VALZER CON HAMAS
«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar
Oggi, 28 gennaio 2008
di Mauro Suttora
«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»
Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.
Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.
«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.
«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»
Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?
«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»
Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?
«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».
Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.
«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».
Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?
«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»
Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?
«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».
Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.
«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».
Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?
«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».
Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.
«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».
Mauro Suttora
Wednesday, January 28, 2009
L'Uomo nero di Rignano Flaminio
DI SICURO C'E' SOLO CHE NON E' LUI
Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato
di Mauro Suttora
Oggi, 28 gennaio 2008
No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.
Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
.
Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.
Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.
Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».
Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.
«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.
«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».
Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.
Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.
I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.
«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».
La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?
«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».
Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?
«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».
Mauro Suttora
Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato
di Mauro Suttora
Oggi, 28 gennaio 2008
No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.
Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
.
Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.
Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.
Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».
Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.
«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.
«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».
Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.
Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.
I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.
«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».
La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?
«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».
Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?
«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».
Mauro Suttora
Monday, January 26, 2009
Mercedes Bresso, Eugenia Roccella
Tutti gli ex radicali delle sponde opposte
di Mauro Suttora
Libero, sabato 24 gennaio 2009
E pensare che si chiama come la Madonna. Mercedes Bresso, 64 anni, la governatrice del Piemonte che sul caso di Eluana Englaro ha dato dell’«ayatollah» all’arcivescovo di Torino, deve il proprio nome alla mamma, devota della chiesa Vergine della Mercede a Sanremo.
Diventata leader dei laici italiani, la Bresso è coerente con le proprie origini anticlericali. Infatti, prima che il Pci la eleggesse nel 1985 consigliere regionale piemontese, era dirigente radicale. Fece parte della segreteria nazionale nel ’75, anno caldo delle lotte sull’aborto, quando Emma Bonino finì in carcere.
Curiosamente, quello stesso posto di dirigente del partito di Marco Pannella lo occupò nell’81 (anno del doppio referendum sull’aborto) pure Eugenia Roccella, oggi sottosegretario al welfare e vicinissima al Vaticano, ma allora accesa femminista. Segretario radicale era in quegli anni un 27enne Francesco Rutelli, anch’egli irriconoscibile rispetto a oggi.
Ex pannelliani, insomma, occupano posti opposti in palcoscenico nella disputa sul diritto alla vita. Ma la diaspora radicale coinvolge molti altri nomi noti della politica italiana, alcuni dei quali sorprendenti.
Giorgio Stracquadanio, per esempio. Il 49enne ghost writer e spin doctor di Silvio nonché consigliere di Maria Stella Gelmini potrebbe passare da deputato a sottosegretario alla presidenza del Consiglio se il portavoce Paolo Bonaiuti fosse promosso viceministro. A Milano Stracquadanio era attivo radicale negli anni ’80, e portaborse dell’allora antiproibizionista Tiziana Maiolo assessore comunale nel ’90.
Anche l’ex presidente del Senato Marcello Pera può essere catalogato come ex radicale (dal ’92 al ’94), così come il ministro Elio Vito (portaborse del consigliere comunale Pannella a Napoli negli anni ’80, poi deputato) e il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello (vicesegretario nell’81 con Rutelli).
Fra i deputati c’è il rutelliano Roberto Giachetti, mentre nel centrodestra spiccano Benedetto Della Vedova e Giuseppe Calderisi (autore del progetto di nuova legge elettorale per le imminenti europee). Fuori dal Parlamento ma vicino al cuore di Silvio sta Daniele Capezzone, segretario radicale fino a due anni fa e ora portavoce di Forza Italia.
Stefano Rodotà lasciò i radicali per il Pci nel ’79 perché Pannella non gli garantì l'elezione. In quegli stessi anni scalpitava fra i radicali salernitani Alfonso Pecoraro Scanio.
Sono stati candidati della Rosa nel pugno Gianni Vattimo, Barbara Alberti, Fernanda Pivano, Luca Boneschi (oggi avvocato dei giornalisti milanesi), Giorgio Albertazzi, Salvatore Samperi, Tinto Brass, Riccardo Chiaberge (direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore), Massimo Alberizzi (inviato "africano" del Corsera) e il costituzionalista Michele Ainis.
Gli editorialisti Angelo Panebianco (Corsera), Massimo Teodori (Giornale) e Piero Ignazi (Sole ed Espresso) sono ex radicali. Perfino Eugenio Scalfari è stato vicesegretario nazionale del Pr prima di Pannella e consigliere comunale a Milano nel '60 (quando l’attore Arnoldo Foà fu eletto a Roma).
Ma lista dei giornalisti politici ex radicali è sterminata: Lino Jannuzzi (direttore di Radio radicale fino all’81), Paolo Liguori, il notista politico del Tg1 Bruno Luverà, Marco Taradash (inventore delle rassegne stampa radiofoniche), Daniele Bellasio e Christian Rocca del Foglio, Laura Cesaretti (Giornale e Velino), Vittorio Pezzuto (ex segretario nazionale dei club Pannella negli anni ’90, oggi portavoce di Renato Brunetta), Stefano Andreani (cronista parlamentare di Radio radicale, poi potente capo di gabinetto di Andreotti nell'era Caf, ora dirigente Invitalia – la ex agenzia Sviluppo), Roberto Iezzi (ufficio stampa Camera).
Carlo Romeo, oggi capo del "segretariato sociale" Rai, è stato fino al ’95 direttore del mitico tg radicale di Teleroma 56, da cui passarono Mauro Mazza, Michele Plastino, Gianni Cerqueti, Giancarlo Dotto, Fabio Caressa, Paola Rivetta... Infine Iuri Maria Prado, commentatore di Libero: pure lui pannelliano fino al 2006, quando i radicali (ri)svoltarono a sinistra.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, sabato 24 gennaio 2009
E pensare che si chiama come la Madonna. Mercedes Bresso, 64 anni, la governatrice del Piemonte che sul caso di Eluana Englaro ha dato dell’«ayatollah» all’arcivescovo di Torino, deve il proprio nome alla mamma, devota della chiesa Vergine della Mercede a Sanremo.
Diventata leader dei laici italiani, la Bresso è coerente con le proprie origini anticlericali. Infatti, prima che il Pci la eleggesse nel 1985 consigliere regionale piemontese, era dirigente radicale. Fece parte della segreteria nazionale nel ’75, anno caldo delle lotte sull’aborto, quando Emma Bonino finì in carcere.
Curiosamente, quello stesso posto di dirigente del partito di Marco Pannella lo occupò nell’81 (anno del doppio referendum sull’aborto) pure Eugenia Roccella, oggi sottosegretario al welfare e vicinissima al Vaticano, ma allora accesa femminista. Segretario radicale era in quegli anni un 27enne Francesco Rutelli, anch’egli irriconoscibile rispetto a oggi.
Ex pannelliani, insomma, occupano posti opposti in palcoscenico nella disputa sul diritto alla vita. Ma la diaspora radicale coinvolge molti altri nomi noti della politica italiana, alcuni dei quali sorprendenti.
Giorgio Stracquadanio, per esempio. Il 49enne ghost writer e spin doctor di Silvio nonché consigliere di Maria Stella Gelmini potrebbe passare da deputato a sottosegretario alla presidenza del Consiglio se il portavoce Paolo Bonaiuti fosse promosso viceministro. A Milano Stracquadanio era attivo radicale negli anni ’80, e portaborse dell’allora antiproibizionista Tiziana Maiolo assessore comunale nel ’90.
Anche l’ex presidente del Senato Marcello Pera può essere catalogato come ex radicale (dal ’92 al ’94), così come il ministro Elio Vito (portaborse del consigliere comunale Pannella a Napoli negli anni ’80, poi deputato) e il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello (vicesegretario nell’81 con Rutelli).
Fra i deputati c’è il rutelliano Roberto Giachetti, mentre nel centrodestra spiccano Benedetto Della Vedova e Giuseppe Calderisi (autore del progetto di nuova legge elettorale per le imminenti europee). Fuori dal Parlamento ma vicino al cuore di Silvio sta Daniele Capezzone, segretario radicale fino a due anni fa e ora portavoce di Forza Italia.
Stefano Rodotà lasciò i radicali per il Pci nel ’79 perché Pannella non gli garantì l'elezione. In quegli stessi anni scalpitava fra i radicali salernitani Alfonso Pecoraro Scanio.
Sono stati candidati della Rosa nel pugno Gianni Vattimo, Barbara Alberti, Fernanda Pivano, Luca Boneschi (oggi avvocato dei giornalisti milanesi), Giorgio Albertazzi, Salvatore Samperi, Tinto Brass, Riccardo Chiaberge (direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore), Massimo Alberizzi (inviato "africano" del Corsera) e il costituzionalista Michele Ainis.
Gli editorialisti Angelo Panebianco (Corsera), Massimo Teodori (Giornale) e Piero Ignazi (Sole ed Espresso) sono ex radicali. Perfino Eugenio Scalfari è stato vicesegretario nazionale del Pr prima di Pannella e consigliere comunale a Milano nel '60 (quando l’attore Arnoldo Foà fu eletto a Roma).
Ma lista dei giornalisti politici ex radicali è sterminata: Lino Jannuzzi (direttore di Radio radicale fino all’81), Paolo Liguori, il notista politico del Tg1 Bruno Luverà, Marco Taradash (inventore delle rassegne stampa radiofoniche), Daniele Bellasio e Christian Rocca del Foglio, Laura Cesaretti (Giornale e Velino), Vittorio Pezzuto (ex segretario nazionale dei club Pannella negli anni ’90, oggi portavoce di Renato Brunetta), Stefano Andreani (cronista parlamentare di Radio radicale, poi potente capo di gabinetto di Andreotti nell'era Caf, ora dirigente Invitalia – la ex agenzia Sviluppo), Roberto Iezzi (ufficio stampa Camera).
Carlo Romeo, oggi capo del "segretariato sociale" Rai, è stato fino al ’95 direttore del mitico tg radicale di Teleroma 56, da cui passarono Mauro Mazza, Michele Plastino, Gianni Cerqueti, Giancarlo Dotto, Fabio Caressa, Paola Rivetta... Infine Iuri Maria Prado, commentatore di Libero: pure lui pannelliano fino al 2006, quando i radicali (ri)svoltarono a sinistra.
Mauro Suttora
Friday, January 23, 2009
Time e Newsweek
I neswsmagazine Usa crollano nelle vendite: troppo radical chic
Libero, venerdì 23 gennaio 2009
di Mauro Suttora
Time e Newsweek sono crollati. I due settimanali statunitensi vendono in edicola 96mila copie il primo e 83mila il secondo, contro le 163mila e 147mila del 2004. Meno 40% in quattro anni. Come se Panorama ed Espresso annaspassero a 16-20 mila copie, in proporzione agli abitanti (gli americani sono cinque volte gli italiani).
Anche per gli abbonati è un disastro. Solo due anni fa Time ne aveva quattro milioni, Newsweek 3,1. Ora il primo è sceso a 3,2 e l'altro a 2,6. Ma entrambi potrebbero tagliare drammaticamente la «circolazione garantita» ai pubblicitari, fino a scendere a un milione di copie.
Agli abbonati, infatti, i newsmagazines vengono regalati. Un anno per venti euro: 27 cent a copia. E’ lo stesso prezzo proposto agli abbonati italiani: tre anni per 59 euro. Non coprono neppure i costi di carta e inchiostro. Questo perché è dalla pubblicità che vengono i soldi veri. Ma se la «bolla» pubblicitaria scoppia, il bluff salta.
Il terzo settimanale politico americano, U.S. News & World Report, è stato chiuso tre settimane fa. L’unico che va bene è l’inglese Economist, la cui edizione Usa aumenta del 20% annuo: 500mila copie nel 2006, 600mila nel 2007, 700mila l’anno scorso.
«Anche noi probabilmente diventeremo settimanali d’opinione come l’Economist, con un lettorato più ristretto ma d’élite», mormorano all’unisono Rick Stengel, 53 anni, direttore di Time, e Jon Meacham, 40, di Newsweek. Guidano i loro giornali entrambi da appena due anni, chiamati a bloccare l’emorragia. I giornalisti interni sono 200 a testata: la metà di dieci anni fa
.
Time ha cambiato il giorno d’uscita, dal lunedì al venerdì. Newsweek ha dedicato la metà delle sue copertine 2008 alla politica (due a Michelle Obama). Entrambi pubblicano sempre più opinioni e sempre meno notizie. Bye bye “news”magazines, quindi: ai loro sofisticati lettori ormai le news arrivano da internet, tv e quotidiani.
Ma è proprio la linea politica il principale problema dei due settimanali. Entrambi, infatti, stanno s(t)olidamente a sinistra. E non potrebbe essere altrimenti, per due giornali ideati nel centro di Manhattan, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro: l’unica differenza è che il grattacielo di Newsweek ha la vista su Central Park, mentre la redazione di Time dà sul fiume Hudson. Antropologicamente radical-chic.
Troppo liberal, come la città di New York dove l’80% vota democratico. Time ha cercato di togliersi di dosso la patina fighetta dando spazio al commentatore neocon Bill Kristol. Ma è durato poco. Newsweek è riuscita a pubblicare una copertina pro matrimonio gay dopo che perfino la libertaria California l’ha bocciato.
Restano alcune isole d’eccellenza come le column di Fareed Zakaria (Newsweek), il miglior commentatore (kissingeriano) di politica estera oggi negli Usa: lavora anche per la concorrenza con il suo programma Gps alla tv Cnn del gruppo Time Warner (sul canale 516 di Sky Italia, ogni domenica alle 14 e 21). Ma da destra il liberista Economist morde la prosopopea dei due ex colossi, troppo uguali fra loro.
Mauro Suttora
Libero, venerdì 23 gennaio 2009
di Mauro Suttora
Time e Newsweek sono crollati. I due settimanali statunitensi vendono in edicola 96mila copie il primo e 83mila il secondo, contro le 163mila e 147mila del 2004. Meno 40% in quattro anni. Come se Panorama ed Espresso annaspassero a 16-20 mila copie, in proporzione agli abitanti (gli americani sono cinque volte gli italiani).
Anche per gli abbonati è un disastro. Solo due anni fa Time ne aveva quattro milioni, Newsweek 3,1. Ora il primo è sceso a 3,2 e l'altro a 2,6. Ma entrambi potrebbero tagliare drammaticamente la «circolazione garantita» ai pubblicitari, fino a scendere a un milione di copie.
Agli abbonati, infatti, i newsmagazines vengono regalati. Un anno per venti euro: 27 cent a copia. E’ lo stesso prezzo proposto agli abbonati italiani: tre anni per 59 euro. Non coprono neppure i costi di carta e inchiostro. Questo perché è dalla pubblicità che vengono i soldi veri. Ma se la «bolla» pubblicitaria scoppia, il bluff salta.
Il terzo settimanale politico americano, U.S. News & World Report, è stato chiuso tre settimane fa. L’unico che va bene è l’inglese Economist, la cui edizione Usa aumenta del 20% annuo: 500mila copie nel 2006, 600mila nel 2007, 700mila l’anno scorso.
«Anche noi probabilmente diventeremo settimanali d’opinione come l’Economist, con un lettorato più ristretto ma d’élite», mormorano all’unisono Rick Stengel, 53 anni, direttore di Time, e Jon Meacham, 40, di Newsweek. Guidano i loro giornali entrambi da appena due anni, chiamati a bloccare l’emorragia. I giornalisti interni sono 200 a testata: la metà di dieci anni fa
.
Time ha cambiato il giorno d’uscita, dal lunedì al venerdì. Newsweek ha dedicato la metà delle sue copertine 2008 alla politica (due a Michelle Obama). Entrambi pubblicano sempre più opinioni e sempre meno notizie. Bye bye “news”magazines, quindi: ai loro sofisticati lettori ormai le news arrivano da internet, tv e quotidiani.
Ma è proprio la linea politica il principale problema dei due settimanali. Entrambi, infatti, stanno s(t)olidamente a sinistra. E non potrebbe essere altrimenti, per due giornali ideati nel centro di Manhattan, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro: l’unica differenza è che il grattacielo di Newsweek ha la vista su Central Park, mentre la redazione di Time dà sul fiume Hudson. Antropologicamente radical-chic.
Troppo liberal, come la città di New York dove l’80% vota democratico. Time ha cercato di togliersi di dosso la patina fighetta dando spazio al commentatore neocon Bill Kristol. Ma è durato poco. Newsweek è riuscita a pubblicare una copertina pro matrimonio gay dopo che perfino la libertaria California l’ha bocciato.
Restano alcune isole d’eccellenza come le column di Fareed Zakaria (Newsweek), il miglior commentatore (kissingeriano) di politica estera oggi negli Usa: lavora anche per la concorrenza con il suo programma Gps alla tv Cnn del gruppo Time Warner (sul canale 516 di Sky Italia, ogni domenica alle 14 e 21). Ma da destra il liberista Economist morde la prosopopea dei due ex colossi, troppo uguali fra loro.
Mauro Suttora
Tuesday, January 20, 2009
Obama: gli speechwriter ricordano
GRANDE ATTESA PER IL DISCORSO DI BARACK
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia
Libero, 20 gennaio 2008
di Mauro Suttora
Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.
Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.
«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».
L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.
«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.
Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».
Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».
Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».
«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»
«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»
Roosevelt e Lincoln i più bravi della storia
Libero, 20 gennaio 2008
di Mauro Suttora
Peccato che qualche logorroico politico italiano non abbia fatto la stessa fine del presidente Usa William Harrison. Eletto nel 1841, pronunciò un discorso inaugurale molto lungo: due ore. E poiché gli inverni a Washington sono assai rigidi, trenta giorni dopo morì di polmonite fulminante.
Sono previsti meno cinque gradi centigradi oggi nella capitale americana, quindi i due milioni di convenuti sperano che Obama sia sintetico. La prima versione del suo discorso era già pronta una settimana fa, scritta dal geniale speechwriter Jon Favreau. L’inventore dello slogan «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts laureato dai gesuiti. Si fece conoscere da Obama nel 2004, segnalandogli un errore sul «gobbo» del discorso per la Convention democratica. Ora lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento.
«Lessi i discorsi inaugurali di tutti i presidenti Usa nel 1961, mentre preparavo quello di John Kennedy», ricorda Ted Sorensen, oggi 80enne, «e onestamente, a parte Lincoln e Roosevelt, gli altri erano modesti». Sorensen invece è riuscito a passare alla storia per la famosa frase kennediana: «Non domandarti quel che può fare il tuo Paese per te, ma ciò che tu puoi fare per il tuo Paese».
L’altro gran comunicatore del ’900 è stato Ronald Reagan. La sua ghostwriter, Peggy Noonan, 58 anni, è una dei non pochi repubblicani oggi infatuati di Obama. Ma il discorso del debutto reaganiano nell’81 contiene il famoso slogan liberista: «Il governo non è la soluzione del problema, è “il” problema».
Nell’86, dopo l’esplosione dello shuttle Challenger, Reagan la chiamò e lei gli scrisse un discorso in un’ora, con frasi memorabili tratte da una poesia che aveva imparato a sette anni. E due anni più tardi coniò per il presidente Bush senior la promessa: «Guardate le mie labbra: niente nuove tasse». Gli fece così vincere l’elezione, ma perdere quella del ’92 quando Bill Clinton gli rinfacciò l’impegno mancato.
«La sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa»: così Franklin Roosevelt nel ’33 cercò di galvanizzare gli statunitensi, colpiti allora come oggi dalla crisi economica.
Ma anche il povero Bush junior, nonostante oggi nessuno lo rimpianga, può andar fiero di una frase scintillante del 2004: «L’unica forza che può spezzare il regno dell’odio e del risentimento, denudando le pretese dei tiranni e ricompensando le speranze degli onesti, è la forza della libertà umana».
