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Friday, October 21, 2022

Meloni ribattezza i ministeri con bei nomi sovranisti



Il nazionalismo inizia dalle targhe: "Sovranità alimentare", "Made in Italy", "Natalità", "Sicurezza energetica"

di Mauro Suttora 

Huffpost, 21 ottobre 2022


Apprendiamo con sollievo che il nuovo ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, aggiungerà al suo dicastero anche la dicitura ufficiale "per la sovranità alimentare". Non capiamo bene cosa essa sia, ma siamo felici che i sovranisti abbiano deciso di sfogare il loro temibile, annunciato nazionalismo soltanto sui campi da arare e sulle nostre tavole da apparecchiare, invece che in ambiti più pericolosi e dannosi. 

Vogliono valorizzare il Made in Italy? Macché: quello è entrato nel nuovo nome del ministero dello Sviluppo economico. C'eravamo abituati al suo acronimo Mise, che sostituiva il vecchio ministero dell'Industria, e ora ce lo cambiano in dicastero delle "Imprese e made in Italy". I puristi della Crusca sussultano per il debutto dell'inglese nell'onomastica ministeriale, comunque buon lavoro al neoministro Adolfo Urso. 

Chissà invece se i sovranisti noEuro/pa, una volta così numerosi tra fratelli d'Italia, leghisti e grillini, si accontenteranno del maquillage agricolo. Perché a pensarci bene oggi non c'è molto di italiano in ciò che mangiamo. I nostri campi e allevamenti sono pieni di lavoratori immigrati: trovate un giovane italiano in stalle o fattorie. I camionisti stranieri che trasportano le derrate ogni notte da Puglia e Sicilia fanno concorrenza a quelli italiani. Stessa prevalenza fra i facchini degli ortomercati al nord, e tante benemerite bancarelle arabe nei mercati ortofrutta rionali.

I supermercati Carrefour sono francesi, i Lidl tedeschi, e assumono cassieri/e di ogni nazionalità. I rider che ci portano il cibo a casa non sono quasi mai italiani, i cinesi fanno incetta di bar, i ristoranti cercano disperati personale almeno italofono. Per non parlare dei prodotti. E non quelli esotici: i pomodori a grappolo vengono da serre olandesi, i limoni dal Sudafrica, le noci dalla California. La farina della nostra pasta è ucraina o dell'Iowa, i prosciutti sono cosce di maiali olandesi, i filetti di vitelli slavi, il miele rumeno. 

Insomma, la globalizzazione stravince da vent'anni, in barba a tutti gli Eataly per clienti danarosi. Quindi che caspita vorrà mai dire "sovranità alimentare"? Almeno Mussolini aveva la scusa delle sanzioni per la guerra in Etiopia, quando ci proponeva orzo al posto del caffè e karkadè invece del the. 

Nel 1993 un referendum decise col 70% di abolire il ministero dell'Agricoltura, visto che quasi tutte le competenze sono passate alle regioni. Poi è resuscitato col nome di "coordinamento delle politiche agricole", perché non sapevamo chi mandare alle trattative Ue di Bruxelles. Nel 2018 il governo Conte1 diede all'Agricoltura anche il Turismo, dopo un anno il Conte2 glielo tolse. Ora il Mipaaf (Ministero politiche agricole, alimentari e forestali) diventerà Mipafsa? Contorcimenti della burocrazia. 

Poi ci sarebbe anche la "natalità" aggiunta al ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, affidato all'ex femminista abortista radicale Eugenia Roccella. Forse in onore del suo nome: nata bene, Eu-genia. Altri motivi non riusciamo a trovarne, se non una riesumazione dell'invito fascista a procreare di più. Il che, in tempi di riduzione di emissioni e consumi per contrastare il riscaldamento globale, appare bizzarro. Ma la fantasia dei politici è tanta, sicuramente ci stupiranno anche con questi neologismi.

