"Mi accusano di essere revisionista, io ne vado fiero"
di Mauro Suttora
Oggi, 20 maggio 2009
«Mi accusavano di essere un “revisionista”, quasi fosse il peggiore degli insulti. E allora, come risarcimento beffardo, ho titolato così questo mio libro”.
Giampaolo Pansa, 73 anni, è un principe del giornalismo. L’unico che ha lavorato in tutti i maggiori quotidiani e settimanali italiani: Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Messaggero, Giorno, Espresso, Panorama. E in posizioni di rilievo: inviato speciale, editorialista, condirettore. Da una quindicina d’anni, però, il successo di pubblico gli arriva soprattutto dai suoi libri sulla «guerra civile»: prima romanzi e poi, dal 2003, saggi come Il sangue dei vinti che hanno venduto un sacco di copie (un milione) ma gli hanno anche procurato un sacco di guai.
«Ho cercato di scrivere la verità su un’epoca della storia, fra il 1943 e il ’48, senza le omissioni imposte dalla retorica sulla resistenza e dagli storici del Pci-Pds-Ds-Pd», ci dice dalla sua casa in Toscana.
E così proprio lui, per trent’anni numero due dei giornali più letti a sinistra (Repubblica ed Espresso), è stato contestato come «filofascista» per avere descritto le stragi compiute anche dai partigiani, e anche dopo la fine della guerra nel ’45.
«Già usare la definizione “guerra civile”, invece di “guerra di liberazione”, è un sacrilegio per certi parrucconi postcomunisti. Chi aveva scelto la repubblica di Salò non era degno neppure di essere considerato italiano, ma soltanto collaborazionista dell’occupante tedesco. Nessuno storico ascoltava le versioni dei “repubblichini”, un termine che detesto».
Beh, in confronto alle sanguinosissime guerre civili dell’epoca, la spagnola e la jugoslava, che fecero milioni di morti, quella italiana, con le sue poche decine di migliaia di vittime, è stata poca cosa.
«Vero. Noi non abbiamo avuto quelle carneficine. Consideriamo che in Spagna la guerra è durata dal ’36 al ’39, e in Jugoslavia dal ’41 al ’45. Ma rendiamoci anche conto che dopo il 25 aprile ’45, nonostante la “pace”, in Italia le vendette contro i fascisti e i loro familiari innocenti hanno provocato dai venti ai trentamila morti. Dimenticati per mezzo secolo».
Tranne che dallo storico e senatore del Msi Giorgio Pisanò, che scrisse parecchi libri rivendicando pari dignità per i combattenti di Salò e cercando di accreditare, senza riuscirci, il termine «guerra civile». Poi arriva lei, e da sinistra «sdogana» questa definizione.
«Ho letto tutti i libri di Pisanò, e devo dire che nonostante il nostro diverso punto di vista sono storicamente accurati. I fatti non vengono gonfiati o taciuti per propaganda. Ma lui era finito nel ghetto riservato a chiunque non si conformasse alle versioni ufficiali sulla Resistenza».
Quella di Pansa non è una mania senile. Anzi, la sua tesi di laurea (a Torino in Scienze politiche, nel ’59) fu proprio su questi argomenti: Guerra partigiana fra Genova e il Po. Centodieci e lode, pubblicazione. Ma, come racconta nel libro, dovette aspettare sei anni: «La casa editrice Einaudi di Torino, roccaforte dell’ortodossia comunista, me la tenne bloccata perché avevo osato accennare ai contrasti fra le diverse formazioni partigiane. Così alla fine la diedi a Laterza, che la mandò in libreria nel ‘65».
Pansa era un rompiballe già da giovane. Si scontrò subito con i tenutari della fede partigiana. In un gustosissimo capitolo de Il revisionista racconta di un convegno di storiografia a Genova in cui lui, sconosciuto ventenne provinciale calato giù da Casale Monferrato (Alessandria), osò contestare i dirigenti del Pci chiedendo una cosa che oggi appare ovvia: che negli studi sulla Resistenza si sentisse anche l’altra campana, quella degli sconfitti. Apriti cielo. L’unico a notarlo e a difenderlo fu un distinto e anziano signore dai capelli bianchi che lgli fece avere una borsa di studio: Ferruccio Parri, comandante partigiano non comunista e primo presidente del Consiglio dell’Italia libera, nel ’45.
Quella stessa tesi vinse un premio finanziato con i diritti d’autore di un altro gigante della politica italiana: Luigi Einaudi, antifascista liberale e presidente della Repubblica dal ’48 al ’55.
«La consegna del premio avvenne a Dogliani (Cuneo) il 20 novembre 1960», racconta Pansa. «Einaudi aveva ottantasei anni ed era un signore piccolino, che si appoggiava a un bastone da contadino. A me e all’altro vincitore, Massimo Salvadori, che aveva scritto una ricerca su Salvemini e che sarebbe diventato ordinario di Storia a Torino, disse che il premio di mezzo milione di lire ciascuno – una somma importante – doveva servire “per finanziare i nostri sogni”. Ci raccomandò di studiare “gli anni della grande speranza”, quelli della guerra per la libertà. Credo di aver mantenuto l’impegno che il presidente mi aveva indicato».
Fu l’ultima uscita pubblica di Einaudi. «Si brindò tutti con il barolo di un’annata indimenticabile: il 1945». Ma Pansa non divenne mai uno storico professionista. Fu fuorviato dal suo professore Alessandro Galante Garrone che lo segnalò al direttore della Stampa. Dopo un mese il 25enne Pansa venne assunto come giornalista praticante nella redazione di Torino.
La sua brillante carriera viene raccontata nel libro, anche se forse i capitoli più divertenti e poetici sono gli iniziali: quelli sulla vita assieme alla nonna Caterina (poverissima), alla mamma Giovanna e a papà Ernesto, che riparava i pali del telegrafo. «Mia madre era ottimista, espansiva, generosa. Non sapeva che cosa fosse la gnagnera, la svogliatezza malinconica». Pansa infarcisce il racconto di affascinanti termini piemontesi, come le prostitute che erano chiamate «sansussì», alla francese, il «goga e migoga» (bagordi), i «cupio e giacufumna» (omosessuali).
Poi ci sono le cose serie. Come la storica intervista a Enrico Berlinguer del 1976, in cui il segretario del Pci regalò a Pansa lo scoop internazionale della frase: «Mi sento più tranquillo sotto l’ombrello della Nato». Fu il primo strappo dall’Unione Sovietica.
Ma oggi Pansa conclude amaramente: «La sinistra non cambierà mai. Sperare che migliori, si modernizzi, si evolva, equivale a cercare di pettinare un porcospino, come diceva mia nonna. E pensare che Eugenio Scalfari, il direttore di Repubblica, ed io, ci abbiamo sperato per trent’anni. Eppure ancora adesso i postcomunisti non hanno perduto il vizio di sentirsi migliori».
A destra invece, grazie ai suoi libri revisionisti, Pansa ha trovato nuovi lettori e ammiratori: «Da quella parte sono più gentili verso gli estranei alla propria parrocchia. Anche se io rimango un anarchico individualista».
Questo vuol dire che smetterà di irritare i suoi ex compagni di sinistra per i quali è un rinnegato o, nel migliore dei casi una pecorella smarrita? «Macché. Come diceva Totò, io insistisco e m’intigno. Devo ancora scrivere una serie di cose e ho già in mente altri libri, sempre sulla scia del Sangue dei vinti».
Pansa adesso è arrabbiato perché l’omonimo film con Michele Placido, tratto dal suo libro, viene distribuito nei cinema italiani in appena quaranta copie: «Equivale a una censura, come hanno fatto con Katyn, il film sulla strage sovietica in Polonia. Mentre il film Vincere di Bellocchio di copie ne ha trecento».
Pansa, possibile che l’Italia sia l’unico Paese al mondo in cui ci si accapiglia ancora su avvenimenti di sessant’anni fa? «Ditelo a quelli che vengono per tapparmi la bocca alle presentazioni dei miei libri».
Mauro Suttora
Wednesday, May 27, 2009
Wednesday, May 20, 2009
Ida Dalser, «pazza» già nel 1918
Vittima di Mussolini? Sì, ma...
Pubblichiamo in esclusiva documenti che provano lo squilibrio mentale della donna prima che il duce andasse al potere
Oggi, 20 maggio 2009
«Ida Dalser è una squilibrata con carattere nevropatico. Non intende ragioni, avanza pretese inverosimili. Suo figlio ha un’infermità dipendente da sifilide organica ereditaria, e nonostante i suoi soli tre anni d’età non è un angioletto: compendia tutto lo squilibrio psichico della genitrice».
Così scrive nel settembre 1918 il prefetto di Napoli all’ufficio riservato del ministero degli Interni. Attenzione alla data: allora Benito Mussolini era solo un caporale e agitatore politico. Quindi il prefetto non aveva alcun interesse a distorcere la verità in suo favore, dipingendo come pazza la madre di suo figlio e asserita moglie.
In questi giorni l’Italia presenta al festival di Cannes il film Vincere di Marco Bellocchio, che racconta la triste vicenda della Dalser. La quale è stata sicuramente una vittima del futuro duce: come abbiamo scritto la scorsa settimana, Mussolini riconobbe il figlio ma poi la ripudiò, nel ‘26 la fece rinchiudere in manicomio, e lì la donna morì undici anni dopo. Stessa fine per il figlio, al quale il dittatore tolse il proprio cognome: crepato pure lui in ospedale psichiatrico.
«Tutto vero», commenta il professor Antonio Alosco, docente di storia contemporanea all’università di Napoli. «Però, da qui a far passare la Dalser come un’eroina, magari impulsiva e ossessiva ma sana di mente, come pretende il battage pubblicitario attorno al film, ce ne corre. Io sono antifascista, ma non diamo a Mussolini troppe colpe, oltre alle tantissime che già ha».
Nell’archivio della prefettura di Napoli il professor Alosco ha trovato i documenti che provano lo stato mentale della Dalser, già deteriorato nel ’18. Nella primavera di quell’anno, dopo la disfatta di Caporetto, la donna finisce come profuga, con molti suoi corregionali trentini, nel campo di Piedimonte d’Alife (Caserta). Si porta dietro il figlio Benito Albino. Mussolini ha da tempo rotto ogni rapporto con lei: si è sposato con Rachele e non le invia più gli alimenti per il figlio. Nel campo sfollati la Dalser percepisce un sussidio giornaliero decoroso: quattro lire e mezzo.
Il piccolo Benito (che Ida chiama Benittino), però, non sta bene: vede poco da un occhio, ha la gambetta destra paralizzata. Potrebbe essere curato a Piedimonte, ma la mamma coglie il pretesto per trasferirsi in albergo a Napoli. E pretende che le autorità lo paghino, o che premano su Mussolini affinché la mantenga.
Il 18 agosto ’18 Benito junior è visitato dal dottor Manlio Giordano. Pubblichiamo il suo referto a pag. XX. La diagnosi è tremenda: costituzione linfatica, probabile sifilide ereditaria.
Intanto, la Dalser continua la sua battaglia quasi giornaliera con questore e prefetto. Li tempesta di lettere chiedendo soldi, tanto che il prefetto si sfoga con il ministro degli Interni: «Il primo agosto le abbiamo corrisposto un sussidio straordinario di 150 lire, che però ha impiegato per pagare i debiti (…) Le pretese di lei crebbero giornalmente, manifestandosi in forma violenta (…) E’ eccitata ed eccitabile, non tralascia di imperversare quotidianamente con petulante insistenza per tutti gli uffici, portando in giro la sua creatura scostumata, impertinente, smaniosa di distruggere tutto quanto gli capiti fra mano, rivoluzionaria come la stessa madre lo chiama. La Dalser è scontenta di tutto e di tutti, e sente sempre il bisogno di prendersela con qualcuno. Quando giunse a Napoli imprecava contro il trattamento inumano a Caserta; ora è la volta dei funzionari di questo ufficio».
Nel novembre ’18 la Dalser minaccia il suicidio, mentre la polizia ne evidenzia la «cattiva condotta specie morale, essendosi data alla vita allegra riservatamente». Insomma, oltre che squilibrata e «disfattista» (così erano bollati i pacifisti), ragione per la quale il ministro dell’Interno raccomanda «di intensificare la vigilanza sul suo conto», la signora è accusata anche di fare la prostituta. Persecuzione o mania di persecuzione? In ogni caso, nel ’18 non era colpa di Mussolini.
Mauro Suttora
Pubblichiamo in esclusiva documenti che provano lo squilibrio mentale della donna prima che il duce andasse al potere
Oggi, 20 maggio 2009
«Ida Dalser è una squilibrata con carattere nevropatico. Non intende ragioni, avanza pretese inverosimili. Suo figlio ha un’infermità dipendente da sifilide organica ereditaria, e nonostante i suoi soli tre anni d’età non è un angioletto: compendia tutto lo squilibrio psichico della genitrice».
Così scrive nel settembre 1918 il prefetto di Napoli all’ufficio riservato del ministero degli Interni. Attenzione alla data: allora Benito Mussolini era solo un caporale e agitatore politico. Quindi il prefetto non aveva alcun interesse a distorcere la verità in suo favore, dipingendo come pazza la madre di suo figlio e asserita moglie.
In questi giorni l’Italia presenta al festival di Cannes il film Vincere di Marco Bellocchio, che racconta la triste vicenda della Dalser. La quale è stata sicuramente una vittima del futuro duce: come abbiamo scritto la scorsa settimana, Mussolini riconobbe il figlio ma poi la ripudiò, nel ‘26 la fece rinchiudere in manicomio, e lì la donna morì undici anni dopo. Stessa fine per il figlio, al quale il dittatore tolse il proprio cognome: crepato pure lui in ospedale psichiatrico.
«Tutto vero», commenta il professor Antonio Alosco, docente di storia contemporanea all’università di Napoli. «Però, da qui a far passare la Dalser come un’eroina, magari impulsiva e ossessiva ma sana di mente, come pretende il battage pubblicitario attorno al film, ce ne corre. Io sono antifascista, ma non diamo a Mussolini troppe colpe, oltre alle tantissime che già ha».
Nell’archivio della prefettura di Napoli il professor Alosco ha trovato i documenti che provano lo stato mentale della Dalser, già deteriorato nel ’18. Nella primavera di quell’anno, dopo la disfatta di Caporetto, la donna finisce come profuga, con molti suoi corregionali trentini, nel campo di Piedimonte d’Alife (Caserta). Si porta dietro il figlio Benito Albino. Mussolini ha da tempo rotto ogni rapporto con lei: si è sposato con Rachele e non le invia più gli alimenti per il figlio. Nel campo sfollati la Dalser percepisce un sussidio giornaliero decoroso: quattro lire e mezzo.
Il piccolo Benito (che Ida chiama Benittino), però, non sta bene: vede poco da un occhio, ha la gambetta destra paralizzata. Potrebbe essere curato a Piedimonte, ma la mamma coglie il pretesto per trasferirsi in albergo a Napoli. E pretende che le autorità lo paghino, o che premano su Mussolini affinché la mantenga.
Il 18 agosto ’18 Benito junior è visitato dal dottor Manlio Giordano. Pubblichiamo il suo referto a pag. XX. La diagnosi è tremenda: costituzione linfatica, probabile sifilide ereditaria.
Intanto, la Dalser continua la sua battaglia quasi giornaliera con questore e prefetto. Li tempesta di lettere chiedendo soldi, tanto che il prefetto si sfoga con il ministro degli Interni: «Il primo agosto le abbiamo corrisposto un sussidio straordinario di 150 lire, che però ha impiegato per pagare i debiti (…) Le pretese di lei crebbero giornalmente, manifestandosi in forma violenta (…) E’ eccitata ed eccitabile, non tralascia di imperversare quotidianamente con petulante insistenza per tutti gli uffici, portando in giro la sua creatura scostumata, impertinente, smaniosa di distruggere tutto quanto gli capiti fra mano, rivoluzionaria come la stessa madre lo chiama. La Dalser è scontenta di tutto e di tutti, e sente sempre il bisogno di prendersela con qualcuno. Quando giunse a Napoli imprecava contro il trattamento inumano a Caserta; ora è la volta dei funzionari di questo ufficio».
Nel novembre ’18 la Dalser minaccia il suicidio, mentre la polizia ne evidenzia la «cattiva condotta specie morale, essendosi data alla vita allegra riservatamente». Insomma, oltre che squilibrata e «disfattista» (così erano bollati i pacifisti), ragione per la quale il ministro dell’Interno raccomanda «di intensificare la vigilanza sul suo conto», la signora è accusata anche di fare la prostituta. Persecuzione o mania di persecuzione? In ogni caso, nel ’18 non era colpa di Mussolini.
Mauro Suttora
Monday, May 18, 2009
Laurens Jolles, Unhcr Roma
IL BOSS ONU CHE HA ASSUNTO GLI HEZBOLLAH
Il nuovo direttore per l'Italia dell'Agenzia Onu per i rifugiati, che ci attacca per i clandestini, ha lasciato in anticipo l'incarico a Damasco dopo aver creato un caso diplomatico
Libero, domenica 17 maggio 2009
di Mauro Suttora
Da che pulpito viene la predica che l’Onu impartisce all’Italia sui respingimenti dei clandestini dalla Libia?
«Sarete responsabili secondo il diritto internazionale», tuona Laurens Jolles, 53 anni, avvocato olandese, nuovo capo per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Il quale ha sede nel quartiere più elegante di Roma: Parioli. Ben lontano dai campi profughi.
Il linguaggio di Jolles è inusualmente duro, ben lontano anch’esso dai toni diplomatici utilizzati abitualmente nei rapporti fra Onu e stati membri. Neanche i dittatori di Sudan o Birmania vengono maltrattati così dalle Nazioni Unite, nei felpati comunicati emessi dopo ogni incontro. Invece il povero Roberto Maroni, nostro ministro dell’Interno, si è sentito dare del “fuorilegge”. E fortuna che Jolles ha definito “costruttivo” il vertice con Maroni al Viminale. Dopodichè, minaccia di deferirlo a qualche tribunale internazionale.
Ma chi è questo Jolles?
Gli olandesi non hanno molta fortuna con Onu e profughi. Ruud Lubbers, che guidava il Commissariato dei rifugiati fino al 2005, ha dovuto dimettersi per molestie sessuali a una dipendente. Nel ’95 erano olandesi i battaglioni di caschi blu che avrebbero dovuto difendere i profughi bosniaci a Srebrenica. Ma non mossero un dito quando i serbi ne massacrarono ottomila. Il governo olandese ha dovuto dimettersi dopo questa strage.
Jolles è stato nominato a Roma due mesi fa. Oltre che per l’Italia, è responsabile anche su Portogallo, Grecia, Albania, Cipro e Malta. Non risulta abbia condannato quest’ultima per il suo vergognoso rifiuto di assistere i profughi, quando i barconi dei loro negrieri transitano nelle sue acque territoriali.
Fino a marzo Jolles guidava il Commissariato profughi in Siria. Uno dei pochi Paesi che, come la Libia, non ha firmato la Convenzione del 1951 sui rifugiati. Secondo l’Onu, la Libia non potrebbe assistere i profughi per questo motivo. Falso. La Siria infatti, pur non aderendo alla Convenzione, accoglie più di un milione di rifugiati iracheni. Duecentomila dei quali registrati e assistiti dal Commissariato Onu, guidato fino a due mesi fa proprio da Jolles.
Ma perché Jolles se n’è andato da Damasco? Di solito i mandati dei rappresentanti nelle agenzie Onu durano quattro-cinque anni. Il predecessore messicano di Jolles a Roma era qui dal 2004. Invece Jolles ha lasciato la Siria dopo soli tre anni.
Per conoscere la risposta bisogna fare la conoscenza di un popolo dimenticato: gli Ahwazi. Sono cinque milioni di arabi dell’Iran sudoccidentale, vicino all’Iraq. Il loro Paese si chiamava Arabistan fino al 1925, era un emirato autonomo. L’Italia aveva un consolato nella capitale, Ahwaz. Poi fu annesso forzosamente all’Iran, allora protetto dagli inglesi, e ribattezzato Khuzestan.
Fino al ’79 gli Ahwazi hanno patito l’occupazione straniera (i persiani sono sciiti e non parlano arabo), ma si sono barcamenati. Impossibile reclamare l’indipendenza: troppo petrolio nel loro sottosuolo. Altro che palestinesi: nessuna solidarietà internazionale.
Con l’arrivo dei khomeinisti, però, si è scatenata la persecuzione. In questi trent’anni un terzo degli Ahwazi è scappato all’estero. Molti in Siria. E lì hanno incontrato l’Alto commissariato Onu per i profughi. Che ha assistito pure loro.
Almeno fino a pochi mesi fa, quando gli Ahwazi hanno cominciato ad accusare il capo del Commissariato, Jolles, di non proteggerli più: «Ha assunto membri di Hezbollah nel suo ufficio». Gli Hezbollah sono filoiraniani. Gli Ahwazi li accusano addirittura di rapire famiglie di rifugiati (quelli politicizzati), per deportarli in Iran dove li attendono carceri e torture. E sostengono che Jolles ha chiuso entrambi gli occhi. Proprio come fecero i suoi connazionali olandesi a Srebrenica. «Siamo felici che sia stato mandato via, e speriamo che il suo successore sia più imparziale e degno di fiducia», dice la Bafs (British Ahwazi Friendship Society) in un comunicato del 24 aprile.
