò nella calda e favolosa estate 2003, quella della bandana. Ricevette Volodia a Porto Rotondo, celebrò l'occasione piantando un po' di cactus nuovi: "Ne ho quattrocento specie". Poi Bocelli cantò 'Tu ca' nun chiagne', e infine tutti in coro intonarono Oci Ciorne. Avevano mangiato e bevuto. Menu: antipasto di mare, tortelloni di ricotta, lasagne vegetariane, porceddu alla brace, dolci sardi. 

Putin si era portato in Costa Smeralda una scorta discreta: l'incrociatore lanciamissili Moskva (quello affondato dagli ucraini), il cacciatorpediniere Smetlivy e la nave appoggio Bubnov. Ma alla conferenza stampa la coppia si presentò come Stanlio e Ollio: su un traballante caddy car, la macchinina da golf guidata da Silvio. Poi una passeggiata a Porto Cervo, dove Berlusconi regalò a Putin piatti policromi e gioielli d'oro. Assieme guardarono Milan-Porto, finale Supercoppa. Pacche sulle spalle, fuochi d'artificio.

Più maschie le cene in Russia. Volodia infliggeva a Silvio storione in gelatina, insalata di urogallo, tagliolini in brodo di funghi, pesantissimi brasati misti. Conoscendo i suoi gusti, Berlusconi gli regalò un fucile Beretta con dedica incisa. Di tutti questi scambi restano irresistibili foto su google. 

Nel 2010 Silvio inaugurò quella che avrebbe dovuto essere la sua "università liberale" di villa Gernetto a Lesmo (Monza Brianza) con un vertice italo-russo. Allora Putin era 'solo' premier. Però regalò sette milioni per ricostruire un palazzo e una chiesa dopo il terremoto dell'Aquila. 

Ma i tempi stavano cambiando, negli Usa era arrivato Barack Obama "l'abbronzato" dopo otto anni dell'amico Bush. La Russia aveva attaccato la Georgia. Un wikileak di Julian Assange rivelò che il festoso rapporto Silvio-Volodia preoccupava gli americani: "Berlusconi sembra essere il portavoce di Putin in Europa". I contratti Eni-Gazprom si rivelavano un po' troppo redditizi. 

Ma che importava? Se nei loro privatissimi vertici Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli a Roma, l'altro ricambiava a colpi di tornei di judo e lotta con Jean-Claude Van Damme a Mosca, partite di hockey su ghiaccio, gare di slalom, spettacoli di cosacchi, voli su aerei antincendio e battute di caccia e pesca quasi artica. 

La prova d'amore definitiva arrivò una sera, in dacia. Neve dappertutto. "Andiamo Silvio, solo io e te. Niente accompagnatori". Avvertirono un'ombra, Volodia sparò. Aveva abbattuto un cervo. Prese un coltello, estrasse il cuore ancora caldo e lo porse all'ospite come gesto supremo. 

Nel 2013 Putin difende Silvio: "Lo attaccano per le donne? Se fosse gay nessuno lo toccherebbe. L'Europa si indebolisce con le nozze omosex". Berlusconi, ormai privato cittadino, ricambia avventurandosi in Crimea nel 2015, dopo l'invasione russa: "Andiamo in giro senza scorta, tutti gli vogliono bene". 

Adesso accusano Silvio di parlare fuori controllo, a ruota libera, senza freni? Ma per due decenni lui ha difeso Putin da qualsiasi accusa: diritti civili, omicidio Politkovskaya, affari Yukos: "Lo diffamano i comunisti, proprio come me". "È un dono del signore". "È il numero uno, come un fratello". Certo, ora la guerra d'Ucraina. Delusione. Ma la loro relazione resta dolcissima, innaffiata col lambrusco.

