Thursday, November 30, 2023

La rivincita di Fantozzi. Il governo dà un'arma formidabile ai dipendenti pubblici

Nuova direttiva del ministro Zangrillo: i sottoposti potranno giudicare anonimamente i propri capi. Dal leccapiedi al culodipietra, breve fenomenologia dei travet che ne usufruiranno

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 novembre 2023
 
Fantozzi, è arrivato il tuo momento. Il ministro Paolo Zangrillo annuncia che verrà introdotta la valutazione per i pubblici dipendenti. Non solo quella dall'alto al basso, dei dirigenti sui loro sottoposti. Anche i dipendenti potranno giudicare i propri capi. Fantastico. I voti saranno anonimi, quindi in ogni reparto scattaranno lamentele, vendette e accuse senza timore di rappresaglia.

Sulla valutazione dei dipendenti sono stati scritti libri interi. Ci sono cattedre universitarie e corsi appositi per i direttori del personale. Oggi si dice hr, human resources, risorse umane. "Com'è umano lei", biascicava il ragionier Fantozzi davanti al suo tremendo capufficio Gianni Agus. In realtà erano disumane le vessazioni cui era sottoposto il personaggio impersonato da Paolo Villaggio. E tutti, prima o poi, ci siamo identificati in lui quando abbiamo dovuto subire le angherie di un capo crudele.

Non è la prima volta che la burocrazia pubblica annuncia pagelle, nella speranza di migliorare le proprie mediocri performances. L'unica cosa sicura, però, rimane lo stipendio misero che arriva a fine mese. Per il resto, asini e geni, pigri e volenterosi rimangono appiattiti in un sistema che garantisce tutti e valorizza pochi. Perché dopo i giudizi, dovrebbero arrivare anche sanzioni per i lavativi e premi per i meritevoli. Ma i soldi sono quello che sono, e oggi un insegnante in Italia guadagna meno di un operaio specializzato. Quindi ci sono poche leve a disposizione dei manager statali per far funzionare la meritocrazia.

Anche nel settore privato, comunque, vigono gli stessi meccanismi psicologici nel rapporto con i dirigenti. Come misurare l'efficienza di un lavoratore? Il leccapiedi fedele spesso è preferito all'eccellente ma critico. E i capi vulnerabili all'adulazione sono manna per i furbi.

I trucchi per apparire bravi sono innumerevoli. Il principale di cui mi sono avvalso, in 40 anni di carriera, è stato quello di arrivare sempre al lavoro un minuto prima del mio capo, e di andarmene un minuto dopo. Col rischio di essere soprannominato 'culo di pietra', riuscivo a infondergli un'impressione di onnipresenza, guadagnandomi fantozzianamente la sua fiducia totale. E qualche aumento.

Ancora più abietta è la categoria degli "spalatori di merda". Quelli disposti a tutto: obbediscono sempre e subito, non sollevano mai obiezioni. I 'problem solver', come Harvey Keitel nel film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, sembrano indispensabili. Solo quando se ne vanno ci si accorge che non lo erano. Rapidissimi, privilegiano la quantità sulla qualità. Nessuna creatività, tanta disciplina. Io invece ero definito "cacadubbi", perché osavo analizzare pro e contro di ogni questione. Errore imperdonabile: sul lavoro niente filosofia. "Non sei flessibile, devi essere più duttile", mi disse un direttore. Traduzione: "Cala le mutande".

Infine, ci sono i simpaticoni. Le figure più pericolose, che sicuramente mieteranno voti nelle future valutazioni. Popolari sia fra i dirigenti che fra i subalterni. Promettono sempre, mantengono raramente. Ma chiacchierano tanto e si fanno amare. Il loro luogo ideale sono le "riunioni": paradiso esibizionista per gli arrivisti, purgatorio per noialtri dotati di un po' di dignità, inferno per i timidi. Rischiano giudizi negativi solo dai pari grado, per invidia o gelosia.

Insomma, aboliti i voti alle elementari "per non creare traumi", eccoli ricicciare nei confronti di poveri 50-60enni che speravano solo in un po' di tranquillità, viaggiando in folle verso la pensione. I luoghi di lavoro sono già nidi di vipere, perché trasformarli in Cambogie di finta democrazia come nel film Prova d'orchestra di Federico Fellini?

Saturday, November 25, 2023

Care donne, non deleghiamo allo Stato la rivoluzione culturale. Quella tocca a noi, individui

Appello libertario

di Mauro Suttora

Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del Nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia

Huffingtonpost.it, 25 novembre 2023

Naturalmente le donne che amiamo meritano soltanto 'Love, devotion and surrender', come cantava Carlito Santana. Tuttavia, a chi parla di "società patriarcale" come causa dei femminicidi in Italia si può rispondere con queste famosa frase: "Incolpare la società? Non esiste una cosa come la società, alla quale chiedere di risolvere ogni nostro problema". Esistono invece e soprattutto gli individui, i cittadini con le loro innumerevoli, libere e spontanee relazioni. Con i loro personali diritti, doveri e reciproche responsabilità.

Perciò, piuttosto che invocare interventi statali, nuove leggi, aumenti di pena e ore di lezione sull'affettività, preferiremmo che lo stato si intromettesse il meno possibile nelle nostre vite. Giù le mani dai sentimenti e dall'amore, che non possono essere né insegnati a scuola, né controllati da burocrati.

È stato il sogno di ogni regime, nazifascista o comunista, governare le nostre faccende privatissime, sempre con la scusa di 'proteggere' qualche categoria o valore. Ci abbiamo messo decenni per liberarci da politici che ci punivano se divorziavamo, abortivano, o se non volevamo imparare a uccidere (obiezione di coscienza al servizio militare).


Stiamo ancora chiedendo di decidere da soli se fumarci o no una canna così come si fuma una sigaretta o si beve un bicchiere di vino, senza arricchire i mafiosi beneficiati dal proibizionismo (cent'anni fa Al Capone, oggi interi narcostati e narcomafie planetarie). Vorremmo sfuggire all'accanimento terapeutico obbligatorio, che ci fa restare artificialmente 'in vita' per lustri come Michael Schumacher: milioni di tronchi apparentemente umani, da nascondere nelle rsa. Desideriamo invece il diritto a una morte dolce.

Cosa chiedere allora allo Stato contro la violenza sulle donne? Fare meglio il suo lavoro: reprimere, punire, prevenire. Ma alla larga dal delegargli 'rivoluzioni culturali' maoiste. Inutile illudersi: lo stato non potrà mai eliminare completamente gli istinti  e pazzie individuali che provocano femminicidi e stupri. Che l'illusione autoritaria dello stato-Stasi non si faccia forte di verbi dolciastri come "aiutare" ed "educare", per aumentare il suo potere. Che l'erogazione di innumerevoli e strambi bonus non trasformi tutti noi in clienti di uno stato-mamma invadente e sprecone (psicobonus eternizzato, lo vuole Fedez).

 Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia. E certo, la cultura può indirizzare la società italiana verso ulteriore emancipazione femminile, eguaglianza di stipendi, o anche semplice buona educazione per zittire i 'cat callers', dispensatori di appiccicosi complimenti alle passanti. 

Ma i patriarchi erano e restano tre: Abramo, Isacco e Giacobbe. Non resuscitiamoli per colpa di qualche cafone per strada. Non evochiamo inesistenti "società patriarcali": la nostra è una delle meno maschiliste al mondo. E soprattutto non chiediamoci ossessivamente "dove sono le istituzioni?", come quel comico della Gialappa's: siamo noi, le istituzioni.

Ps: la frase famosa e per qualcuno scandalosa citata all'inizio è della donna più potente al mondo negli anni '80: Margaret Thatcher. 

Wednesday, November 22, 2023

Frecciarossa e auto blu. Stavolta ha centoundici volte ragione Lollobrigida
















Incredibile rigurgito anticasta contro il ministro che stava andando dai bambini di Caivano in treno. Che però era in ritardo di centoundici minuti. E per non mancare l’appuntamento, lo ha fatto fermare e ci è andato in macchina. Perché lo Stato non è un pendolare

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 novembre 2023

Tutti contro Lollo: Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Riccardo Magi. Vogliono che Francesco Lollobrigida si dimetta perché ha fatto fermare un treno. E invece questa volta Lollo ha ragione. Centoundici volte ragione, come i minuti di ritardo del Frecciarossa che ieri aveva preso per andare a inaugurare il nuovo parco di Caivano (Napoli). Perché non si fanno aspettare sotto la pioggia i bambini di una zona martoriata dalla camorra. Né tantomeno gli si dà loro buca.

Francesco Lollobrigida durante quest'anno alla guida del Ministero dell'Agricoltura ha accumulato varie gaffes, dalla "sostituzione etnica" provocata dagli immigrati ai poveri che mangerebbero meglio dei ricchi. Lui stesso è una gaffe vivente, perché ministro-cognato (della premier) non suona bene. Ricorda troppo il ministro-genero Galeazzo Ciano di 80 anni fa.