Da Damasco, Laurens Jolles è stato trasferito a Roma. Ora che non si trova più sotto una dittatura come la Siria e l’Iran, improvvisamente è diventato un leone. Critica il nostro governo, vuole accogliere a spese dell’Italia tutti i profughi del mondo. Chissà se sui barconi della tratta libica c’è anche qualche suo ex-amico Ahwazo in cerca di asilo.
Il nuovo direttore per l'Italia dell'Agenzia Onu per i rifugiati, che ci attacca per i clandestini, ha lasciato in anticipo l'incarico a Damasco dopo aver creato un caso diplomatico
Libero, domenica 17 maggio 2009
di Mauro Suttora
Da che pulpito viene la predica che l’Onu impartisce all’Italia sui respingimenti dei clandestini dalla Libia?
«Sarete responsabili secondo il diritto internazionale», tuona Laurens Jolles, 53 anni, avvocato olandese, nuovo capo per l’Italia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Il quale ha sede nel quartiere più elegante di Roma: Parioli. Ben lontano dai campi profughi.
Il linguaggio di Jolles è inusualmente duro, ben lontano anch’esso dai toni diplomatici utilizzati abitualmente nei rapporti fra Onu e stati membri. Neanche i dittatori di Sudan o Birmania vengono maltrattati così dalle Nazioni Unite, nei felpati comunicati emessi dopo ogni incontro. Invece il povero Roberto Maroni, nostro ministro dell’Interno, si è sentito dare del “fuorilegge”. E fortuna che Jolles ha definito “costruttivo” il vertice con Maroni al Viminale. Dopodichè, minaccia di deferirlo a qualche tribunale internazionale.
Ma chi è questo Jolles?
Gli olandesi non hanno molta fortuna con Onu e profughi. Ruud Lubbers, che guidava il Commissariato dei rifugiati fino al 2005, ha dovuto dimettersi per molestie sessuali a una dipendente. Nel ’95 erano olandesi i battaglioni di caschi blu che avrebbero dovuto difendere i profughi bosniaci a Srebrenica. Ma non mossero un dito quando i serbi ne massacrarono ottomila. Il governo olandese ha dovuto dimettersi dopo questa strage.
Jolles è stato nominato a Roma due mesi fa. Oltre che per l’Italia, è responsabile anche su Portogallo, Grecia, Albania, Cipro e Malta. Non risulta abbia condannato quest’ultima per il suo vergognoso rifiuto di assistere i profughi, quando i barconi dei loro negrieri transitano nelle sue acque territoriali.
Fino a marzo Jolles guidava il Commissariato profughi in Siria. Uno dei pochi Paesi che, come la Libia, non ha firmato la Convenzione del 1951 sui rifugiati. Secondo l’Onu, la Libia non potrebbe assistere i profughi per questo motivo. Falso. La Siria infatti, pur non aderendo alla Convenzione, accoglie più di un milione di rifugiati iracheni. Duecentomila dei quali registrati e assistiti dal Commissariato Onu, guidato fino a due mesi fa proprio da Jolles.
Ma perché Jolles se n’è andato da Damasco? Di solito i mandati dei rappresentanti nelle agenzie Onu durano quattro-cinque anni. Il predecessore messicano di Jolles a Roma era qui dal 2004. Invece Jolles ha lasciato la Siria dopo soli tre anni.
Per conoscere la risposta bisogna fare la conoscenza di un popolo dimenticato: gli Ahwazi. Sono cinque milioni di arabi dell’Iran sudoccidentale, vicino all’Iraq. Il loro Paese si chiamava Arabistan fino al 1925, era un emirato autonomo. L’Italia aveva un consolato nella capitale, Ahwaz. Poi fu annesso forzosamente all’Iran, allora protetto dagli inglesi, e ribattezzato Khuzestan.
Fino al ’79 gli Ahwazi hanno patito l’occupazione straniera (i persiani sono sciiti e non parlano arabo), ma si sono barcamenati. Impossibile reclamare l’indipendenza: troppo petrolio nel loro sottosuolo. Altro che palestinesi: nessuna solidarietà internazionale.
Con l’arrivo dei khomeinisti, però, si è scatenata la persecuzione. In questi trent’anni un terzo degli Ahwazi è scappato all’estero. Molti in Siria. E lì hanno incontrato l’Alto commissariato Onu per i profughi. Che ha assistito pure loro.
Almeno fino a pochi mesi fa, quando gli Ahwazi hanno cominciato ad accusare il capo del Commissariato, Jolles, di non proteggerli più: «Ha assunto membri di Hezbollah nel suo ufficio». Gli Hezbollah sono filoiraniani. Gli Ahwazi li accusano addirittura di rapire famiglie di rifugiati (quelli politicizzati), per deportarli in Iran dove li attendono carceri e torture. E sostengono che Jolles ha chiuso entrambi gli occhi. Proprio come fecero i suoi connazionali olandesi a Srebrenica. «Siamo felici che sia stato mandato via, e speriamo che il suo successore sia più imparziale e degno di fiducia», dice la Bafs (British Ahwazi Friendship Society) in un comunicato del 24 aprile.
Da Damasco, Laurens Jolles è stato trasferito a Roma. Ora che non si trova più sotto una dittatura come la Siria e l’Iran, improvvisamente è diventato un leone. Critica il nostro governo, vuole accogliere a spese dell’Italia tutti i profughi del mondo. Chissà se sui barconi della tratta libica c’è anche qualche suo ex-amico Ahwazo in cerca di asilo.
Thursday, May 14, 2009
Giovanna Mezzogiorno e Mussolini
"Porto a Cannes tutta me stessa"
UNA STAR ALLA PROVA
Interpreta Ida Dalser, che fu prima amata e poi annichilita da Benito Mussolini. «Quella parte mi spaventava. Adesso mi inorgoglisce», dice. E punta alla Palma
di Mauro Suttora
6 maggio 2009
«Per interpretare Ida Dalser ho dovuto farmi assistere personalmente da un coach di recitazione: è un personaggio difficile, intenso, pieno di fisicità. Quindi c' è voluta una preparazione teatrale. Troppo spesso il cinema dimentica il corpo. Mentre questo è un film forte, senza understatement ». Insomma, Vincere di Marco Bellocchio non è uno dei soliti film «carini» italiani. È un pugno nello stomaco. Perfino per Giovanna Mezzogiorno, una delle più brave attrici italiane, portarlo a termine è stata una sfida.
La vicenda è quella drammatica della prima, presunta moglie di Benito Mussolini: la Dalser, bella ragazza di buona famiglia, figlia del sindaco di Sopramonte (Trento). Personalità assai intraprendente, a 20 anni va a Parigi per studiare Medicina estetica, poi apre un suo salone di bellezza «alla francese» a Milano: raro esempio, per l' epoca, di donna imprenditrice. Qui s' innamora di Mussolini. «Ed è l' inizio di una passione travolgente», racconta la Mezzogiorno.
DONNE E POTERE
Nel 1913 il futuro dittatore (interpretato da Filippo Timi) ha 30 anni, tre meno di lei. Dirige l'Avanti, quotidiano del partito socialista, ed è un rivoluzionario di estrema sinistra, antimonarchico e anticlericale. In realtà, i due si erano già fuggevolmente incrociati a Trento, e lei ne era rimasta folgorata.
«Già allora Mussolini era un uomo mangiato vivo dall' ambizione», dice la Mezzogiorno. «E non sono poche le donne attratte dal potere, anche se allora lui non era nessuno». Ida si affida al suo eroe. Che nel giro di pochi mesi da pacifista diventa interventista, vuole che l' Italia faccia guerra all' Austria (Paese di cui la Dalser ha la cittadinanza, essendo trentina). Quindi viene cacciato dai socialisti e fonda un giornale, il Popolo d' Italia.
«Per finanziarlo Ida vende tutto: la casa, il salone di bellezza, i gioielli». Intanto però Mussolini sta già con la futura moglie Rachele Guidi (interpretata da Michela Cescon), dalla quale nel 1910 ha avuto la figlia Edda. Non importa: l'agitatore è debordante anche nella vita privata, e pare che nel settembre ' 14 sposi la Dalser con matrimonio religioso (del quale però non esistono prove).
L' unica cosa certa è che l' 11 novembre 1915, a guerra iniziata, Ida dà alla luce un bambino. Al quale viene dato un nome che parla da solo: Benito Albino Mussolini. E il duce lo riconosce, anche se anni dopo falsificherà i dati anagrafici. Un mese dopo, nel dicembre 1915, Rachele l' ha vinta: si fa sposare con rito civile all' ospedale di Treviglio (Bergamo) dove Benito è ricoverato per una ferita di guerra. Così, il Duce non ne vuole più sapere della Dalser: lei riuscirà a rivederlo solo in ospedale, immobilizzato e accudito da Rachele. Si scaglia contro la rivale urlando che è lei la vera moglie. Ma la allontanano a forza.
Il resto della vita della Dalser è un calvario. «Aveva un carattere troppo forte per rassegnarsi», dice la Mezzogiorno, «ed è stata la sua grande personalità a impaurire Mussolini, che ha preferito la quiete del matrimonio con Rachele. La Dalser non si accontenta di soldi in cambio del silenzio, come le altre amanti del Duce: grida sempre la sua verità e scrive a tutte le autorità, dal Papa in giù».
L' ARRESTO E L'OBLIO
Sorvegliata, non si arrende. Ma nel 1926 Mussolini la separa dal figlio (che non rivedrà più), la fa arrestare e rinchiudere nel manicomio di Pergine Valsugana. Poi viene trasferita in quello di San Clemente (Venezia). Qui un direttore sanitario onesto non può diagnosticarle alcun disturbo. Eppure viene torturata e finisce semiparalizzata. Muore nel dicembre ' 37, a 57 anni, per emorragia cerebrale.
Quanto al figlio, Mussolini nel ' 32 gli fa togliere il cognome con decreto reale. Dopo averlo messo in collegio lo spedisce in Cina nella Marina militare. E pure lui viene internato in manicomio, dove muore a 26 anni, nel ' 42. «Per marasma», recita la diagnosi.
«Una storia tremenda», dice la Mezzogiorno. «Già la scena del provino fu lunga e difficile. Era quella dell' interrogatorio della Dalser col giudice. Mi sono affidata a Bellocchio perché mi dicesse cosa voleva vedere nel personaggio. La Dalser era contraddittoria: femminista ma sottomessa, innamorata ma ossessiva».
Bellocchio, maestro del cinema, a 70 anni non ha bisogno di riconoscimenti, ma Vincere è l'unico film italiano in concorso a Cannes: sarà proiettato il 19 maggio. Nello stesso giorno uscirà in Italia. «Sono lusingata di rappresentare l' Italia», dice Giovanna, «dopo essere stata a Cannes l'anno scorso con Palermo Shooting di Wenders». E la prossima prova non sarà meno controversa: La prima linea , sui brigatisti degli Anni 70.
Mauro Suttora
RIQUADRO
Le donne del Duce
Mussolini ha avuto una quantità incredibile di amanti. Le più importanti sono state Margherita Sarfatti e Claretta Petacci. La Sarfatti (1880-1961), ricca ebrea veneziana, giornalista socialista, incontra Benito nel 1912. La relazione va avanti anche dopo il matrimonio di lui. Fascista, va via dall' Italia nel '38, con le leggi razziali. Rientrerà a Como nel '47.
La Petacci (1912-'45), romana, è l'amante dal '36 fino alla morte di entrambi, fucilati nell'aprile '45 e appesi a testa in giù a piazzale Loreto. Fra le altre, Romilda Ruspi Mingardi, negli Anni 20-30, e la marchesa Giulia Brambilla Carminati.
UNA STAR ALLA PROVA
Interpreta Ida Dalser, che fu prima amata e poi annichilita da Benito Mussolini. «Quella parte mi spaventava. Adesso mi inorgoglisce», dice. E punta alla Palma
di Mauro Suttora
6 maggio 2009
«Per interpretare Ida Dalser ho dovuto farmi assistere personalmente da un coach di recitazione: è un personaggio difficile, intenso, pieno di fisicità. Quindi c' è voluta una preparazione teatrale. Troppo spesso il cinema dimentica il corpo. Mentre questo è un film forte, senza understatement ». Insomma, Vincere di Marco Bellocchio non è uno dei soliti film «carini» italiani. È un pugno nello stomaco. Perfino per Giovanna Mezzogiorno, una delle più brave attrici italiane, portarlo a termine è stata una sfida.
La vicenda è quella drammatica della prima, presunta moglie di Benito Mussolini: la Dalser, bella ragazza di buona famiglia, figlia del sindaco di Sopramonte (Trento). Personalità assai intraprendente, a 20 anni va a Parigi per studiare Medicina estetica, poi apre un suo salone di bellezza «alla francese» a Milano: raro esempio, per l' epoca, di donna imprenditrice. Qui s' innamora di Mussolini. «Ed è l' inizio di una passione travolgente», racconta la Mezzogiorno.
DONNE E POTERE
Nel 1913 il futuro dittatore (interpretato da Filippo Timi) ha 30 anni, tre meno di lei. Dirige l'Avanti, quotidiano del partito socialista, ed è un rivoluzionario di estrema sinistra, antimonarchico e anticlericale. In realtà, i due si erano già fuggevolmente incrociati a Trento, e lei ne era rimasta folgorata.
«Già allora Mussolini era un uomo mangiato vivo dall' ambizione», dice la Mezzogiorno. «E non sono poche le donne attratte dal potere, anche se allora lui non era nessuno». Ida si affida al suo eroe. Che nel giro di pochi mesi da pacifista diventa interventista, vuole che l' Italia faccia guerra all' Austria (Paese di cui la Dalser ha la cittadinanza, essendo trentina). Quindi viene cacciato dai socialisti e fonda un giornale, il Popolo d' Italia.
«Per finanziarlo Ida vende tutto: la casa, il salone di bellezza, i gioielli». Intanto però Mussolini sta già con la futura moglie Rachele Guidi (interpretata da Michela Cescon), dalla quale nel 1910 ha avuto la figlia Edda. Non importa: l'agitatore è debordante anche nella vita privata, e pare che nel settembre ' 14 sposi la Dalser con matrimonio religioso (del quale però non esistono prove).
L' unica cosa certa è che l' 11 novembre 1915, a guerra iniziata, Ida dà alla luce un bambino. Al quale viene dato un nome che parla da solo: Benito Albino Mussolini. E il duce lo riconosce, anche se anni dopo falsificherà i dati anagrafici. Un mese dopo, nel dicembre 1915, Rachele l' ha vinta: si fa sposare con rito civile all' ospedale di Treviglio (Bergamo) dove Benito è ricoverato per una ferita di guerra. Così, il Duce non ne vuole più sapere della Dalser: lei riuscirà a rivederlo solo in ospedale, immobilizzato e accudito da Rachele. Si scaglia contro la rivale urlando che è lei la vera moglie. Ma la allontanano a forza.
Il resto della vita della Dalser è un calvario. «Aveva un carattere troppo forte per rassegnarsi», dice la Mezzogiorno, «ed è stata la sua grande personalità a impaurire Mussolini, che ha preferito la quiete del matrimonio con Rachele. La Dalser non si accontenta di soldi in cambio del silenzio, come le altre amanti del Duce: grida sempre la sua verità e scrive a tutte le autorità, dal Papa in giù».
L' ARRESTO E L'OBLIO
Sorvegliata, non si arrende. Ma nel 1926 Mussolini la separa dal figlio (che non rivedrà più), la fa arrestare e rinchiudere nel manicomio di Pergine Valsugana. Poi viene trasferita in quello di San Clemente (Venezia). Qui un direttore sanitario onesto non può diagnosticarle alcun disturbo. Eppure viene torturata e finisce semiparalizzata. Muore nel dicembre ' 37, a 57 anni, per emorragia cerebrale.
Quanto al figlio, Mussolini nel ' 32 gli fa togliere il cognome con decreto reale. Dopo averlo messo in collegio lo spedisce in Cina nella Marina militare. E pure lui viene internato in manicomio, dove muore a 26 anni, nel ' 42. «Per marasma», recita la diagnosi.
«Una storia tremenda», dice la Mezzogiorno. «Già la scena del provino fu lunga e difficile. Era quella dell' interrogatorio della Dalser col giudice. Mi sono affidata a Bellocchio perché mi dicesse cosa voleva vedere nel personaggio. La Dalser era contraddittoria: femminista ma sottomessa, innamorata ma ossessiva».
Bellocchio, maestro del cinema, a 70 anni non ha bisogno di riconoscimenti, ma Vincere è l'unico film italiano in concorso a Cannes: sarà proiettato il 19 maggio. Nello stesso giorno uscirà in Italia. «Sono lusingata di rappresentare l' Italia», dice Giovanna, «dopo essere stata a Cannes l'anno scorso con Palermo Shooting di Wenders». E la prossima prova non sarà meno controversa: La prima linea , sui brigatisti degli Anni 70.
Mauro Suttora
RIQUADRO
Le donne del Duce
Mussolini ha avuto una quantità incredibile di amanti. Le più importanti sono state Margherita Sarfatti e Claretta Petacci. La Sarfatti (1880-1961), ricca ebrea veneziana, giornalista socialista, incontra Benito nel 1912. La relazione va avanti anche dopo il matrimonio di lui. Fascista, va via dall' Italia nel '38, con le leggi razziali. Rientrerà a Como nel '47.
La Petacci (1912-'45), romana, è l'amante dal '36 fino alla morte di entrambi, fucilati nell'aprile '45 e appesi a testa in giù a piazzale Loreto. Fra le altre, Romilda Ruspi Mingardi, negli Anni 20-30, e la marchesa Giulia Brambilla Carminati.
Wednesday, May 06, 2009
Famiglia palestinese a Perugia
Dopo 37 anni ricevono la cittadinanza italiana
dal nostro inviato Mauro Suttora
Corciano (Perugia), 28 aprile 2009
«Ci sono voluti trentasette anni, ma alla fine la cittadinanza italiana è arrivata». Il dottor Abdel Qader Mohammed, 60 anni, palestinese, festeggia con la sua numerosa famiglia. Emigrò in Italia nel 1972, prima della guerra del Kippur: era fra le decine di migliaia di studenti accolti dall’università per stranieri di Perugia. Ha imparato la nostra lingua. Si è laureato in medicina. Si è specializzato in allergologia. Ed è rimasto qui.
«Vengo da Kalkilia, nella Cisgiordania, che dal ’67 è occupata da Israele. Non sapevo se seguire la parte della mia famiglia profuga in Kuwait, o se stabilirmi in Italia. Ma in Umbria stavo bene, e così sono rimasto».
La sindaca di Corciano (paese accanto a Perugia), Nadia Ginetti del Pd, aveva solo tre anni quando il giovane Abder arrivò da queste parti. E adesso dà la cittadinanza a lui, alla moglie, alle quattro figlie ventenni e al figlio quindicenne. Un po’ in ritardo rispetto alla regola per cui i figli di immigrati nati in Italia diventano automaticamente cittadini a 18 anni.
«Questo perché qualche anno fa ci fu un equivoco con l’anagrafe di Corciano», spiega la moglie 47enne del dottor Qader, Khalil Zaynab, «e invece di registrare il nostro trasferimento da una casa in affitto a una di proprietà ci considerarono rientrati in Giordania. Mentre per la legge bisogna risiedere ininterrottamente qui. Ci sono voluti parecchi anni, ma ora tutto è risolto».
L’autobus G1 mi porta direttamente dal centro di Perugia a sotto casa Qader, una bella palazzina moderna a Corciano. Dove tutti conoscono il dottore, non solo per la sua attività professionale, ma anche perché è l’imam di Perugia.
«Ci sono trentamila musulmani in Umbria, e i centri islamici stanno aumentando», spiega. «Ma non tutti gli immigrati sono religiosi. Gli albanesi, per esempio, frequentano poco. E di moschee non se ne parla: guardate tutte le storie per costruire la prima in Toscana, a Colle Val d’Elsa. Così siamo costretti a pregare in garage e magazzini».
Eppure Qader è figura nota, a livello religioso. Viene sempre invitato agli incontri ecumenici dei francescani di Assisi, con ebrei e buddisti. Due anni fa ha avuto dei problemi con dei giovani islamici estremisti di Perugia.
Da sei mesi, poi, la sua primogenita Sumaya Abdel Qader lo ha superato per notorietà: ha infatti pubblicato il libro Porto il velo, adoro i Queen (ed. Sonzogno), in cui racconta le sue esperienze di immigrata di seconda generazione.
Tutte le figlie del dottor Qader portano il velo. Per loro libera scelta. Anzi, quando Sumaya a tredici anni ha voluto metterselo, sua madre ha cercato di dissuaderla per non farle pesare la diversità con le compagne di scuola.