Tuesday, October 18, 2022

Togliere le foto di Mussolini è come nascondere il fascismo sotto il tappeto



Bersani si oppone al ritratto del duce per i novant’anni del Mise. Un po’ come Boldrini che voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico. Toccherà chiedere consiglio agli islamisti di Palmira

di Mauro Suttora

HuffPost, 18 ottobre 2022  

Si chiamava Beneto Giraldon, il capo scalpellino incaricato da Napoleone di distruggere tutti i leoni alati di San Marco dopo la conquista di Venezia nel 1797. Così sparirono un migliaio di simboli della Serenissima che campeggiavano sulle porte e i palazzi pubblici di ogni città veneziana, da Bergamo a Zacinto. Fu uno scalpellamento metodico, da psicanalizzare: la neonata Repubblica francese si accaniva contro la millenaria Repubblica di San Marco, la più longeva, splendida e tollerante della storia. Quel che risparmiarono i francesi fu poi distrutto in Istria e Dalmazia da Tito, dopo la conquista jugoslava del 1945. 

Chi sarà ora il Giraldon che ci libererà da ogni ricordo mussoliniano? Perché dopo la rimozione della foto del duce dalla mostra per i 90 anni del palazzo del Ministero dello Sviluppo economico (fu anche lui ministro in quelle stanze), dopo la protesta di Pierluigi Bersani che non tollera di essere incorniciato e appeso sullo stesso muro, ci siamo improvvisamente accorti che il mascellone appare anche nella galleria dei ritratti degli ex presidenti del Consiglio a palazzo Chigi. Via.

E come mai sopravvive quell'obelisco all'entrata del Foro Italico con su scritto Dux? Vergogna.

Eppure con la fascioclastia del 1943-45 pensavamo di esserci totalmente purificati, cancellando da ogni marmo d'Italia scritte con le date in era fascista e fasci littori.

Lo aveva riscoperto solo Laura Boldrini nel 2015, l'obelisco ducesco sotto cui passano spensierati ogni domenica milioni di tifosi romanisti e laziali da tre quarti di secolo. Propose di abbatterlo subito, con l'ignara urgenza dei neofiti. La liquidò Walter Veltroni: "Mi sembra assurdo nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia".

Parole profetiche.

Per incredibile coincidenza del destino, venerdì 28 ottobre rischia di essere votata la fiducia al governo Meloni. Cent'anni esatti dopo la marcia su Roma. Non vogliamo assolutamente addentrarci nella querelle su quanto sia fascista, post o neo il prossimo governo. Diciamo solo che comincia per M e finisce per i. Oppure che la fiamma arde ancora. 

In ogni caso, per fugare ogni sospetto la soluzione è semplice. Fra i suoi primi atti la nuova premier istituirà una commissione internazionale per la promozione della virtù antifascista e la prevenzione del vizio littorio. Inviteremo a farne parte i migliori iconoclasti del pianeta: i talebani dei Buddha di Bamiyan, gli islamisti dell'Isis di Palmira e gli statunitensi bonificatori di statue di Cristoforo Colombo. Essi dovranno individuare e distruggere ogni traccia di mussolinismo: quasi tutte le stazioni e i palazzi di giustizia, la Farnesina, il codice Rocco, la giornata del Risparmio, l'Inps, la Festa degli alberi.

Elimineremo da wikipedia qualsiasi riferimento al Ventennio, così Bersani non dovrà più sopportare Mussolini come ministro suo predecessore al Mise. E anche lo scalpellino leontoclasta Giraldon rischierà: quel suo nome Beneto meglio cambiarlo in Veneto. 

Monday, October 17, 2022

Sorpresa: un libico giudica la Libia fascista



Per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (ed. Franco Angeli), di Mustafa Rajab Younis. Sul fascista più famoso, in Italia e nel mondo, dopo il duce

di Mauro Suttora

HuffPost, 17 ottobre 2022  

Nel profluvio di rievocazioni per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (Franco Angeli). Prezioso per due ragioni. L'argomento: Balbo è il più famoso dei quadrumviri della marcia del 28 ottobre 1922. Alla quale, ricordiamolo, Mussolini non partecipò: si nascose nella casa di campagna della sua amante Margherita Sarfatti a Cavallasca (Como), pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. 