Hendrik Hertzberg scriveva i discorsi di Jimmy Carter, che è passato alla storia per la sua tendenza all’autoflagellazione: tutti i mali del mondo erano colpa degli Stati Uniti. «Aveva uno spirito religioso che privilegiava la predica», ricorda Hertzberg, «le sue diagnosi erano anche giuste, ma un politico deve annunciare soluzioni».
Ci riuscirà oggi Obama, in un’America dove i disoccupati stanno aumentando di mezzo milione al mese? «Il discorso politico più ottimista del secolo scorso in fondo è stato quello in cui Churchill promise agli inglesi sangue, sudore e lacrime», dice John O’Sullivan, scrittore per Margaret Thatcher, «perché subito dopo aggiunse: “Andremo avanti fino alla vittoria finale”. La seconda frase fu credibile solo perché veniva dopo la prima».
«Il primo discorso da presidente di Nixon nel ’69 cadde in un momento in cui gli Stati Uniti erano divisi come oggi a causa della guerra in Vietnam», ricorda l’autore, Pat Buchanan. «Nel ’73 invece fu molto più facile: c’erano l’apertura alla Cina, la distensione con l’Urss e la fine della guerra. Nixon chiese una traccia a Kissinger, ma la rimaneggiò a tal punto che alla fine non ne rimase neppure una parola...»
«Il discorso d’inaugurazione è la prima e ultima occasione che un presidente degli Stati Uniti ha per dire che le cose vanno male», avverte Peggy Noonan. «Lo può fare soltanto all’inizio del suo primo mandato. Passati cento giorni, è lecito rispondergli: “Ehi, brutto scemo, ormai comandi tu. Quindi è colpa tua!...»
Thursday, January 08, 2009
Renzo Lusetti, il "vicepiacione"
Bello come il suo capo Francesco Rutelli, il deputato del pd indagato per i favori al faccendiere napoletano Romeo piace perfino a Berlusconi, che lo voleva arruolare. E si consola con la neomoglie in questo suo superattico romano
Oggi, 31 dicembre 2008
Perfino Silvio Berlusconi si era innamorato della sua bella faccia telegenica con sorriso permanente, e l’aveva invitato due volte ad Arcore nove anni fa per offrirgli un posto da dirigente di Forza Italia. Renzo Lusetti aveva appena stracciato la tessera dei popolari contro la segreteria Castagnetti, e la tentazione di passare con l’avversario fu forte. Ma alla fine rimase nel partito che lo aveva incoronato principe già ventenne, quando Ciriaco De Mita lo fece capo dei giovani democristiani.
A Roma era soprannominato «vicepiacione» da quando il «piacione» in carica, Francesco Rutelli, lo tirò fuori dalle secche di Tangentopoli imbarcandolo come assessore al comune di Roma di cui era sindaco. Fu in quel periodo, metà anni Novanta, che Lusetti conobbe il faccendiere napoletano Alfredo Romeo che ora lo ha inguaiato assieme al deputato Pdl Italo Bocchino: il faccendiere napoletano gestiva le case comunali.
Lo scorso maggio Lusetti si è sposato in seconde nozze con Vira Carbone, 39enne conduttrice Rai. Cerimonia civile nella chiesa sconsacrata di Caracalla finita su Cafonal del sito Dagospia, e ricevimento all’Hilton. Testimoni: Maria Grazia Cucinotta e Dario Franceschini. Molti gli invidiano la casa a due piani sulle pendici di Monte Mario, attico e superattico con entrata indipendente, vista sulla città, terrazze, boiseries, un lussuoso scalone di legno circolare che porta alla zona letto. «Vale tre miliardi», sussurrano gli ospiti. «Ma è di mio suocero, è intestata a lui e a mia moglie», precisa Lusetti a Oggi.
La signora Carbone Lusetti appare su Raiuno ogni weekend di primo mattino, nel programma Sabato, domenica &. Ed era in prima fila alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Gran cerimoniere: Berlusconi. Il feeling trasversale continua.
Oggi, 31 dicembre 2008
Perfino Silvio Berlusconi si era innamorato della sua bella faccia telegenica con sorriso permanente, e l’aveva invitato due volte ad Arcore nove anni fa per offrirgli un posto da dirigente di Forza Italia. Renzo Lusetti aveva appena stracciato la tessera dei popolari contro la segreteria Castagnetti, e la tentazione di passare con l’avversario fu forte. Ma alla fine rimase nel partito che lo aveva incoronato principe già ventenne, quando Ciriaco De Mita lo fece capo dei giovani democristiani.
A Roma era soprannominato «vicepiacione» da quando il «piacione» in carica, Francesco Rutelli, lo tirò fuori dalle secche di Tangentopoli imbarcandolo come assessore al comune di Roma di cui era sindaco. Fu in quel periodo, metà anni Novanta, che Lusetti conobbe il faccendiere napoletano Alfredo Romeo che ora lo ha inguaiato assieme al deputato Pdl Italo Bocchino: il faccendiere napoletano gestiva le case comunali.
Lo scorso maggio Lusetti si è sposato in seconde nozze con Vira Carbone, 39enne conduttrice Rai. Cerimonia civile nella chiesa sconsacrata di Caracalla finita su Cafonal del sito Dagospia, e ricevimento all’Hilton. Testimoni: Maria Grazia Cucinotta e Dario Franceschini. Molti gli invidiano la casa a due piani sulle pendici di Monte Mario, attico e superattico con entrata indipendente, vista sulla città, terrazze, boiseries, un lussuoso scalone di legno circolare che porta alla zona letto. «Vale tre miliardi», sussurrano gli ospiti. «Ma è di mio suocero, è intestata a lui e a mia moglie», precisa Lusetti a Oggi.
La signora Carbone Lusetti appare su Raiuno ogni weekend di primo mattino, nel programma Sabato, domenica &. Ed era in prima fila alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Gran cerimoniere: Berlusconi. Il feeling trasversale continua.
Tuesday, December 30, 2008
La Mongolia diventa Diversamentabilstan
E' ufficiale: dal primo gennaio 2009 la Mongolia cambia nome
Wednesday, December 24, 2008
La Casta costa
Bella riforma! Adesso i partiti sono 66. E noi li paghiamo tutti...
Il finanziamento statale, abolito col 90% di no, è resuscitato. Fa sopravvivere decine di formazioni fantasma. E giornali, di destra e sinistra, che ci costano mille euro a copia
di Mauro Suttora
Oggi, 24 dicembre 2008
Il più simpatico è l’insegnante di ginnastica torinese Maurizio Lupi (solo omonimo del vicepresidente della Camera). Con appena 124 preferenze è riuscito a farsi eleggere consigliere regionale nel 2005 in Piemonte. Un burlone: il suo partito si chiama Verdi-verdi per distinguersi da quelli veri, giudicati troppo a sinistra («Verdi rossi»). La sua «Ambienta-lista per Ghigo» (il candidato del centrodestra) prese appena l’1,2% dei voti.
Eppure è stato eletto, e oltre allo stipendio mensile di 10.500 euro ora incassa 43mila euro l’anno come rimborso delle spese elettorali per il partito Verdi-verdi. Iscritti: nessuno. Insomma, l’elezione per il fortunato Lupi significa un affare da 845mila euro in cinque anni: ognuno dei suoi 124 elettori gli ha regalato quasi settemila euro. Record mondiale probabilmente, roba da Guinness.
Vita da Casta. Tutto regolare, per carità: dal 2005, anche i partiti che si presentano in una sola regione hanno diritto al finanziamento pubblico. Che era stato abolito a furor di popolo dal referendum radicale del ‘93 (90% di no), ma è stato resuscitato e ribattezzato pudicamente «rimborso elettorale». Quindi il buon Lupi non ruba niente.
Ricordate il libro La Casta, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella? E’ stato pubblicato solo un anno e mezzo fa, ma sembra passato un secolo. Suscitò fiumi d’indignazione, ha venduto un milione e 260mila copie. Ora la Rizzoli lo ripropone in edizione economica. Gli autori hanno aggiunto un capitolo, per capire se nel frattempo qualcosa è cambiato, se qualche spreco dei politici è diminuito. Niente: «Che fine hanno fatto le promesse lanciate per placare il grande fuoco purificatore? Chissenefrega, ormai le elezioni sono passate», accusano Rizzo e Stella.
I senatori ds Cesare Salvi e Massimo Villone tre anni fa denunciarono nel libro Il costo della democrazia i quattro miliardi annui spesi per mantenere mezzo milione di persone, fra politici di mestiere e consulenti. Non sono stati rieletti: la Casta espelle chi propone autoriforme. Sordina anche sul rumoroso fenomeno di Beppe Grillo, dopo la bocciatura dei suoi referendum.
Il problema però rimane. Soprattutto in questi tempi di crisi economica. Anche i politici stringono la cinghia? Macché. Nella pagina accanto pubblichiamo l’incredibile l’elenco dei 66 partiti che si sono spartiti il finanziamento pubblico nel 2007, con accanto la cifra incassata. La cifra vera: un quarto di miliardo, compresi i soldi per gli «organi di partito». Giornali, radio, tv: 57 milioni all’anno per testate assistite. Come il Secolo d’Italia di Alleanza Nazionale: vende solo tremila copie in edicola ma incassa dallo Stato tre milioni di euro. Il conto è presto fatto: ogni acquirente del Secolo costa mille euro ai contribuenti.
Ma è così per tutti, anche a sinistra: L’Unità incassa 6,5 milioni, e i Ds riescono a rimpinguare di parecchio i «rimborsi» elettorali (34 milioni) con i media: oltre al quotidiano prendono 1,9 milioni per radio Città Futura di Roma e 300mila euro per radio Galileo di Terni. Da quando poi la legge Gasparri concede soldi per tv satellitari di partito è iniziata la corsa alla nuova mammella di Stato: 4,2 milioni l’anno per l’ex Nessuno Tv (canale Sky 890), diventata dal 4 novembre la dalemiana Red. La corrente concorrente dei veltroniani non ha voluto essere da meno, e così ecco Youdem, su Sky 813. Totale per i Ds: 47 milioni.
Ds e Margherita si sono fusi nel Partito democratico, ma così non hanno fatto i loro giornali. Quindi il quotidiano Europa continua a percepire 3,6 milioni annui. Vende 1300 copie in edicola (2.769 euro a copia, quindi).
Ma anche i singoli deputati Pd sono preziosi, se hanno un partito personale. Così la tv Libera (Sky 924) si fa sponsorizzare dal partito Democrazia Europea di Sergio D’Antoni per ricevere 2,4 milioni. La sede del partito personale dell’ex segretario Cisl è in corso Vittorio Emanuele 326 a Roma. D’Antoni aveva fatto confluire Democrazia Europea nell’Udc nel 2002, ma poi è passato al centrosinistra. Il suo partito ha ricevuto 41mila euro nel 2007, redige regolare bilancio, paga 17mila euro per un dipendente. Ma cosa fa? «Non partecipiamo direttamente alle elezioni, però abbiamo organizzato iniziative e incontri per promuovere le politiche sociali nel Sud», assicura D’Antoni, che è appunto il responsabile delle politiche del Mezzogiorno nel Pd.
Il vero artista del contributo pubblico, però, è Gianfranco Rotondi. L’amabile ministro avellinese per l’Attuazione del programma (carica di per sè surreale), segretario di quel che resta della Democrazia cristiana, ha incassato 51mila euro di rimborsi e 10mila direttamente da Forza Italia in cambio dell’appoggio a Silvio Berlusconi. Ma sono briciole. La vera polpa sta negli «organi» di partito, ben due quotidiani: La Discussione, il glorioso giornale fondato da Alcide De Gasperi che piglia 2,3 milioni di euro, e Balena Bianca (300mila).
Forza Italia incassa 46 milioni. Ma nel 2007 ha distribuito soldi a vari partitini confluiti nel Popolo delle Libertà, oltre alla Dc di Rotondi: 430mila euro ad Azione Sociale di Alessandra Mussolini, un milione a Italiani nel Mondo dell’ex dipietrista napoletano Sergio De Gregorio, 100mila ai Riformatori Liberali (ex radicali) di Benedetto Della Vedova, e perfino 15mila a Rinascita Socialdemocratica di Luigi Preti, 94 anni.
E l’estrema sinistra? Desaparecida, dopo il disastro delle ultime elezioni? Neanche per sogno. Gli ex della Sinistra Arcobaleno continuano a ricevere una valanga di soldi. Infatti alle politiche 2008 è bastato arrivare all’uno per cento (anche senza eletti) per incassare contributi fino al 2013. In più, una leggina approvata alla chetichella ha esteso fino al 2011 i rimborsi della legislatura precedente, quella del 2006, anche se interrotta anticipatamente.
Altro che risparmi, quindi: la Casta raddoppia, cento milioni in più all’anno. «Un mese fa durante la Finanziaria abbiamo cercato di eliminare questo ulteriore regalo», dice a Oggi Silvana Mura, tesoriera di Italia dei Valori, «ma gli unici a votare con noi sono stati i radicali. I politici non possono chiedere sacrifici ai cittadini se si comportano così».
I Verdi nel 2007 hanno sfiorato i dieci milioni con due radio per 2,9 milioni, e 2,7 milioni per il giornale Notizie Verdi. Rifondazione comunista oltrepassa i 16 milioni, di cui 3,9 grazie al quotidiano Liberazione. Il quale però ne perde due milioni perché vende solo 6.600 copie. I Comunisti italiani di Oliviero Diliberto hanno ereditato il settimanale Rinascita: anch’esso glorioso, fondato da Palmiro Togliatti, riceve 900mila euro ma vende appena 2.400 copie.
All’estremo opposto, il Msi-Fiamma Tricolore dell’eurodeputato Luca Romagnoli si deve «accontentare» di 364mila euro del finanziamento per le europee, perché dopo la rottura con Pino Rauti non è riuscito a conservare il quotidiano Linea (1,5 milioni): «Ci siamo trasformati in cooperativa», spiegano i giornalisti. L’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro incassa due milioni per il suo giornale. Quanto alla Lega Nord, riceve quattro milioni per il quotidiano La Padania (8mila copie) e mezzo milione per Radio Padania.
Il Nuovo Psi prende 472mila euro per il quotidiano Il socialista Lab, più 45mila euro arrivati da Forza Italia. I socialisti di sinistra dello Sdi, invece, hanno dovuto rinunciare allo storico quotidiano Avanti!, che riceve 2,5 milioni dallo stato ma è diventato pure quello coop spostandosi più a destra. Si consolano con 2,7 milioni annui di rimborsi.
Fra le vestigia del passato c’è anche il Pli, partito liberale mantenuto in vita dall’ex eurodeputato Fi Stefano De Luca con 17.500 euro frutto delle regionali in Veneto e Piemonte. E il Pri di Giorgio La Malfa figlio di Ugo, eletto nel Pdl, angustiato sia dai creditori, sia dalla concorrenza dei repubblicani di sinistra di Luciana Sbarbati, senatrice pd. Sopravvive grazie a 90mila euro ricevuti da Forza Italia, 40mila di rimborsi dalle regionali pugliesi, ma soprattutto con i 624mila euro del quotidiano Voce Repubblicana.
L’Udeur di Clemente Mastella ha incassato 1,3 per il giornale Campanile Nuovo. L’Udc di Pierferdinando Casini può contare sul milione del quotidiano Liberal: era nato un anno fa come organo di Forza Italia, ma nel frattempo il direttore Ferdinando Adornato ha compiuto un’altra giravolta e ha lasciato Berlusconi.
I radicali della Lista Pannella, infine: ricevono dallo Stato 1,6 milioni l’anno. Ma la loro Radio radicale, fra convenzione con il Parlamento e contributi per l’editoria, piglia 13 milioni annui. «Siamo un servizio pubblico», precisano, «trasmettiamo i congressi di tutti i partiti e le sedute delle Camere». È vero. Però ormai Senato e Camera hanno due canali Sky tutti loro, più il Gr Parlamento Rai. Spesa tripla per lo stesso servizio.
Mauro Suttora
FINANZIAMENTO AI 66 PARTITI NEL 2007
(fra parentesi quelli a giornali, radio, tv di partito)
1) Alleanza Nazionale 27,4 milioni (3)
2) Altern. Sociale A. Mussolini 628mila
3) Democratici di Sinistra 47,4 milioni (12,9)
4) Dc (Rotondi) 2,7 milioni (2,6)
5) Dem. Europea (D'Antoni) 2,4 milioni (2,3)
6)Forza Italia 46 milioni
7)Azione Sociale (Mussolini) 430mila
8)Italiani Mondo (De Gregorio) 1 milione
9)Riformatori Lib. (Della Vedova) 100mila
10)Rinascita Socialdem. (Preti) 15mila
11)Insieme Unione (Verdi+Pdci) 1,6 milioni
12)Partito consumatori italiani 165mila
13)Italia dei Valori (Di Pietro) 5,9 milioni (2)
14)L'Ulivo 16,1 milioni
15)L'Unione 741mila
16)La Casa delle Libertà 300mila
17)Lega Nord 14,1 (4,5)
18)Lista Pannella 14,6 milioni (13)
19)Margherita 28,7 milioni (3,6)
20)Repubblicani (Sbarbati) 242mila
21)Mov. Sociale Fiamma Tricolore 364mila
22)Nuovo Psi 2 milioni (472mila)
23)Partito Comunisti Italiani 5,2 milioni (0,9)
24)Pli (De Luca) 17.500
25)Partito Pensionati (Fatuzzo) 897mila
26)Pri (La Malfa) 754mila (624mila)
27)Rifondaz. Comunista 16,5 milioni (3,9)
28)Rosa nel Pugno 1,3 milioni
29)Socialisti Democratici-Sdi 2,7milioni
30)Udc 11,8 milioni (1)
31)Udeur 4 milioni (1,3)
32)Verdi 9,8 milioni (5,6)
LISTE REGIONALI
33)Alleanza Autonom. (V.d'Aosta) 180mila
34)Associaz. Marrazzo (Lazio) 321mila
35)Cittadini per Illy (Friuli V.G.) 85mila
36)Fortza Paris (Sardegna) 68mila
37)Gente della Liguria 64mila
38)Insieme per Bresso (Piemonte) 109mila
39)L'Aquilone (Cuffaro, Sicilia) 278mila
40)Leali al Trentino 11mila
41)Lista Civica per il Trentino 206mila
42)Lista Storace (Lazio) 338mila
43)Liste Civiche Nord-Est (Veneto) 5.600
44)Movimento Lid (Belluno) 5.600 euro
45)Mov. per l'Autonomia (Sicilia) 1 milione
46)Nuova Sicilia 86mila
47)Pace Diritti Insieme Sinistra (Bz) 15mila
48)Partito Auton. Trentino Tirolese 78mila
49)Per il Veneto con Carraro 185mila
50)Per la Liguria Sandro Biasotti 128mila
51)Primavera Pugliese 91mila
52)Puglia prima di tutto 324mila
53)Progetto Nordest (Veneto) 86mila
54)Repubblicani-Dem. (Campania) 74mila
55)Riformatori Sardi Liberaldem. 88mila
56)Sinistra Dem. Trentino per Ulivo 61mila
57)Sinistra Federalista Sarda 196mila
58)Stella Alpina (Val d'Aosta) 87mila
59)Sudtiroler Volkspartei 1,2 milioni
60)Union fur Sudtirol 26mila
61)Union Valdotaine 120mila
62)Unione Autonom. Alto Adige 14mila
63)Uniti per la Sicilia 255mila
64)Verdi-Verdi (Piemonte) 48mila
ESTERO
65)Associaz. Italiane Sudamerica 128mila
66)Italia nel Mondo con Tremaglia 77mila
Il finanziamento statale, abolito col 90% di no, è resuscitato. Fa sopravvivere decine di formazioni fantasma. E giornali, di destra e sinistra, che ci costano mille euro a copia
di Mauro Suttora
Oggi, 24 dicembre 2008
Il più simpatico è l’insegnante di ginnastica torinese Maurizio Lupi (solo omonimo del vicepresidente della Camera). Con appena 124 preferenze è riuscito a farsi eleggere consigliere regionale nel 2005 in Piemonte. Un burlone: il suo partito si chiama Verdi-verdi per distinguersi da quelli veri, giudicati troppo a sinistra («Verdi rossi»). La sua «Ambienta-lista per Ghigo» (il candidato del centrodestra) prese appena l’1,2% dei voti.