Ed è imbarazzante anche l'aggiunta decretata al nome del suo dicastero: Agricoltura e Foreste era già abbastanza lungo, ma lui ha voluto appesantirlo con "Sovranità alimentare". Un concetto che suona desolatamente parafascista: non potendo più sfogarsi con i parà (anzi, si sono fatti scippare dai leghisti l'ex capo della Folgore Roberto Vannacci), ai nostalgici non resta che consolarsi con il nazionalismo dei campi. Facendo finta di ignorare che il nostro export enogastronomico vale decine di miliardi, cosicché siamo gli ultimi a cui converrebbe erigere barriere al libero scambio mondiale dei cibi: se gli altri adottassero il chilometro zero nei nostri confronti, sarebbe un disastro.

Ma lasciamo questi problemi planetari e torniamo a Ciampino. Perché è lì che il ministro e il suo segretario si sono accorti del ritardo astronomico accumulato dal loro treno ad alta velocità nella brevissima distanza dopo la partenza da Roma. Friggevano, si sentivano intrappolati. E quindi hanno fatto l'unica cosa intelligente per salvare il loro impegno a Caivano: saltare giù dal treno, acchiappare un'auto blu e proseguire il viaggio con il lampeggiante. 

Gli altri passeggeri non sono stati danneggiati dalla fermata extra. Soltanto con un rigurgito grillino fuori tempo massimo si può accusare Lollobrigida di "arroganza della casta". Intanto perché è lodevole ed ecologico che un ministro abbia provato a spostarsi in treno invece che in auto o aereo di stato.

In realtà il modo più veloce per coprire la distanza breve Roma-Caivano sarebbe il volo in elicottero. Ma immaginiamo gli strilli moralisti, "tracotanza!", se Lollo avesse osato avvalersi di un mezzo di trasporto normalmente utilizzato da un qualsiasi industriale.

Conosciamo bene l'inutile pompa borbonica di cui amano circondarsi i politici quando viaggiano, anche nei centri delle città. La sovrabbondanza dei codazzi con portaborse di certi cortei che bloccano il traffico. Ma ieri non è successo questo. 

Il ministro Francesco non è un francescano, tuttavia il suo comune Frecciarossa non ha funzionato. E lui ha trovato la soluzione migliore per evitare una figuraccia nei confronti di chi lo aspettava a un appuntamento preparato da settimane.

Mussolini faceva arrivare i treni in orario, dicono. Aspettiamo che i suoi eredi riescano a imitarlo. Intanto, però, che almeno l'opposizione eviti i riflessi pavloviani di pretendere dimissioni campate in aria.

Monday, November 06, 2023

Fedez e Vincenzo De Luca, la strana coppia. Manca solo la candidatura alle Europee

Il presidente della regione Campania, invitato nel podcast di un'ora del musicista, Muschio selvaggio, lo ha sedotto immediatamente. Cronaca di una improbabile sintonia

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 novembre 2023 

È scoppiato un amore. Vincenzo De Luca e Fedez assieme al prossimo voto europeo (con o senza il Pd)? Il presidente della regione Campania, invitato nel podcast di un'ora del musicista, Muschio selvaggio, lo ha sedotto immediatamente. De Luca il 13 ottobre aveva insultato i personaggi ricoperti di tatuaggi: "Mi fanno schifo, sono imbecilli". Fedez gli ha risposto offrendogli spazio nel proprio programma su YouTube. E l'astuto politico ha trasformato il processo in un podio.

Archivia subito le critiche dermatologiche: "Siete ragazzi e artisti, vabbe'". Ne aggiunge un'altra: "A Sanremo ti sei avvinghiato come un mollusco a quel tipo per slinguazzarlo. Una zozzeria". Fedez obietta: "E allora, quando Benigni si attaccò allo scroto di Pippo Baudo?" "Lì sotto non c'era niente", risponde veloce De Luca. E il rapper scoppia a ridere. Sembra di essere nel programma tv di Crozza. Da lì in poi, tutto in discesa per il politico campano. Fino al gran finale: "Hai dato coraggio agli altri affrontando la prova del tumore. Sei un ùomo". Che è la massima lode deluchiana.

De Luca, con libro in promozione, trova terreno fertile nel giovanilismo: "Per voi sono tempi drammatici. Io ce l'ho con gli adulti che smettono di fare gli adulti. Come diceva quel tale, Jacques... [si dimentica il cognome, ndr], noi insegniamo ai giovani non ciò che diciamo, ma ciò che facciamo". Fedez va in brodo di giuggiole. Aggiunge: "Non sono i tatuati che hanno ridotto il mondo così, ma quelli in giacca e cravatta". De Luca rincara: "E quelli in divisa militare".

Il duetto procede sui superalcolici: "Li beve il 72 per cento dei minorenni", denuncia De Luca. Il musicista annuisce. Le serie e i film come Gomorra spingono i giovani all'emulazione? Piccolo dissidio, Fedez non ne è convinto, poi il governatore arretra: "Accentuano le fragilità in determinati contesti, si perde il principio di autorità". Due sociologi.

Fedez e il suo coconduttore Mister Marra (soprannominato Nosferatu da don Vincenzo in un momento di tenerezza) provano a essere ficcanti chiedendogli conto delle sue traversie giudiziarie. È un invito a nozze: "La signora Rosaria Bindi, quand'era presidente della commissione antimafia, mi definì 'impresentabile' solo perché rinunciai alla prescrizione in un processo di diciannove anni prima", si scalda De Luca, "in realtà avevo difeso gli operai dell'Ideal Standard". 

L'intervista si trasforma presto in un comizio da toni vannacciani. Il trapper milanese Shiva che ha sparato a due ragazzi di una gang rivale? "Dagli Stati Uniti importiamo solo esempi idioti, demenziali", si scatena il presidente campano, "io come pena applicherei il metodo Singapore: lì i poliziotti sono dotati di un frustino di bambù sottile. Una ventina di frustate fra capo e collo".

Tutti d'accordo sulla superiorità di Napoli su Milano, diventata secondo Fedez "insicura". Qui De Luca assume toni crozziani: "La mia Campania è la prima regione in Italia per i tempi di rimborso dei farmaci. Forniamo trasporti gratis a tutti gli studenti fino ai 26 anni. E siamo stati i primi a dare il bonus psicologo che ti sta tanto a cuore, caro Fedez". Un tripudio di stima reciproca. "In Campania c'è la camorra perché manca lo stato", signora mia, mentre la regione di De Luca è presente. Sembra di ascoltare il nuovo tormentone del comico pelato della Gialappa's: "Dove sono le istituzioni?"

Ai due rapper che un po' incongruamente sottolineano l'aggressività con toni da lanciafiamme di De Luca, lui cita papa Paolo VI a Jean Guitton: "La gravità è lo scudo degli sciocchi". E via con gli insulti ai dirigenti pd, "anime morte, non rappresentano più nulla", che non risparmiano neanche l'"amico Bersani, con quella sua puttanata velleitaria di Articolo Uno", e tutti i politici in generale, "che non reggo trenta secondi ad ascoltarli".
 Fedez ammutolito ed estasiato, tre a zero per De Luca. Palla al centro, non resta che celebrare il nuovo idillio e dargli uno sbocco concreto. 

Friday, October 27, 2023

Rampelli a Waterloo. Il meloniano che ha sconfitto Napoleone

Il vicepresidente della Camera ha infine tolto il ritratto di Napoleone dal suo ufficio: “Rivogliamo le opere d’arte che si rubò”. Una strada impervia, e anche molto pericolosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 27 ottobre 2023

Visto che i crimini di guerra sono tristemente d’attualità, diciamolo subito: Napoleone fu un criminale di guerra. Le sue invasioni costarono tre milioni di morti militari e un milione e mezzo di civili in soli 17 anni. Ma il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI) è tutt'altro che un woke, come si dice oggi, uno che vuole riscrivere la storia: “Non possiamo giudicare Bonaparte con le nostre categorie contemporanee. Allora tutti gli imperatori si accaparravano territori non loro e le relative ricchezze attraverso bottini di guerra”.

E allora perché ha tolto il ritratto di Napoleone di Andrea Appiani dal suo ufficio in Parlamento, sostituendolo con un dipinto di scarso valore? 

“Uno stato che sia sensibile alla cultura, come l’Italia che di cultura vive, deve porre il problema delle opere d’arte trafugate”.

E furono più di mezzo migliaio, fra quadri e statue, i capolavori italiani che l’imperatore corso trasferì in Francia. Dopo la restaurazione del 1815 il Papa mandò Antonio Canova a Parigi per recuperarli. Lo scultore riuscì a farsene ridare la metà: i più famosi erano il Laocoonte, che tornò in Vaticano, e la quadriga veneziana di San Marco che Napoleone aveva piazzato sul proprio arco di trionfo del Carrousel, davanti al Louvre.

Ma ad oggi rimangono ancora in Francia 250 opere del bottino napoleonico: dalle Stigmate di San Francesco di Giotto alle Nozze di Cana del Veronese, dalla Madonna di Cimabue all’Incoronazione della Vergine di Beato Angelico, più vari Mantegna, Perugino, Tiziano, Ghirlandaio.

Non la Gioconda di Leonardo, che si trovava in Francia da molto prima di Napoleone: una sua copia adorna la sala Aldo Moro di Montecitorio, proprio dove Rampelli ha fatto collocare il Bonaparte sfrattato, a guisa di memento.

