Showing posts with label broadway. Show all posts
Showing posts with label broadway. Show all posts

Wednesday, March 11, 2009

Rottamare le case

Lezione dagli Usa: ricostruire i palazzi dopo 70 anni

di Mauro Suttora

Libero, martedì 10 marzo 2009

Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.

Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.

A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.

Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.

Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.

Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.

Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.

Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.

Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.

Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2005

Brooke Shields, depressa post parto

CONFESSIONE CHOC: "STRINGERE IL MIO TESORO ERA DIVENTATO UN INCUBO"
"Volevo buttarmi dalla finestra. Provavo tristezza, senso di vuoto. Mi sentivo una fallita", svela l'attrice. Dopo la nascita di Rowan, era stata colpita dalla depressione che affligge una puerpera su dieci. Per guarire? Farmaci, psicoterapia e affetto

dal nostro corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 4 maggio 2005

Dopo essere diventata mamma, due anni fa, Brooke Shields non ha cantato ninne nanne alla sua piccola Rowan con la voce dolce che mandava in estasi Broadway. «Guardavo le finestre del mio appartamento di New York», confessa l’attrice, «e mi veniva voglia di buttarmi giù. Non volevo più vivere. Mi ha salvato solo il pensiero che, stando al terzo piano, non sarei neppure riuscita a morire. Un mucchio di ossa rotte, e sarebbe stato ancora peggio...»

L’agghiacciante rivelazione è contenuta nell’autobiografia che la mamma quasi quarantenne (compleanno il 31 maggio) ha scritto con sincerità totale, terapeutica, come per levarsi di dosso un peso. E per condividere la propria pena estrema con le donne (una su dieci) che soffrono di depressione post-parto.

Perchè apparentemente l’ex modella di Calvin Klein aveva tutto: una splendida carriera cominciata ancora in fasce, quando fu scelta per reclamizzare un sapone dei neonati; un matrimonio finalmente felice con il produttore Tv Chris Henchy, dopo l’unione annullata dalla Sacra Rota con il tennista Andre Agassi e avventure sbagliate con Alberto di Monaco, Michael Jackson e George Michael; una laurea in letteratura francese nella prestigiosa università di Princeton, conquistata per dimostrare che dietro alla bellezza fisica c’è anche un cervello; battaglie vinte contro l’alcolismo e una temuta sterilità.

Ma per Brooke la conquista faticosa della gravidanza e lo scivolare improvviso nella depressione dopo i dolori del parto si sono rivelati il periodo più tumultuoso e imprevisto della vita. «Chris mi diceva: “Ehi, la bimba sta piangendo”. E io mi limitavo a rispondere immobile: “Sì, sta piangendo. Chissà cosa vuole...” Era come se uno spirito esterno si fosse impadronito del mio corpo e io rispondessi a ogni domanda con il contrario di quello che volevo».

Vergogna, segretezza, impotenza, disperazione: la ex Pretty Baby è passata attraverso tutti i sintomi della depressione post-parto. «Ma provavo anche tristezze infinite, senso di vuoto, sentivo lontanissimi famiglia e amici. Ero convinta di essere una fallita, e pensai al suicidio quando quelli che mi circondavano non davano peso alle mie parole: mi assicuravano che si trattava soltanto di normali malinconie passeggere». E invece, se non curata, la spossatezza del dopo gravidanza può trasformarsi in crisi cronica e durare anche un anno.

Oggi, quando Rowan piange, mamma Brooke si vanta di riuscire a capire immediatamente, anche da lontano, se la bimba ha fame o paura, se è arrabbiata o stanca o triste, oppure se sta semplicemente cercando Darla, il bulldog di sette anni: «Si tratta di quel tipo di istinto materno innato di cui avevo tanto sentito parlare, e che mi illudevo di possedere fin dal primo giorno», spiega. «Nulla di tutto questo, invece. Solo un gran disinteresse, da parte mia, e di conseguenza un senso di colpa così grande da non riuscire a confessarlo a nessuno. Così mi ritrovavo a piangere più di Rowan in certi giorni vuoti e interminabili. Mi venne un attacco di panico quando feci il primo provino dopo la gravidanza per lo spot di un prodotto per neonati. Avevo anche visioni terrificanti di mia figlia che volava in aria, colpiva un muro e poi scivolava giù, anche se grazie a Dio non ero io quella che la lanciava».

All’inizio la parola «depressione post-parto» non le diceva nulla. Fu un lontano conoscente, «anzi, praticamente uno sconosciuto», a farle aprire gli occhi sui sintomi che provava. Non si sa quali madri siano portate più di altre alla depressione, ma nel caso della Shields si sono manifestati alcuni chiari fattori di rischio: parto complicato e difficile, taglio cesareo con il cordone ombelicale annodato attorno al collo di Rowan, utero erniato durante l’operazione, con tale perdita di sangue che i dottori avevano quasi dovuto praticare un’isterectomia (rimozione dell’utero) per bloccarla.

Un altro fattore di rischio è una disgrazia improvvisa, come la morte di un parente. Il padre di Brooke era scomparso tre settimane prima della nascita di Rowan per un cancro alla prostata. C’era lo stress dovuto a vari tentativi falliti di fertilizzazione in vitro, e le iniezioni di ormoni cui doveva sottoporsi per stimulare le ovaie a produrre ovuli. La coppia viveva nella paura costante di essere accusata di drogarsi, viste le siringhe che doveva portarsi dietro nei viaggi. E poi il divorzio difficile da Agassi, un aborto, una tradizione di depressioni in famiglia, niente balia... insomma, la Shields era proprio la candidata ideale.

«Eppure per me fu una sorpresa. Non volevo crederci, mi vergognavo ad ammettere che avevo la depressione post-parto. Cercavo una giustificazione per tutto». Brooke Shields ignorava che la sua malattia viene curata in maniera assai efficace, con una combinazione di medicinali e terapie psicologiche, più tanto riposo e aiuto da amici e parenti: «Senza le medicine non sarei stata abbastanza lucida, ma senza lo psicologo non sarei riuscita a capire quel che mi stava succedendo. Per me poi è stato molto importante allattare: che mi piacesse o no, il contatto fisico con Rowan era quello di cui avevo veramente bisogno. Alla fine sono stata fortunata, con una diagnosi abbastanza rapida e un aiuto efficace».

Anche adesso le tocca alzarsi per accudire Rowan: «La scorsa notte ho dovuto farlo all’una, alle tre e alle cinque. Ma ora ho capito che con la maternità la mia vita è cambiata per sempre, e che questa nuova fase è migliore perchè arricchisce di più. Ho quasi abbandonato tutte le medicine, e stiamo pensando all’eventualità di un’altra gravidanza».

Le madri che hanno sofferto di depressione hanno un 50% di probabilità in più di ricaderci dopo il parto successivo: «Lo so, ma voglio un secondo figlio. E anche se sono una perfetta candidata, almeno questa volta so che cosa mi aspetta. Chissà, magari sarà peggio, oppure non succederà nulla. Ma sarò preparata. Dovrò ricorrere di nuovo alla fecondazione assistita, ma si spera che questa volta un mio genitore non muoia proprio prima del parto».
Mauro Suttora