A casa Qader incontriamo Nebras, la secondogenita, laureata in scienze dell’informazione ed educatrice. Sposata da quattro anni con Mahmad, 29, studente di medicina a Chieti, ha appena avuto una figlia.
Poi c’è Maymuna, 26: studia scienze politiche, legge Pirandello e Baricco, «vorrei fare la gelataia», scherza. Il sogno della figlia più giovane, Danya, 23, è invece quello di arruolarsi in polizia. Per ora non può farlo se non rinuncia al velo, ma spera che questa regola cambi e intanto studia relazioni internazionali all’università: «Mi piacerebbe fare la poliziotta all’ambasciata d’Italia ad Amman…».
Infine Omar, 15 anni, liceo scientifico. Torna a casa alle due, mentre siamo a tavola per mangiare la makluba, piatto tipico palestinese che significa «la rovesciata». Gli piace lo sport, va in palestra, gioca a calcio, pratica la boxe e il kickboxing.
Manca solo Sumaya, che vive a Milano col marito siriano e le due figlie. Le ragazze parlano italiano con l’accento umbro: «Quando non vogliamo farci capire dalla mamma usiamo il dialetto perugino». La signora Khalil aveva 15 anni quando si è sposata: «Mio marito venne in Kuwait, le nostre famiglie erano vicine di casa. Facemmo tutto secondo le regole tradizionali: quando lui mi vide non mi parlò, ma dovette chiedere ai suoi genitori di organizzare un incontro fra le famiglie, in cui chiese ufficialmente la mia mano. Solo che eravamo tutte velate, e per un attimo all’inizio mi confuse con mia madre, che mi assomiglia ed era anche lei molto giovane, 31 anni…»
C’è humour e si scherza, a casa Qader. Maymuna darà il suo primo voto da cittadina a Berlusconi, mentre la «poliziotta» Danya sta più a sinistra. Omar tifa Inter, e ai mondiali tutta la famiglia stava per l’Italia e per la Turchia (unico Paese musulmano).
A un certo punto suona il campanello. Sorpresa: è don Antonio, il nuovo giovane parroco che non conosce ancora bene gli abitanti e passa per la benedizione pasquale. L’imam Qader lo accoglie cordialmente. Beviamo il caffè.
Non sempre le cose sono così idilliache. Sumaya nel suo libro racconta che una volta, sul bus 56 a Milano, le figlie si misero a cantare: «Siam pronte alla morte, siam pronte alla morte». Una passeggera, vedendo la madre col velo islamico, mormora: «Bella educazione, pronte per il martirio suicida…» Le bimbe continuano a cantare: «Siam pronte alla morte, l’Italia chiamò». Era l’inno d’Italia.
Quando alle ragazze Qader qualcuno domanda «Vi sentite integrate?», loro sorridono con i loro occhioni verdi e rispondono: «Ma non c’è niente da integrare, siamo italiane». Sumaya sogna la disponibilità all'accoglienza degli Stati Uniti, dove già all’aeroporto c’è una funzionaria americana con il velo per accogliere i passeggeri islamici, e dove abbondano le moschee. Durante una vacanza in Giordania un ragazzo arabo cercò di fidanzarsi organizzando un incontro fra famiglie, ma lei mandò subito tutti a quel paese.
Dopo la prima guerra del Golfo, nel ’90, i nonni materni hanno dovuto scappare di nuovo dal Kuwait invaso da Saddam. Non potendo tornare nella loro Palestina, abitano in Giordania: profughi due volte. «E noi abbiamo imparato l’arabo, ogni estate andiamo a trovarli, adoriamo la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra religione», dicono le ragazze Qader. «Ma siamo nate a Perugia, e il nostro Paese è l’Italia».
Mauro Suttora
dal nostro inviato Mauro Suttora
Corciano (Perugia), 28 aprile 2009
«Ci sono voluti trentasette anni, ma alla fine la cittadinanza italiana è arrivata». Il dottor Abdel Qader Mohammed, 60 anni, palestinese, festeggia con la sua numerosa famiglia. Emigrò in Italia nel 1972, prima della guerra del Kippur: era fra le decine di migliaia di studenti accolti dall’università per stranieri di Perugia. Ha imparato la nostra lingua. Si è laureato in medicina. Si è specializzato in allergologia. Ed è rimasto qui.
«Vengo da Kalkilia, nella Cisgiordania, che dal ’67 è occupata da Israele. Non sapevo se seguire la parte della mia famiglia profuga in Kuwait, o se stabilirmi in Italia. Ma in Umbria stavo bene, e così sono rimasto».
La sindaca di Corciano (paese accanto a Perugia), Nadia Ginetti del Pd, aveva solo tre anni quando il giovane Abder arrivò da queste parti. E adesso dà la cittadinanza a lui, alla moglie, alle quattro figlie ventenni e al figlio quindicenne. Un po’ in ritardo rispetto alla regola per cui i figli di immigrati nati in Italia diventano automaticamente cittadini a 18 anni.
«Questo perché qualche anno fa ci fu un equivoco con l’anagrafe di Corciano», spiega la moglie 47enne del dottor Qader, Khalil Zaynab, «e invece di registrare il nostro trasferimento da una casa in affitto a una di proprietà ci considerarono rientrati in Giordania. Mentre per la legge bisogna risiedere ininterrottamente qui. Ci sono voluti parecchi anni, ma ora tutto è risolto».
L’autobus G1 mi porta direttamente dal centro di Perugia a sotto casa Qader, una bella palazzina moderna a Corciano. Dove tutti conoscono il dottore, non solo per la sua attività professionale, ma anche perché è l’imam di Perugia.
«Ci sono trentamila musulmani in Umbria, e i centri islamici stanno aumentando», spiega. «Ma non tutti gli immigrati sono religiosi. Gli albanesi, per esempio, frequentano poco. E di moschee non se ne parla: guardate tutte le storie per costruire la prima in Toscana, a Colle Val d’Elsa. Così siamo costretti a pregare in garage e magazzini».
Eppure Qader è figura nota, a livello religioso. Viene sempre invitato agli incontri ecumenici dei francescani di Assisi, con ebrei e buddisti. Due anni fa ha avuto dei problemi con dei giovani islamici estremisti di Perugia.
Da sei mesi, poi, la sua primogenita Sumaya Abdel Qader lo ha superato per notorietà: ha infatti pubblicato il libro Porto il velo, adoro i Queen (ed. Sonzogno), in cui racconta le sue esperienze di immigrata di seconda generazione.
Tutte le figlie del dottor Qader portano il velo. Per loro libera scelta. Anzi, quando Sumaya a tredici anni ha voluto metterselo, sua madre ha cercato di dissuaderla per non farle pesare la diversità con le compagne di scuola.
A casa Qader incontriamo Nebras, la secondogenita, laureata in scienze dell’informazione ed educatrice. Sposata da quattro anni con Mahmad, 29, studente di medicina a Chieti, ha appena avuto una figlia.
Poi c’è Maymuna, 26: studia scienze politiche, legge Pirandello e Baricco, «vorrei fare la gelataia», scherza. Il sogno della figlia più giovane, Danya, 23, è invece quello di arruolarsi in polizia. Per ora non può farlo se non rinuncia al velo, ma spera che questa regola cambi e intanto studia relazioni internazionali all’università: «Mi piacerebbe fare la poliziotta all’ambasciata d’Italia ad Amman…».
Infine Omar, 15 anni, liceo scientifico. Torna a casa alle due, mentre siamo a tavola per mangiare la makluba, piatto tipico palestinese che significa «la rovesciata». Gli piace lo sport, va in palestra, gioca a calcio, pratica la boxe e il kickboxing.
Manca solo Sumaya, che vive a Milano col marito siriano e le due figlie. Le ragazze parlano italiano con l’accento umbro: «Quando non vogliamo farci capire dalla mamma usiamo il dialetto perugino». La signora Khalil aveva 15 anni quando si è sposata: «Mio marito venne in Kuwait, le nostre famiglie erano vicine di casa. Facemmo tutto secondo le regole tradizionali: quando lui mi vide non mi parlò, ma dovette chiedere ai suoi genitori di organizzare un incontro fra le famiglie, in cui chiese ufficialmente la mia mano. Solo che eravamo tutte velate, e per un attimo all’inizio mi confuse con mia madre, che mi assomiglia ed era anche lei molto giovane, 31 anni…»
C’è humour e si scherza, a casa Qader. Maymuna darà il suo primo voto da cittadina a Berlusconi, mentre la «poliziotta» Danya sta più a sinistra. Omar tifa Inter, e ai mondiali tutta la famiglia stava per l’Italia e per la Turchia (unico Paese musulmano).
A un certo punto suona il campanello. Sorpresa: è don Antonio, il nuovo giovane parroco che non conosce ancora bene gli abitanti e passa per la benedizione pasquale. L’imam Qader lo accoglie cordialmente. Beviamo il caffè.
Non sempre le cose sono così idilliache. Sumaya nel suo libro racconta che una volta, sul bus 56 a Milano, le figlie si misero a cantare: «Siam pronte alla morte, siam pronte alla morte». Una passeggera, vedendo la madre col velo islamico, mormora: «Bella educazione, pronte per il martirio suicida…» Le bimbe continuano a cantare: «Siam pronte alla morte, l’Italia chiamò». Era l’inno d’Italia.
Quando alle ragazze Qader qualcuno domanda «Vi sentite integrate?», loro sorridono con i loro occhioni verdi e rispondono: «Ma non c’è niente da integrare, siamo italiane». Sumaya sogna la disponibilità all'accoglienza degli Stati Uniti, dove già all’aeroporto c’è una funzionaria americana con il velo per accogliere i passeggeri islamici, e dove abbondano le moschee. Durante una vacanza in Giordania un ragazzo arabo cercò di fidanzarsi organizzando un incontro fra famiglie, ma lei mandò subito tutti a quel paese.
Dopo la prima guerra del Golfo, nel ’90, i nonni materni hanno dovuto scappare di nuovo dal Kuwait invaso da Saddam. Non potendo tornare nella loro Palestina, abitano in Giordania: profughi due volte. «E noi abbiamo imparato l’arabo, ogni estate andiamo a trovarli, adoriamo la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra religione», dicono le ragazze Qader. «Ma siamo nate a Perugia, e il nostro Paese è l’Italia».
Mauro Suttora
Wednesday, April 29, 2009
L'Eurocasta lavora 33 giorni all'anno
dal nostro inviato a Strasburgo (Europa)
Mauro Suttora
Oggi, 29 aprile 2009
In Francia il presidente Nicolas Sarkozy ha abolito la settimana lavorativa di 35 ore. Il Parlamento europeo, invece, quest’anno ha introdotto una novità mondiale: l’anno lavorativo di 33 giorni. Ai 785 eurodeputati, pagati 30mila euro mensili, basta volare a Bruxelles o a Strasburgo una volta al mese, starci due-tre giorni, ed è fatta.
Certo, ci sono anche le mezze giornate, come si vede nella tabella. Lunedì 4 maggio, per esempio, la seduta comincia alle 17 e va avanti fino a mezzanotte. Ma in realtà è una giornata libera: basta che l’eurodeputato prenda un aereo dal suo Paese verso le nove di sera, atterri a Strasburgo alle undici e vada subito a firmare il registro presenze. Così non perde la diaria di 300 euro al giorno. Idem per le mezze giornate al mattino: non è tanto importante l’orario di chiusura, le 13, quanto quello di inizio seduta: le nove. Anche lì, una capatina in sala, firmetta, e poi via verso l’aeroporto.
Il 2009 è un anno particolare, è vero: il 7 giugno si vota, quindi salta la sessione di quel mese. Risultato: ferie extralunghe, dall’8 maggio al 14 settembre. Ai nuovi eletti basterà andare tre giorni a Bruxelles a metà luglio per acclimatarsi.
L’eurodeputato radicale Marco Cappato ha chiesto che il Parlamento renda noti i dati di presenza dei suoi membri, in vista delle elezioni: unica occasione in cui possiamo giudicare i nostri rappresentanti. Niente da fare, il presidente ha opposto questioni di privacy. Allora i radicali hanno fatto da soli, e hanno compilato la classifica dei più assidui e degli assenteisti (pubblichiamo i dieci italiani migliori e peggiori nella pagina seguente). Attenzione, però: hanno calcolato non solo le riunioni plenarie, dove come abbiamo visto il giochetto è facile, ma anche altri indici di «produttività»: la partecipazione alle commissioni, il numero di rapporti scritti, di interrogazioni, di interventi in aula. I risultati sono imbarazzanti.
«Il problema degli eletti italiani è che non sanno le lingue», ci dice una dirigente dell’Europarlamento, ai piani alti della Torre di Strasburgo. Anonima, altrimenti addio carriera. La maggioranza assoluta dei nostri eurodeputati non parla bene l’inglese, o almeno il francese. «E questo è grave non tanto per le riunioni d’aula, dove è assicurata la traduzione simultanea, quanto per tutti i contatti di corridoio con i colleghi delle altre nazioni, che rappresentano il vero lavoro utile da svolgere a Bruxelles».
Infatti, da un punto di vista concreto l’Europarlamento serve a poco. E’ un organo consultivo, non decide quasi niente da solo. Non nomina governi, non toglie la fiducia, tutte le leggi (direttive) devono essere «codecise» assieme ai burocrati della Commissione. Alla fine chi comanda veramente non sono né il Parlamento né la Commissione, ma il Consiglio, composto dai ministri dei 27 stati membri. «E neanche loro hanno l’ultima parola, perché poi ciascuno stato è libero di mettere il veto, o di non applicare una norma».
Insomma, quello che voteremo fra un mese è un enorme, simpatico e costosissimo ente inutile che serve soprattutto per far socializzare centinaia di giovani portaborse multietnici (dalla Lettonia a Malta, dall’Irlanda a Cipro): sono loro a effettuare il vero lavoro, per l’eurodeputato di cui sono «assistenti». Il quale è libero di decidere quanto pagarli. Dispone di 17.500 euro al mese: può darli tutti a uno solo (magari parente o amante), oppure assumerne 17 a mille euro ciascuno. Può tenerli al Parlamento oppure nel proprio collegio elettorale.
Nella Babele di Strasburgo si parlano 22 lingue. Quindi, in teoria, il numero di interpreti è di 22 al quadrato, perché ciascuna lingua dovrebbe essere tradotta in ogni altra. Impresa impossibile. assorbirebbe tutto il bilancio dell’Unione. «Ci sono quindi le lingue-ponte», spiega la dirigente, «per esempio un interprete dall’estone all’inglese, e subito dopo un altro dall’inglese all’italiano».
Il risultato è comico. Se qualcuno fa una battuta, un terzo della sala ride subito, un terzo dopo dieci secondi, e gli altri dopo venti. Sempre che capiscano qualcosa, perché si calcola che ad ogni traduzione si perda in media il 30 per cento del significato.
«Gli irlandesi hanno preteso che il gaelico diventasse lingua ufficiale, anche se neppure loro lo parlano. E così i maltesi». Ora si aspettano il croato, il serbo, l’albanese, il norvegese, l’islandese, l’ucraino e il turco. Si spera invano che i moldavi accettino il rumeno.
L’altro grande spreco dell’Europarlamento sono le tre sedi: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo Grandi traslochi di migliaia di persone e casse ogni mese. Costano 120 milioni di euro all’anno in più, calcolano i radicali. Di più, secondo i verdi. 200 milioni Dieci anni fa sia il Belgio sia la Francia, per paura di perderlo, hanno costruito un nuovo palazzo. Tutto è doppio.
Fino al ’99 Strasburgo usava le sale del Consiglio d’Europa: un altro ente diventato inutile dieci anni prima, col crollo del Muro di Berlino e l’entrata dei Paesi dell’Est nell’Unione. Ora i due palazzi troneggiano uno accanto all’altro, desolatamente vuoti per quaranta settimane all’anno.
Questa è la vita dell’eurodeputato. Pagatissima, undici mesi di ferie annui. Ma frustrante.
Mauro Suttora
Mauro Suttora
Oggi, 29 aprile 2009
In Francia il presidente Nicolas Sarkozy ha abolito la settimana lavorativa di 35 ore. Il Parlamento europeo, invece, quest’anno ha introdotto una novità mondiale: l’anno lavorativo di 33 giorni. Ai 785 eurodeputati, pagati 30mila euro mensili, basta volare a Bruxelles o a Strasburgo una volta al mese, starci due-tre giorni, ed è fatta.
Certo, ci sono anche le mezze giornate, come si vede nella tabella. Lunedì 4 maggio, per esempio, la seduta comincia alle 17 e va avanti fino a mezzanotte. Ma in realtà è una giornata libera: basta che l’eurodeputato prenda un aereo dal suo Paese verso le nove di sera, atterri a Strasburgo alle undici e vada subito a firmare il registro presenze. Così non perde la diaria di 300 euro al giorno. Idem per le mezze giornate al mattino: non è tanto importante l’orario di chiusura, le 13, quanto quello di inizio seduta: le nove. Anche lì, una capatina in sala, firmetta, e poi via verso l’aeroporto.
Il 2009 è un anno particolare, è vero: il 7 giugno si vota, quindi salta la sessione di quel mese. Risultato: ferie extralunghe, dall’8 maggio al 14 settembre. Ai nuovi eletti basterà andare tre giorni a Bruxelles a metà luglio per acclimatarsi.
L’eurodeputato radicale Marco Cappato ha chiesto che il Parlamento renda noti i dati di presenza dei suoi membri, in vista delle elezioni: unica occasione in cui possiamo giudicare i nostri rappresentanti. Niente da fare, il presidente ha opposto questioni di privacy. Allora i radicali hanno fatto da soli, e hanno compilato la classifica dei più assidui e degli assenteisti (pubblichiamo i dieci italiani migliori e peggiori nella pagina seguente). Attenzione, però: hanno calcolato non solo le riunioni plenarie, dove come abbiamo visto il giochetto è facile, ma anche altri indici di «produttività»: la partecipazione alle commissioni, il numero di rapporti scritti, di interrogazioni, di interventi in aula. I risultati sono imbarazzanti.
«Il problema degli eletti italiani è che non sanno le lingue», ci dice una dirigente dell’Europarlamento, ai piani alti della Torre di Strasburgo. Anonima, altrimenti addio carriera. La maggioranza assoluta dei nostri eurodeputati non parla bene l’inglese, o almeno il francese. «E questo è grave non tanto per le riunioni d’aula, dove è assicurata la traduzione simultanea, quanto per tutti i contatti di corridoio con i colleghi delle altre nazioni, che rappresentano il vero lavoro utile da svolgere a Bruxelles».
Infatti, da un punto di vista concreto l’Europarlamento serve a poco. E’ un organo consultivo, non decide quasi niente da solo. Non nomina governi, non toglie la fiducia, tutte le leggi (direttive) devono essere «codecise» assieme ai burocrati della Commissione. Alla fine chi comanda veramente non sono né il Parlamento né la Commissione, ma il Consiglio, composto dai ministri dei 27 stati membri. «E neanche loro hanno l’ultima parola, perché poi ciascuno stato è libero di mettere il veto, o di non applicare una norma».
Insomma, quello che voteremo fra un mese è un enorme, simpatico e costosissimo ente inutile che serve soprattutto per far socializzare centinaia di giovani portaborse multietnici (dalla Lettonia a Malta, dall’Irlanda a Cipro): sono loro a effettuare il vero lavoro, per l’eurodeputato di cui sono «assistenti». Il quale è libero di decidere quanto pagarli. Dispone di 17.500 euro al mese: può darli tutti a uno solo (magari parente o amante), oppure assumerne 17 a mille euro ciascuno. Può tenerli al Parlamento oppure nel proprio collegio elettorale.
Nella Babele di Strasburgo si parlano 22 lingue. Quindi, in teoria, il numero di interpreti è di 22 al quadrato, perché ciascuna lingua dovrebbe essere tradotta in ogni altra. Impresa impossibile. assorbirebbe tutto il bilancio dell’Unione. «Ci sono quindi le lingue-ponte», spiega la dirigente, «per esempio un interprete dall’estone all’inglese, e subito dopo un altro dall’inglese all’italiano».
Il risultato è comico. Se qualcuno fa una battuta, un terzo della sala ride subito, un terzo dopo dieci secondi, e gli altri dopo venti. Sempre che capiscano qualcosa, perché si calcola che ad ogni traduzione si perda in media il 30 per cento del significato.
«Gli irlandesi hanno preteso che il gaelico diventasse lingua ufficiale, anche se neppure loro lo parlano. E così i maltesi». Ora si aspettano il croato, il serbo, l’albanese, il norvegese, l’islandese, l’ucraino e il turco. Si spera invano che i moldavi accettino il rumeno.
L’altro grande spreco dell’Europarlamento sono le tre sedi: Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo Grandi traslochi di migliaia di persone e casse ogni mese. Costano 120 milioni di euro all’anno in più, calcolano i radicali. Di più, secondo i verdi. 200 milioni Dieci anni fa sia il Belgio sia la Francia, per paura di perderlo, hanno costruito un nuovo palazzo. Tutto è doppio.