Il combattivo vicepresidente vuole iniziare una vertenza con Parigi: “Quando facciamo accordi bilaterali con la Francia, come il trattato del Quirinale, dovremmo cercare di riottenere una parte delle opere trafugate”.

Ma ormai siamo in Europa.

“Appunto. Dentro la Ue ci dovrebbe essere un trasferimento quasi automatico e indolore fra uno stato e l’altro, quando si tratta di furti”.

La soluzione potrebbe essere una politica molto generosa di scambi e prestiti per mostre in Italia. Anche se è difficile pensare a trasferimenti per opere gigantesche come le Nozze di Cana del Veronese.

È pericoloso però avventurarsi in rivendicazioni nazionaliste: il museo Egizio di Torino chiuderebbe se anche Il Cairo imboccasse la strada ipotizzata da Rampelli.

Quanto al giudizio storico su Napoleone, il dibattito è aperto da due secoli, e continua a risultare appassionante: esportatore di democrazia e diritti civili o dittatore sanguinario mai sazio di conquiste? Quel che è sicuro è che nel giro di pochi anni il difensore della République si trasformò in imperatore che piazzava parenti, restauratore dell’autocrazia ben prima della Restaurazione. E soprattutto killer della repubblica più antica, tollerante, ricca, pacifica e raffinata della storia: Venezia. Senza risarcimenti in vista per la Serenissima. 

Thursday, October 26, 2023

Il grillino cannone. Siore e siori, è tornato Di Battista

di Mauro Suttora

Rentrée di Dibba nei talk, stavolta a dire che Israele è pari ai nazisti alle Ardeatine. Ma noi gli vogliamo bene e lo avvertiamo: anche al circo Barnum, dopo i mangiaspade e il nano, l’ultima carta per attrarre il pubblico era la donna cannone

Huffingtonpost.it, 26 ottobre 2023 

Dovrebbe preoccuparsi, il simpatico Alessandro Di Battista. Perché quando al circo Barnum esaurivano il campionario di fenomeni da baraccone, e dopo i mangiafuoco e i mangiaspade non facevano più ridere neanche i gemelli siamesi o il nano imitatore di Napoleone, l’ultima risorsa per attrarre pubblico era la donna cannone.

Allo stesso modo i talk show hanno dovuto resuscitare l’ex deputato grillino, che è riapparso in tv un anno dopo aver deliziato le platee sull’Ucraina. Il copione è lo stesso, e di sicuro effetto. Si intitola "Sì, però". Allora era “Sì, Putin ha invaso l’Ucraina, però non dobbiamo mandarle armi”, o “però l’occidente ha provocato”. Oggi dice “Sì, Hamas ha compiuto la strage del 7 ottobre, però anche Israele ammazza i bambini”, o “però l’occidente dimentica la Palestina occupata”.

Risultato: il piacione di Roma Nord è diventato istantaneamente l’idolo degli estremisti islamici, si è trasformato in Dibbah d’Arabia. Le sue urla di martedì sera, sottotitolate in arabo e titolate “Finalmente un politico italiano dice la verità”, impazzano sulla rete dal Marocco all’Iraq.

Anche a noi, come a Crozza, piace Dibba. È una miniera inesauribile di bufale e gaffes. Il New York Times lo issò in testa alla classifica mondiale delle panzane dopo che riuscì a dire “Metà Nigeria è in mano ai terroristi di Boko Haram, l’altra metà al virus Ebola” (erano venti villaggi e venti casi in tutto). Il folklore continuò con “in Grecia cittadini disperati s’iniettano il virus dell’Aids per prendere il sussidio”.

Poi certi teppisti francesi che indossavano gilet gialli incendiarono i negozi degli Champs-Élysées, e lui trascinò il collega grillino Luigi Di Maio a Parigi a stringer loro la mano. Quando Di Maio divenne inopinatamente ministro degli Esteri, faticò a spiegare la cosa al presidente Emmanuel Macron. E ora che il povero Di Maio è stato nominato – sempre inopinatamente – inviato Ue nel Golfo, si trova sorpassato dall’ex amico in popolarità presso le masse arabe.

Dibbah ci diverte ogni volta che appare sul piccolo schermo. Lo spettacolo è assicurato, e infatti pare che incassi 2.500 euro a puntata per l’erezione delle audiences. Una volta si proclama “testimone oculare” di un inciucio non perché fosse lì presente, ma perché “ho letto le carte coi miei occhi”. Un’altra scivola sul congiuntivo: “Mi auguro che la Meloni non cedi su Casellati”. Nella foga scambia “soddisfamento” per “soddisfazione”, missili ipersonici per supersonici.

Sul Medio Oriente invece ha studiato. Non gli capiterà mai di confondere il Libano con la Libia, come successe a un sottosegretario agli Esteri 5 stelle. Però l’altra sera, dopo aver dato dell’ex fascista a Italo Bocchino e avere incassato “il fascista ce l’hai in casa, tuo padre”, l’ha sparata grossa: ha equiparato Israele ai nazisti, dicendo che la “rappresaglia su Gaza è come quella delle Fosse Ardeatine: si vuole arrivare a 33 bimbi palestinesi uccisi per ogni bimbo israeliano?”.

A parte il delirante paragone, nessuno lì per lì si è accorto dello svarione contabile: Hitler applicò la vendetta nella misura di uno a dieci: 33 soldati uccisi, 330 (molti ebrei) fucilati. Ma nella confusa matematica dibbiana Bibi Netanyahu risulta peggiore del comandante SS Herbert Kappler.

È probabile che ora Dibbah, sull’onda di questi exploit, venga ripescato anche dai 5 stelle e candidato all’Europarlamento da un Giuseppe Conte in debito d’ossigeno. Così il circo verrà trasmesso in Eurovisione. Titolo in inglese, questa volta: "Freak show".

Thursday, October 19, 2023

Autodenuncia, processo, assoluzione: la surreale vita di Marco Cappato



Ormai i pronunciamenti della magistratura non fanno più notizia: uno dopo l’altro, stabiliscono che l’eutanasia non è reato. Ma la legge non arriva. Così un’azione politica per sollevare l’assurdità della situazione l’ha resa ancora più assurda

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 19 ottobre 2023

Ormai non fa più notizia. Anche la procura di Firenze ha chiesto l’ennesima archiviazione per Marco Cappato. Il leader radicale si era autodenunciato per avere aiutato un 44enne di San Vincenzo (Livorno), malato di sclerosi multipla, ad andare in Svizzera dove è morto col suicidio assistito.

I pm di Milano recentemente non hanno ritenuto un reato l’aiuto di Cappato a Romano, 82enne ex giornalista e pubblicitario all’ultimo stadio di Parkinson, e a Elena Altamira, 69enne veneta malata terminale di cancro.

Il problema però è che l’eutanasia in Italia rimane illegale. La Corte costituzionale anni fa ha invitato il parlamento a emanare una legge che la regolamenti. Ma i partiti sia di destra che di sinistra non hanno il coraggio di affrontare l’argomento. Nonostante i sondaggi diano l’80 per cento degli italiani favorevoli alla “buona morte”, i cattolici presenti in Pd, Forza Italia, FdI e Lega bloccano ogni decisione.

Così si prosegue nel limbo dell’incertezza. E continua la commedia del povero Cappato che per sollecitare una legge pratica la disobbedienza civile, si autoincolpa per evidenziare l’assurdità della situazione. Niente da fare. Come era successo per divorzio e aborto, l’eutanasia viene praticata di nascosto ogni giorno nei nostri ospedali. Ma senza regole precise si rischiano abusi.

La scorciatoia è quella del “suicidio assistito”, che dopo il caso di dj Fabio è legale per chi è affetto da malattie irreversibili, soffre pene fisiche o psicologiche intollerabili ed è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Il che però esclude proprio chi ne avrebbe più bisogno, e cioè le migliaia di anziani che per demenza senile o Alzheimer non possono più decidere.

Ma anche per chi ha i requisiti la burocrazia è lunga e insostenibile: un’apposita commissione regionale deve valutare ogni singola richiesta per accedere alla somministrazione del farmaco di fine vita. Se la commissione accerta la sussistenza di tutti i requisiti indicati dalla sentenza della Corte costituzionale verrà scelto il farmaco più appropriato. Ma non è finita, perché poi c’è anche un comitato etico che deve dare il suo parere. Insomma, mesi e anni di attesa.

Così chi ha i mezzi va in Svizzera. Ma chi lo aiuta può essere sempre incriminato per istigazione al suicidio.

Come ipocriti struzzi, i pochi contrari all’eutanasia fanno finta di non vedere quel che succede normalmente, seguendo l’unica regola del buonsenso, in ospedali e rsa. Parlano di “difesa della vita” e accusano Cappato di essere un “angelo della morte”.

Sta succedendo anche in questi giorni a Monza e in Brianza, dove domenica si vota per il seggio da senatore lasciato da Silvio Berlusconi. Cappato è candidato per il centrosinistra, Adriano Galliani per il centrodestra. Che accusa l’esponente radicale di non essere un vero liberale: ma la libertà di disporre del proprio corpo fino alla fine è un diritto civile fondamentale. Perfino il sindaco del Pd non sa se voterà Cappato o si asterrà. Eutanasia e droga legale fanno paura, nonostante la realtà smentisca gli scrupoli ideologici e religiosi.