Eppure è stato eletto, e oltre allo stipendio mensile di 10.500 euro ora incassa 43mila euro l’anno come rimborso delle spese elettorali per il partito Verdi-verdi. Iscritti: nessuno. Insomma, l’elezione per il fortunato Lupi significa un affare da 845mila euro in cinque anni: ognuno dei suoi 124 elettori gli ha regalato quasi settemila euro. Record mondiale probabilmente, roba da Guinness.
Vita da Casta. Tutto regolare, per carità: dal 2005, anche i partiti che si presentano in una sola regione hanno diritto al finanziamento pubblico. Che era stato abolito a furor di popolo dal referendum radicale del ‘93 (90% di no), ma è stato resuscitato e ribattezzato pudicamente «rimborso elettorale». Quindi il buon Lupi non ruba niente.
Ricordate il libro La Casta, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella? E’ stato pubblicato solo un anno e mezzo fa, ma sembra passato un secolo. Suscitò fiumi d’indignazione, ha venduto un milione e 260mila copie. Ora la Rizzoli lo ripropone in edizione economica. Gli autori hanno aggiunto un capitolo, per capire se nel frattempo qualcosa è cambiato, se qualche spreco dei politici è diminuito. Niente: «Che fine hanno fatto le promesse lanciate per placare il grande fuoco purificatore? Chissenefrega, ormai le elezioni sono passate», accusano Rizzo e Stella.
I senatori ds Cesare Salvi e Massimo Villone tre anni fa denunciarono nel libro Il costo della democrazia i quattro miliardi annui spesi per mantenere mezzo milione di persone, fra politici di mestiere e consulenti. Non sono stati rieletti: la Casta espelle chi propone autoriforme. Sordina anche sul rumoroso fenomeno di Beppe Grillo, dopo la bocciatura dei suoi referendum.
Il problema però rimane. Soprattutto in questi tempi di crisi economica. Anche i politici stringono la cinghia? Macché. Nella pagina accanto pubblichiamo l’incredibile l’elenco dei 66 partiti che si sono spartiti il finanziamento pubblico nel 2007, con accanto la cifra incassata. La cifra vera: un quarto di miliardo, compresi i soldi per gli «organi di partito». Giornali, radio, tv: 57 milioni all’anno per testate assistite. Come il Secolo d’Italia di Alleanza Nazionale: vende solo tremila copie in edicola ma incassa dallo Stato tre milioni di euro. Il conto è presto fatto: ogni acquirente del Secolo costa mille euro ai contribuenti.
Ma è così per tutti, anche a sinistra: L’Unità incassa 6,5 milioni, e i Ds riescono a rimpinguare di parecchio i «rimborsi» elettorali (34 milioni) con i media: oltre al quotidiano prendono 1,9 milioni per radio Città Futura di Roma e 300mila euro per radio Galileo di Terni. Da quando poi la legge Gasparri concede soldi per tv satellitari di partito è iniziata la corsa alla nuova mammella di Stato: 4,2 milioni l’anno per l’ex Nessuno Tv (canale Sky 890), diventata dal 4 novembre la dalemiana Red. La corrente concorrente dei veltroniani non ha voluto essere da meno, e così ecco Youdem, su Sky 813. Totale per i Ds: 47 milioni.
Ds e Margherita si sono fusi nel Partito democratico, ma così non hanno fatto i loro giornali. Quindi il quotidiano Europa continua a percepire 3,6 milioni annui. Vende 1300 copie in edicola (2.769 euro a copia, quindi).
Ma anche i singoli deputati Pd sono preziosi, se hanno un partito personale. Così la tv Libera (Sky 924) si fa sponsorizzare dal partito Democrazia Europea di Sergio D’Antoni per ricevere 2,4 milioni. La sede del partito personale dell’ex segretario Cisl è in corso Vittorio Emanuele 326 a Roma. D’Antoni aveva fatto confluire Democrazia Europea nell’Udc nel 2002, ma poi è passato al centrosinistra. Il suo partito ha ricevuto 41mila euro nel 2007, redige regolare bilancio, paga 17mila euro per un dipendente. Ma cosa fa? «Non partecipiamo direttamente alle elezioni, però abbiamo organizzato iniziative e incontri per promuovere le politiche sociali nel Sud», assicura D’Antoni, che è appunto il responsabile delle politiche del Mezzogiorno nel Pd.
Il vero artista del contributo pubblico, però, è Gianfranco Rotondi. L’amabile ministro avellinese per l’Attuazione del programma (carica di per sè surreale), segretario di quel che resta della Democrazia cristiana, ha incassato 51mila euro di rimborsi e 10mila direttamente da Forza Italia in cambio dell’appoggio a Silvio Berlusconi. Ma sono briciole. La vera polpa sta negli «organi» di partito, ben due quotidiani: La Discussione, il glorioso giornale fondato da Alcide De Gasperi che piglia 2,3 milioni di euro, e Balena Bianca (300mila).
Forza Italia incassa 46 milioni. Ma nel 2007 ha distribuito soldi a vari partitini confluiti nel Popolo delle Libertà, oltre alla Dc di Rotondi: 430mila euro ad Azione Sociale di Alessandra Mussolini, un milione a Italiani nel Mondo dell’ex dipietrista napoletano Sergio De Gregorio, 100mila ai Riformatori Liberali (ex radicali) di Benedetto Della Vedova, e perfino 15mila a Rinascita Socialdemocratica di Luigi Preti, 94 anni.
E l’estrema sinistra? Desaparecida, dopo il disastro delle ultime elezioni? Neanche per sogno. Gli ex della Sinistra Arcobaleno continuano a ricevere una valanga di soldi. Infatti alle politiche 2008 è bastato arrivare all’uno per cento (anche senza eletti) per incassare contributi fino al 2013. In più, una leggina approvata alla chetichella ha esteso fino al 2011 i rimborsi della legislatura precedente, quella del 2006, anche se interrotta anticipatamente.
Altro che risparmi, quindi: la Casta raddoppia, cento milioni in più all’anno. «Un mese fa durante la Finanziaria abbiamo cercato di eliminare questo ulteriore regalo», dice a Oggi Silvana Mura, tesoriera di Italia dei Valori, «ma gli unici a votare con noi sono stati i radicali. I politici non possono chiedere sacrifici ai cittadini se si comportano così».
I Verdi nel 2007 hanno sfiorato i dieci milioni con due radio per 2,9 milioni, e 2,7 milioni per il giornale Notizie Verdi. Rifondazione comunista oltrepassa i 16 milioni, di cui 3,9 grazie al quotidiano Liberazione. Il quale però ne perde due milioni perché vende solo 6.600 copie. I Comunisti italiani di Oliviero Diliberto hanno ereditato il settimanale Rinascita: anch’esso glorioso, fondato da Palmiro Togliatti, riceve 900mila euro ma vende appena 2.400 copie.
All’estremo opposto, il Msi-Fiamma Tricolore dell’eurodeputato Luca Romagnoli si deve «accontentare» di 364mila euro del finanziamento per le europee, perché dopo la rottura con Pino Rauti non è riuscito a conservare il quotidiano Linea (1,5 milioni): «Ci siamo trasformati in cooperativa», spiegano i giornalisti. L’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro incassa due milioni per il suo giornale. Quanto alla Lega Nord, riceve quattro milioni per il quotidiano La Padania (8mila copie) e mezzo milione per Radio Padania.
Il Nuovo Psi prende 472mila euro per il quotidiano Il socialista Lab, più 45mila euro arrivati da Forza Italia. I socialisti di sinistra dello Sdi, invece, hanno dovuto rinunciare allo storico quotidiano Avanti!, che riceve 2,5 milioni dallo stato ma è diventato pure quello coop spostandosi più a destra. Si consolano con 2,7 milioni annui di rimborsi.
Fra le vestigia del passato c’è anche il Pli, partito liberale mantenuto in vita dall’ex eurodeputato Fi Stefano De Luca con 17.500 euro frutto delle regionali in Veneto e Piemonte. E il Pri di Giorgio La Malfa figlio di Ugo, eletto nel Pdl, angustiato sia dai creditori, sia dalla concorrenza dei repubblicani di sinistra di Luciana Sbarbati, senatrice pd. Sopravvive grazie a 90mila euro ricevuti da Forza Italia, 40mila di rimborsi dalle regionali pugliesi, ma soprattutto con i 624mila euro del quotidiano Voce Repubblicana.
L’Udeur di Clemente Mastella ha incassato 1,3 per il giornale Campanile Nuovo. L’Udc di Pierferdinando Casini può contare sul milione del quotidiano Liberal: era nato un anno fa come organo di Forza Italia, ma nel frattempo il direttore Ferdinando Adornato ha compiuto un’altra giravolta e ha lasciato Berlusconi.
I radicali della Lista Pannella, infine: ricevono dallo Stato 1,6 milioni l’anno. Ma la loro Radio radicale, fra convenzione con il Parlamento e contributi per l’editoria, piglia 13 milioni annui. «Siamo un servizio pubblico», precisano, «trasmettiamo i congressi di tutti i partiti e le sedute delle Camere». È vero. Però ormai Senato e Camera hanno due canali Sky tutti loro, più il Gr Parlamento Rai. Spesa tripla per lo stesso servizio.
Mauro Suttora
FINANZIAMENTO AI 66 PARTITI NEL 2007
(fra parentesi quelli a giornali, radio, tv di partito)
1) Alleanza Nazionale 27,4 milioni (3)
2) Altern. Sociale A. Mussolini 628mila
3) Democratici di Sinistra 47,4 milioni (12,9)
4) Dc (Rotondi) 2,7 milioni (2,6)
5) Dem. Europea (D'Antoni) 2,4 milioni (2,3)
6)Forza Italia 46 milioni
7)Azione Sociale (Mussolini) 430mila
8)Italiani Mondo (De Gregorio) 1 milione
9)Riformatori Lib. (Della Vedova) 100mila
10)Rinascita Socialdem. (Preti) 15mila
11)Insieme Unione (Verdi+Pdci) 1,6 milioni
12)Partito consumatori italiani 165mila
13)Italia dei Valori (Di Pietro) 5,9 milioni (2)
14)L'Ulivo 16,1 milioni
15)L'Unione 741mila
16)La Casa delle Libertà 300mila
17)Lega Nord 14,1 (4,5)
18)Lista Pannella 14,6 milioni (13)
19)Margherita 28,7 milioni (3,6)
20)Repubblicani (Sbarbati) 242mila
21)Mov. Sociale Fiamma Tricolore 364mila
22)Nuovo Psi 2 milioni (472mila)
23)Partito Comunisti Italiani 5,2 milioni (0,9)
24)Pli (De Luca) 17.500
25)Partito Pensionati (Fatuzzo) 897mila
26)Pri (La Malfa) 754mila (624mila)
27)Rifondaz. Comunista 16,5 milioni (3,9)
28)Rosa nel Pugno 1,3 milioni
29)Socialisti Democratici-Sdi 2,7milioni
30)Udc 11,8 milioni (1)
31)Udeur 4 milioni (1,3)
32)Verdi 9,8 milioni (5,6)
LISTE REGIONALI
33)Alleanza Autonom. (V.d'Aosta) 180mila
34)Associaz. Marrazzo (Lazio) 321mila
35)Cittadini per Illy (Friuli V.G.) 85mila
36)Fortza Paris (Sardegna) 68mila
37)Gente della Liguria 64mila
38)Insieme per Bresso (Piemonte) 109mila
39)L'Aquilone (Cuffaro, Sicilia) 278mila
40)Leali al Trentino 11mila
41)Lista Civica per il Trentino 206mila
42)Lista Storace (Lazio) 338mila
43)Liste Civiche Nord-Est (Veneto) 5.600
44)Movimento Lid (Belluno) 5.600 euro
45)Mov. per l'Autonomia (Sicilia) 1 milione
46)Nuova Sicilia 86mila
47)Pace Diritti Insieme Sinistra (Bz) 15mila
48)Partito Auton. Trentino Tirolese 78mila
49)Per il Veneto con Carraro 185mila
50)Per la Liguria Sandro Biasotti 128mila
51)Primavera Pugliese 91mila
52)Puglia prima di tutto 324mila
53)Progetto Nordest (Veneto) 86mila
54)Repubblicani-Dem. (Campania) 74mila
55)Riformatori Sardi Liberaldem. 88mila
56)Sinistra Dem. Trentino per Ulivo 61mila
57)Sinistra Federalista Sarda 196mila
58)Stella Alpina (Val d'Aosta) 87mila
59)Sudtiroler Volkspartei 1,2 milioni
60)Union fur Sudtirol 26mila
61)Union Valdotaine 120mila
62)Unione Autonom. Alto Adige 14mila
63)Uniti per la Sicilia 255mila
64)Verdi-Verdi (Piemonte) 48mila
ESTERO
65)Associaz. Italiane Sudamerica 128mila
66)Italia nel Mondo con Tremaglia 77mila
Tuesday, December 16, 2008
Morte di Carlo Caracciolo
«(...) Il 1° ottobre 1955 uscì L'Espresso. Vivevo in provincia (...). L'aria fresca ci veniva dai giornali che leggevamo, soprattutto dall'Europeo di Arrigo Benedetti e dal Mondo di Mario Pannunzio.
Erano i nostri Vangeli laici. Ci sentivamo sì di sinistra, ma soprattutto laici e liberali. Rammento un couplet, un ritornello, che faceva al caso nostro: «Se non ci conoscete - guardateci i calzini. - Noi siamo i liberali - del conte Carandini». Pure noi portavamo i calzini lunghi, mentre le nostre madri li volevano corti, più facili da lavare. Anche per questo L'Espresso divenne subito una delle nostre bandiere».
Giampaolo Pansa,oggi sul Riformista
Erano i nostri Vangeli laici. Ci sentivamo sì di sinistra, ma soprattutto laici e liberali. Rammento un couplet, un ritornello, che faceva al caso nostro: «Se non ci conoscete - guardateci i calzini. - Noi siamo i liberali - del conte Carandini». Pure noi portavamo i calzini lunghi, mentre le nostre madri li volevano corti, più facili da lavare. Anche per questo L'Espresso divenne subito una delle nostre bandiere».
Giampaolo Pansa,oggi sul Riformista
Monday, December 15, 2008
Medio Oriente, Ernesto Rossi
"L'economia dell'Italia meridionale è più medio-orientale che europea"
Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze
intervistato da Elisa Calessi su Libero, sabato 13 dicembre 2008
"Mi chiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani che li' non solo ricordano, ma considerano l'unica degna di memoria (...)"
Roberto Saviano, su Repubblica di domenica 14.12.08, raccontando il suo incontro a Stoccolma con i giurati svedesi dell'Accademia delle scienze che danno il Nobel
Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze
intervistato da Elisa Calessi su Libero, sabato 13 dicembre 2008
"Mi chiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani che li' non solo ricordano, ma considerano l'unica degna di memoria (...)"
Roberto Saviano, su Repubblica di domenica 14.12.08, raccontando il suo incontro a Stoccolma con i giurati svedesi dell'Accademia delle scienze che danno il Nobel
Strage di Mumbai
"Per 40 ore sdraiato in bagno"
parla Arnaldo Sbarretti, direttore di hotel, 50 anni
di Mauro Suttora
1 dicembre 2008
«Non dimenticherò più quel numero, 3228. Era la mia stanza al 32° piano, il penultimo dell' hotel Oberoi Trident a Mumbai. Avevamo finito alle sei di sera il nostro workshop dell' Enit. L' Ente del turismo italiano ci aveva portato in India per presentare agli operatori turistici locali i nostri alberghi. Io avevo chiuso la mia camera, ed ero sceso nella hall.
Dopo pochi secondi si è scatenato l' inferno: esposioni, bombe, raffiche di mitra, fumo, una confusione totale. Un agente della sicurezza mi ha scaraventato nell' ascensore, urlando: "Ci sono i terroristi, via di qui, tornate alle vostre stanze !". Ho avuto solo il tempo di vedere un uomo stramazzare per terra, colpito proprio accanto a me. Ora più ci penso, più mi vengono i brividi.
Tornato al mio piano, corro verso la camera. Sento una voce dall' altoparlante interno: "Avviso a tutti gli ospiti: è in corso un attacco terroristico. Rimanete chiusi nelle vostre camere". Mi sento in trappola. Decido di fare l' esatto contrario di quanto consigliato, e mi precipito giù per le scale di servizio assieme a degli uomini kuwaitiani. Al 20° piano sentiamo spari e urla che si avvicinano: sono i terroristi che cercano i turisti per ammazzarli. Tutti, senza preferenze per americani e inglesi, come qualcuno invece ha detto. Terrorizzati, risaliamo le scale e ci barrichiamo nelle nostre stanze.
Ho chiamato mia moglie a Milano per avvertire che ero vivo, e lei mi ha dato il numero del consolato italiano a Mumbai. Dal consolato mi hanno detto di chiudere la luce e abbassare la suoneria del cellulare, di nascondermi e non fare rumore. Ho obbedito. Mi sono sdraiato per terra in bagno, fra water e vasca. In quella posizione rimango 40 ore, senza mangiare e dormire continuando a sentire urla, spari, scoppi. Ero convinto di morire. Invece, la porta della stanza si spalanca all' improvviso. Penso siano i terroristi. Invece sono i poliziotti che mi liberano.
Il vero dramma è che tutto quello che è successo poteva essere evitato. Il governo indiano sapeva dei rischi, erano arrivati avvertimenti su un possibile attacco, ma nessuno ci ha avvisato. Nella hall dell' albergo c' erano i metal detector, ma la security ci diceva sempre di passarci accanto, non controllava nessuno. Così alcuni terroristi avevano potuto stabilirsi da giorni al Taj Mahal, senza destare sospetti. Alla fine, secondo me, sono state le teste di cuoio inglesi e americane a liberarci.
Io negli alberghi ci lavoro da vent' anni, e sarò stato in un migliaio di hotel in tutto il mondo. Questa strage ha cambiato la mia vita, ma cambierà anche la vita di tutti noi. Finora abbiamo sottovalutato la ferocia dei terroristi islamici. Io ero contro Bush, gli Stati Uniti non mi sono mai stati molto simpatici. Però ora vedo le cose in maniera diversa. Devo ammettere che gli americani hanno imparato la lezione dell' 11 settembre 2001. Ma noi europei dormiamo. Ci vogliono servizi segreti che funzionino, e anche la capacità di reagire con grande forza contro questi assassini».
Mauro Suttora
parla Arnaldo Sbarretti, direttore di hotel, 50 anni
di Mauro Suttora
1 dicembre 2008
«Non dimenticherò più quel numero, 3228. Era la mia stanza al 32° piano, il penultimo dell' hotel Oberoi Trident a Mumbai. Avevamo finito alle sei di sera il nostro workshop dell' Enit. L' Ente del turismo italiano ci aveva portato in India per presentare agli operatori turistici locali i nostri alberghi. Io avevo chiuso la mia camera, ed ero sceso nella hall.
Dopo pochi secondi si è scatenato l' inferno: esposioni, bombe, raffiche di mitra, fumo, una confusione totale. Un agente della sicurezza mi ha scaraventato nell' ascensore, urlando: "Ci sono i terroristi, via di qui, tornate alle vostre stanze !". Ho avuto solo il tempo di vedere un uomo stramazzare per terra, colpito proprio accanto a me. Ora più ci penso, più mi vengono i brividi.
