Tuesday, June 29, 2021

Rottura Grillo-Conte

CAOS M5S/ “Oggi Grillo dirà no a Conte, che farà una sua Dc con il Pd”

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 giugno 2021

Sfida M5s. Conte vuole un partito vero, non vuole essere un “prestanome”, né gli va bene una diarchia. Oggi la replica di Grillo

“Beppe ritiene che tutto vada bene così com’è salvo alcuni aggiustamenti” dice Conte in conferenza stampa. Lui invece, l’ex premier, dice di non potersi impegnare in un progetto in cui non crede, segnato da quelle che definisce “ambiguità”. E poi un duro colpo all’indirizzo del garante: nessuna diarchia, no “a un leader ombra affiancato da un prestanome”, serve “una profonda ristrutturazione” (grazie al nuovo statuto elaborato dall’ex capo del governo), “una più chiara identità politica”.

La sfida per la leadership di M5s “è un braccio di ferro in cui ormai è difficile che uno dei due non perda la faccia” dice Mauro Suttora, giornalista e scrittore, un libro sui confini, ex inviato dei settimanali Europeo e Oggi, attento osservatore dei 5 Stelle. 

Ormai è una guerra di nervi e di comunicazione. Per Suttora, entrambi cercano di evitare lo spettro di Monti: una lista, più o meno personale, intorno al 10 per cento. E dire che una soluzione l’avrebbero; ma non la vogliono, o non la vedono.

In serata era annunciata la risposta di Grillo, poi il garante rinvia e dice che risponderà oggi. Cosa succede intorno all’“elevato”?

È un braccio di ferro in cui ormai è difficile che uno dei due non perda la faccia. Conte ha mandato in confusione Grillo, che ora ha paura di compiere un passo falso.

Su cosa staranno ragionando Grillo e il suo entourage?

La pretesa di Conte di fare votare il suo statuto così com’è, senza possibilità di emendarlo né da parte di Grillo né dei parlamentari, è irricevibile. E senza Conte i grillini crollano attorno al 10%.

Se il primo comandamento politico è rimanere in partita, chi oggi assicura di più questo obiettivo al Movimento? Grillo o Conte?

Entrambi. Conte c’è da tre anni, Grillo da trenta, visto che è dall’inizio degli anni 90 che i suoi spettacoli hanno assunto un’impronta politica. Da 15 anni invece è impegnato direttamente: prima coi Meetup, poi con gli amici di Grillo, e infine, dal 2009, con il Movimento 5 Stelle. Difficile che ora lui e i grillini della prima ora rinuncino a tutto, affidandosi mani e piedi a Conte, il quale fino al 2018 manco sapeva cosa fosse il M5s, non aveva mai partecipato a una sua iniziativa, e tuttora non è iscritto.

“Non ha senso imbiancare una casa che necessita di una profonda ristrutturazione”, ha detto Conte riferendosi a Grillo. Cosa vuole realmente l’uno e cosa vuole l’altro?

È proprio questo il loro dramma: nessuno affronta problemi concreti. Il loro dissidio non è sulle soluzioni da dare, non si dividono su quello. È soltanto uno scontro di ego: comando io, comandi tu. Come quando da bambini giocavamo e litigavamo su chi era il capo.

Dunque sono le personalità ad essere inconciliabili.

Sì e no. Sono agli antipodi: Grillo è irruento tanto quanto Conte è pacato. Tanto il primo è provocatorio, tanto il secondo è mellifluo. Poi, nelle coppie tutto può capitare. Poiché gli opposti si attraggono, se sapessero fondersi sarebbero un duo perfettamente complementare.

La mitica “base” di M5s, puntualmente evocata, ammesso che ci sia ancora, con chi sta?

I registrati alla piattaforma di Casaleggio non pagano un cent per l’iscrizione, che è gratuita. E quel che non costa niente non vale niente. Molti sono stati iscritti da amici, parenti e conoscenti che hanno bisogno di voti per farsi eleggere alle primarie online. Questa strana “base” è divisa a metà fra i fedeli al sogno originario di un movimento di rottura e la popolarità di Conte, l’unico che potrebbe arginare la frana elettorale che li ha dimezzati. Idem gli elettori.

Conte, per realizzare il suo progetto, ha ribadito di pensare ad un “campo largo”. Con chi lo fa? Con Letta? O con i voti degli elettori piddini?

Sono buffi i politici quando dicono che vogliono un “campo largo”. È ovvio che tutti mirino ad avere più voti possibile. E Conte è ormai fisso nel centrosinistra, dovrà allearsi col Pd.