Così i “difensori della vita” preferiscono che siano i magistrati, e non i politici, a stabilire regole provvisorie. E Galliani scappa da ogni dibattito, ma per farsi propaganda regala, secondo il metodo Achille Lauro, astucci della sua squadra di calcio del Monza ai bambini brianzoli.

Wednesday, October 18, 2023

Esselunga, saga familiare, consumismo e comunismo

"Le ossa dei Caprotti" (Feltrinelli) è un libro avvincente come un romanzo che racconta la storia della catena più antica d'Italia

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 18 ottobre 2023 

Esselunga fa sempre notizia, anche se mezza Italia non può conoscerla: il più meridionale dei suoi 170 supermercati, infatti, sta a Roma. Dopo il dibattito incredibilmente ampio di tre settimane fa sul suo spot della pesca regalata da una bimba al padre separato, ecco ora un libro che racconta la storia della catena più antica d'Italia (il primo supermercato fu aperto nel 1957 in viale Regina Giovanna a Milano). Lo ha scritto Giuseppe Caprotti, 63 anni, figlio del fondatore Bernardo scomparso nel 2016: 'Le ossa dei Caprotti', ed. Feltrinelli. E già la scelta dell'editore di sinistra sarebbe dispiaciuta al padre, che quindici anni fa scrisse pure lui un libro, "Falce e carrello", in polemica con le Coop, concorrente commerciale ma anche politico.

Il primogenito Caprotti jr era l'erede designato del colosso della grande distribuzione. Il padre lo mandò a farsi le ossa in America, nei supermarket di Chicago. Poi lo nominò amministratore delegato consegnandogli la società. Ma dopo pochi anni lo estromesse brutalmente, accusandolo di ogni nefandezza: i padri-padroni non si limitano ai pastori sardi. 

Negli ultimi vent'anni ci sono state battaglie giudiziarie di ogni tipo. Solo adesso le acque si sono calmate, Esselunga è finita alla seconda moglie di Bernardo e a sua figlia, i due figli di primo letto sono stati liquidati uscendo dall'azienda. E Giuseppe è libero di raccontare la sua versione.

Il libro è un saggio su duecento anni di storia della famiglia Caprotti, industriali tessili della Brianza prima di darsi ai supermercati. Ma è avvincente come un romanzo. Le ossa del titolo sono quelle che tappezzano la chiesa di San Bernardino a Milano, dietro il Duomo: Bernardo amava portarci in lugubre visita i figlioletti Giuseppe e Violetta. Ma anche il teschio e lo scheletro di San Valerio, bene in vista nella cappella della villa di famiglia ad Albiate (Monza).

Una delle parti più interessanti del libro è quella sulla nascita dei supermercati in Italia. Che furono un'operazione economica, ma anche politica. I Caprotti, infatti, nei primi anni erano soci di minoranza di Nelson Rockefeller, il miliardario statunitense e vicepresidente di Gerald Ford (1974-77). La sua multinazionale Usa nel secondo dopoguerra esportò uno dei prodotti più tipici dell'American way of life prima in Venezuela e poi in tutta l'America latina. Infine, a metà anni 50, lo sbarco in Italia. La scelta dei partner italiani fu attenta: perfino la Cia venne consultata per garantire la loro fedeltà ai valori occidentali.

Può sembrare complottismo, e invece il supermercato, simbolo supremo del consumismo, era anch'esso una arma per conquistare con il soft power i cuori, le menti (e i portafogli) degli italiani, che durante la guerra fredda avevano il più grosso e minaccioso partito comunista del mondo libero. Lo dice d'altronde la parola stessa: al centro dell'economia di mercato non può che troneggiare il super-mercato. 

E infatti Caprotti scrive che il plenipotenziario di Rockefeller in Europa, Richard Boogaart, scelse l'Italia e in particolare Milano perché "si era reso conto che aveva una cittadinanza comunista molto ampia, ed era contento dell'opportunità di mostrare ai comunisti che un'azienda americana come un supermercato potesse funzionare bene". Rockefeller stesso in quegli anni pronunciò la famosa frase: "È difficile essere comunisti con la pancia piena". E credeva fermamente che abbassare i prezzi del cibo avesse lo stesso significato di un aumento dei salari.

Insomma, in questi tempi di inflazione galoppante e di tentativi di combatterla con accordi fra catene di supermercati, negozi e aziende produttrici, è interessante scoprire che anche il modo di fare la spesa può avere un significato politico. Ed è uno dei pochi punti su cui il pugnace anticomunista Caprotti senior avrebbe concordato con suo figlio, fine intellettuale laureato alla Sorbona, e forse proprio per questo da lui osteggiato.

Monday, October 16, 2023

Istriani e palestinesi. Le sliding doors di due popoli senza terra

Nel ’47-’48 due guerre perse provocarono un milione di profughi. Quelli dell’Istria hanno preso una strada, quelli di Palestina un’altra. Perché i secondi sono stati sfruttati anche dagli amici, e amici di un mondo bellicoso

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 17 ottobre 2023 

Quasi contemporaneamente, nel 1947-48, due guerre perse provocarono un milione di profughi: 300mila istriani rifugiati in Italia, e 700mila palestinesi scappati da quello che per l’Onu avrebbe dovuto essere il loro nuovo stato, accanto a Israele.

Attenzione: in entrambi i casi non fu pulizia etnica. Nessuno, né il maresciallo Tito né David Ben Gurion, obbligò italiani e palestinesi ad andarsene. Fu una fuga spontanea. Certo provocata anche dal terrore per foibe e per massacri tipo Deir Yassin (commesso dal futuro Nobel per la pace Menachem Begin, pensate un po’). 

Ma le stragi fra israeliani e palestinesi nei trent’anni precedenti erano state reciproche, e nel 1948 non furono certo gli israeliani a invadere la “Grande Palestina” araba prevista dall’Onu. Al contrario, vennero loro attaccati da tutti i Paesi arabi. Non solo quelli confinanti, Egitto, Giordania, Siria, Libano: anche da Iraq, Arabia Saudita, perfino Yemen.

Miracolosamente il neonato Israele sopravvisse al tentativo di sopprimerlo in culla, feroce quanto il 7 ottobre di Hamas: vinse la guerra e molti palestinesi preferirono andarsene. Non tutti: rimasero in 160mila, il primo nucleo degli attuali due milioni di palestinesi cittadini israeliani (su dieci milioni di abitanti d’Israele), che godono degli stessi diritti politici e civili degli ebrei, tranne il dovere della leva militare. Probabilmente sono gli arabi più liberi del pianeta.

Insomma, le guerre si vincono, si pareggiano, si perdono. In quest’ultimo caso, da sempre esse producono profughi. “Esuli”, preferivano chissà perché essere chiamati gli istriani e dalmati fuggiti in Italia dalle meraviglie del comunismo jugoslavo. Forse suonava più nobile di “profughi”. O poetico, e in effetti da Dante a Foscolo, da Mazzini a Garibaldi, quanti eroi sradicati e raminghi.

Fatto sta che molti dei rifugiati nostrani dopo aver perso tutto finirono anch’essi nei campi profughi. Ma nel giro di pochi anni si rifecero una vita trovando nuove case e lavori. Nessuno ha rivendicato mai nulla, in tre quarti di secolo neanche al più fanatico è passato per la testa di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. L’Italia aveva attaccato la Jugoslavia, aveva perso, e amen.

Non così i palestinesi. Che sono stati sempre usati dai “fratelli arabi” come mezzo di pressione contro Israele. Ammassati in condizioni miserevoli nei campi profughi ai suoi confini, e peggio stanno meglio è, perché così aumenta l’odio verso Israele.

Gaza e Cisgiordania rimasero la prima egiziana fino al 1979, e la seconda giordana fino al 1994, quando furono firmati i trattati di pace con Israele. Perché in tutti quei decenni l’Egitto non diede Gaza ai palestinesi, né la Giordania Gerusalemme Est e la Cisgiordania, affinché lì nascesse il loro stato promesso dall'Onu?

In realtà quanto questi cari “fratelli arabi” amino i palestinesi lo hanno dimostrato re Hussein di Giordania col massacro del Settembre Nero nel 1970, e l’Egitto ancora in queste ore bloccando il valico di Rafah con Gaza.

Ora i profughi palestinesi sono aumentati da 700mila a cinque milioni. Gli unici rifugiati al mondo che hanno diritto a ereditare il titolo, si fanno mantenere in eterno da Onu e Ue e continuano a premere su Israele. Ormai sono passate quattro generazioni.

Nel frattempo le guerre non smettono di provocare esodi. I croati nel 1995 hanno cacciato dalla Krajna di Knin i terribili serbi, che però inopinatamente si sono rassegnati.