Balbo, appena 26enne ma già ras dell'Emilia-Romagna, fu quindi il vero capo della marcia. E intervenne con decisione negli scontri del quartiere romano di San Lorenzo, dove la colonna fascista di Giuseppe Bottai era stata attaccata. Fondatore dell'Aeronautica, ministro dell'Aviazione, all'inizio degli anni '30 Balbo divenne il fascista più famoso dopo il duce, in Italia e nel mondo, grazie alle sue trasvolate oceaniche. 

Anche per questo Mussolini, geloso, nel 1934 lo tolse da ministro e lo esiliò in Africa, come governatore della Libia. E qui inizia il libro, prezioso anche per il suo autore: Mustafa Rajab Younis, docente libico di storia contemporanea all'università di Tripoli. Il quale affronta con equilibrio un argomento controverso, senza lasciarsi trasportare da una condanna pregiudiziale della sciagurata avventura coloniale, che ha pervaso la storiografia italiana più recente (Rochat, Del Boca).

Il professor Younis descrive meticolosamente i sei anni e mezzo di 'regno' di Balbo in Libia, che quando arrivò era ancora divisa fra Tripolitania e Cirenaica, com'è tornata a essere di fatto oggi. Un'avventura che termina tragicamente il 28 giugno 1940, quando Balbo viene ucciso in volo per sbaglio dalla nostra contraerea nei primi giorni della Seconda guerra mondiale. Younis non crede ai sospetti di un abbattimento voluto: "Fu un incidente casuale".

Di nemici comunque in Italia Balbo ne aveva parecchi. Anche perché la sua fama era ulteriormente aumentata in Libia, dove si comportava da vicerè invitando giornalisti da tutto il mondo a feste da mille e una notte nelle sue sfarzose residenze. Il suo governo della Quarta sponda fu facilitato dalla fine delle ribellioni senussita e di Al Mukhtar, che avevano funestato i primi due decenni della colonia conquistata nel 1911 (guerra avversata dall'allora pacifista Mussolini, tanto da finire addirittura in carcere con Nenni). 

"Younis valuta con obiettività le realizzazioni dell'epoca di Balbo in Libia", scrive il professor Andrea Baravelli nell'introduzione al libro, che viene presentato il 18 ottobre alle 17.30 nella biblioteca Cabral di Bologna. "Abitazioni, strade, acquedotti, scuole, consultori medici: un insieme sbalorditivo di opere che avrebbe consentito la realizzazione del vecchio sogno di popolamento su larga scala della Libia, stravolgendo equilibri secolari e sancendo la definitiva dipendenza delle genti arabe".

Nonostante la sua strada litoranea Balbia di 1800 chilometri il gerarca di Ferrara non fu un illuminato difensore dei diritti civili, anche se si oppose alle leggi razziali e voleva dare la cittadinanza ai libici, secondo le usanze dell'impero romano: era semplicemente un bravo organizzatore e ottimo propagandista. 

Come scrive Younis, oltre a favorire l'insediamento di 20mila contadini italiani, Balbo sviluppò il turismo, costruendo grandiosi alberghi per i visitatori di Leptis Magna. Mancò di poco la scoperta del petrolio, e si sentiva in concorrenza con i colonizzatori francesi in Tunisia e gli inglesi in Egitto. Finite le tirate nazionaliste di Gheddafi, ora anche gli storici libici esaminano con equanimità luci e ombre dell'occupazione italiana della loro terra.


