«Per ore ho urlato dal mio sepolcro»
Una studentessa è stata estratta viva dalle macerie dopo 23 ore. Merito di un gruppo di speleologi esperti nel salvataggio da frane e valanghe. Fra loro c'era anche un angelo custode che le ha tenuto compagnia
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 22 aprile 2009
«Ho gridato fino alla fine». Marta Valente, 24 anni, di Bisenti (Teramo). Ora sta nel reparto rianimazione al nono piano dell’ospedale di Chieti, che sorge su un’alta collina. Fin qui si sono dovuti arrampicare, dalla loro grotte, gli speleologi che l’hanno salvata. Ora vogliono solo salutarla e controllare come sta.
Lunedì 6 aprile ci hanno messo 23 ore per tirarla fuori dalle macerie. Ma alla fine l’hanno salvata. «E’ un miracolo. Non so definire diversamente quello che mi è successo», mormora Marta. Tutte le sue amiche studentesse di medicina sono morte, sepolte vive. Serena Scipione del suo stesso paese, che condivideva con lei l’appartamento dell’Aquila in via Rossi. Federica Moscardelli, anche lei teramana di Montorio. E poi Ivana, e altre dodici salme estratte da quella che è stata, assieme alla Casa dello studente, la più grande tomba di questo terremoto.
Una trave di cemento armato ha salvato Marta, coprendola ma non colpendola. Le ha impedito di alzarsi, ma le ha fatto scudo dalle altre travi trasversali che l’avrebbero uccisa. «Ho gridato sempre, per otto ore. A volte sentivo le voci dei soccorritori avvicinarsi, poi si allontanavano e mi disperavo. Finché mi hanno individuato», racconta Marta. Ora ha trauma cranico, edema polmonare (per il prolungato schiacciamento), traumi alla gamba. Ma presto starà meglio.
Il suo angelo custode si chiama Aldo Zambardino, ha 40 anni e fa un mestiere strano: lo «sgaggiatore». E’ uno di quegli sconsiderati che si arrampicano per decine di metri su pareti di roccia ripide per installare le reti di sicurezza che proteggono le strade dalle frane. Nel tempo libero fa parte del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico.
«Siamo arrivati all’Aquila da Roma all’alba», ci racconta il suo collega volontario Roberto Carminucci, 44, professore di educazione fisica. «Alle undici siamo riusciti a localizzare Marta. Abbiamo sentito le sue lamentele. Scavando piano, con le mani, in un’ora siamo arrivati a lei. A mezzogiorno l’abbiamo toccata».
E qui è subentrato Aldo lo sgaggiatore. Che ha avvolto per 14 ore Marta nella rete protettiva delle sue parole. «Per noi è molto importante il supporto psicologico alle vittime intrappolate», spiega Roberto lo speleologo. «Nel buio delle grotte, infatti, i feriti che rimangono bloccati dopo una frana a volte devono aspettare a lungo prima di essere estratti. Spesso sono gravi, soffrono, si lasciano andare e perdono conoscenza. Grazie a Dio non è stato il caso di Marta. Ma Aldo le è stato vicino, le ha dato da mangiare e da bere, le ha parlato per ore. Le avrà raccontato la storia della sua vita!...»
Ora ci si scherza sopra. Ma in quelle ore L’Aquila continuava a tremare, con i boati delle scosse di assestamento. E ci voleva del fegato per starsene accucciati sotto muri e sopra pavimenti che minacciavano di crollare da un momento all’altro.
Si chiama «disostruttori» la sezione specializzata del Soccorso speleologico che scava per salvare vite. E’ il contrario di costruttori e ostruttori: sono arrivati in 150 all’Aquila da tutta Italia. «A volte usiamo delle microcariche per allargare i cunicoli di salvataggio», spiega Carminucci, «infiliamo delle cannucce nei fori della roccia e le facciamo esplodere per creare delle crepe».
Togliendo sasso dopo sasso, alle due di notte gli speleologi della squadra guidata da Marco Cuccu sono riusciti a portar via Marta dal suo sarcofago. «Non sappiamo come ringraziarli», si commuovono i genitori della ragazza, Marco e Lina. «Siamo noi che ringraziamo Marta per il suo coraggio e la sua tenacia, che ci hanno aiutati ad aiutarla», rispondono gli speleologi.
Mauro Suttora