L’ultima fuga, quella dei centomila armeni espulsi dal Nagorno Karabach. Per fortuna non tutti hanno sempre voglia di rivincita, di tornare, di ricorrere al terrorismo per vendicarsi. Sarà vigliaccheria, sarà pigrizia, sarà quieto vivere, sarà dolente saggezza. Oppure i Rokes: “Bisogna saper perdere”. Come mi dicevano sorridenti mio padre e mio nonno, esuli nel 1944 dalla loro isola oggi croata di Lussino: “Cos te vol, mulo. G’avemo perso”. Non ditelo ai palestinesi. E neanche agli altrettanto bellicosi israeliani e iraniani, russi e ucraini.

Thursday, October 05, 2023

Il Comune di Milano casca nella stupida burocrazia. E io mi dimetto da ecologista dopo mezzo secolo

Permessi auto. Tutto funzionava perfettamente. Perché cambiare?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 ottobre 2023
  
Esattamente mezzo secolo fa, il 6 ottobre 1973, scoppiò la guerra del Kippur con l'attacco di Egitto e Siria a Israele. L'embargo petrolifero dei Paesi Opec fece esplodere i prezzi energetici, nacque l'austerity, si diffuse la coscienza che le risorse del pianeta sono limitate e occorre risparmiarle. In una parola, ecco l'ecologia.
 
Singoli illuminati come Aurelio Peccei e movimenti ambientalisti denunciavano da anni i mali dell'inquinamento, del cemento e dell'assalto alla natura. Erano nati il Wwf, gli Amici della Terra. Forse a livello di cultura popolare in Italia il più efficace fu Adriano Celentano, con Il Ragazzo della via Gluck (1966) e Un albero di 30 piani (1972).
 
All'oratorio già raccoglievamo la carta usata per finanziare i missionari; come molti giovani, abbracciai con entusiasmo la nuova filosofia dei "limiti dello sviluppo". E negli anni '80 partecipai alla fondazione delle Liste Verdi, con l'allegro simbolo del Sole che ride. Oggi rimango un maniaco della raccolta differenziata, in città mi sposto con i mezzi o in bici, preferisco il treno all'auto e all'aereo. La mia impronta ecologica è minima, cerco di essere sostenibile.
 
Tuttavia. Quattro giorni fa, il primo ottobre, il Comune di Milano ha dimezzato da 50 a 25 i permessi annuali per circolare in quasi tutto il suo territorio (zona B) a carico delle auto diesel euro 5 come la mia, comprata nel 2015. È uno spreco energetico spingere a rottamare veicoli con appena otto anni di età; è un controsenso farlo mentre in contemporanea finanziamo con miliardi i molto più inquinanti tir, tramite gli sconti sulle accise del gasolio. Io uso l'auto solo per trasportare mia madre 90enne alle visite dal dottore. Ho provato ad affidarmi ai tassisti, con i risultati tragici che tutti i clienti di taxi conoscono.
 
Ma pazienza. Un po' di spirito civico e di sacrifici contro il cambiamento climatico sono accettabili. Trovo inaccettabile, però, la stupidità. Il problema è che il Comune di Milano ora costringe a chiedere in anticipo online il permesso per ognuno dei 25 permessi annuali. Il che è un delirio, perché bisogna ogni volta caricare il fronte e retro del libretto di circolazione, mettendoci almeno un quarto d'ora.
 
Non si capisce perché sia stato abbandonato il sistema precedente, dell'anno terminato il 30 settembre: iscrizione online della targa dell'auto una tantum, e poi registrazione automatica da parte del sistema degli ingressi ogni volta che se ne usufruiva, con l'indicazione di quelli residui (risultavo in credito di venti). Tutto funzionava perfettamente. Perché cambiare?
 
L'unica spiegazione è che si voglia dare gratuitamente fastidio agli automobilisti moltiplicando senza motivo per 25 la burocrazia a loro carico. Pensavo fosse un disguido tecnico dei primi giorni o un mio errore, non riuscivo a credere a una simile ottusità. Invece il Comune mi ha confermato che ora è così, e basta.
 
Immagino che ci sia un'ondata di proteste da parte dell'Aci e delle organizzazioni degli automobilisti contro una misura così platealmente inutile e vessatoria. Nel mio piccolo, dopo mezzo secolo mi dimetto da ecologista militante e praticante.

Saturday, September 30, 2023

Salvate Meloni e il governo dalla capra Giambruno

di Mauro Suttora 

Il first gentleman d'Italia ha colpito ancora. È riuscito a dire, riferendosi ai migranti, che "Berlusconi aveva già capito tutto della transumanza dall'Africa verso l'Europa"

Huffingtonpost.it, 30 settembre 2023

"Settembre, andiamo, è tempo di migrare". E anche di straparlare. Ora in terra di Mediaset il conduttor Giambruno ha colpito ancora. "Berlusconi aveva già capito tutto della transumanza dall'Africa verso l'Europa", è riuscito a dire nel suo programma su Rete4.

Salvate il soldato Andrea Giambruno. Spiegate al first gentleman d'Italia che gli animali transumano, mentre gli uomini emigrano. Forse il tapino è stato ingannato dal significato originale del verbo 'migrare', che in effetti fino a trent'anni fa si riferiva più che altro agli uccelli. E quindi, avrà pensato, per estensione anche alle pecore. 

Salvate il soldato Giambruno. Peccato che alle elementari non insegnino più a memoria la poesia 'I Pastori' di Gabriele D'Annunzio. Avrebbe avuto chiaro il quadro della transumanza autunnale in terra d'Abruzzo, con le greggi che lasciano gli stazzi sui monti e vanno verso il mare.

Salvate il soldato Giambruno. Il prossimo weekend, Giorgia, invece di importunare ancora la tua nuova amica Ursula invitandola dappertutto, portalo a visitare i tratturi dell'Appennino molisano e dauno, dove si transuma sul serio. Scoprirete pastori solleciti e amorevoli, non scafisti avidi e crudeli.

 Salvate il soldato Giambruno. Non fatelo più parlare di politica, crea troppi imbarazzi. È laureato in filosofia, mettetelo al posto di Myrta Merlino. A voler essere pignoli oggi ha detto un'altra sciocchezza, degradando Berlusconi a ministro degli Esteri, carica mai ricoperta. 

Salvate il soldato Giambruno. Non si transuma sul mare, gli ovini non prendono il gommone. Gli riconosciamo solo un perfetto senso del timing: perché oggi è l'ultimo giorno di settembre, quindi domani la poesia dannunziana sulla transumanza sarebbe scaduta. 

Tuesday, September 19, 2023

Scoop! Scoop! Scoop! Rettiliani e terrapiattisti: ecco i prossimi ospiti del programma di Foa

di Mauro Suttora 

Dopo la glorificazione di Vannacci e l'intervista al luminare dei NoVax, proponiamo in esclusiva i nani e le ballerine che il conduttore Rai proporrà ai sui ascoltatori (ARTICOLO IRONICO)

Huffingtonpost.it, 19 settembre 2023 

Scoop! Scoop! Scoop! Siamo in grado di rivelarvi chi saranno gli ospiti delle prossime puntate di 'Giù la maschera', nuovo programma di Marcello Foa in onda ogni mattina dalle nove alle dieci su Rai Radio1. Per bilanciare la presenza di Massimo Citro della Riva, il medico novax sospeso dall'Ordine che oggi ci ha informato non solo sull'inutilità dei vaccini antiCovid, ma sulla loro dannosità, domani sarà invitato il professor Minimo Nitro della Spiaggia, che rivelerà il nome del vero assassino di John Kennedy 60 anni dopo Dallas.

Gettata la maschera, finalmente un programma Rai che ci regala "persone, fatti e notizie alla ricerca della Verità", quella con la V maiuscola come Vendetta, come il quotidiano di Maurizio Belpietro e come la PraVda, glorioso organo del partito comunista dell'Unione Sovietica. Basta con l'emarginazione dei cospirazionisti: sempre sul sito Rai l'ottimo Foa promette di "raggiungere il pubblico, sempre più numeroso, che mostra disaffezione nei confronti sia dei partiti, sia della stampa mainstream". Quindi via a personaggi offstream, controcorrente.

Dopodomani ci sarà l'avvocato Salmoni, noto per aver nuotato sfidando il Po al contrario: partito da Porto Tolle, ha raggiunto a bracciate il Monviso. E naturalmente giovedì sarà il turno del nuovo guru bastiancontrario italiano: il generale Roberto Vannacci, già glorificato da Foa al debutto del programma sette giorni fa. Leggerà il suo libro 'Oirartnoc la odnoM' sillabandolo proprio così, cominciando dalla fine, per rendere più genuine le sue lodi a "icorf e irgen".

"Leggendo come gli immigrati arabi, da destra a sinistra, dimostrerò che non ho nulla contro di loro", preannuncia Vannacci. Gran finale settimanale venerdì con gli esperti più equilibrati sulla guerra in Ucraina: il sociologo Alessandro Orsini, la filosofa Donatella Di Cesare e il rettore Tomaso Montanari. In collegamento da Mosca Iuri Poloniov, autore del libro 'L'Uccidente uccide'.

Gli ascoltatori di Radio1 apprezzano già la nuova trasmissione. Non notano alcuna differenza con quella precedente, eliminata per far spazio all'ex presidente Rai: il programma comico con le battute di Luca Bottura e Marianna Aprile.