Fino al ’99 Strasburgo usava le sale del Consiglio d’Europa: un altro ente diventato inutile dieci anni prima, col crollo del Muro di Berlino e l’entrata dei Paesi dell’Est nell’Unione. Ora i due palazzi troneggiano uno accanto all’altro, desolatamente vuoti per quaranta settimane all’anno.
Questa è la vita dell’eurodeputato. Pagatissima, undici mesi di ferie annui. Ma frustrante.
Mauro Suttora
Thursday, April 23, 2009
Il miracolo di Marta Valente
«Per ore ho urlato dal mio sepolcro»
Una studentessa è stata estratta viva dalle macerie dopo 23 ore. Merito di un gruppo di speleologi esperti nel salvataggio da frane e valanghe. Fra loro c'era anche un angelo custode che le ha tenuto compagnia
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 22 aprile 2009
«Ho gridato fino alla fine». Marta Valente, 24 anni, di Bisenti (Teramo). Ora sta nel reparto rianimazione al nono piano dell’ospedale di Chieti, che sorge su un’alta collina. Fin qui si sono dovuti arrampicare, dalla loro grotte, gli speleologi che l’hanno salvata. Ora vogliono solo salutarla e controllare come sta.
Lunedì 6 aprile ci hanno messo 23 ore per tirarla fuori dalle macerie. Ma alla fine l’hanno salvata. «E’ un miracolo. Non so definire diversamente quello che mi è successo», mormora Marta. Tutte le sue amiche studentesse di medicina sono morte, sepolte vive. Serena Scipione del suo stesso paese, che condivideva con lei l’appartamento dell’Aquila in via Rossi. Federica Moscardelli, anche lei teramana di Montorio. E poi Ivana, e altre dodici salme estratte da quella che è stata, assieme alla Casa dello studente, la più grande tomba di questo terremoto.
Una trave di cemento armato ha salvato Marta, coprendola ma non colpendola. Le ha impedito di alzarsi, ma le ha fatto scudo dalle altre travi trasversali che l’avrebbero uccisa. «Ho gridato sempre, per otto ore. A volte sentivo le voci dei soccorritori avvicinarsi, poi si allontanavano e mi disperavo. Finché mi hanno individuato», racconta Marta. Ora ha trauma cranico, edema polmonare (per il prolungato schiacciamento), traumi alla gamba. Ma presto starà meglio.
Il suo angelo custode si chiama Aldo Zambardino, ha 40 anni e fa un mestiere strano: lo «sgaggiatore». E’ uno di quegli sconsiderati che si arrampicano per decine di metri su pareti di roccia ripide per installare le reti di sicurezza che proteggono le strade dalle frane. Nel tempo libero fa parte del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico.
«Siamo arrivati all’Aquila da Roma all’alba», ci racconta il suo collega volontario Roberto Carminucci, 44, professore di educazione fisica. «Alle undici siamo riusciti a localizzare Marta. Abbiamo sentito le sue lamentele. Scavando piano, con le mani, in un’ora siamo arrivati a lei. A mezzogiorno l’abbiamo toccata».
E qui è subentrato Aldo lo sgaggiatore. Che ha avvolto per 14 ore Marta nella rete protettiva delle sue parole. «Per noi è molto importante il supporto psicologico alle vittime intrappolate», spiega Roberto lo speleologo. «Nel buio delle grotte, infatti, i feriti che rimangono bloccati dopo una frana a volte devono aspettare a lungo prima di essere estratti. Spesso sono gravi, soffrono, si lasciano andare e perdono conoscenza. Grazie a Dio non è stato il caso di Marta. Ma Aldo le è stato vicino, le ha dato da mangiare e da bere, le ha parlato per ore. Le avrà raccontato la storia della sua vita!...»
Ora ci si scherza sopra. Ma in quelle ore L’Aquila continuava a tremare, con i boati delle scosse di assestamento. E ci voleva del fegato per starsene accucciati sotto muri e sopra pavimenti che minacciavano di crollare da un momento all’altro.
Si chiama «disostruttori» la sezione specializzata del Soccorso speleologico che scava per salvare vite. E’ il contrario di costruttori e ostruttori: sono arrivati in 150 all’Aquila da tutta Italia. «A volte usiamo delle microcariche per allargare i cunicoli di salvataggio», spiega Carminucci, «infiliamo delle cannucce nei fori della roccia e le facciamo esplodere per creare delle crepe».
Togliendo sasso dopo sasso, alle due di notte gli speleologi della squadra guidata da Marco Cuccu sono riusciti a portar via Marta dal suo sarcofago. «Non sappiamo come ringraziarli», si commuovono i genitori della ragazza, Marco e Lina. «Siamo noi che ringraziamo Marta per il suo coraggio e la sua tenacia, che ci hanno aiutati ad aiutarla», rispondono gli speleologi.
Mauro Suttora
Una studentessa è stata estratta viva dalle macerie dopo 23 ore. Merito di un gruppo di speleologi esperti nel salvataggio da frane e valanghe. Fra loro c'era anche un angelo custode che le ha tenuto compagnia
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 22 aprile 2009
«Ho gridato fino alla fine». Marta Valente, 24 anni, di Bisenti (Teramo). Ora sta nel reparto rianimazione al nono piano dell’ospedale di Chieti, che sorge su un’alta collina. Fin qui si sono dovuti arrampicare, dalla loro grotte, gli speleologi che l’hanno salvata. Ora vogliono solo salutarla e controllare come sta.
Lunedì 6 aprile ci hanno messo 23 ore per tirarla fuori dalle macerie. Ma alla fine l’hanno salvata. «E’ un miracolo. Non so definire diversamente quello che mi è successo», mormora Marta. Tutte le sue amiche studentesse di medicina sono morte, sepolte vive. Serena Scipione del suo stesso paese, che condivideva con lei l’appartamento dell’Aquila in via Rossi. Federica Moscardelli, anche lei teramana di Montorio. E poi Ivana, e altre dodici salme estratte da quella che è stata, assieme alla Casa dello studente, la più grande tomba di questo terremoto.
Una trave di cemento armato ha salvato Marta, coprendola ma non colpendola. Le ha impedito di alzarsi, ma le ha fatto scudo dalle altre travi trasversali che l’avrebbero uccisa. «Ho gridato sempre, per otto ore. A volte sentivo le voci dei soccorritori avvicinarsi, poi si allontanavano e mi disperavo. Finché mi hanno individuato», racconta Marta. Ora ha trauma cranico, edema polmonare (per il prolungato schiacciamento), traumi alla gamba. Ma presto starà meglio.
Il suo angelo custode si chiama Aldo Zambardino, ha 40 anni e fa un mestiere strano: lo «sgaggiatore». E’ uno di quegli sconsiderati che si arrampicano per decine di metri su pareti di roccia ripide per installare le reti di sicurezza che proteggono le strade dalle frane. Nel tempo libero fa parte del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico.
«Siamo arrivati all’Aquila da Roma all’alba», ci racconta il suo collega volontario Roberto Carminucci, 44, professore di educazione fisica. «Alle undici siamo riusciti a localizzare Marta. Abbiamo sentito le sue lamentele. Scavando piano, con le mani, in un’ora siamo arrivati a lei. A mezzogiorno l’abbiamo toccata».
E qui è subentrato Aldo lo sgaggiatore. Che ha avvolto per 14 ore Marta nella rete protettiva delle sue parole. «Per noi è molto importante il supporto psicologico alle vittime intrappolate», spiega Roberto lo speleologo. «Nel buio delle grotte, infatti, i feriti che rimangono bloccati dopo una frana a volte devono aspettare a lungo prima di essere estratti. Spesso sono gravi, soffrono, si lasciano andare e perdono conoscenza. Grazie a Dio non è stato il caso di Marta. Ma Aldo le è stato vicino, le ha dato da mangiare e da bere, le ha parlato per ore. Le avrà raccontato la storia della sua vita!...»
Ora ci si scherza sopra. Ma in quelle ore L’Aquila continuava a tremare, con i boati delle scosse di assestamento. E ci voleva del fegato per starsene accucciati sotto muri e sopra pavimenti che minacciavano di crollare da un momento all’altro.
Si chiama «disostruttori» la sezione specializzata del Soccorso speleologico che scava per salvare vite. E’ il contrario di costruttori e ostruttori: sono arrivati in 150 all’Aquila da tutta Italia. «A volte usiamo delle microcariche per allargare i cunicoli di salvataggio», spiega Carminucci, «infiliamo delle cannucce nei fori della roccia e le facciamo esplodere per creare delle crepe».
Togliendo sasso dopo sasso, alle due di notte gli speleologi della squadra guidata da Marco Cuccu sono riusciti a portar via Marta dal suo sarcofago. «Non sappiamo come ringraziarli», si commuovono i genitori della ragazza, Marco e Lina. «Siamo noi che ringraziamo Marta per il suo coraggio e la sua tenacia, che ci hanno aiutati ad aiutarla», rispondono gli speleologi.
Mauro Suttora
Thursday, April 16, 2009
Terremoto: 8 domande
PURTROPPO C'È UN PERCHÉ
Troppi crolli, anche tra i palazzi nuovi. E ancora una volta si parla di leggi inattuate, scarsa prevenzione, abusi. Otto certezze per ripartire
di Mauro Suttora e Luigi Bignami
Oggi, 15 aprile 2009
«Ecco, queste finestre a nastro non vanno bene». L'ingegnere Alberto Pavese (di nome e di fatto), 47 anni, direttore del Laboratorio prove sperimentali dell' Eucentre di Pavia (che riunisce i massimi esperti europei di riduzione del rischio sismico), ci mostra un punto critico dell' ospedale San Salvatore dell' Aquila.
È il complesso ormai famigerato inaugurato nel 2000, costato 200 miliardi invece degli undici iniziali, ma reso già inagibile dal terremoto. «Se mancano staffe trasversali di ferro, i pilastri corti ai lati rimangono schiacciati dal peso, ed "esplodono". È un tipo di danno classico, ma già secondo le norme antisismiche degli Anni 70 non bisognava progettare così».
Ci vogliono gli occhi esperti dell'ingegner Pavese (chiamato all'Aquila dalla Protezione civile con i quindici ingegneri e tecnici del suo laboratorio mobile a controllare la stabilità delle strutture strategiche) per individuare i veri punti di allarme in una costruzione.
Apparentemente, infatti, i danni più gravi dell' ospedale sono alcuni muri crollati. «Quelli fanno impressione, ma non sono lesioni importanti, di "struttura"», spiega, «sono soltanto rivestimenti oppure, come si dice in gergo, "tamponamenti"». Lo preoccupano di più i pochi calcinacci caduti da certi pilastri portanti di cemento armato al piano terra. Insomma, se la «struttura» tiene, palazzi e ponti non crollano. All'Aquila, invece, tante, troppe vittime. Perché?
E poi: perché così tante e così intense scosse d' assestamento? E ancora: perché le norme antisismiche promesse sette anni fa non sono ancora in vigore? E infine: le nostre case sono sicure?
1 QUANTO È STATO FORTE IL SISMA DELL' AQUILA?
Per la scala Richter è stato classificato del grado 5,8. I danni che si sono avuti e il numero di morti fanno pensare che esso sia stato molto forte, ma in realtà non è così. Se si legge quali danni prevede la scala Richter per un terremoto di questa intensità, si scopre che si dovrebbero avere «possibili fessurazioni sulle mura, mobili che si spostano, alcuni feriti», ma non morti e distruzioni. Solo quando si supera il sesto grado si ipotizzano crolli e morti. La scala Richter è «logaritmica», quindi l' energia rilasciata da un sisma di sesto grado è dieci volte superiore a quella di uno di quinto, e cento volte superiore a un quarto grado. Quindi la catastrofe avvenuta all' Aquila è da imputare al tipo di costruzioni.
2 QUANTO VALE LA CARTA DELLA SISMICITA'?
Dal 2004 la Protezione Civile ha messo a punto una mappa sismica aggiornata d' Italia, elaborata dall' Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). In essa sono comparse numerose zone a rischio che negli anni precedenti non erano ritenute pericolose. Quel che colpisce è che tutto il Paese è indicato come soggetto a terremoti, anche se con diverse classi di rischio. Per esempio, nella carta precedente, dell' 84, ampie zone di Molise, Puglia ed Emilia Romagna non erano classificate come sismiche, mentre ora lo sono.
Il paese di San Giuliano, nel Molise, dove il terremoto del 2002 fece 27 piccole vittime, stava in una zona non pericolosa. Le categorie di rischio sono quattro, e indicano il massimo scuotimento di terreno prevedibile. I comuni della prima categoria si concentrano negli Appennini e in Friuli. Sono esposti a terremoti di magnitudo tra 6 e 7 Richter. La carta è il frutto di dati su oltre duemila terremoti di elevata intensità di cui si hanno testimonianze, e sulle conoscenze dirette della geologia.
3 COSA SONO "SCIAMI" E SCOSSE DI ASSESTAMENTO?
In quest' ultimo terremoto i due fenomeni si sono sovrapposti creando confusione. Gli sciami sismici costituiscono una serie di sismi di bassa-media intensità che possono durare alcune settimane, al più qualche mese, per poi scomparire. Avvengono quando l' energia che si accumula nelle rocce viene rilasciata lentamente. Un terremoto violento, cioè superiore al 5°-6° Richter, può avvenire senza alcuna avvisaglia o nel cuore di uno sciame. Invece dopo un forte sisma si hanno sempre scosse, chiamate di assestamento, che di solito hanno un' intensità inferiore all' evento principale. È sempre energia rilasciata dalla famiglia di fratture che ha generato il sisma, e che si sviluppa in seguito al riassestamento della crosta interessata dal terremoto principale.
Quanto possono durare? Difficile prevederlo: alcuni per mesi, come quelli avvenuti nell' Italia centrale nel 1997 e che ebbero più di un terremoto di una certa intensità. In Friuli dopo la scossa 6.1 del maggio 1976 si ebbe una diminuzione sempre più consistente delle scosse. Ma in settembre si verificarono tre sismi, due dei quali con magnitudo 6.0 e uno 5.8.
4 UN TERREMOTO PUO' SCATENARNE UN ALTRO?
Fino ad alcuni anni fa questa ipotesi veniva negata tassativamente. Ma una recente ricerca dell' università dello Utah (Usa) avrebbe messo in luce che alcuni dei più forti sismi degli ultimi anni hanno scatenato terremoti ad alcune decine di chilometri di distanza, seppur di minor intensità, e che per la loro posizione non possono essere classificati terremoti di assestamento. I terremoti scatenanti comunque, devono avere un'intensità superiore al 7° grado Richter. Sembra che l' energia del grande sisma possa alterare lo stato di equilibrio di una frattura vicina, e se questa si trova vicino al limite di rottura si innesca il sisma.
5 COME MAI LE NORME SONO RIMASTE LETTERA MORTA?
Quella delle norme antisisma mai entrate in vigore è una storia fatta di continue proroghe. Si può continuare a costruire in base alle norme vecchie (anche del 1974), le Regioni si muovono in ordine sparso, e i progettisti accusati di frenare ribattono lamentando circolari poco chiare e mancanza di software e formazione. Dopo la strage di San Giuliano nel 2002 la Protezione civile aggiorna le regole.
Nel 2005 il ministro delle Infrastrutture Lunardi recepisce queste ordinanze. Si tratta del primo testo unico antisismico, che riunisce le norme secondo tipologie costruttive, resistenza dei materiali e delle strutture, fissa livelli di sicurezza e responsabilità dei diversi attori del processo di costruzione (committente, progettista e direttore dei Lavori).
La fase transitoria doveva durare 18 mesi, ma viene prolungata fino a fine 2007 dal governo Prodi. Il 21 dicembre 2007 Stato, Regioni ed Enti locali raggiungono l'intesa su un nuovo testo delle Norme tecniche per le costruzioni, che però prevede altri 18 mesi di periodo transitorio. L' entrata in vigore è fissata per giugno 2009 tranne che per nuovi edifici di rilevanza strategica (ospedali, scuole, caserme): qui le norme sono obbligatorie da marzo 2008. Un decreto del governo rinvia ulteriormente fino a giugno 2010. Dopo il terremoto in Abruzzo il ministro Matteoli ha promesso di anticipare quella data.
6 CHE COSA DOBBIAMO FARE CON LE NOSTRE ABITAZIONI?
Se lo chiedono in questi giorni milioni di italiani che abitano nei centri storici, ma anche in palazzi costruiti fino agli Anni 70. «Nella grande maggioranza dei casi le nostre abitazioni sono sicure», assicura l'ingegner Pavese. «Le norme comunque ci sono, i controlli anche. Alla base della sicurezza antisismica stanno le fondamenta. Che devono avere un isolamento elastico, per consentire all'energia dei terremoti di dissiparsi. Poi, nei progetti meglio evitare sporgenze e rientranze. Mi spiace per la creatività degli architetti, ma la struttura antisismica modello è semplice, lineare».
7 I SOPRALZI NON APPESANTISCONO TROPPO I PALAZZI?
I sopralzi consentiti negli ultimi decenni, per esempio tutte le soffitte di Milano trasformate in «attici», non caricano i palazzi di troppo peso? «Gli ingegneri, architetti e geometri sono responsabili dei progetti che firmano», dice Pavese. «Se a un edificio di sei piani ne viene aggiunto un altro, il peso dovrebbe rimanere sopportabile». Il problema vero, però, è se il materiale utilizzato è scadente: è vero che per risparmiare i costruttori mettono meno acciaio nel cemento armato, e meno cemento e più sabbia nel calcestruzzo? «Qui si sconfina nella criminalità, ma ci sono i mezzi per controllare».
8 CASE NUOVE E CENTRI STORICI: COME CONVIENE AGIRE?
«Oggi tutte le costruzioni in cemento armato hanno una "vita di progetto" di mezzo secolo per quelle normali, e di cento anni per le strategiche, come i ponti», dice Pavese. E dopo? Bisogna abbattere e ricostruire? «No, questa è la garanzia minima: le case non hanno bisogno di controlli per almeno cinquant' anni. In seguito, è bene fare dei check-up . Soprattutto nelle zone altamente sismiche, e in presenza di crepe e altri segnali preoccupanti di allarme». In questi giorni molti propongono di «cinturare» di acciaio i palazzi antichi dei centri storici. Va fatto? «Bisogna valutare caso per caso, con prudenza. Ma anche senza eccessivi allarmismi».
Troppi crolli, anche tra i palazzi nuovi. E ancora una volta si parla di leggi inattuate, scarsa prevenzione, abusi. Otto certezze per ripartire
di Mauro Suttora e Luigi Bignami
Oggi, 15 aprile 2009
«Ecco, queste finestre a nastro non vanno bene». L'ingegnere Alberto Pavese (di nome e di fatto), 47 anni, direttore del Laboratorio prove sperimentali dell' Eucentre di Pavia (che riunisce i massimi esperti europei di riduzione del rischio sismico), ci mostra un punto critico dell' ospedale San Salvatore dell' Aquila.
È il complesso ormai famigerato inaugurato nel 2000, costato 200 miliardi invece degli undici iniziali, ma reso già inagibile dal terremoto. «Se mancano staffe trasversali di ferro, i pilastri corti ai lati rimangono schiacciati dal peso, ed "esplodono". È un tipo di danno classico, ma già secondo le norme antisismiche degli Anni 70 non bisognava progettare così».
Ci vogliono gli occhi esperti dell'ingegner Pavese (chiamato all'Aquila dalla Protezione civile con i quindici ingegneri e tecnici del suo laboratorio mobile a controllare la stabilità delle strutture strategiche) per individuare i veri punti di allarme in una costruzione.
Apparentemente, infatti, i danni più gravi dell' ospedale sono alcuni muri crollati. «Quelli fanno impressione, ma non sono lesioni importanti, di "struttura"», spiega, «sono soltanto rivestimenti oppure, come si dice in gergo, "tamponamenti"». Lo preoccupano di più i pochi calcinacci caduti da certi pilastri portanti di cemento armato al piano terra. Insomma, se la «struttura» tiene, palazzi e ponti non crollano. All'Aquila, invece, tante, troppe vittime. Perché?
E poi: perché così tante e così intense scosse d' assestamento? E ancora: perché le norme antisismiche promesse sette anni fa non sono ancora in vigore? E infine: le nostre case sono sicure?
1 QUANTO È STATO FORTE IL SISMA DELL' AQUILA?
Per la scala Richter è stato classificato del grado 5,8. I danni che si sono avuti e il numero di morti fanno pensare che esso sia stato molto forte, ma in realtà non è così. Se si legge quali danni prevede la scala Richter per un terremoto di questa intensità, si scopre che si dovrebbero avere «possibili fessurazioni sulle mura, mobili che si spostano, alcuni feriti», ma non morti e distruzioni. Solo quando si supera il sesto grado si ipotizzano crolli e morti. La scala Richter è «logaritmica», quindi l' energia rilasciata da un sisma di sesto grado è dieci volte superiore a quella di uno di quinto, e cento volte superiore a un quarto grado. Quindi la catastrofe avvenuta all' Aquila è da imputare al tipo di costruzioni.