Si trova una sintesi tra i due o no?

Non lo so. Se sono furbi, sì. Se sono onesti, no. Conte è un democristiano moderato, i grillini invece dicevano di essere rivoluzionari. Ma le auto blu trasformano tutti, e sia Conte che Grillo hanno già fatto parecchie capriole pur di rimanere al potere.

Rivoluzionari contro democristiani. Per forza che Grillo e i suoi non possono accettare lo statuto contiano. Sarebbe la loro eutanasia.

I grillini erano nati proprio per contestare i partiti soffocati da quegli statuti, con burocrazie, sedi e dirigenti locali. La famosa Casta. Ma loro ai valori fondanti hanno già rinunciato da tempo, e l’eutanasia si può praticare solo una volta. Parafrasando Francesco Ferrucci con Maramaldo, “tu uccidi un partito morto”.

“Una diarchia non sarebbe funzionale”, dunque no “a un leader ombra affiancato da un prestanome”, ha detto ancora Conte. Assomiglia tanto a una definizione brutale di come ha funzionato M5s fino ad oggi. Che ne pensi?

Certo. Glielo ha chiesto un giornalista nella conferenza stampa, e il povero Conte ha dovuto glissare: “Mi riferisco al futuro”.

Chiedono a Conte se ha un piano B e lui risponde che non ha doppie agende, no, non ha “nessun piano B”. Secondo te?

Se rompesse coi grillini non gli converrebbe fare una lista personale. Non avrebbe abbastanza soldi, e finirebbe come la lista Monti nel 2013, sotto il 10%.

In caso di rottura, che cosa succede? Ritieni che si vada verso la pseudo-Dc grillina che avevi preventivato, con Conte leader?

Sì, ma non avrebbe niente di grillino. Sarebbe un partito moderato.

Nel frattempo Di Maio con chi sta? Fa politica o aspetta che passi ’a nuttata?

Visto che lo statuto di Conte prevede un vicepresidente del nuovo partito, magari mira a quella poltrona. Ma penso che gli basti la Farnesina, almeno fino alle prossime elezioni. Poi uno brillante come lui non avrà difficoltà a riciclarsi.

Devi ammettere però che Di Maio non è grillino doc, è più qualcos’altro.

Di Maio, come Conte, è uno di quei meridionali con lingua sciolta e cervello fino. In più è composto come uno svizzero. Berlusconi lo adora.

Grillo non può sfiduciare Draghi perché ci ha messo la faccia. E Conte?

Nessuno può sfiduciare Draghi. Men che meno i grillini, i quali sperano che la legislatura duri il più possibile. Perché quando si voterà, di loro verrà rieletto solo uno su tre.

Federico Ferraù 

Monday, June 28, 2021

Olanda e Belgio, scherzi del destino pallonaro in una storia bimillenaria

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 giugno 2021

Tre ore hanno separato ieri il cammino di Olanda e Belgio: cacciata la prima dagli Europei a opera della Cechia, e giustiziere il secondo dei campioni uscenti portoghesi di Ronaldo. A completare l’overdose di notizie dal Benelux, nello stesso pomeriggio il premier lussemburghese Xavier Bettel ha annunciato di avere il Covid.

Scherzi del destino, ma solo gli ultimi nella storia bimillenaria di questi Paesi così vicini e lontani. Perché Gallia Belgica già si chiamava il nord della Francia nell’impero romano, eppure il Belgio ha conquistato soltanto 190 anni fa la sua indipendenza dall’Olanda, seguito a ruota dal Lussemburgo.

Tutta colpa di Lotario, il nipote di Carlomagno che nella tripartizione del Sacro romano impero ebbe la Lotaringia, oblunga creatura ficcata tra Francia e Germania, con le valli del Rodano e del Reno. Poi subentrano Lorena e Borgogna, e quando l’ultima regina borgognona sposa un Asburgo la frittata è fatta: i Paesi Bassi (Belgio più Olanda) diventano austriaci e poi spagnoli. 

Le sette province del nord, diventate protestanti, ci mettono 80 anni a cacciare gli spagnoli. Diventano la nazione più ricca e potente del mondo, sostituendo i regni iberici nei traffici oceanici. L’Olanda nel ’600 domina il pianeta da New Amsterdam (New York) a Batavia (Indonesia), passando per i Caraibi (Aruba, Curaçao, Sint Marteen), Suriname e Città del Capo. Le sue Compagnie delle Indie occidentali e orientali sono le prime multinazionali della storia.