Tornato al mio piano, corro verso la camera. Sento una voce dall' altoparlante interno: "Avviso a tutti gli ospiti: è in corso un attacco terroristico. Rimanete chiusi nelle vostre camere". Mi sento in trappola. Decido di fare l' esatto contrario di quanto consigliato, e mi precipito giù per le scale di servizio assieme a degli uomini kuwaitiani. Al 20° piano sentiamo spari e urla che si avvicinano: sono i terroristi che cercano i turisti per ammazzarli. Tutti, senza preferenze per americani e inglesi, come qualcuno invece ha detto. Terrorizzati, risaliamo le scale e ci barrichiamo nelle nostre stanze.
Ho chiamato mia moglie a Milano per avvertire che ero vivo, e lei mi ha dato il numero del consolato italiano a Mumbai. Dal consolato mi hanno detto di chiudere la luce e abbassare la suoneria del cellulare, di nascondermi e non fare rumore. Ho obbedito. Mi sono sdraiato per terra in bagno, fra water e vasca. In quella posizione rimango 40 ore, senza mangiare e dormire continuando a sentire urla, spari, scoppi. Ero convinto di morire. Invece, la porta della stanza si spalanca all' improvviso. Penso siano i terroristi. Invece sono i poliziotti che mi liberano.
Il vero dramma è che tutto quello che è successo poteva essere evitato. Il governo indiano sapeva dei rischi, erano arrivati avvertimenti su un possibile attacco, ma nessuno ci ha avvisato. Nella hall dell' albergo c' erano i metal detector, ma la security ci diceva sempre di passarci accanto, non controllava nessuno. Così alcuni terroristi avevano potuto stabilirsi da giorni al Taj Mahal, senza destare sospetti. Alla fine, secondo me, sono state le teste di cuoio inglesi e americane a liberarci.
Io negli alberghi ci lavoro da vent' anni, e sarò stato in un migliaio di hotel in tutto il mondo. Questa strage ha cambiato la mia vita, ma cambierà anche la vita di tutti noi. Finora abbiamo sottovalutato la ferocia dei terroristi islamici. Io ero contro Bush, gli Stati Uniti non mi sono mai stati molto simpatici. Però ora vedo le cose in maniera diversa. Devo ammettere che gli americani hanno imparato la lezione dell' 11 settembre 2001. Ma noi europei dormiamo. Ci vogliono servizi segreti che funzionino, e anche la capacità di reagire con grande forza contro questi assassini».
Mauro Suttora
Wednesday, November 19, 2008
Leggenda Obama
LA VITA DEL NUOVO PRESIDENTE USA
Oggi, 6 novembre 2008
New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.
Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.
L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.
«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».
«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.
Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.
Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).
Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.
Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.
Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.
Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.
È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».
Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»
In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.
Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.
Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.
Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.
I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.
Mauro Suttora
RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy
Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.
Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.
RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni
L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.
Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».
Mauro Suttora
Oggi, 6 novembre 2008
New York (Stati Uniti)
Non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre kenyota e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo.
Eppure proprio questo è successo nella notte del 4 novembre: la trionfale elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, al di là delle idee politiche sue e dell’avversario sconfitto, John McCain, rappresenta un avvenimento storico.
L’unico voto paragonabile a questo nella storia moderna degli Stati Uniti è stato quello per John Kennedy nel 1960. Ma i Kennedy, seppure cattolici, erano dei miliardari bene incistati nella nomenklatura americana. Obama, invece, è un totale «homo novus». Conviene quindi conoscere bene il suo passato per prevedere che cosa farà in futuro.
«Non ero abbastanza nero per i neri, e abbastanza bianco per i bianchi»: così lo stesso Barack descrive con amarezza la propria gioventù nell’autobiografia I sogni di mio padre (ed. Nutrimenti). Il libro è in vendita in Italia da un anno, ma fu scritto da Obama già nel 1995. E che un politico senta non solo il bisogno di scrivere la storia della propria vita ad appena 34 anni, ma che la compili prima ancora di essere stato eletto a qualsiasi carica (Barack è diventato senatore statale dell’Illinois - paragonabile a un nostro consigliere regionale - solo nel ‘97), e soprattutto che la tiri così per le lunghe da trarne un tomo monumentale con più di 400 pagine, dice tutto sull’ambizione del nostro. Ambizione giustificata, comunque: secondo Joe Klein, che l’ha recensita sul settimanale Time, «si tratta forse della migliore autobiografia mai scritta da un politico americano».
«Era ambizioso anche il padre», raccontano i parenti e i compagni d’università di Barack Obama senior. Il papà di Obama nasce nel 1936 nel profondo Kenya, sulle rive del lago Vittoria: dalla parte opposta rispetto alle spiagge cosmopolite di Malindi. Appartiene alla tribù dei Luo, che fino agli anni Trenta scorrazzava felice nuda per la savana. I maschi indossavano solo un perizoma di cuoio. Leggenda vuole che proprio il nonno di Obama, Hussein Onyango, sia stato fra i primi «eccentrici» a coprirsi di vestiti occidentali, cuciti con stoffe colorate.
Obama senior è descritto dal figlio come «pastore di capre», ma forse è solo civetteria: in realtà pare che la sua fosse una famiglia benestante di allevatori. Il ragazzino comunque camminava dodici chilometri al giorno per andare a scuola. A vent’anni va a Nairobi e scopre che si possono ottenere borse di studio universitarie per gli Stati Uniti. Nel frattempo sposa la prima delle sue quattro mogli e ha due figli (particolare nascosto alla mamma di Obama).
Il programma di 81 borse di studio è finanziato dalla fondazione Kennedy: un altro anello che collega i due presidenti.
Obama senior finisce all’università delle Hawaii, dove con la sua personalità brillante e forte (alcuni dicono prepotente) ammalia la studentessa del primo anno Stanley Ann Dunham, figlia unica di un commesso viaggiatore del Kansas e della moglie Madelyn (la famosa nonna di Obama, morta a 86 anni proprio alla vigilia del voto).
Nel ’61 nasce Barack (in arabo «benedetto», in ebraico «fulmine»), ma poco dopo suo padre lo molla assieme a Ann, se ne va ad Harvard e, da buon poligamo, si mette con un’altra americana. Poi tornerà in Kenya, farà altri due figli con la prima moglie (in totale Obama ha sette fratellastri), e morirà alcolizzato in un incidente d’auto nell’82. Va a trovare il figlio alle Hawaii solo una volta in vita sua, quando Obama ha dieci anni.
Mamma Ann, però, non fa la parte della ragazza madre abbandonata e inacidita. «Papà è dovuto tornare nel suo Paese a lottare per la libertà»: questa è l’immagine da eroe che inculca nel piccolo Obama, per giustificare l’assenza. Poi, sempre ottimista e piena di curiosità ed energia (doti ereditate dal figlio), si risposa con uno studente indonesiano e si trasferisce a Jakarta. Lì Obama frequenta le elementari, ma per le medie la mamma preferisce farlo tornare a Honolulu dai nonni. Che riescono a iscriverlo nella scuola media e liceo più prestigioso delle Hawaii, quello dove vanno i ricchi.
Obama racconta del disagio che provava con i compagni, unico nero, e della loro sorpresa quando videro sua madre: «Ma è bianca!» Ottimo studente, determinatissimo anche nello sport, sogna di diventare campione di basket. Nel ’79, dopo la maturità, emigra in continente: prima a Los Angeles, dove frequenta due anni l’Occidental College, e poi a New York, dove si laurea in relazioni internazionali nella prestigiosa Columbia university. Vive sulla 94esima strada, al confine fra East Harlem e la Manhattan dei ricchi: una scelta carica di significato.
Poi il primo impiego nella scintillante New York reaganiana degli anni ’80, soldi facili e cocaina. Lui ammette di avere sniffato e fumato spinelli (meno ipocrita del «Però non ho inalato» clintoniano), ma quell’ambiente non fa per lui. Ha sogni di grandezza, vorrebbe diventare scrittore, cerca dal mondo l’attenzione che non ha avuto da piccolo. Scopre la politica «di base», si offre come volontario e nell’85 emigra a Chicago.
È la sua fortuna: occuparsi dei problemi degli altri è la sua vocazione. Poi, sulle orme del padre, va ad Harvard a specializzarsi in diritto, e lì il suo talento e il suo carisma esplodono: primo presidente nero della prestigiosa Rivista di legge. Il secondo regalo il destino glielo riserva al ritorno a Chicago: appena assunto in un studio legale specializzato in diritti civili, gli mettono accanto la futura moglie Michelle per «tirarlo su».
Anche in politica è fortunatissimo: eletto la prima volta nel ’97 perché gli altri candidati vengono squalificati. Batosta nel 2000, alle primarie per deputato a Washington. Ma lui, testardo, prova e riprova. E nel 2004 diventa l’unico senatore di colore degli Usa (altro che «integrazione») perché il suo avversario è accusato dalla ex moglie: «Mi voleva portare in un club porno!»
In quale altro stato del mondo un politico può essere eletto presidente dopo soli quattro anni di esperienza parlamentare nazionale? Solo in America, baby. La «Terra delle opportunità», come la chiama sempre Obama, grato, nei suoi trascinanti discorsi. Soltanto quattro persone sono riusciti a infiammare come lui gli Stati Uniti con la parola, nell’ultimo mezzo secolo: i due Kennedy, Martin Luther King e Ronald Reagan.
Anche qui, particolare incredibile: il suo speechwriter, quello che gli scrive i discorsi, ha solo 27 anni. Il suo motto «Yes we can» è già diventato leggenda, come la «Nuova frontiera» di Kennedy o la «Grande società» di Lyndon Johnson.
Adesso siamo alla selezione di ministri e funzionari per la Casa Bianca (che fu costruita da schiavi neri nel 1800). Il più potente sarà il capo di gabinetto Rahm Emanuel (detto Rahmbo), 49 anni, figlio di un israeliano, e questo rassicura gli ebrei. Obama non ha fatto il servizio militare (la leva fu abolita nel ’75), in cambio Emanuel è stato volontario dell’esercito d’Israele nella prima guerra del Golfo. La «voce» di Barack invece sarà il fido 37enne Robert Gibbs, suo addetto stampa al Senato.
Gli unici a trattarlo male dopo la vittoria sono stati la Borsa (crollata del dieci per cento nelle 48 ore successive, ma ormai non fa più notizia) e il capo della Russia Vladimir Putin, che da vero maleducato lo ha accolto annunciando l’installazione di nuovi missili a Kaliningrad, 400 chilometri da Berlino.
I problemi stanno per arrivare. Ce ne saranno tantissimi, con la crisi economica e le due guerre (Iraq, Afghanistan) in cui gli Usa sono infognati da troppi anni. I fans di Barack si accorgeranno che non è Superman. Ma, in ogni caso, è iniziata l’Era di Obama.
Mauro Suttora
RIQUADRO: Concepito la notte della vittoria di John Kennedy
Un'incredibile coincidenza lega Barack Obama a John Kennedy. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato probabilmente concepito la notte in cui Kennedy vinse la sua elezione, l'8 novembre 1960. Esattamente nove mesi dopo, il 4 agosto 1961, a Honolulu la giovanissima Stanley Ann Dunham, 18 anni, dà alla luce Barack Hussein: figlio dello studente 24enne Obama arrivato dal Kenya due anni prima con una borsa di studio per l'università delle isole Hawaii.
Questione di ore, al massimo di giorni. Ma basta per legare le due elezioni che hanno creato più speranze nell'era moderna: quella del 43enne Kennedy, il primo presidente cattolico e il più giovane nella storia degli Stati Uniti (morì che era più giovane di Obama adesso), e quella del primo presidente di colore.
RIQUADRO 2: L'inventore di «Yes we can» ha 27 anni
L’inventore dello slogan di Obama «Yes we can» è un timido 27enne del Massachusetts, laureato dai gesuiti: Jon Favreau. Nel 2004 era volontario per la sfortunata campagna presidenziale del democratico John Kerry. Prima dello storico discorso alla Convention con cui Obama si fece conoscere al mondo lui si accorse di un piccolo errore sul «gobbo», segnalandoglielo.
Da allora è stato imbarcato nel suo staff, e nel gennaio di quest’anno ha inserito il motto «Sì, possiamo (farcela)» nel discorso con cui il candidato ringraziava per l’insperata vittoria nella primaria dell'Iowa contro Hillary Clinton. Lo segue in tutti i suoi spostamenti, tenendo in mano il Blackberry per aggiungere, togliere e limare le dichiarazioni ufficiali in ogni momento. Com’è successo anche nel discorso di Chicago dopo la vittoria, quando ha inserito al volo un grazie a McCain dopo i nobili auguri dell’avversario sconfitto. Obama comunque è un bravissimo scrittore, sia di libri sia di discorsi. Potrebbe anche farcela da solo ma, come ha detto a Favreau, «le mie giornate hanno solo 24 ore».
Mauro Suttora
Wednesday, November 12, 2008
Gli universitari protestano
LE VERE CIFRE DEI TAGLI
Roma, 3 novembre 2008
Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.
Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
«Attacco all’autonomia»
Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.
Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.
La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.
«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.
Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.
E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».
«Molti sprechi da evitare»
«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».
Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»
«Bloccare i nuovi atenei»
«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».
Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».
Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».
Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.
«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».
Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».
E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.
Mauro Suttora
Roma, 3 novembre 2008
Il 6 agosto, quando venne approvata la legge finanziaria, nessuno se n’era accorto. Eppure i tagli all’università erano già decisi lì, e ben dettagliati: meno 63 milioni di euro l’anno prossimo, 190 milioni nel 2010, 316 l’anno dopo, fino ai meno 455 del 2013. Ma quasi nessuno protestò. Un po’ perché erano tutti al mare, e un po’ perché un risparmio dello 0,6 per cento sui dieci miliardi e 800 milioni che nel 2009 finiranno all’università statale non sembrava drammatico. Soprattutto per un Paese con 1600 miliardi di debito pubblico, che anche quest’anno spende più di quello che incassa, e che quindi, impegnato al pareggio di bilancio entro il 2012, deve tagliare su tutto.
Poi, in ottobre, sull’onda del decreto sulla scuola elementare della ministra Mariastella Gelmini, gli universitari hanno cominciato a protestare anche loro. E non solo per i tagli. La finanziaria, infatti, ha introdotto altre due misure: il quasi blocco del turnover sul personale (un solo nuovo assunto ogni cinque dipendenti che vanno in pensione), e la possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.
«Attacco all’autonomia»
Quest’ultima iniziativa ha fatto tuonare i docenti universitari di sinistra (da Alberto Asor Rosa a Gianni Vattimo, in ordine alfabetico): «È il più grave attacco mai condotto contro l’autonomia e il futuro dell’università italiana», hanno proclamato.
Gli studenti temono che la conseguenza di questa trasformazione sia un forte aumento delle tasse universitarie, che attualmente coprono solo l’11 per cento dei costi delle università statali.
La nuova legge dice che nel caso in cui un ateneo si trasformi in una fondazione e ottenga fondi dai privati, lo Stato ridurrebbe i finanziamenti pubblici per quell’ateneo di tanto denaro quanto ammontano i fondi privati. Per docenti e studenti, che considerano molto remota la possibilità di essere finanziati dai privati, la prima conseguenza di questo provvedimento è un aumento delle tasse universitarie.
«In realtà non si capisce perché si debba passare attraverso la complicazione delle fondazioni», commenta Roberto Perotti, docente della Bocconi e autore del libro L’università truccata (ed. Einaudi, 2008), «invece di consentire, molto semplicemente, di dedurre dall’imponibile le donazioni private all’università».
Inoltre, c’è l’esempio negativo delle fondazioni bancarie: «Introdotte per staccare le casse di risparmio dal settore pubblico, ma diventate il regno del sottobosco politico, fonte di prebende per i politici locali», nota Perotti.
Quanto ai tagli e al blocco al 20% del turnover, la stalla viene chiusa quando i buoi sono già scappati: nei prossimi mesi infatti si svolgeranno concorsi per settemila posti di docenti (quattromila ordinari e associati, tremila ricercatori). Così aumentano in un colpo solo di più del dieci per cento i 60 mila prof oggi di ruolo (ce ne sono poi altri 40 mila fra straordinari, incaricati e a contratto).
«Se questi concorsi andranno in porto, ogni discussione sulla riforma dell’università sarà d’ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno, e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l’emigrazione», avverte l’editorialista del Corriere della Sera Francesco Giavazzi.
E allora perché protestano gli universitari? «Mi sembra una giustificatissima rivolta generale contro la condizione cui sono costretti i giovani in Italia oggi», ci dice Nando dalla Chiesa, fino a maggio sottosegretario all’Università per il centrosinistra e oggi tornato alla sua cattedra di Sociologia della criminalità organizzata alla Statale di Milano. «I ragazzi hanno ragione, anche se fa un po’ specie vederli insieme a qualche barone universitario che difende i suoi fondi e magari non viene a far lezione».
«Molti sprechi da evitare»
«No, questi cortei e occupazioni non hanno alcun senso», ribatte Barbara Mannucci, che a 26 anni è la più giovane deputata del Popolo delle libertà, fresca laureata al Dams di Roma 3: «Siamo in una situazione economica molto difficile, tutti i ministeri sono stati colpiti dai risparmi, e la mia esperienza personale mi dice che ci sono parecchi sprechi che si possono eliminare. A cominciare dalle cinque segretarie e le auto blu per i rettori: perché, non possono usare l’auto o il taxi?».
Per fornire più cattedre ai docenti negli ultimi sette anni i corsi di laurea sono raddoppiati: da 2.400 a 5.500. I prof sono aumentati al ritmo del cinque per cento l’anno. «E io ero costretta a frequentare nella stessa giornata sette corsi diversi», si lamenta la Mannucci, «perché ogni corso è stato spezzettato in tre esami per moltiplicare gli stipendi. Non parliamo poi delle sedi staccate: la Sapienza di Roma ha aperto a Pomezia ben cinque facoltà con sei corsi di laurea, fra cui “Scienze infermieristiche”... Ma quale studente romano andrà mai a Pomezia? E sono tutte spese in più.»
«Bloccare i nuovi atenei»
«In effetti l’autonomia conquistata dalle università negli anni Noventa è stata usata nel modo peggiore», concorda Dalla Chiesa, «perché lo Stato ha detto ai rettori: “Fate quel che volete con i soldi pubblici”. È un meccanismo micidiale, senza alcun criterio di responsabilità. Ma a questo malcostume ha partecipato anche il centrodestra, con la ministra dell’Istruzione Moratti che ha permesso il moltiplicarsi delle università. Quando sono arrivato al ministero, nel 2006, abbiamo fatto appena in tempo a bloccare un nuovo ateneo a Villa San Giovanni. Che ha le università di Reggio Calabria e Messina a pochi chilometri».
Nel 1980 le università in Italia erano 40. Nel 1999 sono aumentate a 75. Oggi sono 95, ma con le sedi staccate si arriva a 330. La Lombardia ha sedi in 29 comuni, la Sicilia in 22, il Piemonte in 21 e il Lazio in 19.
In sette atenei la spesa per il personale supera il 90% del finanziamento statale, in altri 25 l’80. Denuncia uno studente di sinistra: «I miei prof hanno una stampante a colori e un fax ciascuno, mentre nell’università americana che ho frequentato sono in pool, e c’è una ogni dieci docenti».
Insomma, sembra di vivere l’incubo descritto dal filosofo libertario Ivan Illich trent’anni fa, nel suo libro Descolarizzare la società: «Il sistema scolastico, come tutte le burocrazie, serve più ai professori che agli studenti. Così come il sistema sanitario serve più ai medici che ai malati, e quello politico più ai politici di professione che ai cittadini rappresentati».
Gli universitari italiani pagano oggi una media di 720 euro l’anno in tasse (mille in Veneto, Emilia e Lombardia, 450 in Sardegna, Sicilia, Puglia). Ma cosa ricevono in cambio? Un pezzo di carta che serve a poco. L’università si è «democratizzata», il sapere è diventato un «diritto» diffuso, i laureati sono 300 mila all’anno contro i 40 mila di quarant’anni fa. Ma le lauree si sono svalutate.