2 QUANTO VALE LA CARTA DELLA SISMICITA'?
Dal 2004 la Protezione Civile ha messo a punto una mappa sismica aggiornata d' Italia, elaborata dall' Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). In essa sono comparse numerose zone a rischio che negli anni precedenti non erano ritenute pericolose. Quel che colpisce è che tutto il Paese è indicato come soggetto a terremoti, anche se con diverse classi di rischio. Per esempio, nella carta precedente, dell' 84, ampie zone di Molise, Puglia ed Emilia Romagna non erano classificate come sismiche, mentre ora lo sono.
Il paese di San Giuliano, nel Molise, dove il terremoto del 2002 fece 27 piccole vittime, stava in una zona non pericolosa. Le categorie di rischio sono quattro, e indicano il massimo scuotimento di terreno prevedibile. I comuni della prima categoria si concentrano negli Appennini e in Friuli. Sono esposti a terremoti di magnitudo tra 6 e 7 Richter. La carta è il frutto di dati su oltre duemila terremoti di elevata intensità di cui si hanno testimonianze, e sulle conoscenze dirette della geologia.
3 COSA SONO "SCIAMI" E SCOSSE DI ASSESTAMENTO?
In quest' ultimo terremoto i due fenomeni si sono sovrapposti creando confusione. Gli sciami sismici costituiscono una serie di sismi di bassa-media intensità che possono durare alcune settimane, al più qualche mese, per poi scomparire. Avvengono quando l' energia che si accumula nelle rocce viene rilasciata lentamente. Un terremoto violento, cioè superiore al 5°-6° Richter, può avvenire senza alcuna avvisaglia o nel cuore di uno sciame. Invece dopo un forte sisma si hanno sempre scosse, chiamate di assestamento, che di solito hanno un' intensità inferiore all' evento principale. È sempre energia rilasciata dalla famiglia di fratture che ha generato il sisma, e che si sviluppa in seguito al riassestamento della crosta interessata dal terremoto principale.
Quanto possono durare? Difficile prevederlo: alcuni per mesi, come quelli avvenuti nell' Italia centrale nel 1997 e che ebbero più di un terremoto di una certa intensità. In Friuli dopo la scossa 6.1 del maggio 1976 si ebbe una diminuzione sempre più consistente delle scosse. Ma in settembre si verificarono tre sismi, due dei quali con magnitudo 6.0 e uno 5.8.
4 UN TERREMOTO PUO' SCATENARNE UN ALTRO?
Fino ad alcuni anni fa questa ipotesi veniva negata tassativamente. Ma una recente ricerca dell' università dello Utah (Usa) avrebbe messo in luce che alcuni dei più forti sismi degli ultimi anni hanno scatenato terremoti ad alcune decine di chilometri di distanza, seppur di minor intensità, e che per la loro posizione non possono essere classificati terremoti di assestamento. I terremoti scatenanti comunque, devono avere un'intensità superiore al 7° grado Richter. Sembra che l' energia del grande sisma possa alterare lo stato di equilibrio di una frattura vicina, e se questa si trova vicino al limite di rottura si innesca il sisma.
5 COME MAI LE NORME SONO RIMASTE LETTERA MORTA?
Quella delle norme antisisma mai entrate in vigore è una storia fatta di continue proroghe. Si può continuare a costruire in base alle norme vecchie (anche del 1974), le Regioni si muovono in ordine sparso, e i progettisti accusati di frenare ribattono lamentando circolari poco chiare e mancanza di software e formazione. Dopo la strage di San Giuliano nel 2002 la Protezione civile aggiorna le regole.
Nel 2005 il ministro delle Infrastrutture Lunardi recepisce queste ordinanze. Si tratta del primo testo unico antisismico, che riunisce le norme secondo tipologie costruttive, resistenza dei materiali e delle strutture, fissa livelli di sicurezza e responsabilità dei diversi attori del processo di costruzione (committente, progettista e direttore dei Lavori).
La fase transitoria doveva durare 18 mesi, ma viene prolungata fino a fine 2007 dal governo Prodi. Il 21 dicembre 2007 Stato, Regioni ed Enti locali raggiungono l'intesa su un nuovo testo delle Norme tecniche per le costruzioni, che però prevede altri 18 mesi di periodo transitorio. L' entrata in vigore è fissata per giugno 2009 tranne che per nuovi edifici di rilevanza strategica (ospedali, scuole, caserme): qui le norme sono obbligatorie da marzo 2008. Un decreto del governo rinvia ulteriormente fino a giugno 2010. Dopo il terremoto in Abruzzo il ministro Matteoli ha promesso di anticipare quella data.
6 CHE COSA DOBBIAMO FARE CON LE NOSTRE ABITAZIONI?
Se lo chiedono in questi giorni milioni di italiani che abitano nei centri storici, ma anche in palazzi costruiti fino agli Anni 70. «Nella grande maggioranza dei casi le nostre abitazioni sono sicure», assicura l'ingegner Pavese. «Le norme comunque ci sono, i controlli anche. Alla base della sicurezza antisismica stanno le fondamenta. Che devono avere un isolamento elastico, per consentire all'energia dei terremoti di dissiparsi. Poi, nei progetti meglio evitare sporgenze e rientranze. Mi spiace per la creatività degli architetti, ma la struttura antisismica modello è semplice, lineare».
7 I SOPRALZI NON APPESANTISCONO TROPPO I PALAZZI?
I sopralzi consentiti negli ultimi decenni, per esempio tutte le soffitte di Milano trasformate in «attici», non caricano i palazzi di troppo peso? «Gli ingegneri, architetti e geometri sono responsabili dei progetti che firmano», dice Pavese. «Se a un edificio di sei piani ne viene aggiunto un altro, il peso dovrebbe rimanere sopportabile». Il problema vero, però, è se il materiale utilizzato è scadente: è vero che per risparmiare i costruttori mettono meno acciaio nel cemento armato, e meno cemento e più sabbia nel calcestruzzo? «Qui si sconfina nella criminalità, ma ci sono i mezzi per controllare».
8 CASE NUOVE E CENTRI STORICI: COME CONVIENE AGIRE?
«Oggi tutte le costruzioni in cemento armato hanno una "vita di progetto" di mezzo secolo per quelle normali, e di cento anni per le strategiche, come i ponti», dice Pavese. E dopo? Bisogna abbattere e ricostruire? «No, questa è la garanzia minima: le case non hanno bisogno di controlli per almeno cinquant' anni. In seguito, è bene fare dei check-up . Soprattutto nelle zone altamente sismiche, e in presenza di crepe e altri segnali preoccupanti di allarme». In questi giorni molti propongono di «cinturare» di acciaio i palazzi antichi dei centri storici. Va fatto? «Bisogna valutare caso per caso, con prudenza. Ma anche senza eccessivi allarmismi».
Terremoto all'Aquila
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 7 aprile 2009
A Onna, sette chilometri dal capoluogo abruzzese, la scena è straziante. Siamo nell' epicentro del terremoto, e la signora Doina Dimitrescu piange a dirotto: «Michele aveva sette anni, era il figlio di una mia amica, romena come me. Erano andati ad abitare in centro, dove le case sono vecchie e l'affitto costa meno». Il corpo di Michele, tutto bianco, lo portano via i vigili. Sedici ore dopo la scossa fatale, qui le vittime erano già trenta. Tra loro, un bimbo di otto mesi.
Gli abitanti non si danno pace: «Mancano all'appello almeno quaranta persone», dicono. Al dramma dei morti, si somma quello dei dispersi. Intere famiglie sono sepolte, non c' è alcun superstite che possa dare l'allarme e indicare ai soccorritori il posto dove scavare. È un dolore immenso, senza frontiere. Nell'ampia valle del fiume Aterno, che dall'Aquila porta a Popoli e a Pescara, vivono centinaia di immigrati. Fanno gli allevatori, le badanti, gli operai nella zona industriale. Gente che cercava una vita migliore. Gente che ha trovato l'inferno.
SAN GREGORIO, APOCALISSE
San Gregorio è l' altra faccia dell'apocalisse. Un a del le prime vittime strappata alle macerie era una giovane mamma, morta per salvare la figlia di due anni, facendole scudo col suo corpo. La piccola è viva, l'hanno portata in elicottero all' ospedale più vicino. I miracoli accadono.
Settimio Antonelli, 59 anni, giardiniere, si è salvato. Viveva da solo in una delle case popolari appena fuori dal centro storico. Le hanno costruite vent' anni fa, sono state sventrate dal sisma. Settimio abitava al piano terra di una palazzina a due piani. Il terremoto gli ha sbriciolato la parete del bag no e quella della camera. Mentre racconta il suo incubo, scosse di assestamento mandano boati terribili, ruggiti da gelare il sangue.
«Nelle ultime due settimane la terra ha tremato una ventina di volte. Quella del le 3.32 sembrava una delle tante scosse "normali". Quattro ore prima, c' era stato un sobbalzo piuttosto forte, ma solo gli anziani erano usciti per strada. Gli altri ormai ci avevano fatto l'abitudine. I bambini prendevano le esercitazioni antisismiche come un gioco. È per questo che molti vecchi si sono salvati, e tanti giovani sono rimasti sotto le rovine», spiega Antonelli.
«All'una mi ha svegliato l'ennesima scarica: avevo deciso di alzarmi, ma dopo cinque minuti ho ripreso sonno. Quando è arrivato il terremoto "vero", alle tre e mezza, è crollato subito il muro del bagno. La cosa che mi ha fatto più paura, però, non sono state le crepe, la polvere. È stato il boato, come cento tuoni tutti insieme. Trenta secondi che non scorderò mai più. Ho afferrato un paio di pantaloni e una camicia e sono uscito. Erano tutti fuori», dice. Tutti tranne metà paese, rimasto sotto le rovine. Antonelli ha passato in macchina quel che restava della notte: «Sono andato a dormire nella mia Panda», quasi si scusa.
UN TRAGICO DILEMMA
A 100 metri dalle case popolari inizia il paese vecchio. Con Settimio ci inoltriamo nello sfacelo che è San Gregorio. Una ruspa dei pompieri lavora su un cumulo di pietre. I soccorritori sono divo rati dal tragico dilemma di tutti i terremoti: scavare con la ruspa, rischiando di ferire i sepolti o tirar via le macerie a mano, perdendo tempo che potrebbe rivelarsi prezioso? «Sotto questa montagna di sassi c' è una coppia di quarant' anni. Speriamo bene», sospira Settimio.
Qui accanto, della chiesa di San Gregorio resta solo uno spunzone. E dopo la chiesa c' è una casa famiglia: la occupavano una quindicina di bambini. Tutti salvi, tranne una bimba francese, arrivata il giorno prima della tragedia con i genitori per le vacanze di Pasqua. Non è l' unica vittima straniera di questa catastrofe.
Continua Antonelli: «Il paese aveva 200 abitanti, ma con le case popolari sono arrivate almeno altre 2.000 persone».
Una buona metà, immigrati: romeni, slavi, senegalesi, nigeriani. Ora stanno tutti per strada, accampati nelle auto, che hanno cura di parcheggiare lontano da i muri e dai pali della luce. In giro, un paradosso che fatichiamo a decifrare. Ci sono case antiche, che sono rimaste intatte. E palazzine seminuove, ridotte in cenere.
«Colpa dei lavori di ristrutturazione», spiega Settimio. «I tetti sono stati rifatti in cemento: erano pesantissimi e gravavano su pareti vecchie di secoli. Le hanno sbriciolate». I tetti come coperchio di queste tombe a forma di palazzi. Fatta la conta dei morti, il terrore corre sul terreno, squarciato in più punti. È l' incubo che sta sulla coda di ogni terremoto: che si apra la terra e finisca per ingoiarti. Si ha paura perfino a camminare. Si vorrebbe solo star fermi.
Mauro Suttora
Oggi, 7 aprile 2009
A Onna, sette chilometri dal capoluogo abruzzese, la scena è straziante. Siamo nell' epicentro del terremoto, e la signora Doina Dimitrescu piange a dirotto: «Michele aveva sette anni, era il figlio di una mia amica, romena come me. Erano andati ad abitare in centro, dove le case sono vecchie e l'affitto costa meno». Il corpo di Michele, tutto bianco, lo portano via i vigili. Sedici ore dopo la scossa fatale, qui le vittime erano già trenta. Tra loro, un bimbo di otto mesi.
Gli abitanti non si danno pace: «Mancano all'appello almeno quaranta persone», dicono. Al dramma dei morti, si somma quello dei dispersi. Intere famiglie sono sepolte, non c' è alcun superstite che possa dare l'allarme e indicare ai soccorritori il posto dove scavare. È un dolore immenso, senza frontiere. Nell'ampia valle del fiume Aterno, che dall'Aquila porta a Popoli e a Pescara, vivono centinaia di immigrati. Fanno gli allevatori, le badanti, gli operai nella zona industriale. Gente che cercava una vita migliore. Gente che ha trovato l'inferno.
SAN GREGORIO, APOCALISSE
San Gregorio è l' altra faccia dell'apocalisse. Un a del le prime vittime strappata alle macerie era una giovane mamma, morta per salvare la figlia di due anni, facendole scudo col suo corpo. La piccola è viva, l'hanno portata in elicottero all' ospedale più vicino. I miracoli accadono.
Settimio Antonelli, 59 anni, giardiniere, si è salvato. Viveva da solo in una delle case popolari appena fuori dal centro storico. Le hanno costruite vent' anni fa, sono state sventrate dal sisma. Settimio abitava al piano terra di una palazzina a due piani. Il terremoto gli ha sbriciolato la parete del bag no e quella della camera. Mentre racconta il suo incubo, scosse di assestamento mandano boati terribili, ruggiti da gelare il sangue.
«Nelle ultime due settimane la terra ha tremato una ventina di volte. Quella del le 3.32 sembrava una delle tante scosse "normali". Quattro ore prima, c' era stato un sobbalzo piuttosto forte, ma solo gli anziani erano usciti per strada. Gli altri ormai ci avevano fatto l'abitudine. I bambini prendevano le esercitazioni antisismiche come un gioco. È per questo che molti vecchi si sono salvati, e tanti giovani sono rimasti sotto le rovine», spiega Antonelli.
«All'una mi ha svegliato l'ennesima scarica: avevo deciso di alzarmi, ma dopo cinque minuti ho ripreso sonno. Quando è arrivato il terremoto "vero", alle tre e mezza, è crollato subito il muro del bagno. La cosa che mi ha fatto più paura, però, non sono state le crepe, la polvere. È stato il boato, come cento tuoni tutti insieme. Trenta secondi che non scorderò mai più. Ho afferrato un paio di pantaloni e una camicia e sono uscito. Erano tutti fuori», dice. Tutti tranne metà paese, rimasto sotto le rovine. Antonelli ha passato in macchina quel che restava della notte: «Sono andato a dormire nella mia Panda», quasi si scusa.
UN TRAGICO DILEMMA
A 100 metri dalle case popolari inizia il paese vecchio. Con Settimio ci inoltriamo nello sfacelo che è San Gregorio. Una ruspa dei pompieri lavora su un cumulo di pietre. I soccorritori sono divo rati dal tragico dilemma di tutti i terremoti: scavare con la ruspa, rischiando di ferire i sepolti o tirar via le macerie a mano, perdendo tempo che potrebbe rivelarsi prezioso? «Sotto questa montagna di sassi c' è una coppia di quarant' anni. Speriamo bene», sospira Settimio.
Qui accanto, della chiesa di San Gregorio resta solo uno spunzone. E dopo la chiesa c' è una casa famiglia: la occupavano una quindicina di bambini. Tutti salvi, tranne una bimba francese, arrivata il giorno prima della tragedia con i genitori per le vacanze di Pasqua. Non è l' unica vittima straniera di questa catastrofe.
Continua Antonelli: «Il paese aveva 200 abitanti, ma con le case popolari sono arrivate almeno altre 2.000 persone».
Una buona metà, immigrati: romeni, slavi, senegalesi, nigeriani. Ora stanno tutti per strada, accampati nelle auto, che hanno cura di parcheggiare lontano da i muri e dai pali della luce. In giro, un paradosso che fatichiamo a decifrare. Ci sono case antiche, che sono rimaste intatte. E palazzine seminuove, ridotte in cenere.
«Colpa dei lavori di ristrutturazione», spiega Settimio. «I tetti sono stati rifatti in cemento: erano pesantissimi e gravavano su pareti vecchie di secoli. Le hanno sbriciolate». I tetti come coperchio di queste tombe a forma di palazzi. Fatta la conta dei morti, il terrore corre sul terreno, squarciato in più punti. È l' incubo che sta sulla coda di ogni terremoto: che si apra la terra e finisca per ingoiarti. Si ha paura perfino a camminare. Si vorrebbe solo star fermi.
Mauro Suttora
Wednesday, April 15, 2009
Il cowboy di Castelliri
ANITO E LE SUE MUCCHE, SOLO CONTRO TUTTI
Castelliri (Frosinone), 15 aprile 2009
dal nostro inviato Mauro Suttora
E morto il vitellino appena nato. Mentre Anito De Gasperis era in ospedale, la mucca che lo ha partorito di notte nel bosco non è riuscita a riscaldarlo abbastanza. Il figlio di Anito ha chiamato il veterinario, sono corsi su, lo hanno avvolto in una coperta: troppo tardi, troppo freddo.
Anito è il mandriano di Castelliri (Frosinone) diventato famoso dopo le sue due apparizioni su Striscia la notizia: i tremila compaesani lo odiano perché le sue mucche invadono i loro terreni, rovinandoli. «L’anno scorso le tue uàcc mi song mangiat tutt il granone!», gli ha urlato in faccia una donna.
Anito, che si chiama così in omaggio alla focosa Anita moglie di Garibaldi, ha fatto onore al suo nome e non si è tirato indietro durante le risse televisive: «Parli con la faccia o con il c…?», ha apostrofato il sindaco omonimo Sandro De Gasperis («Parente? No, per carità»). Un altro paesano si è beccato un «’mbecill», un altro «’mbrugliunn», finché una donna lo ha minacciato agitandogli la mano a due centimetri dal viso: «Ca tong ‘na pizza, mannaggia!»
Spettacolari baruffe ciociare finite su Youtube e Facebook, aizzate da Capitan Ventosa: quel tizio di Striscia che va in giro a vendicare soprusi con lo sturacessi in testa. Alla fine però Anito, circondato da decine di paesani infuriati, viene spinto, cade, batte la testa, sviene e finisce all’ospedale di Sora.
Lo incontriamo quando torna a casa, pochi giorni dopo: nulla di grave. Intanto, però, il vitello è morto. A parte la tristezza per quegli occhioni sbarrati del cadavere in cortile, è un danno anche economico: «I vitelli me li pagano 2.500 euro se li porto al mattatoio, se invece li macello io valgono cinquemila», spiega. E attacca il sindaco: «Tutta colpa sua. Sono dieci anni che mi perseguita, aizza tutti contro di me. Ha fatto venire Striscia e non sa che mi ha fatto un favore, perché prima l’avevo chiamata io tre-quattro volte, ma non mi avevano risposto».
In questa Italia da Far West dove per risolvere le liti fra cowboys e agricoltori si va in tv, Anito ci espone le sue ragioni: «Castelliri ha 1.200 ettari di bosco comunale, in montagna. Qui è Lazio, ma fino al 1860 c’erano i Borboni, non il Papa. Da sempre gli abitanti possono pascolare e raccogliere legna e funghi nella foresta. Io mi limito a esercitare il diritto di pascolo pagando regolarmente la “fida” al Comune, e rispettando gli usi civici».
La accusano di spadroneggiare con il suo bestiame, di rovinare gli ulivi nei campi altrui.
Anito s’infervora: «Sono loro a occupare abusivamente ettari ed ettari di terre civiche, senza che nessuno si preoccupi di reintegrarle nel demanio collettivo! Venite, venite su e vi faccio vedere».
Ci inerpichiamo per i monti Simbruini sotto la pioggia, sulla jeep. Metà delle sue 80 mucche e 40 vitelli stanno in un avvallamento del bosco in una situazione penosa: il recinto è pieno di fango, dove affondano per metà le zampe degli animali.
Perché non le tiene riparate sotto un capannone? Basta questa domanda a dare la stura a un fiume in piena: «E quello che chiedo da sempre al sindaco, ma dice che per costruire ci vogliono trentamila metri quadri di terreno…» E poi via a forza di Pua (Piani urbanistici attuativi), contributi comunitari, diffide, regolamenti e verifiche demaniali.
In questi dieci anni Anito è diventato espertissimo di leggi, ci mostra documenti dell’800 e mappe con tutte le particelle del territorio di Castelliri. «Mi hanno denunciato ottanta volte per pascolo abusivo: mai condannato. Tre uomini incappucciati mi hanno aggredito: venti punti in testa. Pochi giorni fa il tribunale di Sora ha annullato una multa di 50 mila euro della guardia di finanza, e così ha sbloccato i contributi europei». Che sono ? «Sessantamila euro l’anno, 500 a capo. Però me ne hanno fatti spendere centomila in avvocati, ho solo debiti».