Wednesday, May 05, 2010

I 17 anni di Fini e Berlusconi

UNA STORIA DI ALTI E BASSI

di Mauro Suttora

Oggi, 28 aprile 2010

Che ci fosse qualcosa di strano, cominciarono a sospettarlo nel 2005. I radicali avevano lanciato il referendum per la procreazione assistita. Gianfranco Fini annunciò che avrebbe votato sì: un’eresia, a destra. Il Vaticano era contrarissimo. I massimi dirigenti di An (Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Altero Matteoli) si chiedevano cosa fosse capitato al loro segretario. Commisero l’errore di parlarne ad alta voce nel bar La Caffettiera di Roma. Un giornalista ascoltò tutto, e pubblicò testualmente. Apriti cielo. «Gianfranco ha perso la testa per amore», sussurravano i malcapitati, riferendosi al pettegolezzo-principe di quelle settimane nella capitale: una supposta love story fra l’allora ministro degli Esteri e una sua bella collega di governo assai aperta in tema di diritti civili. Fini allora aveva in mano An: convocò uno a uno i reprobi e tolse loro ogni carica per molti mesi.

Sono passati cinque anni. An non c’è più, e l’unica arma rimasta in mano a Fini in quanto ex presidente sono i soldi: quelli del rimborso elettorale del 2006, che incasserà fino all’anno prossimo, più il patrimonio di 400 milioni di euro in sedi e uffici dell’ex Msi, che si è ben guardato dal conferire al Popolo delle Libertà (così come Ds e Margherita non hanno dato tutti i loro averi al Pd). Infine il quotidiano Il Secolo, che riceve dallo stato tre milioni di euro all’anno anche se vende solo tremila copie (ogni copia del Secolo costa quindi mille euro ai contribuenti...)

Quasi tutti i parlamentari ex An eletti nel Pdl hanno abbandonato il loro ex capo ora che si è scontrato platealmente con Silvio Berlusconi. Con Fini sono rimasti solo il ministro Andrea Ronchi, il viceministro Adolfo Urso, il vicecapo dei deputati Pdl Italo Bocchino, una dozzina di senatori e una trentina di deputati. Ma cos’è successo, veramente?

«Semplice: Fini si sente troppo vecchio, e Berlusconi troppo giovane», spiega a Oggi un parlamentare Pdl. «Fini a 58 anni si è stufato di appassire come delfino a vita. Ha cominciato a esserlo a 41 anni, e ora rischia di fare la patetica fine del principe Carlo d’Inghilterra, al quale l’ultraottuagenaria regina Elisabetta non si sogna di passare la corona. Proprio come Berlusconi, che a 74 anni si sente ancora pimpante e che, al massimo, lascerà la presidenza del Consiglio fra tre anni al fedele Tremonti o al fedelissimo Alfano per salire al Quirinale».

L’eterna storia di tanti vecchi leader della storia incuranti della successione, che hanno «ucciso» qualsiasi «giovane» facesse loro ombra, in base alla regola del «dopo di me il diluvio»? A pensarci bene, è capitato a tutti i grandi politici del XX° secolo: De Gaulle senza lo scrollone del ’68 non avrebbe abdicato per Pompidou, Churchill rimase premier fino a 81 anni, Roosevelt aspettò la morte piuttosto che vedere il vice Truman al proprio posto. Per non parlare dei dittatori Stalin, Mao o Franco, tutti morti con lo scettro in mano.

Ma la crisi del diciassettesimo anno fra Fini e Berlusconi non è solo una questione dinastica. I due non si sono mai veramente pigliati: la loro convivenza è stata piena di alti e bassi, provocati secondo i maligni anche dalla opposta statura fisica.