«Certe università te le tirano dietro», denuncia Dalla Chiesa, «con il meccanismo della conversione in crediti dell’esperienza professionale si possono evitare un sacco di esami. L’immoralità è dilagante. Un esempio? In questi giorni, fateci caso, tutti parlano di “ricerca”. E la didattica? Abbiamo dimenticato che le università sono nate per insegnare? Certo, è noioso per i docenti fare lezione, ricevere gli studenti, seguirli, assisterli, fare gli esami, i seminari, le tesi. Tutti preferiscono fare “ricerca”. Perché? Perché è lì che girano i soldi».
«Il sistema attuale è di una straordinaria iniquità», aggiunge Perotti, «perché le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti. Nessuno viene premiato se è bravo, e nessuno paga per i propri fallimenti».
Che fare, quindi? La soluzione non sono le università private. Che, sorpresa, in Italia sono finanziate anch’esse al 54% con soldi pubblici. Perotti, nella sua brillante requisitoria, non risparmia neppure casa propria. Tornato in Italia a insegnare alla Bocconi nonostante avesse ottenuto una cattedra di ruolo (a vita) alla Columbia di New York, rivela che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa cento persone, e ha un bilancio di 13 milioni di euro, circa un quarto dell’intera spesa per gli stipendi dei docenti. Calcolando che i migliori professori di economia negli Usa costano 300-400 mila dollari, con un terzo della spesa per relazioni esterne la Bocconi potrebbe costruire il migliore dipartimento d’economia d’Europa».
E stiamo parlando non del corso con otto studenti che l’università di Sassari ha decentrato per motivi clientelari a Tempio Pausania, ma del tempio dell’accademia privata in Italia, che fa pagare quattromila euro l’anno di tasse ai propri universitari.
Mauro Suttora
Friday, November 07, 2008
"Obama? Carino"
L'America che non vota
"Il nuovo presidente? E' un mulatto carino"
Libero, venerdì 7 novembre 2008
di Mauro Suttora
«He looks kinda nice, though…»: con l’indifferenza di chi viene solo annoiata dalla politica, la mia ex fidanzata americana Marsha commenta l’elezione di Obama. «Però è carino»: è questo il giudizio più profondo che riesco a strapparle sul suo nuovo presidente.
Marsha, 34 anni, ex modella, stilista in erba, vive a Manhattan e in questi giorni ha ben altro a cui pensare: sta organizzando la sua prima sfilata d’autunno nel Connecticut. Sono passato a salutarla per Halloween, e lei mi ha portato nelle tre feste cui era invitata quella sera. Ora sta con uno del cinema («Un cameraman: sei come Julia Roberts», la prendo in giro), ma lui è a Los Angeles e lei continua a vivere sola nel monolocale «alcova» di un grattacielo dell’Upper East Side.
«Alcova» non ha niente di lussurioso: semplicemente, a New York chiamano così i monolocali con la pianta a elle, che permettono il «lusso» di non vedere subito il letto dalla porta d’entrata.
Marsha non ha mai votato in vita sua. Come quattro statunitensi adulti su dieci se ne frega allegramente della politica.
«Ma questo è un voto storico, no?», obietto.
«E perché?»
«Un nero, per la prima volta…»
«Veramente non è un nero vero, sua madre era bianca, no?»
«Vabbè, un mulatto, ma è proprio questa la grandezza dell’America».
«Grandezza, grandezza… Sei sempre innamorato dell’America, eh, Mauro?» Marsha mi ha sempre accusato di essermi messo con lei per questo, e non perché fossi innamorato di lei.
«Beh, non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre del Kenya e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo».
«Anch’io sono un miscuglio pazzesco, Mauro: un quarto irlandese, un quarto tedesca, un quarto italiana, solo un quarto americana di due generazioni».
«Obama è cresciuto in Indonesia, poi alle Hawaii, poi università a Los Angeles, New York, Boston… Sta a Chicago ma ha una nonnastra a Nairobi e una sorellastra a Giakarta. Non eri tu che lamenti sempre quanto siano provinciali i tuoi compatrioti, che otto su dieci non sono mai stati all’estero. Ecco Obama, un cittadino del mondo!»
«Come on, io sono nata a Filadelfia, università a Nashville e Firenze, abito a New York, ho lavorato a Roma, mio padre sta in Florida, mia mamma in New Jersey e le mie sorelle dall’altra parte del continente, in California e a Seattle. Tutti gli americani sono dei “bastardi” vagabondi».
«Quindi non voti neppure questa volta?»
«Troppa fatica. Non sono neanche registrata. Non saprei da dove cominciare. E poi troppe code, io ho da fare».
«Però eri bushiana».
«Ha fatto bene a combattere quei maledetti terroristi».
«Saddam non era di Al Qaeda».
«Che noia, Mauro. Ricominciamo?»
«Ammetti almeno che la guerra in Iraq è stata un errore».
«Boh. Tu, piuttosto, vai sempre a quelle cose contro la pena di morte? Ti ricordi?» (Incontrai Marsha cinque anni fa a un concerto all’Onu contro le esecuzioni capitali).
«Certo, e mi ricordo anche la tua opinione al riguardo: “Chi la fa l’aspetti, se uccidi è giusto che ti uccidano”…»
«Lo penso sempre, my dear».
«Incredibile che una donna fine e coltivata come te, laureata con tesi su Derrida, sia rimasta alla legge del taglione».
«Mauro, è Halloween, non litighiamo: let’s have fun, divertiamoci».
In realtà Marsha di questi tempi non si diverte molto: mi ha confessato di essere in rosso di 15 mila dollari con la sua carta di credito: «Passo il tempo a ristrutturare, rifinanziare e rinegoziare il mio debito. Se al mio prossimo trunk show [vendita privata di vestiti, ndr] non vendo abbastanza, non so neppure se mi conviene continuare a pagare duemila dollari al mese d’affitto qui a Manhattan. Dovrò trasferirmi a Brooklyn, o condividere un appartamento».
Facciamo il giro delle sue tre feste di Halloween. All’ultima, in una discoteca sulla Quinta Avenue, appena entrato corro nei bagni per la pipì. Mi ritrovo in una calca enorme, circondato da ragazze alte e bellissime. Penso di essermi sbagliato, forse ho bevuto troppo. «Ma è il bagno delle donne?», domando alla mia bionda vicina. «No, but we share», mi sorride lei, alitandomi alcol sul viso da cinque centimetri. No, ma condividiamo. L’era Obama è iniziata, ci sarà anche la crisi. Ma New York è sempre New York.
Mauro Suttora
"Il nuovo presidente? E' un mulatto carino"
Libero, venerdì 7 novembre 2008
di Mauro Suttora
«He looks kinda nice, though…»: con l’indifferenza di chi viene solo annoiata dalla politica, la mia ex fidanzata americana Marsha commenta l’elezione di Obama. «Però è carino»: è questo il giudizio più profondo che riesco a strapparle sul suo nuovo presidente.
Marsha, 34 anni, ex modella, stilista in erba, vive a Manhattan e in questi giorni ha ben altro a cui pensare: sta organizzando la sua prima sfilata d’autunno nel Connecticut. Sono passato a salutarla per Halloween, e lei mi ha portato nelle tre feste cui era invitata quella sera. Ora sta con uno del cinema («Un cameraman: sei come Julia Roberts», la prendo in giro), ma lui è a Los Angeles e lei continua a vivere sola nel monolocale «alcova» di un grattacielo dell’Upper East Side.
«Alcova» non ha niente di lussurioso: semplicemente, a New York chiamano così i monolocali con la pianta a elle, che permettono il «lusso» di non vedere subito il letto dalla porta d’entrata.
Marsha non ha mai votato in vita sua. Come quattro statunitensi adulti su dieci se ne frega allegramente della politica.
«Ma questo è un voto storico, no?», obietto.
«E perché?»
«Un nero, per la prima volta…»
«Veramente non è un nero vero, sua madre era bianca, no?»
«Vabbè, un mulatto, ma è proprio questa la grandezza dell’America».
«Grandezza, grandezza… Sei sempre innamorato dell’America, eh, Mauro?» Marsha mi ha sempre accusato di essermi messo con lei per questo, e non perché fossi innamorato di lei.
«Beh, non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre del Kenya e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo».
«Anch’io sono un miscuglio pazzesco, Mauro: un quarto irlandese, un quarto tedesca, un quarto italiana, solo un quarto americana di due generazioni».
«Obama è cresciuto in Indonesia, poi alle Hawaii, poi università a Los Angeles, New York, Boston… Sta a Chicago ma ha una nonnastra a Nairobi e una sorellastra a Giakarta. Non eri tu che lamenti sempre quanto siano provinciali i tuoi compatrioti, che otto su dieci non sono mai stati all’estero. Ecco Obama, un cittadino del mondo!»
«Come on, io sono nata a Filadelfia, università a Nashville e Firenze, abito a New York, ho lavorato a Roma, mio padre sta in Florida, mia mamma in New Jersey e le mie sorelle dall’altra parte del continente, in California e a Seattle. Tutti gli americani sono dei “bastardi” vagabondi».
«Quindi non voti neppure questa volta?»
«Troppa fatica. Non sono neanche registrata. Non saprei da dove cominciare. E poi troppe code, io ho da fare».
«Però eri bushiana».
«Ha fatto bene a combattere quei maledetti terroristi».
«Saddam non era di Al Qaeda».
«Che noia, Mauro. Ricominciamo?»
«Ammetti almeno che la guerra in Iraq è stata un errore».
«Boh. Tu, piuttosto, vai sempre a quelle cose contro la pena di morte? Ti ricordi?» (Incontrai Marsha cinque anni fa a un concerto all’Onu contro le esecuzioni capitali).
«Certo, e mi ricordo anche la tua opinione al riguardo: “Chi la fa l’aspetti, se uccidi è giusto che ti uccidano”…»
«Lo penso sempre, my dear».
«Incredibile che una donna fine e coltivata come te, laureata con tesi su Derrida, sia rimasta alla legge del taglione».
«Mauro, è Halloween, non litighiamo: let’s have fun, divertiamoci».
In realtà Marsha di questi tempi non si diverte molto: mi ha confessato di essere in rosso di 15 mila dollari con la sua carta di credito: «Passo il tempo a ristrutturare, rifinanziare e rinegoziare il mio debito. Se al mio prossimo trunk show [vendita privata di vestiti, ndr] non vendo abbastanza, non so neppure se mi conviene continuare a pagare duemila dollari al mese d’affitto qui a Manhattan. Dovrò trasferirmi a Brooklyn, o condividere un appartamento».
Facciamo il giro delle sue tre feste di Halloween. All’ultima, in una discoteca sulla Quinta Avenue, appena entrato corro nei bagni per la pipì. Mi ritrovo in una calca enorme, circondato da ragazze alte e bellissime. Penso di essermi sbagliato, forse ho bevuto troppo. «Ma è il bagno delle donne?», domando alla mia bionda vicina. «No, but we share», mi sorride lei, alitandomi alcol sul viso da cinque centimetri. No, ma condividiamo. L’era Obama è iniziata, ci sarà anche la crisi. Ma New York è sempre New York.
Mauro Suttora
Thursday, October 30, 2008
Roberto Saviano
ITALIA ADDIO io devo e voglio vivere
il simbolo della lotta contro la camorra andrà forse all' estero
"Non ce la faccio più a continuare così", dice Roberto Saviano, autore del bestseller "Gomorra", diventato un film candidato all'Oscar. Da due anni si nasconde protetto dai carabinieri. Tra minacce e calunnie
di Mauro Suttora
Oggi, 29 ottobre 2008
"Se avessi una famiglia, se avessi dei figli, potrei conservare un equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Tutti i miei "angeli custodi", gli uomini della scorta, hanno almeno tre figli. Ma per me non è così".
Ha compiuto 29 anni il 22 settembre, Roberto Saviano. Ma per il nostro maggior scrittore (un milione e mezzo di copie vendute del suo primo libro Gomorra in 43 Paesi, il film omonimo candidato all' Oscar) è stato un compleanno amaro. Le minacce di morte da parte della camorra si sono infittite. È arrivata anche la notizia (poi smentita) di un attentato entro Natale sull' autostrada Napoli Roma. Lo preparerebbe il camorrista latitante Giuseppe Setola, sfuggito alla retata contro i killer dei sei africani a Casal di Principe (Caserta). E Saviano, che la crede autentica, pare voglia rifugiarsi all' estero. Sarebbe una sconfitta per tutta l' Italia.
Ma lo scrittore non ce la fa più. Ha perso la fidanzata: "Ricordo Serena, una ragazza che è andata via perché la mia vicinanza la lerciava". Questa è la confessione cui Roberto, sempre riservatissimo sulla propria vita privata, si è lasciato scappare di fronte al pubblico del Festival della letteratura di Mantova, nel settembre scorso. I sei minuti d' applausi lo hanno rincuorato, la solitudine rimane.
La donna giusta ? Fuggita
"La sua fidanzata Serena era la donna giusta, l' unica in grado di sopportarlo oltre alla madre", ha svelato il padre, medico. "Non è facile vivere come Roberto, non può venire mai da noi per ragioni di sicurezza. L' anno scorso è morta mia madre, sua nonna. Lui non ha potuto vederla viva l' ultima volta, ma ha preteso di esserci per il funerale. Al paese però è successo di tutto: strade bloccate, un poliziotto con la pistola perfino sull' altare". Una famiglia deflagrata, quella d' origine di Saviano: anche il fratello è stato costretto a trasferirsi in una località segreta del nord Italia.
"Roberto non è mai stato ragazzo", ha raccontato il padre a La Stampa. "Anche quando era piccolo era serio, acuto, pungente. A tredici anni ha letto Il Capitale di Marx e a quattordici si è fatto regalare per il compleanno l' Iliade e l' Odissea. Come vorrei che ci fosse ancora il suo nonno materno, il colonnello Carlo che lo ha cresciuto con il mito della legalità e che adesso scoppierebbe di fierezza".
"Voglio una vita, ecco"
"Fanculo il successo", si è sfogato Roberto su Repubblica. "Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare mia madre senza paura e senza spaventarla. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale, e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto 29 anni !".
"Come dice Von Clausewitz, a un nemico puoi togliere tutto, ma non la rabbia. I camorristi mi hanno tolto la possibilità di una vita normale, perché a me piace rotolarmi nella realtà, lavorare sporcandomi. Ma la rabbia rimane", ha ribadito in una memorabile intervista al programma tv Matrix.
"Non riesco più a scrivere"
"Voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere, perché è quella la mia passione e la mia resistenza. Ma io, per scrivere, non posso vivere come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri oggi qui, domani lontano duecento chilometri spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita".
Lo scorso aprile Saviano è stato invitato a New York, al congresso mondiale degli scrittori del Pen Club. Lì ha ricevuto i complimenti di Salman Rushdie, il romanziere condannato a morte vent' anni fa dai fondamentalisti musulmani per avere insultato Maometto. Oggi Rushdie commenta: "I camorristi sono più pericolosi dei terroristi islamici". Due anni fa, quando dovettero dargli una scorta dopo l' improvviso successo di Gomorra, a Roberto fu proposto di trasferirsi a New York. "Ma rifiutai. Avrei potuto anche scrivere di altro. Sono restato in Italia, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce ?".
"Niente casa in affitto"
Come Oriana Fallaci, Saviano si aggrappa al suo lavoro: "Ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo ai carabinieri di Napoli, che mi proteggono come un figlio. Ma né lì né a Roma trovo qualcuno disposto a darmi una casa in affitto".
Il boss Francesco Schiavone detto Sandokan, in carcere a Opera (Milano) da anni, qualche mese fa ha chiesto ai suoi avvocati di querelare Saviano: lo avrebbe "diffamato". Che cosa voglia dire questa surreale minaccia è presto detto: il 5 ottobre a Casal di Principe viene ucciso Stanislao Cantelli, zio di due pentiti. Di lui Sandokan aveva parlato durante un processo dicendo: "Gli ho sempre voluto bene". Una sentenza di morte ? "I camorristi si spacciano per eroi, ma in realtà sono dei codardi. Ammazzano persone innocenti, indifese, giovani e anziani che non c entrano nulla", spiega Saviano, nero in volto.
Rosaria Capacchione
Il 14 marzo di quest' anno, nell' aula bunker di Poggioreale (Napoli) durante il processo "Spartacus", è stata data lettura di una missiva di Francesco Bidognetti (all' ergastolo) e Antonio Iovine (latitante), con la quale i due capi cosca chiedevano di spostare la sede del processo inquinato dallo "pseudogiornalista" Roberto Saviano, dalla giornalista del Mattino Rosaria Capacchione e dall' allora pm anticamorra Raffaele Cantone. "Non prendi più un treno, non sali più su una macchina che non sia blindata. Cosa fai, con chi esci ?", si sfoga Saviano.
La sorella del boss Cicciariello ha detto in Tv: "Cosa gli abbiamo fatto noi di Casale di Principe ? Gli abbiamo violentato la fidanzata, ammazzato un fratello ?". È difficile addormentarsi con queste parole nella testa, spiega Saviano: "Ti distruggono la quotidianità, ti fanno capire che anche le persone intorno a te sono in pericolo". vendette "fredde" Quindi ricorda come, il giorno stesso di quel servizio televisivo, fu ucciso un uomo che aveva denunciato i camorristi nove anni prima, e a cui era stata appena tolta la scorta. Come nel proverbio napoletano Tardariello ma mai scurdariello.
"I camorristi oggi investono a Roma, Parma, Milano, al nord. Si autodefiniscono "imprenditori". Non sono più un problema solo per la mia terra, il sud, ma per tutta l' Italia", avverte Saviano. Tutta l' Italia. Quell' Italia che oggi non vorrebbe vederlo andar via.
Mauro Suttora
il simbolo della lotta contro la camorra andrà forse all' estero
"Non ce la faccio più a continuare così", dice Roberto Saviano, autore del bestseller "Gomorra", diventato un film candidato all'Oscar. Da due anni si nasconde protetto dai carabinieri. Tra minacce e calunnie
di Mauro Suttora
Oggi, 29 ottobre 2008
"Se avessi una famiglia, se avessi dei figli, potrei conservare un equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Tutti i miei "angeli custodi", gli uomini della scorta, hanno almeno tre figli. Ma per me non è così".
Ha compiuto 29 anni il 22 settembre, Roberto Saviano. Ma per il nostro maggior scrittore (un milione e mezzo di copie vendute del suo primo libro Gomorra in 43 Paesi, il film omonimo candidato all' Oscar) è stato un compleanno amaro. Le minacce di morte da parte della camorra si sono infittite. È arrivata anche la notizia (poi smentita) di un attentato entro Natale sull' autostrada Napoli Roma. Lo preparerebbe il camorrista latitante Giuseppe Setola, sfuggito alla retata contro i killer dei sei africani a Casal di Principe (Caserta). E Saviano, che la crede autentica, pare voglia rifugiarsi all' estero. Sarebbe una sconfitta per tutta l' Italia.
Ma lo scrittore non ce la fa più. Ha perso la fidanzata: "Ricordo Serena, una ragazza che è andata via perché la mia vicinanza la lerciava". Questa è la confessione cui Roberto, sempre riservatissimo sulla propria vita privata, si è lasciato scappare di fronte al pubblico del Festival della letteratura di Mantova, nel settembre scorso. I sei minuti d' applausi lo hanno rincuorato, la solitudine rimane.
La donna giusta ? Fuggita
"La sua fidanzata Serena era la donna giusta, l' unica in grado di sopportarlo oltre alla madre", ha svelato il padre, medico. "Non è facile vivere come Roberto, non può venire mai da noi per ragioni di sicurezza. L' anno scorso è morta mia madre, sua nonna. Lui non ha potuto vederla viva l' ultima volta, ma ha preteso di esserci per il funerale. Al paese però è successo di tutto: strade bloccate, un poliziotto con la pistola perfino sull' altare". Una famiglia deflagrata, quella d' origine di Saviano: anche il fratello è stato costretto a trasferirsi in una località segreta del nord Italia.