La prossima settimana sono già in scaletta Massimo Mazzucco, il complottista-principe italiano che ha scoperto la messinscena delle Torri Gemelle, i negazionisti dello sbarco sulla Luna e una delegazione terrapiattista. Poi spazio al rettiliano padano Matteo Lombroeus, il quale studiando i tratti dei loro volti ha dimostrato l'inconfutabile appartenenza di Mario Draghi e George Soros alla propria specie. 

Né si trascureranno gli altri campioni del 'fake ma vero': avversari delle scie chimiche emesse dagli aerei, dei pedofili che hanno provocato l'attacco di Vladimir Putin contro Kiev, del Nuovo ordine mondiale finanziario guidato da Bill Gates che proprio ieri guarda caso con un articolo sul Financial Times ha ricominciato ad attaccare l'Italia, dei tunisini e africani che in complotto congiunto con ong e governi francese e tedesco invadono l'Italia proprio ora che governa il centrodestra (perché non lo hanno fatto col centrosinistra? Ragionateci sopra).

Per finire con una puntata tutta dedicata ai sempreverdi Protocolli dei Savi di Sion. Protesta Claudio Messora, padrone della tv complottista Byoblu: "Con programmi come quello di Foa la Rai mi fa concorrenza sleale. Voglio anch'io una parte del canone trattenuto nelle bollette".


Wednesday, September 13, 2023

L'orsa Fuortes. Abbattuti e salvati: serve un Tar anche per il San Carlo















di Mauro Suttora

Lissner rimesso al suo posto da un giudice, ma si annunciano ricorsi e controricorsi. Finirà come per i plantigradi, condannati e graziati ogni settimana dalle carte bollate (arriverà un tribunale che farà l’orsa F36 amministratore delegato)

Huffingtonpost.it, 13 settembre 2023

In contemporanea un giudice trentino salva dall'abbattimento l'orsa F36 e uno napoletano condanna alla disoccupazione Carlo Fuortes, disarcionandolo dalla sovrintendenza del teatro San Carlo di Napoli. Cosicché a noi, distratti e superficiali scrollatori di notizie, può capitare di cortocircuitare, confondendo la plantigrada con l'irsuto ex amministratore delegato Rai.

Anche perché questa è la terza orsa ad affollare le cronache estive. Prima la JJ4, catturata in Trentino dieci giorni dopo aver ucciso un escursionista. Poi l'abruzzese Amarena, ammazzata dal proprietario del pollaio dove si era avventurata. Infine la trentina F36, che in agosto ha assalito (senza conseguenze) turisti troppo vicini al suo cucciolo. Pure con loro avvengono grotteschi ribaltamenti di senso. Duemila persone sfilano per la povera Amarena in Abruzzo, auspicando una pena da omicidio umano per il suo killer. Erano solo 800, invece, alla fiaccolata per Andrea Papi, il runner ucciso da JJ4. 

"L'incontro con un uomo non giustifica l'uccisione dell'orsa", ha sentenziato il Tar di Trento. Né la necessità di risarcire Fuortes dopo la sua cacciata dalla Rai giustifica la defenestrazione del suo predecessore al San Carlo, Stéphane Lissner. Che infatti è stato reintegrato dalla giudice del lavoro. 

Particolarmente cavilloso ma plateale è il trucco con cui a maggio il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano aveva fatto fuori il prestigioso Lissner per far posto a Fuortes. Poiché l'ex sovrintendente francese dell'Opéra parigina e della Scala milanese aveva appena compiuto 70 anni, ecco un bel decreto su misura, 'contra personam', che inventava il pensionamento coatto per i sovrintendenti ultrasettantenni. E quattro giorni dopo - guarda caso - arrivano le dimissioni di Fuortes, presidente Rai inviso al nuovo governo di centrodestra, che accetta lo scambio con Napoli. 

Ora, fra teatri dell'opera e opere buffe e tragiche di orse affamate, spaventate, assassine o assassinate, la surreale situazione è questa: F36 e Fuortes in libertà, JJ4 imprigionata in un recinto ma non verrà giustiziata, il fucilatore di Amarena già giustiziato mediaticamente dagli animalisti, Lissner che riconquista i suoi due anni residui di contratto fino al 2025 (mezzo milione di euro). Mentre ai genitori di Papi non resta che ricordarlo sulla sua tomba.

 "Non possiamo accusare gli orsi di fare gli orsi", dicono in coro Wwf, Lav, Lac. Né possiamo accusare i politici di fare i politici, inventando sentieri inverosimili per eliminare gli avversari a spese dei contribuenti. 

Quanto ai magistrati, uno di loro a Brescia ha appena affermato che neanche i maschi islamici bengalesi che picchiano le mogli sono accusabili di continuare a essere se stessi, facendo i mariti maneschi: la loro natura li assolve. E pazienza se si sono trasferiti da Dacca alla Lombardia, in una cultura diversa. 

Anche gli orsi trentini in fondo li abbiamo importati dalla Slovenia, così come Lissner dalla Francia. E l'ottimo Fuortes prima o poi troverà un'altra sistemazione, dopo il suo sfortunato pendolarismo Napoli-Roma. Magari un Tar ora lo nomina capo del Parco nazionale d'Abruzzo, e insedia un'orsa al San Carlo: tanto, ormai decidono quasi tutto i magistrati. Confidiamo in un loro intervento anche per abbassare le rate dei mutui ingiustamente raddoppiate. 

Wednesday, September 06, 2023

L'estate in cui Vannacci fa rima con Catenacci


di Mauro Suttora


Acci Tour. Il grottesco Vannacci gira l'Italia in cerca del suo popolo. Nulla da noi sfugge all'operetta, anche se l'operetta è morta da un secolo

Bisogna avere almeno 50 anni per ricordarsi di Ermanno Catenacci. Era un ex federale fascista, personaggio fantastico inventato da Giorgio Bracardi per il programma radio 'Alto gradimento' di Renzo Arbore, che negli anni '70 spopolò all'ora di pranzo.


Huffingtonpost.it, 6 settembre 2023


Facile, quasi automatico per noi boomers accostarlo al nuovo Acci, suffisso del generale che ha movimentato le chiacchiere estive. Ma che minaccia di proseguire anche in autunno, perché Acci junior ora si è imbarcato in un tour di presentazioni del suo libro. Debutto in Versilia e seconda tappa l'altra sera a Cagliari, visto che lo Schopenauer della destra era in vacanza nella vicina Costa Rei.


Nulla in Italia sfugge all'operetta, anche se l'operetta è morta da un secolo. Sostituita dal cabaret, e poi da Arbore e Zelig, Crozza e Gialappa's. È questo divertente spettacolo ad attendere gli "astanti", così Acci chiama i discepoli che accorrono per conoscerlo di persona. Non hanno dovuto fare la fatica di entrare in libreria, luogo per molti di loro esotico, allo scopo di acquistare la summa filosofica acciana. Essa infatti si compra online, e in quasi centomila hanno versato venti euro ad Amazon in meno di un mese. 

I conti sono presto fatti: poiché le royalties dei libri autopubblicati stanno sul 50%, il generale Acci veleggia attorno al milione di incassi. Rapido come la Folgore. E infatti ringrazia di cuore i giornalisti di Repubblica, Matteo Pucciarelli, e Corsera, Aldo Cazzullo, che lo hanno creato come personaggio sollevando il suo caso.


Il pubblico acciano è ben disposto ad ascoltarlo, comodamente seduto nell'ora dei borborigmi postprandiali. Dopo salamelle e birrette arriva il momento del ruttino, e contemporaneamente ecco affacciarsi il generalissimo sul palco. Spiega la prima delle sue due massime perle: "Ho scritto che la bravissima Egonu non è la tipica italiana? Anche le mie figlie, che sono qui in prima fila, non sembrano le tipiche sarde".

Gelo del pubblico cagliaritano, disorientato perché le battutacce di Acci hanno spesso un doppio senso: la campionessa di pallavolo era stata infilzata per il colore della pelle, ma con l'aggravante sottintesa delle sue scelte sessuali saffiche. Due bersagli in uno.

Quanto al classico "Amici omosessuali non siete normali", Acci si vanta di avere gestito senza problemi soldati gay nelle sue truppe in giro per il mondo, dall'Afghanistan all'Iraq. E chi lo accusa sarebbe un quaraquaqua, qualsiasi cosa voglia dire.


È in queste dolci sere di tarda estate che si dipana la precoce campagna elettorale di Acci. Chissà se l'11 settembre qualche sventurato "sinistroide" lo accosterà a quell'altro generale in Cile, di cui quest'anno ricorre l'anniversario a cifra piena, mezzo secolo dal golpe.

Macché Pinochet: con Acci e i suoi accini, così come con Grillo e i grillini, il buffo al massimo si stempera nel ridicolo. Sarebbe grave promuoverlo a grave, facendogli così un ulteriore regalo dopo la rimozione dal comando dall'Istituto geografico militare: una naftalina da cui un uomo d'azione 54enne (quindi giovane) come lui è volentieri evaso.


Quanto ai seguaci, lo plebisciteranno all'Europarlamento, convinti di avere trovato finalmente il loro massimo maitre-à-penser. Altro che Tolkien o Ezra Pound, Céline (chi, Dion?) o Evola, Buttafuoco o Veneziani: troppo pensierosi e contorti, loro vogliono il sano e semplice buonsenso qualunque di Acci. 