Le guerre anglo-olandesi del ’700 stabiliscono il predominio britannico, ma l’Olanda conserva ricchezza e colonie. Intanto crescono le province cattoliche del sud (Fiandre, Brabante, Vallonia, oggi Belgio), rimaste alla Spagna e poi all’Austria.

Dopo Napoleone le Fiandre godono di un boom industriale pari a quello inglese, Anversa diventa il porto più trafficato del mondo. Ma la Restaurazione la consegna con Gand, Bruges e Liegi al regno d’Olanda, che ne approfitta per spostare i traffici sui propri porti di Amsterdam e Rotterdam. Così i belgi si ribellano e nel 1831 ottengono l’indipendenza ripristinando il confine religioso, mentre quello linguistico rimane misto: tuttora i fiamminghi parlano olandese nelle loro Fiandre, mentre i valloni sono francofoni.

Provate a usare il francese con un fiammingo a Bruxelles: vi risponderà in inglese.

Il Belgio si arricchisce enormemente fino a 60 anni fa sfruttando la colonia del Congo. Oggi Lukaku lo ha portato in cima alla classifica Fifa, ma sono milioni i suoi avi morti nelle piantagioni di caucciù.

La nazionale belga non era disprezzabile negli anni ’50, nel 1980 è battuta dalla Germania nella finale europea di Roma, però i successi internazionali arrivano solo nell’ultimo ventennio, in corrispondenza con il declino delle due grandi Olande: quella di Cruijff negli anni ’70, e lo squadrone Gullit-Van Basten-Rijkaard dieci anni dopo. 

Tuttavia per entrambe il carniere è scarsissimo: l’Olanda agguanta solo gli Europei 1988 e perde tre finali mondiali; zero titoli per il Belgio.

Mancini e Vialli ora sperano di ripetere l’impresa del 1990, quando la loro Sampdoria vinse la finale di Coppa Uefa contro l’Anderlecht di Bruxelles. Ma sarà dura quanto per Gimondi fronteggiare Merckx. È il dramma di essere campioni, ma contemporanei di un cannibale. Lo stesso problema dei ciclisti olandesi: tutti ottimi, da Zoetemelk a Mollema. Ma perennemente sovrastati dai belgi, fossero Rik Van Looy o Evenepoel. Anche perché le ‘classiche’ si corrono in Belgio: l’Olanda è piatta. Come la sua nazionale di calcio ieri.

Mauro Suttora

Wednesday, June 23, 2021

Trent'anni dopo le guerre dell'ex Jugoslavia, Slovenia e Croazia litigano ancora

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 giugno 2021

Trent'anni fa, il 25 giugno 1991, iniziò il decennio delle guerre in Jugoslavia. Slovenia e Croazia si dichiararono indipendenti, ma il presidente fasciocomunista della Serbia Slobodan Milosevic non accettò lo smembramento dell'ex dittatura di Tito, morto dieci anni prima.

Il conflitto con la Slovenia si risolse in dieci giorni con qualche decina di morti. La guerra serbo-croata invece durò quattro anni, coinvolse la Bosnia e fu sanguinosissima: quasi centomila morti.

Nel 1999, infine, l'appendice del Kosovo: per liberare la provincia albanese della Serbia evitando altri genocidi di civili come quello bosniaco di Srebrenica (settemila assassinati sotto gli occhi dell'Onu) dovette scendere in campo la Nato. Che è ancora lì, compreso il contingente italiano.

Oggi è inimmaginabile una guerra civile nel cuore dell'Europa. Slovenia e Croazia sono nella Ue, la frontiera con l'Italia non esiste più. 
Il problema è che anche trent'anni fa nessuno ipotizzava un ritorno alle armi. Anzi, il crollo del comunismo sembrava aprire un'era di pace per il nostro continente (che in effetti è tuttora in corso, a parte il buco nero jugoslavo).

Com'è potuta accadere, allora, una simile tragedia? I nostalgici del maresciallo Tito danno a lui il merito di aver mantenuto la pace per 35 anni fra cinque nazionalità, tre religioni e due alfabeti, seppure al prezzo della mancanza di libertà: "Morto lui, sono rinati gli antichi odi".

Gli storici non comunisti invece addossano proprio al regime titoista la responsabilità della seconda guerra civile jugoslava (la prima, assieme alla guerra di liberazione dai nazisti, costò un milione di morti nel 1941-45): "Gli odi etnici erano stati solo repressi dalla dittatura, ma più le pentole accumulano pressione, maggiore è lo scoppio finale".