"Roberto non è mai stato ragazzo", ha raccontato il padre a La Stampa. "Anche quando era piccolo era serio, acuto, pungente. A tredici anni ha letto Il Capitale di Marx e a quattordici si è fatto regalare per il compleanno l' Iliade e l' Odissea. Come vorrei che ci fosse ancora il suo nonno materno, il colonnello Carlo che lo ha cresciuto con il mito della legalità e che adesso scoppierebbe di fierezza".
"Voglio una vita, ecco"
"Fanculo il successo", si è sfogato Roberto su Repubblica. "Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare mia madre senza paura e senza spaventarla. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale, e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto 29 anni !".
"Come dice Von Clausewitz, a un nemico puoi togliere tutto, ma non la rabbia. I camorristi mi hanno tolto la possibilità di una vita normale, perché a me piace rotolarmi nella realtà, lavorare sporcandomi. Ma la rabbia rimane", ha ribadito in una memorabile intervista al programma tv Matrix.
"Non riesco più a scrivere"
"Voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere, perché è quella la mia passione e la mia resistenza. Ma io, per scrivere, non posso vivere come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri oggi qui, domani lontano duecento chilometri spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita".
Lo scorso aprile Saviano è stato invitato a New York, al congresso mondiale degli scrittori del Pen Club. Lì ha ricevuto i complimenti di Salman Rushdie, il romanziere condannato a morte vent' anni fa dai fondamentalisti musulmani per avere insultato Maometto. Oggi Rushdie commenta: "I camorristi sono più pericolosi dei terroristi islamici". Due anni fa, quando dovettero dargli una scorta dopo l' improvviso successo di Gomorra, a Roberto fu proposto di trasferirsi a New York. "Ma rifiutai. Avrei potuto anche scrivere di altro. Sono restato in Italia, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce ?".
"Niente casa in affitto"
Come Oriana Fallaci, Saviano si aggrappa al suo lavoro: "Ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo ai carabinieri di Napoli, che mi proteggono come un figlio. Ma né lì né a Roma trovo qualcuno disposto a darmi una casa in affitto".
Il boss Francesco Schiavone detto Sandokan, in carcere a Opera (Milano) da anni, qualche mese fa ha chiesto ai suoi avvocati di querelare Saviano: lo avrebbe "diffamato". Che cosa voglia dire questa surreale minaccia è presto detto: il 5 ottobre a Casal di Principe viene ucciso Stanislao Cantelli, zio di due pentiti. Di lui Sandokan aveva parlato durante un processo dicendo: "Gli ho sempre voluto bene". Una sentenza di morte ? "I camorristi si spacciano per eroi, ma in realtà sono dei codardi. Ammazzano persone innocenti, indifese, giovani e anziani che non c entrano nulla", spiega Saviano, nero in volto.
Rosaria Capacchione
Il 14 marzo di quest' anno, nell' aula bunker di Poggioreale (Napoli) durante il processo "Spartacus", è stata data lettura di una missiva di Francesco Bidognetti (all' ergastolo) e Antonio Iovine (latitante), con la quale i due capi cosca chiedevano di spostare la sede del processo inquinato dallo "pseudogiornalista" Roberto Saviano, dalla giornalista del Mattino Rosaria Capacchione e dall' allora pm anticamorra Raffaele Cantone. "Non prendi più un treno, non sali più su una macchina che non sia blindata. Cosa fai, con chi esci ?", si sfoga Saviano.
La sorella del boss Cicciariello ha detto in Tv: "Cosa gli abbiamo fatto noi di Casale di Principe ? Gli abbiamo violentato la fidanzata, ammazzato un fratello ?". È difficile addormentarsi con queste parole nella testa, spiega Saviano: "Ti distruggono la quotidianità, ti fanno capire che anche le persone intorno a te sono in pericolo". vendette "fredde" Quindi ricorda come, il giorno stesso di quel servizio televisivo, fu ucciso un uomo che aveva denunciato i camorristi nove anni prima, e a cui era stata appena tolta la scorta. Come nel proverbio napoletano Tardariello ma mai scurdariello.
"I camorristi oggi investono a Roma, Parma, Milano, al nord. Si autodefiniscono "imprenditori". Non sono più un problema solo per la mia terra, il sud, ma per tutta l' Italia", avverte Saviano. Tutta l' Italia. Quell' Italia che oggi non vorrebbe vederlo andar via.
Mauro Suttora
Wednesday, October 29, 2008
Pechino: congresso sui pioppi
PIOPPO SUPERSTAR
Un congresso in Cina celebra l'albero più utile. Ma i massimi esperti sono nel Monferrato
di Mauro Suttora
Libero, mercoledì 29 ottobre 2008
Termina domani a Pechino il 23° Congresso mondiale del pioppo. E fate attenzione prima di dire: «Chi se ne frega». Il pioppo, infatti, è l’albero più utile della Terra. Perché cresce più veloce di tutti (in dieci anni arriva a 25 metri), e fornisce legno per ogni uso: mobili, imballaggi, compensato, confezioni di camembert, fiammiferi, cassette della frutta, carta. Senza il pioppo, non potreste leggere questo articolo. Di pioppo era fatta la croce di Cristo, per lo meno secondo una canzone dei minatori del Michigan di cent’anni fa. E su legno di pioppo Leonardo dipinse la Monna Lisa. Insomma, il congresso dei pioppicoltori è in realtà uno degli avvenimenti più importanti del mondo.
Se il massimo organismo di governo per gli umani è il Consiglio di sicurezza dell'Onu, si può sostenere che la Commissione internazionale del pioppo lo è per gli alberi. Questa Commissione è nata 60 anni fa e, come le Olimpiadi, anche i suoi congressi si tengono ogni quattro anni. Il suo presidente, presso la Fao a Roma, è un italiano: il professor Stefano Risoffi. E l’ambasciatore Paolo Ducci coordina i rapporti con la Farnesina.
Quest’anno il congresso si tiene a Pechino perché la Cina, come in molte altre cose, anche nei pioppi sta superando tutti. La sua superficie coltivata è esplosa negli ultimi anni: oggi ha raggiunto i sei milioni di ettari. La Francia, maggior produttore europeo, ne ha trenta volte di meno: 200 mila ettari. L’Italia centomila. «La metà rispetto a vent’anni fa, perché i pioppi sono l’unica coltura non sovvenzionata dall’Unione europea», ci spiega il conte Federico Radice Fossati, uno dei massimi pioppicoltori italiani: «Riceviamo solo un incentivo al momento della piantumazione, poi nulla. Così gli agricoltori preferiscono tenere i terreni liberi e scegliere cosa seminare di anno in anno a seconda dei contributi di Bruxelles, piuttosto che immobilizzarli per dieci anni con i pioppi».
Esposto alla globalizzazione e al libero mercato, il pioppo italiano non se la passa granché bene. Continua a fornire la metà del legno prodotto in Italia, pur coprendo solo il 3,5% della superficie forestale. Però i nostri falegnami e industriali del mobile che devono comprare pannelli di compensato trovano più conveniente farli arrivare dalla Cina.
Ciononostante, l’Italia rimane il centro mondiale dei pioppi. E questo grazie a un laboratorio di Casale Monferrato (Alessandria), dove operano gli scienziati più bravi del settore. Fino a un anno fa si chiamava Istituto di sperimentazione per la pioppicoltura. Poi qualche burocrate ha cambiato il nome in «Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Unità per le Produzioni Legnose Fuori Foresta». Ma fa niente, l’eccellenza è rimasta.
Casale Monferrato è per i pioppi quel che la Silicon Valley rappresenta per i computer, o Hollywood per il cinema. Qui arrivano ricercatori cinesi, cileni e turchi per imparare a selezionare sementi e talee del pioppo, a studiare la genetica, a imparare cure e clonazioni. E i nostri scienziati vanno in giro per il mondo a insegnare il loro prezioso know-how, accumulato da quando nel 1939 le cartiere Burgo fondarono l’Istituto per sconfiggere una malattia che devastava i pioppi.
Per questo oggi gli italiani sono fieri dell’exploit cinese: perché è opera di consulenti italiani. Uno di loro, il professor Bisoffi, l’anno scorso è stato premiato dal governo di Pechino per avere selezionato le varietà di pioppo più adatte al clima locale. Ed è stato eletto presidente della Commissione internazionale della Fao. I 300 mila pioppi attorno alla capitale cinese, per esempio, producevano troppo polline e provocavano asma e allergie? Sono diventati transessuali: con iniezioni agli alberi maschili hanno letteralmente cambiato sesso.
«E grazie a Ogm italiani sempre in Cina vengono risanati terreni salini dove non si possono coltivare cereali», racconta Radice Fossati. Insomma, anche se non fa notizia e lo vediamo di meno ai bordi delle nostre autostrade, la notizia è che il pioppo italiano continua a dominare il mondo.
Mauro Suttora
Un congresso in Cina celebra l'albero più utile. Ma i massimi esperti sono nel Monferrato
di Mauro Suttora
Libero, mercoledì 29 ottobre 2008
Termina domani a Pechino il 23° Congresso mondiale del pioppo. E fate attenzione prima di dire: «Chi se ne frega». Il pioppo, infatti, è l’albero più utile della Terra. Perché cresce più veloce di tutti (in dieci anni arriva a 25 metri), e fornisce legno per ogni uso: mobili, imballaggi, compensato, confezioni di camembert, fiammiferi, cassette della frutta, carta. Senza il pioppo, non potreste leggere questo articolo. Di pioppo era fatta la croce di Cristo, per lo meno secondo una canzone dei minatori del Michigan di cent’anni fa. E su legno di pioppo Leonardo dipinse la Monna Lisa. Insomma, il congresso dei pioppicoltori è in realtà uno degli avvenimenti più importanti del mondo.
Se il massimo organismo di governo per gli umani è il Consiglio di sicurezza dell'Onu, si può sostenere che la Commissione internazionale del pioppo lo è per gli alberi. Questa Commissione è nata 60 anni fa e, come le Olimpiadi, anche i suoi congressi si tengono ogni quattro anni. Il suo presidente, presso la Fao a Roma, è un italiano: il professor Stefano Risoffi. E l’ambasciatore Paolo Ducci coordina i rapporti con la Farnesina.
Quest’anno il congresso si tiene a Pechino perché la Cina, come in molte altre cose, anche nei pioppi sta superando tutti. La sua superficie coltivata è esplosa negli ultimi anni: oggi ha raggiunto i sei milioni di ettari. La Francia, maggior produttore europeo, ne ha trenta volte di meno: 200 mila ettari. L’Italia centomila. «La metà rispetto a vent’anni fa, perché i pioppi sono l’unica coltura non sovvenzionata dall’Unione europea», ci spiega il conte Federico Radice Fossati, uno dei massimi pioppicoltori italiani: «Riceviamo solo un incentivo al momento della piantumazione, poi nulla. Così gli agricoltori preferiscono tenere i terreni liberi e scegliere cosa seminare di anno in anno a seconda dei contributi di Bruxelles, piuttosto che immobilizzarli per dieci anni con i pioppi».
Esposto alla globalizzazione e al libero mercato, il pioppo italiano non se la passa granché bene. Continua a fornire la metà del legno prodotto in Italia, pur coprendo solo il 3,5% della superficie forestale. Però i nostri falegnami e industriali del mobile che devono comprare pannelli di compensato trovano più conveniente farli arrivare dalla Cina.
Ciononostante, l’Italia rimane il centro mondiale dei pioppi. E questo grazie a un laboratorio di Casale Monferrato (Alessandria), dove operano gli scienziati più bravi del settore. Fino a un anno fa si chiamava Istituto di sperimentazione per la pioppicoltura. Poi qualche burocrate ha cambiato il nome in «Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Unità per le Produzioni Legnose Fuori Foresta». Ma fa niente, l’eccellenza è rimasta.
Casale Monferrato è per i pioppi quel che la Silicon Valley rappresenta per i computer, o Hollywood per il cinema. Qui arrivano ricercatori cinesi, cileni e turchi per imparare a selezionare sementi e talee del pioppo, a studiare la genetica, a imparare cure e clonazioni. E i nostri scienziati vanno in giro per il mondo a insegnare il loro prezioso know-how, accumulato da quando nel 1939 le cartiere Burgo fondarono l’Istituto per sconfiggere una malattia che devastava i pioppi.
Per questo oggi gli italiani sono fieri dell’exploit cinese: perché è opera di consulenti italiani. Uno di loro, il professor Bisoffi, l’anno scorso è stato premiato dal governo di Pechino per avere selezionato le varietà di pioppo più adatte al clima locale. Ed è stato eletto presidente della Commissione internazionale della Fao. I 300 mila pioppi attorno alla capitale cinese, per esempio, producevano troppo polline e provocavano asma e allergie? Sono diventati transessuali: con iniezioni agli alberi maschili hanno letteralmente cambiato sesso.
«E grazie a Ogm italiani sempre in Cina vengono risanati terreni salini dove non si possono coltivare cereali», racconta Radice Fossati. Insomma, anche se non fa notizia e lo vediamo di meno ai bordi delle nostre autostrade, la notizia è che il pioppo italiano continua a dominare il mondo.
Mauro Suttora
Monday, October 27, 2008
intervista al ministro Alfano
"Farò giustizia mettendo il turbo ai processi"
di Mauro Suttora
Oggi, 22 ottobre 2008
Cognome: Alfano. Nome: Lodo. Ministro, lo sa che rischia di passare alla storia così ?
"Ma io non pretendo di entrare nella storia. Mi accontenterei di riuscire a fare qualcosa di buono per questo Paese...".
Comunque vada, Angelino Alfano un record l' ha già conquistato: a 37 anni, è il più giovane ministro della Giustizia nella storia d' Italia. Mentre aspetto che torni dal fine settimana a Palermo, guardo i ritratti di tutti i suoi predecessori nel corridoio principale del ministero di via Arenula. Molti non hanno nome, ma alcuni si riconoscono: Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Claudio Martelli. Il più buffo: Roberto Castelli, con sciarpone verde da leghista.
Alfano viene dalla punta opposta d' Italia: suo padre era vicesindaco dc di Agrigento. Appena nominato, a maggio, ha fatto imbestialire l' opposizione con il suo "lodo", che garantisce l' immunità (impunità, secondo gli avversari) al presidente del Consiglio Berlusconi e alle altre tre più alte cariche dello Stato: i presidenti di Camera, Senato e Repubblica.
Ministro, ammetta che questo "lodo" non è il massimo: altro che cittadini uguali di fronte alla legge, si torna ai tempi del sovrano assoluto, cioè ab solutus, sciolto dagli impicci dei tribunali.
Ma Alfano, placido come i democristiani che oggi quasi rimpiangiamo di fronte a certi isterici in Tv, risponde tranquillo, seduto sul divano: "No, guardi, è una buona legge che consente a chi governa di svolgere serenamente il proprio mandato, e di essere giudicato poi dagli elettori. Gli eventuali processi non si annullano, si sospendono".
Ma se Berlusconi rimane premier per tutta la legislatura e poi viene eletto al Quirinale, la sospensione dura dodici anni: fino al 2020. Perfino il presidente Clinton ha dovuto rispondere alle accuse di Monica, in Italia nulla ?
"Questo non sarà possibile: i mandati non sono cumulabili. E poi fino a 15 anni fa l' immunità copriva tutti i parlamentari, ma nessuno contestò i padri costituenti per avere introdotto questa garanzia".
Sul lodo Alfano deciderà la Corte costituzionale, e forse un referendum. Invece l' altra sua iniziativa, la riforma della giustizia, pare sia stata accolta bene.
"Sì, è già passata alla Camera e ora è al Senato. Serve ad accelerare il processo civile, e a smaltire i quattro milioni di procedimenti pendenti. Ora i tempi sono così da lumaca che si dice "fammi pure causa, poi vediamo". È più facile passare a miglior vita che ottenere una sentenza: le udienze oggi vengono fissate al 2012".
E quindi ?
"Introduciamo un massiccio uso di Internet. Puniamo chi gioca ad allungare i tempi. Vogliamo semplificare i rapporti, diminuendo i riti, eliminando una trentina di strade da percorrere per arrivare al giudizio".
Altre novità: la pausa estiva sarà di trenta giorni, e non più di un mese e mezzo. Il valore delle cause di competenza dei giudici di pace aumenterà a 7.500 euro, e a 25 mila per i risarcimenti su veicoli e barche. Le sentenze non verranno più pubblicate sui giornali, ma sul sito del ministero. Velocità e risparmi, insomma. Anche nel penale ?
"Certo. Subiamo condanne dell' Unione europea per la nostra lentezza, che in campo penale significa non certezza della pena. L' inefficienza tiene in carcere troppi detenuti in attesa di giudizio, con costi sia per i contribuenti, sia per gli imputati poi giudicati innocenti. E spesso il condannato la fa franca".
Che cosa farete, quindi ? Più giudici ? Fra togati e onorari, l' Italia ne conta 22 ogni 100 mila abitanti, contro i 68 della Germania...
"No, i magistrati italiani sono sufficienti. Ne stiamo assumendo 500 con un concorso a novembre. Il problema è restituire efficienza alle procedure, eliminando i tempi morti".
Anche perché i magistrati costano. I loro stipendi, tre anni dopo il concorso, sono già di 3.200 euro netti al mese. E arrivano automaticamente a seimila dopo 20 anni di carriera. Alfano ha accantonato, per ora, la riforma più spinosa promessa dal centrodestra: la separazione delle funzioni fra magistrati giudicanti e dell' accusa.
"Ci vuole parità fra accusa e difesa. I protagonisti del processo sono tre: pm, avvocati e giudici. Però se due di questi fanno il concorso assieme, hanno gli uffici vicini, frequentano lo stesso bar e magari nelle piccole città di provincia vanno pure a casa assieme, alla fine si danno del tu. Mentre l' avvocato deve dare del lei a entrambi. E lì finisce la parità".
Lei è andato a Bucarest con l' obiettivo di far scontare la pena nel loro Paese ai condannati stranieri. Quando succederà ?
"Un detenuto nelle carceri italiane costa parecchio allo Stato...".
Seimila euro al mese.
"A parte la cifra, il dato è che 38 carcerati su cento sono stranieri. Dobbiamo quindi trovare accordi bilaterali per trasferirli nei loro Paesi d' origine, a patto che scontino effettivamente la pena. È un problema che riguarda tutta l' Europa. Che sia quindi l' Unione europea a stringere accordi quadro con i Paesi in questione, come i nordafricani".
Altre novità ?
"Cè un' iniziativa cui tengo molto: i bimbi da zero a tre anni, figli delle detenute, non dovranno più stare in cella, ma in ambienti più accoglienti. Sempre custoditi, assieme alle loro mamme, ma senza dar loro l' impressione di stare in un carcere".
Intanto la vita è diventata un carcere per lei: scorta obbligata per un ministro della Giustizia, e per di più siciliano.
"Appena diventato ministro ho cambiato casa a Roma, quella di prima non era sorvegliabile senza bloccare mezzo quartiere. Mia moglie e i miei figli restano a Palermo, loro preferiscono così. Tiziana mi ha seguito prima a Milano all' università Cattolica, poi è tornata giù per seguire me". Quando ha chiesto di sposarla ? "Ricordo esattamente dove e quando: fu un momento magico. Eravamo a Londra".
Che passatempi avete ?
"Il mare, la musica. Avrò visto sei volte Guccini in concerto, anche se è di sinistra. Autogrill è una canzone straordinaria, ma ne so molte di sue a memoria".
Lei ha fama di secchione. Per diventare ministro, meglio far carriera da deputato o entrare nello staff di Berlusconi ?
"Io ho fatto entrambe le cose, dopo essere stato eletto consigliere provinciale e regionale, e deputato nazionale per Forza Italia. Ma, soprattutto, ho studiato, studiato, studiato...".