Peccato solo che il 90enne Bracardi non abbia più l'età per effettuare una clamorosa rentrée, riesumando la sua stentorea macchietta. "Acci tua", urlerebbe. 

Tuesday, August 22, 2023

Viva la diversità, abbasso la normalità



Se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il "Mondo al contrario", rischiamo di regalargli il fascino di Franti

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 agosto 2023

Ho letto per curiosità il libro del generale Roberto Vannacci. Tutti criticano la sua frase "I gay non sono normali". Lui ci mette cinque pagine per arrivare a questa conclusione, consultando le stime sulla percentuale di gay nei vari Paesi, pare sotto il 5%. Certo, tutto dipende dal valore che si dà alla parola "normale". Se la "norma" fosse quella stabilita o praticata dal 95%, i gay sarebbero "anormali". Ma questo il generale non lo scrive, suonerebbe offensivo.

Nel 1974, quando cominciai a frequentare la sede del partito radicale a Udine, i ragazzi del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) erano invece orgogliosi di essere 'diversi', rivendicavano la loro 'non normalità'. Se qualcuno li avesse definiti normali, lo avrebbero insultato. "Diversi ma non perversi", era lo slogan del leader radicale Marco Pannella e del fondatore del Fuori Angelo Pezzana. Era mezzo secolo fa. Il mio nonno liberale (anzi, da laico illuminato votava più a sinistra: per il repubblicano Ugo La Malfa) definiva i gay "pederasti, invertiti, degenerati". 

Nel mio liceo ero l'unico radicale. Questo bastava perché alcuni compagni buontemponi mi prendessero in giro mettendosi spalle al muro quando mi incrociavano, dicendo "Occhio al culo, arriva il 'fenulli' (finocchio in friulano, ndr)". I radicali non hanno mai fatto campagna per il matrimonio gay. Una volta chiesi a Pannella perché. "Il matrimonio etero non ci interessa, perché dovremmo batterci per estenderlo agli omosessuali?".

Insomma, forse perché i gay radicali (cioè quasi tutto il movimento gay prima dell'Arcigay) si consideravano anche rivoluzionari, le nozze erano fuori dal loro orizzonte. Non avevano ansia di accettazione, anzi detestavano ogni "omologazione", concetto pasoliniano che era la loro (e nostra) stella polare. 

È morto da poco Francesco Alberoni. Per comprendere la parabola dei gay ci soccorre la sua descrizione del passaggio inevitabile dei movimenti dalla fase di stato nascente a quella di istituzione. Tutti i movimenti di liberazione, dagli omosessuali alle femministe, dai neri d'America agli antimilitaristi, hanno seguito lo stesso percorso. Dopo il riconoscimento hanno voluto posti in parlamento, cattedre universitarie, finanziamenti pubblici, spazi politici. Il potere, insomma. Perché va bene la controcultura degli anni 60-70 e i figli dei fiori, ma "flowers have no power", come ammonì Herbert Marcuse. Così, per esempio, perfino Martin Luther King fu contestato da Malcolm X e accusato di 'ziotommismo' dalle Pantere Nere che ne contestavano il cauto riformismo con sponda nei presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson. 

Oppure, si parva licet componere magnis, ricordo personalmente la degenerazione del movimento antimilitarista in Italia dopo la conquista del diritto all'obiezione di coscienza contro il servizio militare nel 1972. Nacque la Loc (Lega obiettori di coscienza), che fatalmente smise di contestare le spese militari, cioè di "fare politica", riducendosi a sindacato degli obiettori. Normalizzata. 

Questo a sinistra. Ma anche a destra si ripetono a cent'anni di distanza le stesse dinamiche, ogni volta che i rivoluzionari entrano nelle istituzioni, e ancor più quando conquistano il potere. Le ghette che Benito Mussolini per la prima volta indossò per ricevere dal re l'incarico di primo ministro equivalgono alla soggezione di Giorgia Meloni nei confronti di Joe Biden e Ursula von der Leyen. 

Nel 1923 i sansepolcristi protestarono inutilmente per l'imborghesimento del fascismo; oggi, sempre si parva..., non sarà un Gianni Alemanno a rinfocolare la fiamma nel cuore di Giorgia. E allora, figurarsi Guido Crosetto, che fascista non è mai stato: ci ha messo tre secondi a far liquidare il generale della Folgore e il suo linguaggio, appunto, da caserma.

Il povero Vannacci tutto sommato nelle sue 350 pagine autopubblicate (un po' da pezzente: neanche un editore ha trovato?) si è limitato a mettere insieme la paccottiglia che i giornali di centrodestra e i talk di Rete4 ci ammanniscono ogni giorno. Ma viene impiccato per due o tre scivolate semantiche. E quella sui gay, paradossalmente, è massimamente rivelatrice. Perché dice di più sulla normalizzazione degli omosessuali che non su quella dei fascisti.  

Mezzo secolo fa i perbenisti stavano a destra e gli scostumati (altra parola desueta) che li scandalizzavano si collocavano a sinistra. L'odioso 'Signor Censore' della canzone di Edoardo Bennato era un democristiano clericale. Oggi è il contrario: nell'era della suscettibilità (copyright Guia Soncini) a offendersi per la parola "anormale" reclamando sanzioni è la sinistra. 

Il problema è che se bacchettiamo il generale bacchettone, trasformandolo in vittima ululante alla censura, in provocatore contro il 'Mondo al contrario' (titolo del suo libro), rischiamo di regalargli il fascino di Franti. La stessa aura da ribelle che avvolgeva Pannella e che mi attrasse quindicenne, curioso allora come oggi, in quella sede radicale piena di 'diversi' a Udine. Anche se io, a dire il vero, cercavo più che altro belle ragazze femministe. Poco importa se normali o anormali.

Wednesday, August 09, 2023

Addio smart working. Anche Zoom rinnega le riunioni su Zoom

Si torna a lavorare in presenza e il paradosso è servito: anche la regina delle videoconferenze saluta le videoconferenze e riconvoca i suoi in ufficio, se non li ha già licenziati

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 9 agosto 2023

È finita un'era. Perfino Zoom, la società californiana diventata simbolo del lavoro a distanza durante la pandemia, ora chiede ai propri dipendenti di tornare in ufficio: "Quelli che abitano entro 50 miglia (80 km, ndr) dalla sede si presentino a lavorare di persona almeno due giorni alla settimana".

Addio smart working. Tutte le aziende del mondo stanno riducendo il lavoro flessibile da casa. Diminuiscono le riunioni online su Zoom, che infatti sta pagando il prezzo maggiore di questo ritorno alla presenza fisica: in febbraio ha licenziato 1.300 dipendenti, uno su sette. Il suo fondatore e a.d. Eric Yuan si è ridotto del 98% lo stipendio: da mezzo milione a 10mila dollari annui (poco male, gli restano tre miliardi di patrimonio personale). 

Un tempo le ere (geologiche) duravano 30mila anni. Quelle storiche duravano 2-300 anni: alto medioevo, rinascimento, età industriale. Adesso dopo tre anni le annunciatissime "nuove ere" risultano già obsolete. Nel 2020 tutti a festeggiare, pur fra i lutti del virus: si poteva lavorare da casa. Ecco finalmente, se non la mitica liberazione dal lavoro, almeno l'abolizione degli snervanti tragitti casa-ufficio. Il lockdown permetteva a chi lavora col computer di starsene tranquillo in famiglia, grazie all'unico ausilio di una linea wi-fi e a occasionali riunioni su Zoom. 

E invece, "la festa appena cominciata è già finita", come cantava Sergio Endrigo vincendo Sanremo. Noi ci illudevamo di aver vinto sullo stress da pendolari, e mai pensavamo che solo 36 mesi dopo avremmo dovuto difendere con accanimento lo smart working piovutoci addosso col covid, un po' per caso e un po' per disgrazia o fortuna, a seconda dei casi. Perché c'è anche una minoranza che detesta lavorare da casa: appartamenti troppo piccoli o bui, vicini troppo rumorosi, coniugi fastidiosi, figli felici ma invadenti.

Inutile negarlo, c'è anche chi ne ha approfittato: "Sono nella mia villa in Sardegna", mi telefona ogni tanto un amico. "Ah, beato te, già in ferie?" "No, smart working". Lavoro agile, anzi agilissimo.

Cosicché ora le trattative sindacali si combattono sui giorni in più o in meno da lavorare a casa. Di solito ci si incontra a metà: molte aziende come Zoom concedono un "approccio ibrido strutturato", un po' in sede, un po' a domicilio. Anche perché alcune hanno approfittato per risparmiare sugli affitti: scrivanie e interi piani tagliati, molti impiegati non dispongono più di un tavolo personale e quindi i turni sono obbligatori. 

Il dietrofront sul ritorno a casa ha coinciso poi con l'esplosione del costo dei mutui. Fino a un anno fa tutti a cercare abitazioni più grandi, più belle, nel verde: la nuova stanzialità necessitava di più stanze. E chi se ne importava se si finiva lontano dal centro città: la nuova era smart, intelligente, non prevedeva più centri. Se la connessione è buona, ci si può collegare anche da un atollo del Pacifico. 

