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Wednesday, May 06, 2009

Famiglia palestinese a Perugia

Dopo 37 anni ricevono la cittadinanza italiana

dal nostro inviato Mauro Suttora

Corciano (Perugia), 28 aprile 2009

«Ci sono voluti trentasette anni, ma alla fine la cittadinanza italiana è arrivata». Il dottor Abdel Qader Mohammed, 60 anni, palestinese, festeggia con la sua numerosa famiglia. Emigrò in Italia nel 1972, prima della guerra del Kippur: era fra le decine di migliaia di studenti accolti dall’università per stranieri di Perugia. Ha imparato la nostra lingua. Si è laureato in medicina. Si è specializzato in allergologia. Ed è rimasto qui.

«Vengo da Kalkilia, nella Cisgiordania, che dal ’67 è occupata da Israele. Non sapevo se seguire la parte della mia famiglia profuga in Kuwait, o se stabilirmi in Italia. Ma in Umbria stavo bene, e così sono rimasto».

La sindaca di Corciano (paese accanto a Perugia), Nadia Ginetti del Pd, aveva solo tre anni quando il giovane Abder arrivò da queste parti. E adesso dà la cittadinanza a lui, alla moglie, alle quattro figlie ventenni e al figlio quindicenne. Un po’ in ritardo rispetto alla regola per cui i figli di immigrati nati in Italia diventano automaticamente cittadini a 18 anni.
«Questo perché qualche anno fa ci fu un equivoco con l’anagrafe di Corciano», spiega la moglie 47enne del dottor Qader, Khalil Zaynab, «e invece di registrare il nostro trasferimento da una casa in affitto a una di proprietà ci considerarono rientrati in Giordania. Mentre per la legge bisogna risiedere ininterrottamente qui. Ci sono voluti parecchi anni, ma ora tutto è risolto».

L’autobus G1 mi porta direttamente dal centro di Perugia a sotto casa Qader, una bella palazzina moderna a Corciano. Dove tutti conoscono il dottore, non solo per la sua attività professionale, ma anche perché è l’imam di Perugia.

«Ci sono trentamila musulmani in Umbria, e i centri islamici stanno aumentando», spiega. «Ma non tutti gli immigrati sono religiosi. Gli albanesi, per esempio, frequentano poco. E di moschee non se ne parla: guardate tutte le storie per costruire la prima in Toscana, a Colle Val d’Elsa. Così siamo costretti a pregare in garage e magazzini».

Eppure Qader è figura nota, a livello religioso. Viene sempre invitato agli incontri ecumenici dei francescani di Assisi, con ebrei e buddisti. Due anni fa ha avuto dei problemi con dei giovani islamici estremisti di Perugia.

Da sei mesi, poi, la sua primogenita Sumaya Abdel Qader lo ha superato per notorietà: ha infatti pubblicato il libro Porto il velo, adoro i Queen (ed. Sonzogno), in cui racconta le sue esperienze di immigrata di seconda generazione.

Tutte le figlie del dottor Qader portano il velo. Per loro libera scelta. Anzi, quando Sumaya a tredici anni ha voluto metterselo, sua madre ha cercato di dissuaderla per non farle pesare la diversità con le compagne di scuola.

A casa Qader incontriamo Nebras, la secondogenita, laureata in scienze dell’informazione ed educatrice. Sposata da quattro anni con Mahmad, 29, studente di medicina a Chieti, ha appena avuto una figlia.

Poi c’è Maymuna, 26: studia scienze politiche, legge Pirandello e Baricco, «vorrei fare la gelataia», scherza. Il sogno della figlia più giovane, Danya, 23, è invece quello di arruolarsi in polizia. Per ora non può farlo se non rinuncia al velo, ma spera che questa regola cambi e intanto studia relazioni internazionali all’università: «Mi piacerebbe fare la poliziotta all’ambasciata d’Italia ad Amman…».

Infine Omar, 15 anni, liceo scientifico. Torna a casa alle due, mentre siamo a tavola per mangiare la makluba, piatto tipico palestinese che significa «la rovesciata». Gli piace lo sport, va in palestra, gioca a calcio, pratica la boxe e il kickboxing.

Manca solo Sumaya, che vive a Milano col marito siriano e le due figlie. Le ragazze parlano italiano con l’accento umbro: «Quando non vogliamo farci capire dalla mamma usiamo il dialetto perugino». La signora Khalil aveva 15 anni quando si è sposata: «Mio marito venne in Kuwait, le nostre famiglie erano vicine di casa. Facemmo tutto secondo le regole tradizionali: quando lui mi vide non mi parlò, ma dovette chiedere ai suoi genitori di organizzare un incontro fra le famiglie, in cui chiese ufficialmente la mia mano. Solo che eravamo tutte velate, e per un attimo all’inizio mi confuse con mia madre, che mi assomiglia ed era anche lei molto giovane, 31 anni…»

C’è humour e si scherza, a casa Qader. Maymuna darà il suo primo voto da cittadina a Berlusconi, mentre la «poliziotta» Danya sta più a sinistra. Omar tifa Inter, e ai mondiali tutta la famiglia stava per l’Italia e per la Turchia (unico Paese musulmano).

A un certo punto suona il campanello. Sorpresa: è don Antonio, il nuovo giovane parroco che non conosce ancora bene gli abitanti e passa per la benedizione pasquale. L’imam Qader lo accoglie cordialmente. Beviamo il caffè.

Non sempre le cose sono così idilliache. Sumaya nel suo libro racconta che una volta, sul bus 56 a Milano, le figlie si misero a cantare: «Siam pronte alla morte, siam pronte alla morte». Una passeggera, vedendo la madre col velo islamico, mormora: «Bella educazione, pronte per il martirio suicida…» Le bimbe continuano a cantare: «Siam pronte alla morte, l’Italia chiamò». Era l’inno d’Italia.

Quando alle ragazze Qader qualcuno domanda «Vi sentite integrate?», loro sorridono con i loro occhioni verdi e rispondono: «Ma non c’è niente da integrare, siamo italiane». Sumaya sogna la disponibilità all'accoglienza degli Stati Uniti, dove già all’aeroporto c’è una funzionaria americana con il velo per accogliere i passeggeri islamici, e dove abbondano le moschee. Durante una vacanza in Giordania un ragazzo arabo cercò di fidanzarsi organizzando un incontro fra famiglie, ma lei mandò subito tutti a quel paese.

Dopo la prima guerra del Golfo, nel ’90, i nonni materni hanno dovuto scappare di nuovo dal Kuwait invaso da Saddam. Non potendo tornare nella loro Palestina, abitano in Giordania: profughi due volte. «E noi abbiamo imparato l’arabo, ogni estate andiamo a trovarli, adoriamo la nostra cultura, la nostra lingua, la nostra religione», dicono le ragazze Qader. «Ma siamo nate a Perugia, e il nostro Paese è l’Italia».

Mauro Suttora