Saliamo ancora per la foresta, dall’altra parte c’è l’Abruzzo. Arriviamo a un altipiano dove stanno pascolando le altre mucche, ecco una staccionata di legno lungo la provinciale per Sora: «L’avevo fatta per proteggerle dalle auto, ma il sindaco me l’ha demolita a metà. Invece i proprietari di un mobilificio hanno potuto mettere questa cancellata di ferro».
Il terreno non è loro? «Le terre demaniali non si possono vendere né prendere per usucapione, sono di tutti. Si possono dare in concessione, ma solo ai residenti del comune».
Il figlio maggiore di Anito, Danilo, è tornato da Torino, dove si sta laureando in ingegneria meccanica, per aiutare suo fratello Sergio, 21 anni, che lavora alla Fiat di Cassino, a tenere le mucche mentre il padre era in ospedale. Ora le spinge giù verso il recinto, a fine giornata. «Tutte vacche marchigiane di razza: non fanno latte, ma la carne è pregiata».
Insomma, Anito, di quanti ettari ha bisogno? «Quattrocento». Un po’ tanti: un terzo del bosco demaniale di Castelliri. «Ma ogni mucca per pascolare ha bisogno di un ettaro di prato, oppure di quattro ettari di bosco». E non può dargli fieno? «No, perché la carne me la pagano cinque euro al chilo, e il fieno costa sei». Ma le mucche non rovinano il sottobosco, mangiando tutti i germogli? «No, quelle sono le capre. Le mucche sono ghiotte di erbacce e trifoglio, disboscano e fanno bene agli alberi».
Ci sono altri allevatori nella zona? «Sì, nei comuni vicini: Sora, Veroli. A Castelliri sono l’unico. Ma col sindaco di prima non avevo problemi».
Come nella canzone di Georges Brassens La cattiva reputazione, Anito in paese non ha amici. Non gli resta che sperare nel prossimo sindaco, che verrà eletto fra due mesi. Quello attuale deve lasciare, dopo dieci anni.
Intanto, per risolvere il caso del cowboy di Castelliri, a Frosinone si è riunito d’urgenza in prefettura il Comitato provinciale per la sicurezza. Presente l’intero gotha delle autorità: prefetto, viceprefetti, procuratore capo, questore, comandanti provinciali di carabinieri, guardia di finanza, forestale e guardie provinciali, direttore dell’Asl, responsabile del servizio veterinario…
La guerra di Anito contro tutti continua.
Mauro Suttora
Castelliri (Frosinone), 15 aprile 2009
dal nostro inviato Mauro Suttora
E morto il vitellino appena nato. Mentre Anito De Gasperis era in ospedale, la mucca che lo ha partorito di notte nel bosco non è riuscita a riscaldarlo abbastanza. Il figlio di Anito ha chiamato il veterinario, sono corsi su, lo hanno avvolto in una coperta: troppo tardi, troppo freddo.
Anito è il mandriano di Castelliri (Frosinone) diventato famoso dopo le sue due apparizioni su Striscia la notizia: i tremila compaesani lo odiano perché le sue mucche invadono i loro terreni, rovinandoli. «L’anno scorso le tue uàcc mi song mangiat tutt il granone!», gli ha urlato in faccia una donna.
Anito, che si chiama così in omaggio alla focosa Anita moglie di Garibaldi, ha fatto onore al suo nome e non si è tirato indietro durante le risse televisive: «Parli con la faccia o con il c…?», ha apostrofato il sindaco omonimo Sandro De Gasperis («Parente? No, per carità»). Un altro paesano si è beccato un «’mbecill», un altro «’mbrugliunn», finché una donna lo ha minacciato agitandogli la mano a due centimetri dal viso: «Ca tong ‘na pizza, mannaggia!»
Spettacolari baruffe ciociare finite su Youtube e Facebook, aizzate da Capitan Ventosa: quel tizio di Striscia che va in giro a vendicare soprusi con lo sturacessi in testa. Alla fine però Anito, circondato da decine di paesani infuriati, viene spinto, cade, batte la testa, sviene e finisce all’ospedale di Sora.
Lo incontriamo quando torna a casa, pochi giorni dopo: nulla di grave. Intanto, però, il vitello è morto. A parte la tristezza per quegli occhioni sbarrati del cadavere in cortile, è un danno anche economico: «I vitelli me li pagano 2.500 euro se li porto al mattatoio, se invece li macello io valgono cinquemila», spiega. E attacca il sindaco: «Tutta colpa sua. Sono dieci anni che mi perseguita, aizza tutti contro di me. Ha fatto venire Striscia e non sa che mi ha fatto un favore, perché prima l’avevo chiamata io tre-quattro volte, ma non mi avevano risposto».
In questa Italia da Far West dove per risolvere le liti fra cowboys e agricoltori si va in tv, Anito ci espone le sue ragioni: «Castelliri ha 1.200 ettari di bosco comunale, in montagna. Qui è Lazio, ma fino al 1860 c’erano i Borboni, non il Papa. Da sempre gli abitanti possono pascolare e raccogliere legna e funghi nella foresta. Io mi limito a esercitare il diritto di pascolo pagando regolarmente la “fida” al Comune, e rispettando gli usi civici».
La accusano di spadroneggiare con il suo bestiame, di rovinare gli ulivi nei campi altrui.
Anito s’infervora: «Sono loro a occupare abusivamente ettari ed ettari di terre civiche, senza che nessuno si preoccupi di reintegrarle nel demanio collettivo! Venite, venite su e vi faccio vedere».
Ci inerpichiamo per i monti Simbruini sotto la pioggia, sulla jeep. Metà delle sue 80 mucche e 40 vitelli stanno in un avvallamento del bosco in una situazione penosa: il recinto è pieno di fango, dove affondano per metà le zampe degli animali.
Perché non le tiene riparate sotto un capannone? Basta questa domanda a dare la stura a un fiume in piena: «E quello che chiedo da sempre al sindaco, ma dice che per costruire ci vogliono trentamila metri quadri di terreno…» E poi via a forza di Pua (Piani urbanistici attuativi), contributi comunitari, diffide, regolamenti e verifiche demaniali.
In questi dieci anni Anito è diventato espertissimo di leggi, ci mostra documenti dell’800 e mappe con tutte le particelle del territorio di Castelliri. «Mi hanno denunciato ottanta volte per pascolo abusivo: mai condannato. Tre uomini incappucciati mi hanno aggredito: venti punti in testa. Pochi giorni fa il tribunale di Sora ha annullato una multa di 50 mila euro della guardia di finanza, e così ha sbloccato i contributi europei». Che sono ? «Sessantamila euro l’anno, 500 a capo. Però me ne hanno fatti spendere centomila in avvocati, ho solo debiti».
Saliamo ancora per la foresta, dall’altra parte c’è l’Abruzzo. Arriviamo a un altipiano dove stanno pascolando le altre mucche, ecco una staccionata di legno lungo la provinciale per Sora: «L’avevo fatta per proteggerle dalle auto, ma il sindaco me l’ha demolita a metà. Invece i proprietari di un mobilificio hanno potuto mettere questa cancellata di ferro».
Il terreno non è loro? «Le terre demaniali non si possono vendere né prendere per usucapione, sono di tutti. Si possono dare in concessione, ma solo ai residenti del comune».
Il figlio maggiore di Anito, Danilo, è tornato da Torino, dove si sta laureando in ingegneria meccanica, per aiutare suo fratello Sergio, 21 anni, che lavora alla Fiat di Cassino, a tenere le mucche mentre il padre era in ospedale. Ora le spinge giù verso il recinto, a fine giornata. «Tutte vacche marchigiane di razza: non fanno latte, ma la carne è pregiata».
Insomma, Anito, di quanti ettari ha bisogno? «Quattrocento». Un po’ tanti: un terzo del bosco demaniale di Castelliri. «Ma ogni mucca per pascolare ha bisogno di un ettaro di prato, oppure di quattro ettari di bosco». E non può dargli fieno? «No, perché la carne me la pagano cinque euro al chilo, e il fieno costa sei». Ma le mucche non rovinano il sottobosco, mangiando tutti i germogli? «No, quelle sono le capre. Le mucche sono ghiotte di erbacce e trifoglio, disboscano e fanno bene agli alberi».
Ci sono altri allevatori nella zona? «Sì, nei comuni vicini: Sora, Veroli. A Castelliri sono l’unico. Ma col sindaco di prima non avevo problemi».
Come nella canzone di Georges Brassens La cattiva reputazione, Anito in paese non ha amici. Non gli resta che sperare nel prossimo sindaco, che verrà eletto fra due mesi. Quello attuale deve lasciare, dopo dieci anni.
Intanto, per risolvere il caso del cowboy di Castelliri, a Frosinone si è riunito d’urgenza in prefettura il Comitato provinciale per la sicurezza. Presente l’intero gotha delle autorità: prefetto, viceprefetti, procuratore capo, questore, comandanti provinciali di carabinieri, guardia di finanza, forestale e guardie provinciali, direttore dell’Asl, responsabile del servizio veterinario…
La guerra di Anito contro tutti continua.
Mauro Suttora
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Le gaffes di Berlusconi
Oggi, 15 aprile 2009
«Ogni volta che Berlusconi combina queste cose, e le combina spesso, ho sempre la stessa impressione: di un tycoon, un magnate dei media, che i soldi e il successo hanno reso così trascendentemente sicuro di se stesso, talmente abituato a persone che vanno in deliquio di fronte a lui, da fargli quasi smarrire il senso di ciò che è appropriato».
La scenetta del nostro premier che al G20 si fa fotografare fra Barack Obama e il russo Dimitri Medvedev, e che viene redarguito dalla regina Elisabetta per la sua rumorosità, ha fatto il giro del mondo. E così la commenta con Oggi il vicedirettore del settimanale americano Newsweek, Tony Emerson. Che aggiunge: «Si può notare la stessa eccentricità in molti tycoon, ma è particolarmente acuta in Berlusconi. E soltanto in Italia la si vede nel capo del governo. Per questo lo amiamo: è una copia unica».
«Berlusconi mette in atto questi meccanismi per richiamare l’attenzione su di sè, astutamente, e riuscendoci», spiega Maria Latella, autrice del libro su Berlusconi Come si conquista un Paese (Rizzoli). «L'Italia non è un Paese di prima grandezza, ma Silvio non può sopportare che gli venga riservato un trattamento di serie B. Così trova sempre il modo di attirare l’interesse. Lui stesso mi ha spiegato che la famosa scena del cucù fatta a Trieste ad Angela Merkel nacque per sbloccare una situazione di tensione con la cancelliera tedesca. Si parlava di banche, e lui riuscì a instaurare un clima diverso cogliendo tutti di sorpresa.
A Londra la cosa gli è riuscita a metà. E' andata benissimo per la photo opportunity, nel senso che è riuscito addirittura a spostare il baricentro della foto finale del summit G20. Ma Berlusconi non aveva calcolato la potenza mediatica e la reazione della regina Elisabetta, che ha innescato l’altra metà della scenetta. Ovviamente la regina d’Inghilterra ha un'immagine mondiale assai più forte di quella del nostro premier, ed è bastato vederla sbattere nervosamente la borsetta, rimproverandolo stizzita, per diminuire in parte il beneficio del ritratto trionfante fra Osama e Medvedev».
E la bandana in Sardegna del 2004? «Quello è un episodio diverso, non appartiene alla stessa categoria dei gesti calcolati per guadagnare simpatia: lì aveva bisogno di nascondere un trapianto di capelli, non lo fece per Tony Blair. Restano invece indimenticabili le corna esibite al vertice europeo di Caceres nel 2002, sempre durante la foto di gruppo finale: quelle le eseguì per far ridere un gruppo di ragazzi spagnoli che assisteva alla scena».
Ma per l’Italia è positivo avere un premier così esuberante? Le battute possono essere più o meno riuscite. A volte si trasformano in gaffes, come quella del 2005 sulla non molto avvenente presidente finlandese, a proposito della quale Berlusconi si vantò di «avere esercitato tutte le mie armi di playboy» per dirottare l’Agenzia europea dell'alimentazione da Helsinki a Parma.
«Provi a scherzare con Hillary Clinton, e poi vediamo», commenta Maria Latella.
Mauro Suttora
«Ogni volta che Berlusconi combina queste cose, e le combina spesso, ho sempre la stessa impressione: di un tycoon, un magnate dei media, che i soldi e il successo hanno reso così trascendentemente sicuro di se stesso, talmente abituato a persone che vanno in deliquio di fronte a lui, da fargli quasi smarrire il senso di ciò che è appropriato».
La scenetta del nostro premier che al G20 si fa fotografare fra Barack Obama e il russo Dimitri Medvedev, e che viene redarguito dalla regina Elisabetta per la sua rumorosità, ha fatto il giro del mondo. E così la commenta con Oggi il vicedirettore del settimanale americano Newsweek, Tony Emerson. Che aggiunge: «Si può notare la stessa eccentricità in molti tycoon, ma è particolarmente acuta in Berlusconi. E soltanto in Italia la si vede nel capo del governo. Per questo lo amiamo: è una copia unica».
«Berlusconi mette in atto questi meccanismi per richiamare l’attenzione su di sè, astutamente, e riuscendoci», spiega Maria Latella, autrice del libro su Berlusconi Come si conquista un Paese (Rizzoli). «L'Italia non è un Paese di prima grandezza, ma Silvio non può sopportare che gli venga riservato un trattamento di serie B. Così trova sempre il modo di attirare l’interesse. Lui stesso mi ha spiegato che la famosa scena del cucù fatta a Trieste ad Angela Merkel nacque per sbloccare una situazione di tensione con la cancelliera tedesca. Si parlava di banche, e lui riuscì a instaurare un clima diverso cogliendo tutti di sorpresa.
A Londra la cosa gli è riuscita a metà. E' andata benissimo per la photo opportunity, nel senso che è riuscito addirittura a spostare il baricentro della foto finale del summit G20. Ma Berlusconi non aveva calcolato la potenza mediatica e la reazione della regina Elisabetta, che ha innescato l’altra metà della scenetta. Ovviamente la regina d’Inghilterra ha un'immagine mondiale assai più forte di quella del nostro premier, ed è bastato vederla sbattere nervosamente la borsetta, rimproverandolo stizzita, per diminuire in parte il beneficio del ritratto trionfante fra Osama e Medvedev».
E la bandana in Sardegna del 2004? «Quello è un episodio diverso, non appartiene alla stessa categoria dei gesti calcolati per guadagnare simpatia: lì aveva bisogno di nascondere un trapianto di capelli, non lo fece per Tony Blair. Restano invece indimenticabili le corna esibite al vertice europeo di Caceres nel 2002, sempre durante la foto di gruppo finale: quelle le eseguì per far ridere un gruppo di ragazzi spagnoli che assisteva alla scena».
Ma per l’Italia è positivo avere un premier così esuberante? Le battute possono essere più o meno riuscite. A volte si trasformano in gaffes, come quella del 2005 sulla non molto avvenente presidente finlandese, a proposito della quale Berlusconi si vantò di «avere esercitato tutte le mie armi di playboy» per dirottare l’Agenzia europea dell'alimentazione da Helsinki a Parma.
«Provi a scherzare con Hillary Clinton, e poi vediamo», commenta Maria Latella.
Mauro Suttora
Wednesday, April 08, 2009
parla Luigi De Magistris
"Mi volevano morto"
IL GRANDE ACCUSATORE LASCIA LA TOGA E SI BUTTA IN POLITICA. PER CORRERE ALLE EUROPEE
Oggi, 8 aprile 2009
«Ho toccato interessi troppo forti, il mio tempo era scaduto». Il magistrato che ha terremotato l' Italia si candida con Di Pietro. «Al Sud un politico su due è compromesso con la mafia».
dall'inviato a Catanzaro Mauro Suttora
De Magistris, anche lei è come Di Pietro, Michele Santoro, Lilli Gruber: si butta in politica.
«Sono stato io buttato via dalla magistratura. Avrei voluto continuare a fare inchieste, era il sogno della mia vita. Me lo hanno impedito».
Trasferendola nella sua Napoli, giudice del riesame.
«Il mestiere di giudice è diverso da quello di pm...».
Quasi un inno alla separazione delle carriere... Ma ora vedremo se prende più voti lei o Mastella.
«Non è questo il problema».
E qual è?
«Sarò fra i capilista di Italia dei Valori in tutta Italia, dietro a Di Pietro, per far nascere una nuova classe dirigente».
Vasto programma.
«Ma necessario. Oggi, dove la mafia spadroneggia, un politico su due è compromesso».
Addirittura?
«Se non por complicità e collusione, almeno per omissione. E non solo i politici. Ormai la criminalità organizzata arruola uomini delle istituzioni».
Anche magistrati?
«Sì. Una delle mie inchieste era Toghe lucane ».
Quindi la corporazione con lei si è vendicata?
«I magistrati italiani hanno grandi luci e grandi ombre».
Chi ammira fra i suoi ormai ex colleghi?
«Ingroia e Scarpinato a Palermo».
Con un capo come Borrelli sarebbe ancora al suo posto?
«Sarebbe stato un faro. I capi delle procure devono sostenere e consigliare i propri sostituti».
La accusano di esibizionismo.
«Stavano per ammazzarmi, professionalmente o fisicamente. Nessuno se ne sarebbe accorto. Il mio tempo era scaduto».
Quindi ha cominciato a parlare a convegni e giornali.
«Non avevo scelta. Sono apparso in Tv solo due volte, ma mi hanno salvato la pelle».
Ripeto: addirittura?
«Avevo toccato interessi troppo forti».
E perché non li ha combattuti in aula, invece di fare sociologia?
«Ripeto io: mi hanno tolto le inchieste. Anche Falcone dovette dare interviste per non rimanere isolato».
Lo sa che l'Europarlamento è una grande fabbrica di frustrati?
«Ma le sue direttive sono importanti. È un'ottima tribuna».
Vive sempre a Catanzaro?
«Mia moglie è di qui, e qui viviamo con i nostri due figli».
Quanti anni hanno? «Nove e quattro anni».
Bene: almeno loro non le creeranno problemi.
«Perché?».
Le raccomandazioni di Di Pietro junior...
«Suo padre è stato nettissimo nel redarguirlo».
Ora lei fa il pendolare.
«Tre ore di treno e sono a Napoli. Mi hanno tolto la scorta, in auto sarebbe rischioso».
Dorme bene la notte?
«Sì, ma poco: quattro ore».
L'unica cosa che la accomuna a Berlusconi.
«Ne approfitto per leggere».
Che cosa? «Ho appena finito l'ultimo Erri De Luca, e ho riletto L'Isola di Arturo di Elsa Morante».
Solo romanzi?
«No, anche Fratelli d'Italia di Pinotti, sui massoni».
La massoneria è una sua fissa.
«È uno dei poteri forti».
Musica?
«Genesis e Pink Floyd».
È vero che piace alle donne?
«Non sono un playboy, come ha scritto Novella 2000. Sono sposato e felice».
Hobby?
«Giardinaggio».
Che fiori coltiva?
«Rose, camelie, ortensie».
Allora è proprio berlusconiano.
«Il berlusconismo è un pericolo per l'Italia. La nostra è una democrazia solo apparente».
Il solito catastrofismo.
«Ho colpito anche a sinistra».
Infatti l' hanno fatta subito fuori, assieme alla Forleo.
«La questione morale è importante come ai tempi di Enrico Berlinguer».
Le piaceva Berlinguer?
«Così tanto che a 17 anni andai al suo funerale».
Il solito comunista, diranno ora a destra.
«Ho sempre votato a sinistra, ma mi hanno deluso».
Perché?
«Si arroccano in difesa castale delle mele marce, che ci sono anche a sinistra».
Dicono di lei e Woodcock: magistrati di provincia che cercano pubblicità incriminando nomi noti.
«Per dieci anni ho fatto inchieste e incontrato nomi importanti. Cos'avrei dovuto fare, nasconderli?».
Si è più indipendenti stando a Catanzaro e Potenza invece che a Roma e Milano?
«Il magistrato più solo sta, meglio è. Ottima sarebbe la rotazione, come per i carabinieri. Altrimenti si formano amicizie e incrostazioni».
Lei e Woodcock avete aperto tante inchieste, ma quante ne avete chiuse?
«Io a decine, con dibattimenti e condanne. Finché non ho toccato gli intoccabili».
La Calabria è martoriata, ma lei non faccia il martire.
«Mi sono reso conto dei piedi che pestavo. Poi ho sentito per caso il fratello di Borsellino».
E che cosa ha detto?
«Navigavo su Internet e leggo che lui, di fronte all'avocazione della mia inchiesta, dice di non avere provato un'emozione così forte da quando suo fratello venne assassinato».
Caspita.
«Falcone e Borsellino sono i miei idoli, per seguire il loro esempio sono diventato magistrato. Una missione». Oddio, i magistrati missionari...
«Meglio i burocrati?».
E ora la politica.
«Mi hanno costretto».