Com' è Berlusconi da vicino ?
"Un lavoratore incredibile. Comincia alle 7 del mattino, e a quell' ora ha già letto tutti i giornali. Quelli che non ha scorso alle due di notte, appena stampati".
Se non avesse fatto politica ?
"Mi sarebbe piaciuto il giornalismo".
Sempre stato democristiano ?
"Mio padre. Io ho avuto una militanza giovanile da ragazzino, ma ho messo piede nelle istituzioni con Forza Italia, cui ho aderito nel 1994. Quando Leoluca Orlando era sindaco di Palermo per la Dc, noi giovani eravamo molto attratti da lui".
Oggi Orlando è un durissimo avversario di Berlusconi.
"Sì, ma quella stagione ci segnò tutti. Avevo 12 anni quando ammazzarono Dalla Chiesa, 22 ai tempi degli omicidi Falcone e Borsellino. Siamo una generazione naturalmente antimafiosa. Il nostro eroe è Rosario Livatino, il "giudice ragazzino".
Parola di "ministro ragazzino".
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 22 ottobre 2008
Cognome: Alfano. Nome: Lodo. Ministro, lo sa che rischia di passare alla storia così ?
"Ma io non pretendo di entrare nella storia. Mi accontenterei di riuscire a fare qualcosa di buono per questo Paese...".
Comunque vada, Angelino Alfano un record l' ha già conquistato: a 37 anni, è il più giovane ministro della Giustizia nella storia d' Italia. Mentre aspetto che torni dal fine settimana a Palermo, guardo i ritratti di tutti i suoi predecessori nel corridoio principale del ministero di via Arenula. Molti non hanno nome, ma alcuni si riconoscono: Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Claudio Martelli. Il più buffo: Roberto Castelli, con sciarpone verde da leghista.
Alfano viene dalla punta opposta d' Italia: suo padre era vicesindaco dc di Agrigento. Appena nominato, a maggio, ha fatto imbestialire l' opposizione con il suo "lodo", che garantisce l' immunità (impunità, secondo gli avversari) al presidente del Consiglio Berlusconi e alle altre tre più alte cariche dello Stato: i presidenti di Camera, Senato e Repubblica.
Ministro, ammetta che questo "lodo" non è il massimo: altro che cittadini uguali di fronte alla legge, si torna ai tempi del sovrano assoluto, cioè ab solutus, sciolto dagli impicci dei tribunali.
Ma Alfano, placido come i democristiani che oggi quasi rimpiangiamo di fronte a certi isterici in Tv, risponde tranquillo, seduto sul divano: "No, guardi, è una buona legge che consente a chi governa di svolgere serenamente il proprio mandato, e di essere giudicato poi dagli elettori. Gli eventuali processi non si annullano, si sospendono".
Ma se Berlusconi rimane premier per tutta la legislatura e poi viene eletto al Quirinale, la sospensione dura dodici anni: fino al 2020. Perfino il presidente Clinton ha dovuto rispondere alle accuse di Monica, in Italia nulla ?
"Questo non sarà possibile: i mandati non sono cumulabili. E poi fino a 15 anni fa l' immunità copriva tutti i parlamentari, ma nessuno contestò i padri costituenti per avere introdotto questa garanzia".
Sul lodo Alfano deciderà la Corte costituzionale, e forse un referendum. Invece l' altra sua iniziativa, la riforma della giustizia, pare sia stata accolta bene.
"Sì, è già passata alla Camera e ora è al Senato. Serve ad accelerare il processo civile, e a smaltire i quattro milioni di procedimenti pendenti. Ora i tempi sono così da lumaca che si dice "fammi pure causa, poi vediamo". È più facile passare a miglior vita che ottenere una sentenza: le udienze oggi vengono fissate al 2012".
E quindi ?
"Introduciamo un massiccio uso di Internet. Puniamo chi gioca ad allungare i tempi. Vogliamo semplificare i rapporti, diminuendo i riti, eliminando una trentina di strade da percorrere per arrivare al giudizio".
Altre novità: la pausa estiva sarà di trenta giorni, e non più di un mese e mezzo. Il valore delle cause di competenza dei giudici di pace aumenterà a 7.500 euro, e a 25 mila per i risarcimenti su veicoli e barche. Le sentenze non verranno più pubblicate sui giornali, ma sul sito del ministero. Velocità e risparmi, insomma. Anche nel penale ?
"Certo. Subiamo condanne dell' Unione europea per la nostra lentezza, che in campo penale significa non certezza della pena. L' inefficienza tiene in carcere troppi detenuti in attesa di giudizio, con costi sia per i contribuenti, sia per gli imputati poi giudicati innocenti. E spesso il condannato la fa franca".
Che cosa farete, quindi ? Più giudici ? Fra togati e onorari, l' Italia ne conta 22 ogni 100 mila abitanti, contro i 68 della Germania...
"No, i magistrati italiani sono sufficienti. Ne stiamo assumendo 500 con un concorso a novembre. Il problema è restituire efficienza alle procedure, eliminando i tempi morti".
Anche perché i magistrati costano. I loro stipendi, tre anni dopo il concorso, sono già di 3.200 euro netti al mese. E arrivano automaticamente a seimila dopo 20 anni di carriera. Alfano ha accantonato, per ora, la riforma più spinosa promessa dal centrodestra: la separazione delle funzioni fra magistrati giudicanti e dell' accusa.
"Ci vuole parità fra accusa e difesa. I protagonisti del processo sono tre: pm, avvocati e giudici. Però se due di questi fanno il concorso assieme, hanno gli uffici vicini, frequentano lo stesso bar e magari nelle piccole città di provincia vanno pure a casa assieme, alla fine si danno del tu. Mentre l' avvocato deve dare del lei a entrambi. E lì finisce la parità".
Lei è andato a Bucarest con l' obiettivo di far scontare la pena nel loro Paese ai condannati stranieri. Quando succederà ?
"Un detenuto nelle carceri italiane costa parecchio allo Stato...".
Seimila euro al mese.
"A parte la cifra, il dato è che 38 carcerati su cento sono stranieri. Dobbiamo quindi trovare accordi bilaterali per trasferirli nei loro Paesi d' origine, a patto che scontino effettivamente la pena. È un problema che riguarda tutta l' Europa. Che sia quindi l' Unione europea a stringere accordi quadro con i Paesi in questione, come i nordafricani".
Altre novità ?
"Cè un' iniziativa cui tengo molto: i bimbi da zero a tre anni, figli delle detenute, non dovranno più stare in cella, ma in ambienti più accoglienti. Sempre custoditi, assieme alle loro mamme, ma senza dar loro l' impressione di stare in un carcere".
Intanto la vita è diventata un carcere per lei: scorta obbligata per un ministro della Giustizia, e per di più siciliano.
"Appena diventato ministro ho cambiato casa a Roma, quella di prima non era sorvegliabile senza bloccare mezzo quartiere. Mia moglie e i miei figli restano a Palermo, loro preferiscono così. Tiziana mi ha seguito prima a Milano all' università Cattolica, poi è tornata giù per seguire me". Quando ha chiesto di sposarla ? "Ricordo esattamente dove e quando: fu un momento magico. Eravamo a Londra".
Che passatempi avete ?
"Il mare, la musica. Avrò visto sei volte Guccini in concerto, anche se è di sinistra. Autogrill è una canzone straordinaria, ma ne so molte di sue a memoria".
Lei ha fama di secchione. Per diventare ministro, meglio far carriera da deputato o entrare nello staff di Berlusconi ?
"Io ho fatto entrambe le cose, dopo essere stato eletto consigliere provinciale e regionale, e deputato nazionale per Forza Italia. Ma, soprattutto, ho studiato, studiato, studiato...".
Com' è Berlusconi da vicino ?
"Un lavoratore incredibile. Comincia alle 7 del mattino, e a quell' ora ha già letto tutti i giornali. Quelli che non ha scorso alle due di notte, appena stampati".
Se non avesse fatto politica ?
"Mi sarebbe piaciuto il giornalismo".
Sempre stato democristiano ?
"Mio padre. Io ho avuto una militanza giovanile da ragazzino, ma ho messo piede nelle istituzioni con Forza Italia, cui ho aderito nel 1994. Quando Leoluca Orlando era sindaco di Palermo per la Dc, noi giovani eravamo molto attratti da lui".
Oggi Orlando è un durissimo avversario di Berlusconi.
"Sì, ma quella stagione ci segnò tutti. Avevo 12 anni quando ammazzarono Dalla Chiesa, 22 ai tempi degli omicidi Falcone e Borsellino. Siamo una generazione naturalmente antimafiosa. Il nostro eroe è Rosario Livatino, il "giudice ragazzino".
Parola di "ministro ragazzino".
Mauro Suttora
Tuesday, October 14, 2008
Ponti inutili a Roma
VENTI MILIONI PER DUE PONTI CICLOPEDONALI
L'eredità folle di Rutelli e Veltroni
Libero, martedì 14 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Il Comune di Roma butta quasi venti milioni di euro per costruire due ponti che non servono a nulla. Oggi cominciano i lavori per il Ponte della Musica (11,8 milioni) e quello della Scienza (6,2 milioni). Dio solo sa quanto il traffico di Roma abbia bisogno di ponti sul Tevere per alleggerire la fiumana di auto che blocca la città. Soprattutto nelle zone dove i ponti sorgeranno: il primo a nord, fra il lungotevere Flaminio e il Foro Italico, il secondo a sud, fra i quartieri Ostiense e Portuense. Lì c’è veramente carenza di collegamenti fra le due rive, perché i ponti più vicini distano quasi due chilometri.
Ebbene, l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini oggi inaugura invece due ponti «ciclopedonali». Sui quali le auto non possono passare, e men che meno tram e bus. Quindi inutili, perché da quelle parti pedoni e bici non si avventurano. Roma ha già tre bellissimi ponti pedonali antichi: il Milvio reso famoso dai lucchetti degli innamorati di Moccia, e in centro quelli di Castel Sant’Angelo e il Sisto, che da Trastevere porta a Campo dei Fiori. Servono a turisti e cittadini, sono stretti, vietarli alle auto è stato saggio.
Questi nuovi ponti, invece, sono una follia. Uno spreco di soldi pubblici. La colpa non è dello sventurato assessore Corsini: i progetti «ecologissimi» sono infatti un’eredità di Rutelli e Veltroni. Il bando di concorso risale al 2000, ben otto anni fa. E la nuova giunta Alemanno non può buttare nella pattumiera tutti i progetti del passato, come ha fatto col parcheggio del Pincio. Tuttavia, sfidiamo chiunque ad andare sul lungotevere Cadorna o sotto il gasometro Ostiense e contare le persone, i cani e le bici che vi transitano ogni giorno, non vedendo l’ora di attraversare il Tevere.
Il ponte della Musica è stato leggiadramente battezzato così perché, nei piani fantasmagorici di Rutelli e Veltroni, dovrebbe collegare l’Auditorium della Musica, il nuovo museo Maxxi e perfino il parco di Villa Glori (molto più indietro) al Foro Italico, attraverso via Guido Reni. Peccato che si tratti di un percorso lunghissimo perfino per i clienti con zaino dell’ostello della Gioventù, che infatti ci arrivano in bus.
Ma le vette della poesia si raggiungono per l’altro ponte, chiamato «della Scienza» perché in quelle aree industriali oggi dismesse, dove si rischia lo stupro, invece di utili case il Comune minaccia di costruire un ennesimo museo, della Scienza appunto.
Ecco come i tre progettisti dello studio APsT presentano il loro ponte, in puro stile «architettese»: «Il ponte metafora del collegamento, dell’unire, si pone come mezzo attraverso il quale tentare una “ricucitura” con le due parti della città, ma soprattutto con il tempo perduto. Il rapporto con il luogo viene, infatti, istituito mediante l’individuazione di corrispondenze atte a rivelare una percezione emotiva, un carattere, una presenza anziché un riferimento più o meno diretto. L’intenzione alla base della concezione del progetto è quella di cercare, di preservare e rendere evidente questo carattere negato, obliato. L’idea che il tempo si sia fermato e che quest’area custodisca un tempo “altro” da quello che si vive quotidianamente, attribuisce notevole interesse e valore al progetto del ponte della Scienza.
« (…) La strategia del progetto del ponte, mediante la concezione di una struttura portante “scarnificata” sin nei minimi termini, appesa ad un filo, vuole testimoniare non un atto d’intelligenza bensì una violenza subita che ci toglie la calma e ci induce alla ricerca di un significato che ristabilisca una condizione di equilibrio che procede per opposizioni e corrispondenze. L’interpretazione di questi segni, della loro realtà noumenica è come un alfabeto senza fine. L’obiettivo è quello della risemantizzazione della forma architettonica attraverso un vocabolario di dissonanze che sottolineano la complessità percettiva e costruttiva. Questa metodologia diacronica ed asimmetrica viene applicata dalla scala urbana a quella di progetto fin nei dettagli (…)»
Italiani popolo di poeti, più che di costruttori…
Mauro Suttora
L'eredità folle di Rutelli e Veltroni
Libero, martedì 14 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Il Comune di Roma butta quasi venti milioni di euro per costruire due ponti che non servono a nulla. Oggi cominciano i lavori per il Ponte della Musica (11,8 milioni) e quello della Scienza (6,2 milioni). Dio solo sa quanto il traffico di Roma abbia bisogno di ponti sul Tevere per alleggerire la fiumana di auto che blocca la città. Soprattutto nelle zone dove i ponti sorgeranno: il primo a nord, fra il lungotevere Flaminio e il Foro Italico, il secondo a sud, fra i quartieri Ostiense e Portuense. Lì c’è veramente carenza di collegamenti fra le due rive, perché i ponti più vicini distano quasi due chilometri.
Ebbene, l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini oggi inaugura invece due ponti «ciclopedonali». Sui quali le auto non possono passare, e men che meno tram e bus. Quindi inutili, perché da quelle parti pedoni e bici non si avventurano. Roma ha già tre bellissimi ponti pedonali antichi: il Milvio reso famoso dai lucchetti degli innamorati di Moccia, e in centro quelli di Castel Sant’Angelo e il Sisto, che da Trastevere porta a Campo dei Fiori. Servono a turisti e cittadini, sono stretti, vietarli alle auto è stato saggio.
Questi nuovi ponti, invece, sono una follia. Uno spreco di soldi pubblici. La colpa non è dello sventurato assessore Corsini: i progetti «ecologissimi» sono infatti un’eredità di Rutelli e Veltroni. Il bando di concorso risale al 2000, ben otto anni fa. E la nuova giunta Alemanno non può buttare nella pattumiera tutti i progetti del passato, come ha fatto col parcheggio del Pincio. Tuttavia, sfidiamo chiunque ad andare sul lungotevere Cadorna o sotto il gasometro Ostiense e contare le persone, i cani e le bici che vi transitano ogni giorno, non vedendo l’ora di attraversare il Tevere.
Il ponte della Musica è stato leggiadramente battezzato così perché, nei piani fantasmagorici di Rutelli e Veltroni, dovrebbe collegare l’Auditorium della Musica, il nuovo museo Maxxi e perfino il parco di Villa Glori (molto più indietro) al Foro Italico, attraverso via Guido Reni. Peccato che si tratti di un percorso lunghissimo perfino per i clienti con zaino dell’ostello della Gioventù, che infatti ci arrivano in bus.
Ma le vette della poesia si raggiungono per l’altro ponte, chiamato «della Scienza» perché in quelle aree industriali oggi dismesse, dove si rischia lo stupro, invece di utili case il Comune minaccia di costruire un ennesimo museo, della Scienza appunto.
Ecco come i tre progettisti dello studio APsT presentano il loro ponte, in puro stile «architettese»: «Il ponte metafora del collegamento, dell’unire, si pone come mezzo attraverso il quale tentare una “ricucitura” con le due parti della città, ma soprattutto con il tempo perduto. Il rapporto con il luogo viene, infatti, istituito mediante l’individuazione di corrispondenze atte a rivelare una percezione emotiva, un carattere, una presenza anziché un riferimento più o meno diretto. L’intenzione alla base della concezione del progetto è quella di cercare, di preservare e rendere evidente questo carattere negato, obliato. L’idea che il tempo si sia fermato e che quest’area custodisca un tempo “altro” da quello che si vive quotidianamente, attribuisce notevole interesse e valore al progetto del ponte della Scienza.
« (…) La strategia del progetto del ponte, mediante la concezione di una struttura portante “scarnificata” sin nei minimi termini, appesa ad un filo, vuole testimoniare non un atto d’intelligenza bensì una violenza subita che ci toglie la calma e ci induce alla ricerca di un significato che ristabilisca una condizione di equilibrio che procede per opposizioni e corrispondenze. L’interpretazione di questi segni, della loro realtà noumenica è come un alfabeto senza fine. L’obiettivo è quello della risemantizzazione della forma architettonica attraverso un vocabolario di dissonanze che sottolineano la complessità percettiva e costruttiva. Questa metodologia diacronica ed asimmetrica viene applicata dalla scala urbana a quella di progetto fin nei dettagli (…)»
Italiani popolo di poeti, più che di costruttori…
Mauro Suttora
Friday, October 10, 2008
Consiglio d'Europa: giustizia lenta
Processi: siamo i peggiori d'Europa
In Italia cinque milioni di giudizi aperti, cinquecento giorni per una sentenza e il record di avvocati per abitante
Libero, 10 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Per fortuna il Consiglio d’Europa pubblica il suo Rapporto sull’efficienza della giustizia soltanto ogni quattro anni, perché ogni volta per l’Italia sono dolori. Il disastro sta tutto in tre numeri. Il primo, tre milioni e 688 mila, è la quantità delle cause civili pendenti. Il secondo è l’arretrato dei processi penali: un milione e 200 mila. Il terzo è il tempo che occorre in media per ottenere giustizia: 507 giorni prima di una sentenza civile di primo grado. I dati risalgono al primo gennaio 2007. Da allora sono peggiorati.
Il dramma è che siamo di gran lunga soli al comando in tutte queste classifiche. Sui 47 Stati che compongono il Consiglio d’Europa (compresi Azerbaigian e Georgia), nessuno riesce a far peggio. Anzi, per la verità sì: in Bosnia il processo civile dura 701 giorni, e in Croazia un mese più che in Italia. Ma il confronto con l’Europa anche balcanica è impietoso.
Lasciamo perdere gli inarrivabili scandinavi, con arretrati di appena settemila processi in Norvegia e 17 mila in Svezia. La Francia, seconda in classifica e con gli stessi nostri abitanti, ha un milione di cause pendenti: un terzo dell’Italia. La Germania mezzo milione, e 287 mila sono i suoi processi penali (meno di un quarto). Ma tutti, proprio tutti, ci surclassano: dalla Spagna alla Turchia, dalla Polonia alla Russia (25 giorni per una sentenza a Mosca).
Di chi è la colpa? L’unico innocente è forse l’attuale massimo responsabile del carrozzone Giustizia, il ministro Angelino Alfano, da troppo poco in carica: cinque mesi. La sua riforma è passata alla Camera, ora è al Senato. Semplificherà e velocizzerà, ferie estive ridotte da 45 a trenta giorni, una trentina di riti aboliti, aumentate le cause smaltite dai giudici di pace.
Intanto, però, prendiamocela anche con noi stessi. Siamo i più litigiosamente incontinenti del continente: quasi tre milioni di nuove cause all’anno, e quindi un arretrato che aumenta di 200 mila ogni dodici mesi. Vantiamo il record degli avvocati, 290 ogni centomila abitanti. Ci superano solo i greci che però ne contano dodici per ogni giudice, mentre noi ne abbiamo più del doppio. I Paesi normali come la Francia hanno sette avvocati per giudice, sei Germania e Svizzera, tre Svezia e Inghilterra. A Londra gli azzeccagarbugli sono quattordici volte meno dei nostri, a Parigi un quarto, a Berlino la metà: «Causa che pende, causa che rende».