Oggi i fans di Silvio accusano Gianfranco di ingratitudine. Se non ci fosse stato lo storico «sdoganamento» del novembre 1993 all’inugurazione di un suo ipermercato a Casalecchio di Reno (Bologna), sostengono, con la dichiarazione di voto berlusconiana per Fini sindaco di Roma, l’Msi sarebbe rimasto una scoria neofascista. Consideriamo però che allora Berlusconi era solo il presidente della Fininvest, detestato dalla sinistra ma anche dagli ex dc di Martinazzoli e da quelli di Segni. Non aveva molte altre sponde da blandire quindi, dopo la scomparsa del Psi del suo amico Craxi.

Nel dicembre ’94 Umberto Bossi fa cadere il primo governo Berlusconi, e due anni dopo si allea con la sinistra permettendole di governare fino al 2001 (quante giravolte in politica!). Fini invece rimane fedele a Silvio, e quello rimane forse il periodo più felice del loro rapporto. Di quei mesi, invece, Berlusconi conserva l’incubo del governo «tecnico» di Lamberto Dini (1995-’96). Ancor oggi teme che qualcuno lo possa sostituire, non dopo una sconfitta elettorale, ma in nome di un’emergenza economica o giudiziaria (avviso di garanzia, incriminazione, condanna). E adesso il candidato ideale, vista la stima conquistata a sinistra, sarebbe proprio Fini, terza carica dello stato.

Il primo «tradimento» di Gianfranco risale alle europee del ’99, quando An cerca di allargarsi a spese di Forza Italia imbarcando nella coalizione «Elefante» Segni e perfino i radicali antiproibizionisti sulla droga di Marco Taradash. Ma il risultato è negativo (An cala dal 12 per cento al 10), e Fini deve tornare all’ovile.

Dopo la vittoria alle politiche del 2001 Gianfranco non s’impegna direttamente in un ministero. Già allora s’illude di ritagliarsi un ruolo «superiore» come vicepremier. Ma dopo tre anni si accorge che senza mani in pasta conta poco, e quindi per due anni fa il ministro degli Esteri. Va in Israele a dichiarare che «le leggi razziali del fascismo furono un male assoluto», mentre ancora nel ’94 considerava Mussolini «il maggiore statista italiano del secolo». Nel 2004 riesce a far dimettere il filoleghista Tremonti da ministro dell’Economia, salvo doverlo reinghiottire appena un anno dopo.

Intanto gli anni passano, lui scalpita. Ma Berlusconi raggiunge i 70 anni e non dà segni di stanchezza. Anzi, perso il voto del 2006 non si dà per vinto e un anno dopo annuncia la fusione di tutti i partiti del centrodestra nel Popolo delle Libertà. «Siamo alle comiche finali», risponde Fini sprezzante. Ma ancora una volta deve andare a Canossa e nel 2008 An, contrariamente all’Udc di Casini, sparisce dalla scheda elettorale per vincere, ma inglobato nel Pdl.

Per l’ennesima volta Fini si smarca, preferendo il ruolo istituzionale di presidente della Camera all’impegno governativo. E comincia lo stillicidio di critiche a Berlusconi. Nel settembre 2008 propone il voto agli immigrati con cinque anni di residenza (proprio lui, autore della legge Bossi-Fini). Poi critica i troppi voti di fiducia e decreti, che strozzano il Parlamento. Nel 2009 altri pugni nello stomaco al centrodestra: «Il Pdl è a rischio di cesarismo», sì al testamento biologico (caso di Eluana Englaro), il fuorionda tv: «Berlusconi confonde la leadership con la monarchia assoluta». Si mormora di un’alleanza di centro Fini-Casini-Rutelli-Montezemolo.

Il resto è storia degli ultimi giorni. Fini ormai sembra essersi alienato le simpatie del suo stesso centrodestra. Se si presentasse da solo al voto, prenderebbe il 7 per cento. «Eppure dico le stesse cose della Merkel, di Sarkozy, dei popolari spagnoli, della moderna destra europea», replica lui, serafico. E in politica, come nei film di James Bond, «mai dire mai».

Mauro Suttora