 

Friday, October 07, 2022

Nobel per la Pace: storia controversa del premio più controverso



Impeccabili i premi 2022. Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), finora il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti

di Mauro Suttora

Huffpost, 7 ottobre 2022
  
Impeccabili i tre Nobel della pace 2022: gli attivisti per i diritti umani di Russia, Bielorussia e Ucraina meritano tutta la nostra attenzione e riconoscenza. Anche l'anno scorso i giurati di Oslo avevano premiato un russo. Ma il giornalista Dimitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, ha avuto poco tempo per assaporare il Nobel: poche settimane dopo è piombato con tutti i compatrioti nell'incubo della guerra contro l'Ucraina. Il suo era anche un premio postumo, in memoria della redattrice del giornale Anna Politkovskaya eliminata da Putin nel 2006. Ma non è stato di buon auspicio.
 
Speriamo invece che adesso Ales Bialiatski, 60 anni, il dissidente bielorusso premiato, venga liberato: è in prigione da un anno dopo averne già scontati tre per false accuse di evasione fiscale.
Al dissidente cinese Liu Xiaobo il premio del 2010 non è servito per uscire dal carcere. Anzi, sette anni dopo è morto di cancro al fegato, sempre prigioniero. 
La birmana Aung San Suu Kyi è stata liberata solo 19 anni dopo il Nobel del 1991, nei cinque anni da ministro degli Esteri è stata accusata anche lei di maltrattare le minoranze etniche, e l'anno scorso i generali l'hanno arrestata di nuovo. A 77 anni la sventurata langue ancora in una prigione segreta. 

Ma l'assegnazione del Nobel per la pace si muove sempre in un terreno minato. Il presidente etiope Abiy Ahmed Ali dopo il premio del 2019 non gli ha fatto onore: ha scatenato un conflitto contro i guerriglieri del Tigray. 
Il rischio di scambiare guerrafondai per pacifisti viene da lontano: nel 1906 fu decorato Theodore Roosevelt, il presidente Usa passato alla storia per la sua vanteria: "Imbraccio sempre un bastone nodoso". 
Il 99enne Henry Kissinger ha ottenuto dal Nobel un elisir di lunga vita, però neanche lui è un apostolo della nonviolenza come Albert Schweitzer (premio 1952), madre Teresa di Calcutta (1979) o Nelson Mandela (1993). 
Più onesto di Kissinger fu nel 1973 il copremiato vietnamita Le Duc Tho, che declinò il riconoscimento: "In Vietnam c'è ancora la guerra". E seguendo questo stesso criterio, appare surreale il Nobel ad Arafat.
 
A volte sono premi di incoraggiamento. Come Obama nel 2009, per i bei discorsi che faceva. I giurati di Oslo li scambiarono per realtà, definendoli "sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli". Ma quando gli arabi lo presero sul serio, scatenando contro i propri dittatori le loro primavere di libertà nel 2011, Obama non seppe cosa fare. Una no fly zone contro Gheddafi, nulla contro le armi chimiche del siriano Assad e del suo alleato Putin.
 
Con il Nobel si rischia la vita. Martin Luther King è stato assassinato quattro anni dopo averlo ricevuto nel 1964, l'egiziano Sadat (1978) tre anni dopo, l'israeliano Rabin (1994) è sopravvissuto solo un anno. Gandhi, che forse lo avrebbe meritato più di tutti, fu ammazzato prima che a Oslo pensassero a lui.

Qualche buontempone nel 1939 candidò Hitler, con la motivazione che se il premier inglese Chamberlain era stato proposto per gli accordi di Monaco, allora meritavano anche gli altri firmatari.

Quando a Oslo non sanno che pesci pigliare non conferiscono il Nobel (è successo 19 volte), oppure premiano un'organizzazione (24 volte), un'agenzia Onu, la Croce Rossa (tre volte). Che va benissimo, però (ong a parte) si tratta di organismi che la pace la devono promuovere per statuto. È il loro mestiere, sono stipendiati per questo.
 
Tutto sommato, oltre al Dalai Lama (1989), il premiato più meritevole è stato forse Gorbaciov nel 1990: non capita tutti i giorni che un impero crolli facendo così pochi morti. E l'artefice della dolce morte per il blocco sovietico fu in gran parte lui. Per questo Putin non è andato al suo funerale.