Dobbiamo fare di necessità virtù, cosicché svettiamo nella graduatoria del minor numero di divorzi contenziosii: appena 34 ogni centomila abitanti, contro 90 dei secondi classificati Portogallo e Austria, 127 in Spagna, 170 in Francia, 285 in Svezia e addirittura 368 in Lettonia.
I nostri divorziandi si vogliono ancora bene, ed evitano quindi di litigare? Macchè. Il problema è che la durata media di una nostra causa di divorzio è di ben 634 giorni, quasi due anni. E quindi tutti cercano la consensuale: ci si mette d’accordo prima, i giudici servono solo per il timbro. Nella libertina Olanda invece basta aspettare 25 giorni. Ma non è questione di religione, perché la cattolicissima Lituania scioglie i matrimoni in 39 giorni. Tre mesi ci mettono i danesi, cinque i turchi.
Siamo indietro con i computer, spendiamo solo l’1,7 del bilancio giustizia, contro l’otto dell’Irlanda, il sei dell’Austria e il 2,2 della Germania. In compenso, il 69% va in stipendi di magistrati e cancellieri, contro il 57% in Germania, il 47 in Francia, il 45 in Irlanda.
Sulle retribuzioni dei nostri magistrati nel rapporto di Strasburgo c’è un piccolo trucco. Vengono indicate solo quelle degli appena assunti (37 mila euro annui) e i massimi, da giudici di cassazione (seimila netti al mese). Dimenticando che appena tre anni dopo il concorso i magistrati incassano 3.200 mensili, che dopo tredici anni tutti, bravi e asini, scattano automaticamente a 4.500, che per il massimo di seimila bastano vent’anni d’anzianità. Che i giudici amministrativi ci arrivano già dopo otto anni. E che le indennità per le «sedi disagiate» al Sud, in discussione proprio in questi giorni, ammontano a ulteriori 45 mila euro annui, più undicimila per il trasloco.
Intanto, però, in certi uffici mancano perfino i soldi per i toner delle stampanti.
Chiunque di noi, d’altronde, entrando in un qualsiasi tribunale, ha la sensazione di tornare non al secolo scorso, ma a due secoli fa. Come nell’Ottocento, infatti, i fascicoli vengono accatastati nelle cancellerie, l’informatizzazione è un sogno, e gli avvocati civilisti sono costretti a scrivere da soli i verbali, con la penna. A volte la biro sostituisce la stilografica. Ma non sempre…
Mauro Suttora
In Italia cinque milioni di giudizi aperti, cinquecento giorni per una sentenza e il record di avvocati per abitante
Libero, 10 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Per fortuna il Consiglio d’Europa pubblica il suo Rapporto sull’efficienza della giustizia soltanto ogni quattro anni, perché ogni volta per l’Italia sono dolori. Il disastro sta tutto in tre numeri. Il primo, tre milioni e 688 mila, è la quantità delle cause civili pendenti. Il secondo è l’arretrato dei processi penali: un milione e 200 mila. Il terzo è il tempo che occorre in media per ottenere giustizia: 507 giorni prima di una sentenza civile di primo grado. I dati risalgono al primo gennaio 2007. Da allora sono peggiorati.
Il dramma è che siamo di gran lunga soli al comando in tutte queste classifiche. Sui 47 Stati che compongono il Consiglio d’Europa (compresi Azerbaigian e Georgia), nessuno riesce a far peggio. Anzi, per la verità sì: in Bosnia il processo civile dura 701 giorni, e in Croazia un mese più che in Italia. Ma il confronto con l’Europa anche balcanica è impietoso.
Lasciamo perdere gli inarrivabili scandinavi, con arretrati di appena settemila processi in Norvegia e 17 mila in Svezia. La Francia, seconda in classifica e con gli stessi nostri abitanti, ha un milione di cause pendenti: un terzo dell’Italia. La Germania mezzo milione, e 287 mila sono i suoi processi penali (meno di un quarto). Ma tutti, proprio tutti, ci surclassano: dalla Spagna alla Turchia, dalla Polonia alla Russia (25 giorni per una sentenza a Mosca).
Di chi è la colpa? L’unico innocente è forse l’attuale massimo responsabile del carrozzone Giustizia, il ministro Angelino Alfano, da troppo poco in carica: cinque mesi. La sua riforma è passata alla Camera, ora è al Senato. Semplificherà e velocizzerà, ferie estive ridotte da 45 a trenta giorni, una trentina di riti aboliti, aumentate le cause smaltite dai giudici di pace.
Intanto, però, prendiamocela anche con noi stessi. Siamo i più litigiosamente incontinenti del continente: quasi tre milioni di nuove cause all’anno, e quindi un arretrato che aumenta di 200 mila ogni dodici mesi. Vantiamo il record degli avvocati, 290 ogni centomila abitanti. Ci superano solo i greci che però ne contano dodici per ogni giudice, mentre noi ne abbiamo più del doppio. I Paesi normali come la Francia hanno sette avvocati per giudice, sei Germania e Svizzera, tre Svezia e Inghilterra. A Londra gli azzeccagarbugli sono quattordici volte meno dei nostri, a Parigi un quarto, a Berlino la metà: «Causa che pende, causa che rende».
Dobbiamo fare di necessità virtù, cosicché svettiamo nella graduatoria del minor numero di divorzi contenziosii: appena 34 ogni centomila abitanti, contro 90 dei secondi classificati Portogallo e Austria, 127 in Spagna, 170 in Francia, 285 in Svezia e addirittura 368 in Lettonia.
I nostri divorziandi si vogliono ancora bene, ed evitano quindi di litigare? Macchè. Il problema è che la durata media di una nostra causa di divorzio è di ben 634 giorni, quasi due anni. E quindi tutti cercano la consensuale: ci si mette d’accordo prima, i giudici servono solo per il timbro. Nella libertina Olanda invece basta aspettare 25 giorni. Ma non è questione di religione, perché la cattolicissima Lituania scioglie i matrimoni in 39 giorni. Tre mesi ci mettono i danesi, cinque i turchi.
Siamo indietro con i computer, spendiamo solo l’1,7 del bilancio giustizia, contro l’otto dell’Irlanda, il sei dell’Austria e il 2,2 della Germania. In compenso, il 69% va in stipendi di magistrati e cancellieri, contro il 57% in Germania, il 47 in Francia, il 45 in Irlanda.
Sulle retribuzioni dei nostri magistrati nel rapporto di Strasburgo c’è un piccolo trucco. Vengono indicate solo quelle degli appena assunti (37 mila euro annui) e i massimi, da giudici di cassazione (seimila netti al mese). Dimenticando che appena tre anni dopo il concorso i magistrati incassano 3.200 mensili, che dopo tredici anni tutti, bravi e asini, scattano automaticamente a 4.500, che per il massimo di seimila bastano vent’anni d’anzianità. Che i giudici amministrativi ci arrivano già dopo otto anni. E che le indennità per le «sedi disagiate» al Sud, in discussione proprio in questi giorni, ammontano a ulteriori 45 mila euro annui, più undicimila per il trasloco.
Intanto, però, in certi uffici mancano perfino i soldi per i toner delle stampanti.
Chiunque di noi, d’altronde, entrando in un qualsiasi tribunale, ha la sensazione di tornare non al secolo scorso, ma a due secoli fa. Come nell’Ottocento, infatti, i fascicoli vengono accatastati nelle cancellerie, l’informatizzazione è un sogno, e gli avvocati civilisti sono costretti a scrivere da soli i verbali, con la penna. A volte la biro sostituisce la stilografica. Ma non sempre…
Mauro Suttora
Wednesday, October 08, 2008
Sinistra in alto mare
La crisi dell'opposizione
Oggi, 8 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Silvio Berlusconi gradito al 60 per cento, Partito democratico che invece rischia di andare sotto il 30 per cento. Questo dicono i sondaggi. Il centrosinistra non è mai stato così male. «La cosa insolita, mai accaduta prima», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer, «non è il consenso a Berlusconi, ma una luna di miele così prolungata con il nuovo governo: ormai sono passati cinque mesi, e il gradimento dei sondaggi non accenna a scendere. Per recuperare, la sinistra deve apparire concreta e propositiva. L’immagine di Berlusconi si basa sulla positività: dalla spazzatura di Napoli all’Ici, dai soldati nelle strade al sette in condotta, dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di “fare”. Quindi l’opposizione non può commettere l’errore di criticarlo senza proporre soluzioni alternative. Accentuare l’aggressività degli attacchi a Berlusconi non porta a niente».
«Ma la sinistra non ha ragion d’essere se insegue Berlusconi nell’abbraccio del libero mercato», obietta Massimo Fini, editorialista e scrittore. «Se lo fa, la sua crisi è irreversibile, perché la destra il liberismo ce l’ha nei geni. La sinistra, al contrario, deve liberarsi dal mito industrialista della crescita continua del Pil».
«I dirigenti del centrosinistra, poi», aggiunge Fini, «sono rovinati dal loro atteggiamento spocchioso. Sembrano sempre pronti a farti la morale e la lezione. Questo poteva avere un senso ai tempi del vecchio Pci, con personaggi come Amendola che avevano una storia dietro, e quindi inducevano a un rispetto spontaneo. Oggi invece risultano solo irritanti. I politici di destra hanno un approccio più normale e colloquiale, sembrano più disponibili, a cominciare dal loro leader. Sarà anche solo paraculismo, ma appaiono più simpatici. A sinistra invece abbondano i radical chic, con il cuore a sinistra e il portafogli a destra».
Il regista Paolo Virzì ai sondaggi non crede molto: «Saranno poi veritieri? Mi permetto di non fidarmi granché. Più che un governo, quello di Berlusconi mi sembra un grande ufficio stampa che passa il tempo a fare annunci propagandistici, tipo le manette alle prostitute. Non sono d’accordo con Nanni Moretti, in Berlusconi non vedo un lato demoniaco. Per me è soltanto ridicolo vedere un anziano signore conciato così, sempre affaccendato fra puttanelle e avvocati. Quando cadrà, il suo scivolone non sarà tragico: soltanto ridicolo. Quanto alla sinistra, non può imitare Berlusconi lanciando facili slogan e semplificando tutto. La società moderna non è semplice, i problemi sono complicati, non basta battere i pugni sul tavolo come Di Pietro. Berlusconi possiede una macchina mediatica potentissima. Se la sinistra per vincere deve abbassarsi al suo livello di demagogia, snaturandosi, quasi preferisco che perda con dignità».
«Il linguaggio è importante», spiega Pierluigi Bersani, uno dei più amati dirigenti Pd, «Berlusconi vince non perché ha le tv, ma perché il suo linguaggio è in sintonia con i suoi elettori. Noi, per esempio, usiamo molto la parola “dialogo”. Che può andare bene tra le Chiese, oppure tra israeliani e palestinesi, ma non va sui temi politici: un partito di opposizione o è d’accordo col governo su una determinata misura, oppure no. E se è in disaccordo, ha un’altra proposta. Altrimenti il Paese non ci capisce. Non dobbiamo buttar via parole come “sinistra”, “popolare”, “uguaglianza”, ma non bisogna neanche avere paura di parole come “liberalizzazione” e “merito”, perché in economia siamo un partito liberale… Insomma: dobbiamo dire meglio chi siamo».
Ci provi lei, sintetizzando al massimo.
«Un partito di centrosinistra ha alcuni punti irrinunciabili. Il primo è la critica alla realtà: non può essere la destra a dire che il mondo non va bene. Poi: un partito universalistico nella risposta ai bisogni fondamentali come salute, sicurezza, istruzione, che non sono delegabili al mercato. Terzo: un partito popolare nel linguaggio. Quarto: un partito che lotta in nome di valori e di un’ideologia».
Ma le ideologie non sono tramontate?
«E il berlusconismo e il leghismo non sono ideologie? Noi dobbiamo far capire che vogliamo una società in cui non si può star bene da soli. Questo è il bacino naturale della sinistra. La destra fa la sua politica, che non ha nulla di sinistra. E questo Paese rischia di passare da un riformismo senza popolo a un populismo senza riforme. I fannulloni non coincidono con la pubblica amministrazione, e gli zingari non coincidono col problema sicurezza. Noi dobbiamo dire che le riforme le vogliamo fare, ma senza agitare lo spettro dei fannulloni per tagliare pesantemente gli stipendi di tutti. Insomma, andiamo al concreto. Il federalismo, per esempio. Come si dice dalle mie parti, il maiale non è fatto tutto di prosciutto. Il federalismo lo vendono in un modo a Varese, in un altro in Sicilia. Il progetto Calderoli non ha i numeri. Attenti alle armi di distrazioni di massa...»
Consigli non richiesti alla sinistra in difficoltà anche da Paolo Guzzanti, senatore forzista: «Devono fare come Obama o Kennedy: proporre un sogno. La sinistra può vincere solo se è capace di essere sexy, di suscitare grandi fantasie. Naturalmente dev’essere un sogno realizzabile, non campato in aria. Di solito i governi di destra risparmiano e quelli di sinistra spendono, ma oggi soldi da spendere non ce ne sono. Però anche nei campi che sono più i suoi, come scuola, cultura, università, ricerca, la sinistra non ha un progetto».
Magari il centrosinistra sta semplicemente aspettando che, così com’è accaduto nel 2006, Berlusconi cada a causa dei propri errori, più che per merito degli avversari. Non c’è il rischio che il troppo successo gli dia alla testa? «Berlusconi ha un ego giustamente spropositato», scherza Guzzanti, «come capita a tutti i grandi uomini. Ma s’è fatto un bel training in questi quindici anni, cadendo e risorgendo tre volte. No, la sinistra non ci speri: governeremo almeno fino al 2013. Quindi hanno tempo per trovare un progetto che li faccia vincere…»
Mauro Suttora
Oggi, 8 ottobre 2008
di Mauro Suttora
Silvio Berlusconi gradito al 60 per cento, Partito democratico che invece rischia di andare sotto il 30 per cento. Questo dicono i sondaggi. Il centrosinistra non è mai stato così male. «La cosa insolita, mai accaduta prima», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer, «non è il consenso a Berlusconi, ma una luna di miele così prolungata con il nuovo governo: ormai sono passati cinque mesi, e il gradimento dei sondaggi non accenna a scendere. Per recuperare, la sinistra deve apparire concreta e propositiva. L’immagine di Berlusconi si basa sulla positività: dalla spazzatura di Napoli all’Ici, dai soldati nelle strade al sette in condotta, dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di “fare”. Quindi l’opposizione non può commettere l’errore di criticarlo senza proporre soluzioni alternative. Accentuare l’aggressività degli attacchi a Berlusconi non porta a niente».
«Ma la sinistra non ha ragion d’essere se insegue Berlusconi nell’abbraccio del libero mercato», obietta Massimo Fini, editorialista e scrittore. «Se lo fa, la sua crisi è irreversibile, perché la destra il liberismo ce l’ha nei geni. La sinistra, al contrario, deve liberarsi dal mito industrialista della crescita continua del Pil».
«I dirigenti del centrosinistra, poi», aggiunge Fini, «sono rovinati dal loro atteggiamento spocchioso. Sembrano sempre pronti a farti la morale e la lezione. Questo poteva avere un senso ai tempi del vecchio Pci, con personaggi come Amendola che avevano una storia dietro, e quindi inducevano a un rispetto spontaneo. Oggi invece risultano solo irritanti. I politici di destra hanno un approccio più normale e colloquiale, sembrano più disponibili, a cominciare dal loro leader. Sarà anche solo paraculismo, ma appaiono più simpatici. A sinistra invece abbondano i radical chic, con il cuore a sinistra e il portafogli a destra».
Il regista Paolo Virzì ai sondaggi non crede molto: «Saranno poi veritieri? Mi permetto di non fidarmi granché. Più che un governo, quello di Berlusconi mi sembra un grande ufficio stampa che passa il tempo a fare annunci propagandistici, tipo le manette alle prostitute. Non sono d’accordo con Nanni Moretti, in Berlusconi non vedo un lato demoniaco. Per me è soltanto ridicolo vedere un anziano signore conciato così, sempre affaccendato fra puttanelle e avvocati. Quando cadrà, il suo scivolone non sarà tragico: soltanto ridicolo. Quanto alla sinistra, non può imitare Berlusconi lanciando facili slogan e semplificando tutto. La società moderna non è semplice, i problemi sono complicati, non basta battere i pugni sul tavolo come Di Pietro. Berlusconi possiede una macchina mediatica potentissima. Se la sinistra per vincere deve abbassarsi al suo livello di demagogia, snaturandosi, quasi preferisco che perda con dignità».
«Il linguaggio è importante», spiega Pierluigi Bersani, uno dei più amati dirigenti Pd, «Berlusconi vince non perché ha le tv, ma perché il suo linguaggio è in sintonia con i suoi elettori. Noi, per esempio, usiamo molto la parola “dialogo”. Che può andare bene tra le Chiese, oppure tra israeliani e palestinesi, ma non va sui temi politici: un partito di opposizione o è d’accordo col governo su una determinata misura, oppure no. E se è in disaccordo, ha un’altra proposta. Altrimenti il Paese non ci capisce. Non dobbiamo buttar via parole come “sinistra”, “popolare”, “uguaglianza”, ma non bisogna neanche avere paura di parole come “liberalizzazione” e “merito”, perché in economia siamo un partito liberale… Insomma: dobbiamo dire meglio chi siamo».
Ci provi lei, sintetizzando al massimo.
«Un partito di centrosinistra ha alcuni punti irrinunciabili. Il primo è la critica alla realtà: non può essere la destra a dire che il mondo non va bene. Poi: un partito universalistico nella risposta ai bisogni fondamentali come salute, sicurezza, istruzione, che non sono delegabili al mercato. Terzo: un partito popolare nel linguaggio. Quarto: un partito che lotta in nome di valori e di un’ideologia».
Ma le ideologie non sono tramontate?
«E il berlusconismo e il leghismo non sono ideologie? Noi dobbiamo far capire che vogliamo una società in cui non si può star bene da soli. Questo è il bacino naturale della sinistra. La destra fa la sua politica, che non ha nulla di sinistra. E questo Paese rischia di passare da un riformismo senza popolo a un populismo senza riforme. I fannulloni non coincidono con la pubblica amministrazione, e gli zingari non coincidono col problema sicurezza. Noi dobbiamo dire che le riforme le vogliamo fare, ma senza agitare lo spettro dei fannulloni per tagliare pesantemente gli stipendi di tutti. Insomma, andiamo al concreto. Il federalismo, per esempio. Come si dice dalle mie parti, il maiale non è fatto tutto di prosciutto. Il federalismo lo vendono in un modo a Varese, in un altro in Sicilia. Il progetto Calderoli non ha i numeri. Attenti alle armi di distrazioni di massa...»
Consigli non richiesti alla sinistra in difficoltà anche da Paolo Guzzanti, senatore forzista: «Devono fare come Obama o Kennedy: proporre un sogno. La sinistra può vincere solo se è capace di essere sexy, di suscitare grandi fantasie. Naturalmente dev’essere un sogno realizzabile, non campato in aria. Di solito i governi di destra risparmiano e quelli di sinistra spendono, ma oggi soldi da spendere non ce ne sono. Però anche nei campi che sono più i suoi, come scuola, cultura, università, ricerca, la sinistra non ha un progetto».
Magari il centrosinistra sta semplicemente aspettando che, così com’è accaduto nel 2006, Berlusconi cada a causa dei propri errori, più che per merito degli avversari. Non c’è il rischio che il troppo successo gli dia alla testa? «Berlusconi ha un ego giustamente spropositato», scherza Guzzanti, «come capita a tutti i grandi uomini. Ma s’è fatto un bel training in questi quindici anni, cadendo e risorgendo tre volte. No, la sinistra non ci speri: governeremo almeno fino al 2013. Quindi hanno tempo per trovare un progetto che li faccia vincere…»
Mauro Suttora
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