Ma anche come giudice a Napoli è riuscito a farsi notare, attaccando Rutelli nell'inchiesta Romeo.
«Quella sentenza è opera di un collegio a tre. Di cui io ero il giudice a latere più giovane».
Cos'è, fa marcia indietro?
«No, solo per precisare».
Mauro Suttora
IL GRANDE ACCUSATORE LASCIA LA TOGA E SI BUTTA IN POLITICA. PER CORRERE ALLE EUROPEE
Oggi, 8 aprile 2009
«Ho toccato interessi troppo forti, il mio tempo era scaduto». Il magistrato che ha terremotato l' Italia si candida con Di Pietro. «Al Sud un politico su due è compromesso con la mafia».
dall'inviato a Catanzaro Mauro Suttora
De Magistris, anche lei è come Di Pietro, Michele Santoro, Lilli Gruber: si butta in politica.
«Sono stato io buttato via dalla magistratura. Avrei voluto continuare a fare inchieste, era il sogno della mia vita. Me lo hanno impedito».
Trasferendola nella sua Napoli, giudice del riesame.
«Il mestiere di giudice è diverso da quello di pm...».
Quasi un inno alla separazione delle carriere... Ma ora vedremo se prende più voti lei o Mastella.
«Non è questo il problema».
E qual è?
«Sarò fra i capilista di Italia dei Valori in tutta Italia, dietro a Di Pietro, per far nascere una nuova classe dirigente».
Vasto programma.
«Ma necessario. Oggi, dove la mafia spadroneggia, un politico su due è compromesso».
Addirittura?
«Se non por complicità e collusione, almeno per omissione. E non solo i politici. Ormai la criminalità organizzata arruola uomini delle istituzioni».
Anche magistrati?
«Sì. Una delle mie inchieste era Toghe lucane ».
Quindi la corporazione con lei si è vendicata?
«I magistrati italiani hanno grandi luci e grandi ombre».
Chi ammira fra i suoi ormai ex colleghi?
«Ingroia e Scarpinato a Palermo».
Con un capo come Borrelli sarebbe ancora al suo posto?
«Sarebbe stato un faro. I capi delle procure devono sostenere e consigliare i propri sostituti».
La accusano di esibizionismo.
«Stavano per ammazzarmi, professionalmente o fisicamente. Nessuno se ne sarebbe accorto. Il mio tempo era scaduto».
Quindi ha cominciato a parlare a convegni e giornali.
«Non avevo scelta. Sono apparso in Tv solo due volte, ma mi hanno salvato la pelle».
Ripeto: addirittura?
«Avevo toccato interessi troppo forti».
E perché non li ha combattuti in aula, invece di fare sociologia?
«Ripeto io: mi hanno tolto le inchieste. Anche Falcone dovette dare interviste per non rimanere isolato».
Lo sa che l'Europarlamento è una grande fabbrica di frustrati?
«Ma le sue direttive sono importanti. È un'ottima tribuna».
Vive sempre a Catanzaro?
«Mia moglie è di qui, e qui viviamo con i nostri due figli».
Quanti anni hanno? «Nove e quattro anni».
Bene: almeno loro non le creeranno problemi.
«Perché?».
Le raccomandazioni di Di Pietro junior...
«Suo padre è stato nettissimo nel redarguirlo».
Ora lei fa il pendolare.
«Tre ore di treno e sono a Napoli. Mi hanno tolto la scorta, in auto sarebbe rischioso».
Dorme bene la notte?
«Sì, ma poco: quattro ore».
L'unica cosa che la accomuna a Berlusconi.
«Ne approfitto per leggere».
Che cosa? «Ho appena finito l'ultimo Erri De Luca, e ho riletto L'Isola di Arturo di Elsa Morante».
Solo romanzi?
«No, anche Fratelli d'Italia di Pinotti, sui massoni».
La massoneria è una sua fissa.
«È uno dei poteri forti».
Musica?
«Genesis e Pink Floyd».
È vero che piace alle donne?
«Non sono un playboy, come ha scritto Novella 2000. Sono sposato e felice».
Hobby?
«Giardinaggio».
Che fiori coltiva?
«Rose, camelie, ortensie».
Allora è proprio berlusconiano.
«Il berlusconismo è un pericolo per l'Italia. La nostra è una democrazia solo apparente».
Il solito catastrofismo.
«Ho colpito anche a sinistra».
Infatti l' hanno fatta subito fuori, assieme alla Forleo.
«La questione morale è importante come ai tempi di Enrico Berlinguer».
Le piaceva Berlinguer?
«Così tanto che a 17 anni andai al suo funerale».
Il solito comunista, diranno ora a destra.
«Ho sempre votato a sinistra, ma mi hanno deluso».
Perché?
«Si arroccano in difesa castale delle mele marce, che ci sono anche a sinistra».
Dicono di lei e Woodcock: magistrati di provincia che cercano pubblicità incriminando nomi noti.
«Per dieci anni ho fatto inchieste e incontrato nomi importanti. Cos'avrei dovuto fare, nasconderli?».
Si è più indipendenti stando a Catanzaro e Potenza invece che a Roma e Milano?
«Il magistrato più solo sta, meglio è. Ottima sarebbe la rotazione, come per i carabinieri. Altrimenti si formano amicizie e incrostazioni».
Lei e Woodcock avete aperto tante inchieste, ma quante ne avete chiuse?
«Io a decine, con dibattimenti e condanne. Finché non ho toccato gli intoccabili».
La Calabria è martoriata, ma lei non faccia il martire.
«Mi sono reso conto dei piedi che pestavo. Poi ho sentito per caso il fratello di Borsellino».
E che cosa ha detto?
«Navigavo su Internet e leggo che lui, di fronte all'avocazione della mia inchiesta, dice di non avere provato un'emozione così forte da quando suo fratello venne assassinato».
Caspita.
«Falcone e Borsellino sono i miei idoli, per seguire il loro esempio sono diventato magistrato. Una missione». Oddio, i magistrati missionari...
«Meglio i burocrati?».
E ora la politica.
«Mi hanno costretto».
Ma anche come giudice a Napoli è riuscito a farsi notare, attaccando Rutelli nell'inchiesta Romeo.
«Quella sentenza è opera di un collegio a tre. Di cui io ero il giudice a latere più giovane».
Cos'è, fa marcia indietro?
«No, solo per precisare».
Mauro Suttora
Thursday, April 02, 2009
Prefetti digiuni di economia
Il commissario del governo non sa molto di finanza
Una sola laurea in economia tra i venti rappresentanti dello stato nelle regioni
di Mauro Suttora
Il Mondo, 3 aprile 2009
Due su 20. L' unico con una laurea in Economia (oltre a quella di prammatica in Legge) è il prefetto di Cagliari Salvatore Gullotta. L' unico con una qualche esperienza di lavoro a contatto con una banca è quello di Milano, Gian Valerio Lombardi, che dopo le lauree in Legge e Scienze politiche a Napoli all' inizio degli anni '70 fece uno stage a Londra alla Commercial Bank of Australia.
Tutti gli altri 18 prefetti dei capoluoghi di regione d' Italia sono digiuni di conoscenze bancarie. Dovranno, quindi, dotarsi di ottimi consulenti per affrontare il compito cui sono chiamati dal governo: quello di sorvegliare l'attività degli istituti nell' erogazione del credito. La mancanza di competenza diretta sulle materie economiche non è una colpa, per i prefetti. La loro carriera, infatti, si svolge nell'ambito del ministero dell' Interno, dove prevalgono altre importanti funzioni: sicurezza, amministrazione statale, diritto pubblico. Il prefetto di Parma Paolo Scarpis, per esempio, è stato questore a Milano; quello di Sassari, Marcello Fulvi, questore a Roma; quello di Cremona, Tancredi Bruno, ha diretto prigioni. All'ultimo concorso per la carriera prefettizia soltanto una sulle 35 domande dell' esame orale riguardava lontanamente l' economia: un quesito di scienza delle finanze, sulla normativa del sostituto d' imposta.
È quasi impossibile, per un non laureato in legge, passare il concorso da prefetto. Ce l' hanno fatta in pochi, soprattutto donne, come Annamaria Cancellieri (prefetto a Genova) e Maria Augusta Marrosu (Gorizia), laureate in Scienze politiche. In maggioranza assoluta i prefetti provengono dalla Campania, quasi tutti oltre la sessantina, pochissime le donne (Genova, Varese, Gorizia, Campobasso).
Quello, infine, che vale per i prefetti dei capoluoghi di regione vale anche per i commissari di governo di altre città importanti sedi, talvolta, di importanti gruppi bancari. Anche a Bergamo, Brescia, Sondrio, Novara, Siena la quasi totalità dei prefetti è laureata in Giurisprudenza.
PREFETTURA nome anni (nato a) laurea
capoluoghi di regione
MILANO: Gian Valerio Lombardi, 62 (Napoli), legge, sc.pol.
TORINO: Paolo Padoin, 63 (Firenze), legge
AOSTA: Pasquale Manzo, 60 (Napoli), legge
GENOVA: Annamaria Cancellieri, 65 (Roma), sc.pol.
VENEZIA: Guido Nardone, 65 (Napoli), legge
TRIESTE: Giovanni Balsamo, 59 (Catania), legge
TRENTO: Michele Mazza, 62 (Napoli), legge
BOLZANO: Fulvio Testi, 61 (Roma), legge
BOLOGNA: Angelo Tranfaglia, 60 (Avellino), legge
FIRENZE: Andrea De Martino, 61 (Caserta), legge
ANCONA: Giovanni D’Onofrio, 67 (Benevento), legge
PERUGIA: Enrico Laudana, 62 (Caserta), legge
ROMA: Giuseppe Pecoraio, 58 (Napoli), legge
L’AQUILA: Aurelio Cozzani, 66 (Roma), legge
CAMPOBASSO: Carmela Pagano, 56 (Cosenza), legge
NAPOLI: Alessandro Pansa, 57 (Salerno), legge
BARI: Carlo Schilardi, 60 (Lecce), legge
POTENZA: Luigi Riccio, 62 (Catanzaro), legge
REGGIO C.: Antonio Musolino, 57 (Reggio C.), legge
PALERMO: Giancarlo Trevisone, 63 (Roma), legge
CAGLIARI: Salvatore Gullotta, 65 (Catania), legge, economia
altre province:
NOVARA: Giuseppe Amelio, 59 (Catanzaro), legge
ALESSANDRIA: Francesco Castaldo, 55 (Salerno), legge
VERCELLI: Pasquale Minunni, 62 (Lecce), legge
BERGAMO: Camillo Andreana, 62 (Napoli), legge
BRESCIA: vicario Attilio Visconti, 47 (Benevento), legge
SONDRIO: Chiara Marolla, 59 (Roma), legge
COMO: Sante Frantellizzi, 64 (Frosinone), legge
VARESE: Simonetta Vaccari, 55 (Siena), legge
PAVIA: Ferdinando Buffoni, 62 (Sassari), legge
CREMONA: Tancredi Bruno, 60 (Cuneo), legge
VERONA: vicario Elio Fallaci, 57 (Napoli), legge
VICENZA: Piero Mattei, 65 (Lucca), legge
PADOVA: Michele Gallerano, 63 (Napoli), legge
TREVISO: Vittorio Capocelli, 63 (Lecce), legge
UDINE: Ivo Salemme, 60 (Napoli), legge
GORIZIA: Maria Augusta Marrosu, 55 (Salerno), sc.pol.
LA SPEZIA: Vincenzo Santoro, 62 (Trapani), legge
PARMA: Paolo Scarpis, 63 (Macerata), legge
REGGIO E.: Bruno Pezzato, 67 (Lecce), legge
SIENA: Giulio Cazzella, 61 (Lecce), legge
PISA: Benedetto Basile, 60 (Palermo), legge
LIVORNO: Domenico Mannino, 62 (Reggio C.), legge
PESCARA: Paolo Orrei, 61 (Benevento), legge
FOGGIA: Antonio Nunziante, 59 (Bari), legge
MESSINA: Francesco Alecci, 62 (Catania), legge
SASSARI: Marcello Fulvi, 63 (Roma), legge
Una sola laurea in economia tra i venti rappresentanti dello stato nelle regioni
di Mauro Suttora
Il Mondo, 3 aprile 2009
Due su 20. L' unico con una laurea in Economia (oltre a quella di prammatica in Legge) è il prefetto di Cagliari Salvatore Gullotta. L' unico con una qualche esperienza di lavoro a contatto con una banca è quello di Milano, Gian Valerio Lombardi, che dopo le lauree in Legge e Scienze politiche a Napoli all' inizio degli anni '70 fece uno stage a Londra alla Commercial Bank of Australia.
Tutti gli altri 18 prefetti dei capoluoghi di regione d' Italia sono digiuni di conoscenze bancarie. Dovranno, quindi, dotarsi di ottimi consulenti per affrontare il compito cui sono chiamati dal governo: quello di sorvegliare l'attività degli istituti nell' erogazione del credito. La mancanza di competenza diretta sulle materie economiche non è una colpa, per i prefetti. La loro carriera, infatti, si svolge nell'ambito del ministero dell' Interno, dove prevalgono altre importanti funzioni: sicurezza, amministrazione statale, diritto pubblico. Il prefetto di Parma Paolo Scarpis, per esempio, è stato questore a Milano; quello di Sassari, Marcello Fulvi, questore a Roma; quello di Cremona, Tancredi Bruno, ha diretto prigioni. All'ultimo concorso per la carriera prefettizia soltanto una sulle 35 domande dell' esame orale riguardava lontanamente l' economia: un quesito di scienza delle finanze, sulla normativa del sostituto d' imposta.
È quasi impossibile, per un non laureato in legge, passare il concorso da prefetto. Ce l' hanno fatta in pochi, soprattutto donne, come Annamaria Cancellieri (prefetto a Genova) e Maria Augusta Marrosu (Gorizia), laureate in Scienze politiche. In maggioranza assoluta i prefetti provengono dalla Campania, quasi tutti oltre la sessantina, pochissime le donne (Genova, Varese, Gorizia, Campobasso).
Quello, infine, che vale per i prefetti dei capoluoghi di regione vale anche per i commissari di governo di altre città importanti sedi, talvolta, di importanti gruppi bancari. Anche a Bergamo, Brescia, Sondrio, Novara, Siena la quasi totalità dei prefetti è laureata in Giurisprudenza.
PREFETTURA nome anni (nato a) laurea
capoluoghi di regione
MILANO: Gian Valerio Lombardi, 62 (Napoli), legge, sc.pol.
TORINO: Paolo Padoin, 63 (Firenze), legge
AOSTA: Pasquale Manzo, 60 (Napoli), legge
GENOVA: Annamaria Cancellieri, 65 (Roma), sc.pol.
VENEZIA: Guido Nardone, 65 (Napoli), legge
TRIESTE: Giovanni Balsamo, 59 (Catania), legge
TRENTO: Michele Mazza, 62 (Napoli), legge
BOLZANO: Fulvio Testi, 61 (Roma), legge
BOLOGNA: Angelo Tranfaglia, 60 (Avellino), legge
FIRENZE: Andrea De Martino, 61 (Caserta), legge
ANCONA: Giovanni D’Onofrio, 67 (Benevento), legge
PERUGIA: Enrico Laudana, 62 (Caserta), legge
ROMA: Giuseppe Pecoraio, 58 (Napoli), legge
L’AQUILA: Aurelio Cozzani, 66 (Roma), legge
CAMPOBASSO: Carmela Pagano, 56 (Cosenza), legge
NAPOLI: Alessandro Pansa, 57 (Salerno), legge
BARI: Carlo Schilardi, 60 (Lecce), legge
POTENZA: Luigi Riccio, 62 (Catanzaro), legge
REGGIO C.: Antonio Musolino, 57 (Reggio C.), legge
PALERMO: Giancarlo Trevisone, 63 (Roma), legge
CAGLIARI: Salvatore Gullotta, 65 (Catania), legge, economia
altre province:
NOVARA: Giuseppe Amelio, 59 (Catanzaro), legge
ALESSANDRIA: Francesco Castaldo, 55 (Salerno), legge
VERCELLI: Pasquale Minunni, 62 (Lecce), legge
BERGAMO: Camillo Andreana, 62 (Napoli), legge
BRESCIA: vicario Attilio Visconti, 47 (Benevento), legge
SONDRIO: Chiara Marolla, 59 (Roma), legge
COMO: Sante Frantellizzi, 64 (Frosinone), legge
VARESE: Simonetta Vaccari, 55 (Siena), legge
PAVIA: Ferdinando Buffoni, 62 (Sassari), legge
CREMONA: Tancredi Bruno, 60 (Cuneo), legge
VERONA: vicario Elio Fallaci, 57 (Napoli), legge
VICENZA: Piero Mattei, 65 (Lucca), legge
PADOVA: Michele Gallerano, 63 (Napoli), legge
TREVISO: Vittorio Capocelli, 63 (Lecce), legge
UDINE: Ivo Salemme, 60 (Napoli), legge
GORIZIA: Maria Augusta Marrosu, 55 (Salerno), sc.pol.
LA SPEZIA: Vincenzo Santoro, 62 (Trapani), legge
PARMA: Paolo Scarpis, 63 (Macerata), legge
REGGIO E.: Bruno Pezzato, 67 (Lecce), legge
SIENA: Giulio Cazzella, 61 (Lecce), legge
PISA: Benedetto Basile, 60 (Palermo), legge
LIVORNO: Domenico Mannino, 62 (Reggio C.), legge
PESCARA: Paolo Orrei, 61 (Benevento), legge
FOGGIA: Antonio Nunziante, 59 (Bari), legge
MESSINA: Francesco Alecci, 62 (Catania), legge
SASSARI: Marcello Fulvi, 63 (Roma), legge
Stipendi d'oro
MACCHE' CRISI, C'E' CHI GUADAGNA
In America è guerra ai "bonus" immeritati. E in Italia?
Aggiramenti dei tetti di legge. Gratifiche automatiche. Azioni in regalo. Abbiamo messo nel mirino i superpremi. Risultato...
Oggi, 25 marzo 2009
di Mauro Suttora
Piove sul bagnato. In queste settimane decine di migliaia di contratti a termine sono disdetti, migliaia di persone perdono il lavoro, altre migliaia vanno in cassa integrazione. Metà dei nostri risparmi investiti in azioni sono andati in fumo.
Ma per qualcuno la crisi non esiste. I tredici dirigenti della Regione Veneto, per esempio, ai quali è stato appena regalato un bonus di 15 mila euro (vedi riquadro qui sotto). Ma la cuccagna vale per 90 dirigenti pubblici su cento, ai quali viene quasi automaticamente riconosciuto il bonus: il 5% in più sullo stipendio nei ministeri, il 7 nei Comuni e il 10 nelle Regioni. In Germania i bonus vanno solo ai meritevoli: non più di 15 su cento. Negli Usa al massimo sei su cento. In Italia, invece, todos caballeros.
"Ma così diventa impossibile premiare il merito e stimolare la produttività", avverte Nicola Bellè, docente alla Bocconi.
Nelle società private è facile determinare i bonus: basta ancorarli a fatturati e ricavi. Ma se un' azienda viene salvata dallo Stato, com' è capitato alle assicurazioni Aig negli Stati Uniti, diventa immorale usare i soldi dei contribuenti per premiare i manager. "Per i quali, d' altronde, negli ultimi decenni è stata sempre festa", rileva Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Oggi infatti gli alti dirigenti italiani guadagnano 243 volte uno stipendio medio. La forbice si è allargata moltissimo rispetto agli Anni 70, quando la distanza fra il compenso massimo e quello minimo in un' azienda era di 30 40 volte.
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, quindi. Il presidente Obama ha rimediato allo scandalo Aig (almeno 165 milioni di premi pagati a coloro che avevano minato i bilanci della compagnia, costringendola a chiedere allo Stato 182,5 miliardi di fondi pubblici) proponendo di tassare al 90 per cento i bonus immeritati.
In Italia invece il tetto di 290 mila euro annui agli stipendi dei dirigenti pubblici, deciso con la Finanziaria dell' anno scorso, viene ignorato o eluso. Il trucco più utilizzato: cumulare le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale. Come vuole fare Elio Catania all'Atm di Milano. Già nel mirino per la liquidazione di 6,7 milioni concessagli dalle Fs tre anni fa, Catania non vuole scendere dal suo attuale mezzo milione annuo a 87 mila euro: l' 80% rispetto al sindaco Letizia Moratti, come previsto dalla legge per le municipalizzate.
Risparmi in vista invece alla società per l' Expo 2015 milanese: dal milione annuo promesso a Paolo Glisenti (consulente comunale da 900 euro al giorno) si è scesi ai 50 mila della presidente Diana Bracco.
"Un altro problema è che le retribuzioni dei manager spesso sono poco trasparenti", dice Fara, "perché la parte variabile del loro stipendio ha assunto negli anni un peso sempre più forte. Spesso supera il 60 per cento del totale". Insomma, il premio di risultato, in certi casi, è diventato un modo per alzare gli stipendi (più o meno dimenticandosi del risultato).