Illusi. Ora il mercato immobiliare è tornato alla briglia corta. È resuscitato il guinzaglio della vicinanza all'ufficio, o almeno al metrò, alla stazione, allo svincolo autostradale. E prima di traslocare in una casa nuova si consultano i tassi dei mutui, si maledice la Christine Lagarde della Bce, e alla fine spesso tocca rinunciare. 

Felicissimi invece i capuffucio rimasti allo stadio anale freudiano. La loro mania e smania di controllo diretto sui Fantozzi sottoposti viene ripristinata dal ritorno in sede. "È l'occhio del padrone a ingrassare il vitello", si giustificano. In realtà le misurazioni sulla produttività a distanza o in presenza non sono univoche. Ma certo quel consigliere comunale grillino milanese che si collegò nudo a una riunione Zoom mentre faceva la doccia a casa, ignaro di essere visto, non potrà ripetere il suo exploit.

 

Thursday, August 03, 2023

Caro Briatore, ma pure lei considera diffamatorio essere indicati come clienti del Twiga?



In un’intervista al Corriere giustifica la querela mossa da Boccia al Foglio: “Se hanno scritto il falso, fa bene”. Ma, anche se è falso, non è infamante: almeno lui dovrebbe pensarlo e dirlo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 3 agosto 2023

Inarrivabile Flavio Briatore. Oggi sul Corriere della Sera dice all'intervistatrice Candida Morvillo che Francesco Boccia, presidente dei senatori pd, ha fatto bene a querelare il quotidiano Il Foglio per averlo indicato come frequentatore del Twiga. Ma come: lo stesso proprietario dello stabilimento balneare di Marina di Pietrasanta (Lucca) considera diffamatorio essere accostati al suo locale?

Contestualizziamo. Daniela Santanchè, ministra del Turismo e senatrice di Fratelli d'Italia, indagata per bancarotta e falso in bilancio, subisce un dibattito parlamentare con la richiesta di dimissioni da parte delle opposizioni. Per difendersi contrattacca: "Quanti di quelli che ora mi accusano sono stati miei ospiti al Twiga?"


La perfida Santanchè non fa nomi, ma il superperfido Foglio scrive che a quel punto molti senatori si sono voltati verso l'abbronzatissimo Boccia. Il quale fa subito partire un comunicato stampa del gruppo per annunciare vie legali.

Vera o falsa, la frequentazione del Twiga non dovrebbe apparire disdicevole. Soprattutto per il suo proprietario, al quale Santanchè ha girato metà della propria quota di proprietà dopo la nomina a ministro (l'altra metà è andata al suo compagno Dimitri Kunz). E invece Briatore, che noi ammiriamo perché riesce a far pagare cento ai ricchi cose che costano dieci, favorendo così la redistribuzione del reddito tanto invocata a sinistra, sembra dar ragione a chi considera tutte le sue creazioni, dal Billionaire al Twiga (che significa 'giraffa' in swahili), sentine di dubbia fama.

L'eterno dibattito ricchi/poveri si arricchisce così di un ulteriore avvincente capitolo. Il furbo Menenio Agrippa 2.500 anni fa riuscì a convincere i plebei di essere indispensabili quanto i patrizi. Però i primi erano come le gambe del corpo umano, i secondi lo stomaco. Poi, da Spartaco a Marx, i poveri si sono incattiviti contro lo stomaco che si limita a magnare, mentre agli altri organi tocca lavorare.

Da un quarto di secolo invece abbiamo il filosofo Flavio che teorizza la trinità "làcciori, fescion e glemor" come nuovo orizzonte interclassista. A giudicare dalle frotte di giovani neoproletari (mille € al mese) che proprio in queste notti, come ogni agosto, buttano nel suo Billionaire di Porto Cervo i risparmi di un anno, ha ragione lui.

In mezzo restano i politici. Ricchi o poveri? Devono vergognarsi per una cena chez Briatore e Santanchè a Forte dei Marmi, o esibirla come hanno fatto gli spregiudicati Maria Elena Boschi e i suoi due scudieri renziani poche sere fa?

La risposta all'ineffabile Piero Fassino, che sventola in aula i suoi miseri 4.700 € mensili netti. Dimenticando gli altri 10mila di fringe benefit che fanno il benessere di un parlamentare. Ma, come direbbe il maitre-à-penser di Monte Carlo, Versilia, Costa Smeralda e Dubai, le inibizioni sono "cose da poveri". 

Quindi, caro Boccia, vai a spendere allegramente da Briatore i tuoi soldi, invece di sperperarli in avvocati. E porta pure tua moglie: è perennemente invitata anche lei sotto i suoi ombrelloni da mille € al giorno e nelle splendide serate "fudenbeveregg".


Wednesday, August 02, 2023

Basta fake news. Sarkozy non "attaccò" la Libia

Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Notizia falsa

di Mauro Suttora
Huffingtonpost.it , 2 agosto 2023

Mi arrendo, hanno vinto i grillini. Oggi perfino il Corriere della Sera, con un editoriale in prima pagina dell'ottimo Federico Rampini, sostiene che l'Italia fu "vittima di una scellerata decisione francese, quella di Nicholas Sarkozy che nel 2011 ebbe un ruolo determinante per l'attacco militare contro Gheddafi".
Nell'ultimo decennio la propaganda non solo dei 5 stelle, ma anche dei sovranisti di Lega e FdI, degli estremisti di sinistra e perfino di qualche sprovveduto berlusconiano, ha incolpato la Francia di aver eliminato il dittatore libico per fare un dispetto all'Italia. Fake non solo infondata, ma probabilmente inventata e sicuramente amplificata dai canali Telegram putiniani.
Sarkozy non "attaccò" la Libia. Semplicemente, il 17 marzo di dodici anni fa promosse la risoluzione numero 1973 dell'Onu, assieme a Usa, Regno Unito e Lega Araba, per proteggere i civili di Bengasi che si erano sollevati contro il dittatore nel quadro delle Primavere arabe. Risoluzione accettata anche da Russia e Cina, che si astennero e non misero il veto.
Dopo le cacciate del presidente tunisino Ben Ali e dell'egiziano Hosni Mubarak era arrivato il turno di Gheddafi. Il quale però, più coriaceo, non esitò a inviare i suoi tank contro la folla della capitale cirenaica. Era questione di ore.
Per evitare una strage tipo Srebrenica o Ruanda fu lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy a pressare il riluttante Sarkozy affinché facesse dichiarare dall'Onu una No fly zone sulla Libia. E il presidente francese a sua volta dovette faticare per convincere quello Usa Barack Obama, il quale dopo i fiaschi di George Bush jr in Afghanistan e Iraq non voleva altri coinvolgimenti esteri.
Ma gli Stati Uniti erano gli unici con la capacità tecnica di far rispettare con i suoi aerei la No fly zone sulla Libia. Quindi Obama accettò malvolentieri, con l'assicurazione che non ci sarebbero stati "boots on the ground" per i soldati Usa, niente interventi terrestri.
Perciò è falsa la vulgata grilloputiniansovranista di un Sarkozy giustiziere di Gheddafi. All'implementazione della risoluzione Onu sulla Libia partecipò un'ampia coalizione di Paesi, comprese le pacifiste Svezia e Norvegia.
La prova che la Francia non ha approfittato della cacciata di Gheddafi a scapito dell'Italia, d'altronde, è arrivata negli anni successivi. La francese Total non ha mai spodestato la nostra Eni come maggior estrattore di petrolio e gas in Libia. E oggi a Tripoli e Bengasi spadroneggiano milizie libiche, turchi, i russi di Wagner: chiunque, tranne i francesi.
Detto questo, fu un errore far cadere Gheddafi? Col senno di poi, forse sì. Però in quei giorni concitati fu non solo legittimo, ma doveroso proteggere i civili libici insorti spontaneamente contro un satrapo sanguinario che li opprimeva da 42 anni.
Ero lì in quei giorni, come giornalista. Sembrava che la Libia potesse autogovernarsi. Professionisti, ingegneri, medici, avvocati, molti tornati dall'esilio, si impegnarono nell'amministrazione provvisoria. Che però dopo qualche mese fu spazzata via da islamisti, militari e cosche tribali.
Si dice: almeno Gheddafi manteneva l'ordine e impediva il traffico dei clandestini verso l'Italia. Ma condannare un intero popolo a subire la dittatura pluridecennale di uno squilibrato non era possibile. Il tirannicidio è giustificato perfino dalla Chiesa cattolica. E sarebbe stato razzista bollare un Paese come non abbastanza maturo per la democrazia.
Neanche in Tunisia ed Egitto d'altronde è finita benissimo, dopo le primavere speranzose del 2011. La democrazia tunisina oggi è minacciata da un presidente autoritario e dalla crisi economica. E il Cairo si è rassegnato ai muscoli di Abdel Al Sisi dopo qualche anno di leggiadra follia dei Fratelli musulmani, così simili ai grillini quanto a incompetenza nel governare.

Insomma, Sarkozy ha tante colpe e le sta pure pagando. Ma basta, per favore, con la frottola di un suo complotto anti-italiano in Libia.