La struttura dei bonus è una giungla. Le aziende vi ricorrono anche per motivi fiscali: concedere l'auto di servizio o in leasing, pagare l' affitto di un appartamento, fornire una pingue assicurazione sulla vita, una polizza sanitaria integrativa privata o la scuola dei figli fuori busta paga è conveniente sia per chi dà, sia per chi riceve. La rincorsa fra il fisco e le nuove forme di elusione è perenne.
La grossa fetta della torta, però, per i manager delle società quotate in Borsa, sono le stock option. Essere pagati con azioni della società che si guida è un' arma a doppio taglio. Innanzitutto per l'azienda stessa, che da una parte incentiva il risultato, ma dall'altra rischia di ottenere solo miglioramenti immediati, da esibire sul bilancio annuale cui sono legati i compensi, senza strategie lungimiranti di lungo periodo. Al manager non interessa costruire per il futuro, sacrificare il profitto veloce per avere frutti dopo dieci anni.
Ovviamente i rischi li corre anche il dirigente, che vede le sue azioni fluttuare e magari crollare, com'è successo nell' ultimo anno.
"Sono proprio le stock options una delle cause principali della crisi", dice l' economista Giulio Sapelli, che ha appena scritto il libro La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri). Infine il meccanismo più vergognoso: quello per cui l' ammontare di bonus e stock option viene deciso spesso dagli stessi interessati, o dai loro amici nei consigli d' amministrazione.
In teoria c' è il controllo della proprietà, ma quando questa è polverizzata in decine di migliaia di piccoli azionisti, i manager diventano quasi onnipotenti. E la crisi viene pagata dai piccoli risparmiatori.
RIQUADRO
E noi ce lo abbassiamo
Gennaro Gattuso si è detto disponibile a ridursi l'ingaggio di 4,5 milioni all' anno, dopo che il presidente Silvio Berlusconi ha ventilato l' idea di abbassare gli ingaggi del Milan del 30 per cento. E fuori dal calcio cosa succede?
La banca Unicredit taglia 35 milioni di bonus ai venti megadirigenti che li avevano percepiti nel 2008. Per l'amministratore delegato Alessandro Profumo sei milioni in meno: gli restano i 3,4 milioni dello stipendio fisso.
Piergaetano Marchetti, presidente della Rizzoli (la società che edita Oggi), rinuncia al 20% del proprio compenso. E al bonus dicono addio Ferruccio de Bortoli e Claudio Calabi, direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore.
Riduzione spontanea del 10% fra i dirigenti della Ducati Motors a Bologna, e niente bonus anche per quelli della fabbrica di elettrodomestici Elica di Fabriano (Ancona). Il sindaco di Cittadella (Padova) Massimo Bigonci rinuncia all' indennità. Stessa decisione a Milena (Caltanissetta) e a S. Elisabetta (Agrigento).
Mauro Suttora
In America è guerra ai "bonus" immeritati. E in Italia?
Aggiramenti dei tetti di legge. Gratifiche automatiche. Azioni in regalo. Abbiamo messo nel mirino i superpremi. Risultato...
Oggi, 25 marzo 2009
di Mauro Suttora
Piove sul bagnato. In queste settimane decine di migliaia di contratti a termine sono disdetti, migliaia di persone perdono il lavoro, altre migliaia vanno in cassa integrazione. Metà dei nostri risparmi investiti in azioni sono andati in fumo.
Ma per qualcuno la crisi non esiste. I tredici dirigenti della Regione Veneto, per esempio, ai quali è stato appena regalato un bonus di 15 mila euro (vedi riquadro qui sotto). Ma la cuccagna vale per 90 dirigenti pubblici su cento, ai quali viene quasi automaticamente riconosciuto il bonus: il 5% in più sullo stipendio nei ministeri, il 7 nei Comuni e il 10 nelle Regioni. In Germania i bonus vanno solo ai meritevoli: non più di 15 su cento. Negli Usa al massimo sei su cento. In Italia, invece, todos caballeros.
"Ma così diventa impossibile premiare il merito e stimolare la produttività", avverte Nicola Bellè, docente alla Bocconi.
Nelle società private è facile determinare i bonus: basta ancorarli a fatturati e ricavi. Ma se un' azienda viene salvata dallo Stato, com' è capitato alle assicurazioni Aig negli Stati Uniti, diventa immorale usare i soldi dei contribuenti per premiare i manager. "Per i quali, d' altronde, negli ultimi decenni è stata sempre festa", rileva Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Oggi infatti gli alti dirigenti italiani guadagnano 243 volte uno stipendio medio. La forbice si è allargata moltissimo rispetto agli Anni 70, quando la distanza fra il compenso massimo e quello minimo in un' azienda era di 30 40 volte.
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, quindi. Il presidente Obama ha rimediato allo scandalo Aig (almeno 165 milioni di premi pagati a coloro che avevano minato i bilanci della compagnia, costringendola a chiedere allo Stato 182,5 miliardi di fondi pubblici) proponendo di tassare al 90 per cento i bonus immeritati.
In Italia invece il tetto di 290 mila euro annui agli stipendi dei dirigenti pubblici, deciso con la Finanziaria dell' anno scorso, viene ignorato o eluso. Il trucco più utilizzato: cumulare le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale. Come vuole fare Elio Catania all'Atm di Milano. Già nel mirino per la liquidazione di 6,7 milioni concessagli dalle Fs tre anni fa, Catania non vuole scendere dal suo attuale mezzo milione annuo a 87 mila euro: l' 80% rispetto al sindaco Letizia Moratti, come previsto dalla legge per le municipalizzate.
Risparmi in vista invece alla società per l' Expo 2015 milanese: dal milione annuo promesso a Paolo Glisenti (consulente comunale da 900 euro al giorno) si è scesi ai 50 mila della presidente Diana Bracco.
"Un altro problema è che le retribuzioni dei manager spesso sono poco trasparenti", dice Fara, "perché la parte variabile del loro stipendio ha assunto negli anni un peso sempre più forte. Spesso supera il 60 per cento del totale". Insomma, il premio di risultato, in certi casi, è diventato un modo per alzare gli stipendi (più o meno dimenticandosi del risultato).
La struttura dei bonus è una giungla. Le aziende vi ricorrono anche per motivi fiscali: concedere l'auto di servizio o in leasing, pagare l' affitto di un appartamento, fornire una pingue assicurazione sulla vita, una polizza sanitaria integrativa privata o la scuola dei figli fuori busta paga è conveniente sia per chi dà, sia per chi riceve. La rincorsa fra il fisco e le nuove forme di elusione è perenne.
La grossa fetta della torta, però, per i manager delle società quotate in Borsa, sono le stock option. Essere pagati con azioni della società che si guida è un' arma a doppio taglio. Innanzitutto per l'azienda stessa, che da una parte incentiva il risultato, ma dall'altra rischia di ottenere solo miglioramenti immediati, da esibire sul bilancio annuale cui sono legati i compensi, senza strategie lungimiranti di lungo periodo. Al manager non interessa costruire per il futuro, sacrificare il profitto veloce per avere frutti dopo dieci anni.
Ovviamente i rischi li corre anche il dirigente, che vede le sue azioni fluttuare e magari crollare, com'è successo nell' ultimo anno.
"Sono proprio le stock options una delle cause principali della crisi", dice l' economista Giulio Sapelli, che ha appena scritto il libro La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri). Infine il meccanismo più vergognoso: quello per cui l' ammontare di bonus e stock option viene deciso spesso dagli stessi interessati, o dai loro amici nei consigli d' amministrazione.
In teoria c' è il controllo della proprietà, ma quando questa è polverizzata in decine di migliaia di piccoli azionisti, i manager diventano quasi onnipotenti. E la crisi viene pagata dai piccoli risparmiatori.
RIQUADRO
E noi ce lo abbassiamo
Gennaro Gattuso si è detto disponibile a ridursi l'ingaggio di 4,5 milioni all' anno, dopo che il presidente Silvio Berlusconi ha ventilato l' idea di abbassare gli ingaggi del Milan del 30 per cento. E fuori dal calcio cosa succede?
La banca Unicredit taglia 35 milioni di bonus ai venti megadirigenti che li avevano percepiti nel 2008. Per l'amministratore delegato Alessandro Profumo sei milioni in meno: gli restano i 3,4 milioni dello stipendio fisso.
Piergaetano Marchetti, presidente della Rizzoli (la società che edita Oggi), rinuncia al 20% del proprio compenso. E al bonus dicono addio Ferruccio de Bortoli e Claudio Calabi, direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore.
Riduzione spontanea del 10% fra i dirigenti della Ducati Motors a Bologna, e niente bonus anche per quelli della fabbrica di elettrodomestici Elica di Fabriano (Ancona). Il sindaco di Cittadella (Padova) Massimo Bigonci rinuncia all' indennità. Stessa decisione a Milena (Caltanissetta) e a S. Elisabetta (Agrigento).
Mauro Suttora
Bocchino: il mio Fini privato
intervista a Italo Bocchino
di Mauro Suttora
Oggi, 1 aprile 2009
Eravamo quattro amici al bar. «Il bar Giolitti, di fronte a Montecitorio, dove ci trovavamo sempre Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa ed io. Eravamo i tre moschettieri di Gianfranco Fini, e Pino Tatarella, più anziano di noi, era il nostro D’Artagnan».
Così Italo Bocchino, 41 anni, vicepresidente dei deputati Pdl, ricorda i «tempi eroici». Cioè vent’anni fa, quando dopo il crollo del muro di Berlino il presidente Francesco Cossiga («prima di Berlusconi») sdoganò il Msi.
I nostalgici neofascisti si trasformarono nei rispettabili moderati di Alleanza Nazionale. E ora anche An scompare, confluita nel Popolo delle libertà. «Ma quegli amici restano tali, perché l’amicizia non si può sciogliere», dice Bocchino. Che è fiero di occupare lo stesso ufficio d’angolo al quarto piano del palazzo dei gruppi di Montecitorio, «dove fino al ’99 stava Tatarella, morto troppo presto».
«Ricordo perfettamente la prima volta che incontrai Fini nell’85», ricorda Bocchino, «a una conferenza sull’atlantismo nella sede Msi di Terni. Io studiavo a Perugia e stavo negli universitari del Fuan. Lui guidava il Fronte della Gioventù, era già deputato, e mostrava una diversità lombrosiana rispetto ai militanti missini: moderato nei tratti, nei modi, negli argomenti».
Era il cocco di Giorgio Almirante, allevato apposta per succedergli.
«Una scelta lungimirante, quella di saltare tutta una generazione per modernizzare il partito. Ma il Msi era molto democratico al proprio interno, e Almirante non riuscì a imporre subito Fini segretario nell’87. Ci fu lotta con Pino Rauti, Franco Servello e Domenico Mennitti. Io ero il più giovane della corrente finiana, la mascotte dei quattro moschettieri. Gasparri era il motorino organizzativo, La Russa il fantasista. Il nostro rapporto andava oltre la politica, passavamo tutto il tempo assieme. Ho dormito per un anno sul divano del bilocale di 40 metri quadri di Gasparri e della sua santa moglie a Roma in via Gradoli – sì, quella del covo dei brigatisti che uccisero Moro. Lui andava in motorino alla sede del Secolo, io in bus a quella del partito in via della Scrofa. Ma anche a Milano, non ho mai dormito in albergo: sempre a casa di La Russa. E loro da me quando vengono a Napoli».
A proposito di Napoli: è vero che Berlusconi ha consigliato a Fabrizio Cicchitto, di cui lei è il vice, di vestirsi dal suo sarto napoletano Mazzuoccolo, visto che lei è sempre elegantissimo?
«Non solo: ho portato a farsi il guardaroba da lui anche Gasparri e Quagliariello, che guidano i senatori del Pdl. Un altro quartetto…»
Degli amici faceva parte anche Francesco Storace, che però si è allontanato.
«Fu Storace a farmi assumere come giornalista al Secolo: Gasparri stava alla redazione economica, Urso e Landolfi alla politica, lui agli interni, e fece una grande battaglia sindacale per me. Entrare nel giornale allora significava conquistare il primo stipendio fisso. Passai l’esame da professionista con Veltroni e Ferrara».
Nelle foto che pubblichiamo Fini, la sua compagna Elisabetta Tulliani e la figlia Carolina passeggiano a villa Borghese con lei, sua moglie Gabriella Buontempo e le vostre due figlie. Com’è il Fini privato? Il ghiacciolo che è in pubblico?
«Assolutamente no. Formalmente sembra freddo, ma nella sostanza è normalissimo. Ha forti passioni, ora che è diventato padre è rinato a vita nuova. Credo soffra un po’ per una certa difficoltà a esprimere i sentimenti, ma per un uomo abituato a ruoli di leadership da quando aveva 25 anni l’autocontrollo è normale. Né lui né io parliamo di politica fuori dal lavoro…»
E di che parlate?
«Di tutto, delle nostre famiglie, del mare, che è l’altra sua grande passione. Gli piace vivere semplicemente: siamo stati da poco a Parigi con le nostre signore, e ci siamo spostati in metro».
Mai una litigata in un quarto di secolo?
«Come no. Nel 2005, dopo che alcuni di noi suoi amici furono intercettati mentre sparlavamo di lui, ci tolse ogni carica. Non si è più fidato di nessuno fino al 2007, io ho rischiato perfino l’elezione. E stato un periodo molto pesante, ma l’abbiamo superato».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 1 aprile 2009
Eravamo quattro amici al bar. «Il bar Giolitti, di fronte a Montecitorio, dove ci trovavamo sempre Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa ed io. Eravamo i tre moschettieri di Gianfranco Fini, e Pino Tatarella, più anziano di noi, era il nostro D’Artagnan».
Così Italo Bocchino, 41 anni, vicepresidente dei deputati Pdl, ricorda i «tempi eroici». Cioè vent’anni fa, quando dopo il crollo del muro di Berlino il presidente Francesco Cossiga («prima di Berlusconi») sdoganò il Msi.
I nostalgici neofascisti si trasformarono nei rispettabili moderati di Alleanza Nazionale. E ora anche An scompare, confluita nel Popolo delle libertà. «Ma quegli amici restano tali, perché l’amicizia non si può sciogliere», dice Bocchino. Che è fiero di occupare lo stesso ufficio d’angolo al quarto piano del palazzo dei gruppi di Montecitorio, «dove fino al ’99 stava Tatarella, morto troppo presto».
«Ricordo perfettamente la prima volta che incontrai Fini nell’85», ricorda Bocchino, «a una conferenza sull’atlantismo nella sede Msi di Terni. Io studiavo a Perugia e stavo negli universitari del Fuan. Lui guidava il Fronte della Gioventù, era già deputato, e mostrava una diversità lombrosiana rispetto ai militanti missini: moderato nei tratti, nei modi, negli argomenti».
Era il cocco di Giorgio Almirante, allevato apposta per succedergli.
«Una scelta lungimirante, quella di saltare tutta una generazione per modernizzare il partito. Ma il Msi era molto democratico al proprio interno, e Almirante non riuscì a imporre subito Fini segretario nell’87. Ci fu lotta con Pino Rauti, Franco Servello e Domenico Mennitti. Io ero il più giovane della corrente finiana, la mascotte dei quattro moschettieri. Gasparri era il motorino organizzativo, La Russa il fantasista. Il nostro rapporto andava oltre la politica, passavamo tutto il tempo assieme. Ho dormito per un anno sul divano del bilocale di 40 metri quadri di Gasparri e della sua santa moglie a Roma in via Gradoli – sì, quella del covo dei brigatisti che uccisero Moro. Lui andava in motorino alla sede del Secolo, io in bus a quella del partito in via della Scrofa. Ma anche a Milano, non ho mai dormito in albergo: sempre a casa di La Russa. E loro da me quando vengono a Napoli».
A proposito di Napoli: è vero che Berlusconi ha consigliato a Fabrizio Cicchitto, di cui lei è il vice, di vestirsi dal suo sarto napoletano Mazzuoccolo, visto che lei è sempre elegantissimo?
«Non solo: ho portato a farsi il guardaroba da lui anche Gasparri e Quagliariello, che guidano i senatori del Pdl. Un altro quartetto…»
Degli amici faceva parte anche Francesco Storace, che però si è allontanato.
«Fu Storace a farmi assumere come giornalista al Secolo: Gasparri stava alla redazione economica, Urso e Landolfi alla politica, lui agli interni, e fece una grande battaglia sindacale per me. Entrare nel giornale allora significava conquistare il primo stipendio fisso. Passai l’esame da professionista con Veltroni e Ferrara».
Nelle foto che pubblichiamo Fini, la sua compagna Elisabetta Tulliani e la figlia Carolina passeggiano a villa Borghese con lei, sua moglie Gabriella Buontempo e le vostre due figlie. Com’è il Fini privato? Il ghiacciolo che è in pubblico?
«Assolutamente no. Formalmente sembra freddo, ma nella sostanza è normalissimo. Ha forti passioni, ora che è diventato padre è rinato a vita nuova. Credo soffra un po’ per una certa difficoltà a esprimere i sentimenti, ma per un uomo abituato a ruoli di leadership da quando aveva 25 anni l’autocontrollo è normale. Né lui né io parliamo di politica fuori dal lavoro…»
E di che parlate?
«Di tutto, delle nostre famiglie, del mare, che è l’altra sua grande passione. Gli piace vivere semplicemente: siamo stati da poco a Parigi con le nostre signore, e ci siamo spostati in metro».
Mai una litigata in un quarto di secolo?
«Come no. Nel 2005, dopo che alcuni di noi suoi amici furono intercettati mentre sparlavamo di lui, ci tolse ogni carica. Non si è più fidato di nessuno fino al 2007, io ho rischiato perfino l’elezione. E stato un periodo molto pesante, ma l’abbiamo superato».
Mauro Suttora
Thursday, March 26, 2009
Da Mussolini a Silvio
Un curioso paradosso: i postfascisti di An più democratici dei «liberali» di Forza Italia: niente «Uomo della provvidenza» nel Popolo della Libertà
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
Il congresso di scioglimento di An passerà forse alla storia perché conclude l'avventura sessantennale del Msi. Ma sicuramente passa alla cronaca per il debutto in pubblico della nuova compagna di Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani. Un cambio non solo simbolico: l'ex moglie di Fini, Daniela, rappresentava infatti il passato anche politico del presidente della Camera, poiché entrambi sono stati militanti neofascisti, con il braccio alzato nel saluto romano.
Ora gli ex di An andranno d'accordo con gli ex di Forza Italia, oppure il Popolo della libertà scricchiolerà nel giro di pochi mesi, com'è capitato al Partito democratico dove ex comunisti ed ex democristiani non si sono amalgamati? Finché c'è Silvio Berlusconi non ci dovrebbero essere problemi. Ma gli ex fascisti sono abituati a una maggiore democrazia interna nel loro partito, rispetto a Forza Italia. Il «culto del Capo» non fa per loro: neppure Giorgio Almirante, come ricorda Italo Bocchino in queste pagine, riusciva a imporre la propria volontà senza discutere.
Avremo così, nel grande partito del centrodestra, dei «liberali» che si affidano all'Uomo della provvidenza di Arcore, mentre gli ex nostalgici dell'Uomo della provvidenza di Predappio pretenderanno voti democratici e dirigenti eletti, non più nominati dall'alto. Lo ha anticipato Fini: «Niente culto della personalità per Berlusconi». Un curioso paradosso.
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
Il congresso di scioglimento di An passerà forse alla storia perché conclude l'avventura sessantennale del Msi. Ma sicuramente passa alla cronaca per il debutto in pubblico della nuova compagna di Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani. Un cambio non solo simbolico: l'ex moglie di Fini, Daniela, rappresentava infatti il passato anche politico del presidente della Camera, poiché entrambi sono stati militanti neofascisti, con il braccio alzato nel saluto romano.
Ora gli ex di An andranno d'accordo con gli ex di Forza Italia, oppure il Popolo della libertà scricchiolerà nel giro di pochi mesi, com'è capitato al Partito democratico dove ex comunisti ed ex democristiani non si sono amalgamati? Finché c'è Silvio Berlusconi non ci dovrebbero essere problemi. Ma gli ex fascisti sono abituati a una maggiore democrazia interna nel loro partito, rispetto a Forza Italia. Il «culto del Capo» non fa per loro: neppure Giorgio Almirante, come ricorda Italo Bocchino in queste pagine, riusciva a imporre la propria volontà senza discutere.
Avremo così, nel grande partito del centrodestra, dei «liberali» che si affidano all'Uomo della provvidenza di Arcore, mentre gli ex nostalgici dell'Uomo della provvidenza di Predappio pretenderanno voti democratici e dirigenti eletti, non più nominati dall'alto. Lo ha anticipato Fini: «Niente culto della personalità per Berlusconi». Un curioso paradosso.
I partiti personali
LA CASTINA
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
Wednesday, March 18, 2009
intervista a Yunus
La ricetta anticrisi del banchiere dei poveri
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Wednesday, March 11, 2009
Rottamare le case
Lezione dagli Usa: ricostruire i palazzi dopo 70 anni
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
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