In ogni caso, anche negli anni '90 avvennero crudeltà inimmaginabili. Quando andai in Jugoslavia per il settimanale Europeo con Gianfranco Moroldo, storico fotografo di Oriana Fallaci, scoprimmo che, come nei film di Kusturica, la guerra cominciava ogni giorno dopo le cinque del pomeriggio: quando i combattenti di entrambe le parti si ubriacavano. "Non farmi più tornare fra questi pazzi", mi disse Moroldo, "io ho visto guerre in tutto il mondo, dal Medio Oriente al Vietnam, ma questa è peggio. Non esiste un fronte definito. Di morire per un proiettile vagante non ho voglia".
Eravamo vicino a Knin, in Kraina, fra tigri di Arkan serbe cristiane ortodosse armate di cucchiai dai bordi affilati per cavare gli occhi ai nemici, e frati francescani croati cattolici che impugnavano il mitra.

E oggi? Il generale serbo Ratko Mladic, 78 anni, condannato come criminale di guerra per il massacro di Srebrenica, ha avuto l'ergastolo confermato in appello appena due settimane fa dal tribunale dell'Aia. Carcere a vita anche per il 76enne Radovan Karadzic, già presidente serbo della Bosnia, che sta per essere trasferito dall'Olanda in un carcere britannico.

Tutta la ex Jugoslavia adesso è lontanissima dalle follie omicide degli anni '90. L'Istria, rimasta indenne dal conflitto, è spartita fra Slovenia e Croazia. Ma scrivendo il libro 'Confini' (ed. Neri Pozza, 2021) ho scoperto che il loro confine marittimo nel vallone di Pirano, a pochi chilometri dall'Italia, è ancora contestato dagli opposti nazionalismi sloveno e croato. 
Lubiana reclama un corridoio di accesso alle acque internazionali, Zagabria non accetta la sentenza di arbitrato. Nel 2020 la corte europea ha dichiarato di non essere competente. 
Così continuano i sequestri di pescherecci da una parte e dall’altra. Per la gioia dei delfini, arrivati numerosi nel golfo di Trieste: sono attratti dall’abbondanza di pesce provocata dall’assenza di pescatori.
Mauro Suttora

Saturday, June 19, 2021

Caos M5s: Conte vuole una nuova Dc grillina, ma deve fare i conti con Grillo e Casaleggio

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 19 giugno 2021

Ecco l’obiettivo: fare il partito di Conte. Ci siamo?

Certo. Era ora, sono passati quasi cinque mesi dalle sue dimissioni da premier. Passati a litigare col figlio di Casaleggio, fino a estrometterlo dal partito fondato dal padre.

Grillo non vuol essere emarginato. Riuscirà a impedirlo, oppure Conte è ormai troppo forte?

Conte è forte perché i sondaggi gli danno ancora una popolarità del 50 per cento, secondo solo a Draghi. Per questo i grillini si sono affidati totalmente a lui. Contemporaneamente, Grillo si è suicidato politicamente con il video isterico sul figlio accusato di stupro e con la sue 'cineserie'.

Ma il comico di Genova resta il padre-padrone dei grillini, impossibile emarginarlo. 

Gli iscritti hanno/avranno ancora voce o andiamo verso un partito come un altro?

In realtà gli iscritti 5 stelle non hanno mai avuto voce. Sfatiamo un mito. La tanto pubblicizzata democrazia diretta si risolveva in plebisciti con domande manipolate. 'Offerte che non si possono rifiutare', come diceva Marlon Brando nel Padrino. L'unico momento in cui gli iscritti contavano erano le primarie online per scegliere i candidati alle elezioni. Ma nel 2018 molti di loro, nei collegi uninominali, e tutti i ministri esterni furono scelti direttamente da Di Maio. Fra questi c'era proprio Conte, che quindi deve eterna gratitudine a Gigi. Da anni il Movimento 5 stelle è diventato un partito uguale agli altri.


Conte che partito vuole? Facci l’identikit politico.

Conte vuole una nuova Democrazia cristiana, perché è consustanzialmente un dc. Nei modi flautati, nel trasformismo, in tutto. Vuole essere la gamba di centro del centrosinistra.

Conte riuscirà a sostituire Grillo con Travaglio?

Né Grillo né Travaglio, con i loro estremismi, possono avere spazio nel nuovo partito moderato di Conte. 

Che ruolo ha Di Maio in questa partita?

Il ruolo del pesce in barile. Deve tenersi buoni sia Conte che Grillo, per non perdere i voti moderati del primo e quelli esagitati del secondo.

Prevedi malumori nella parte che dovrebbe seguire Conte, cioè l'attuale M5s al netto di chi seguirà o ha seguito Casaleggio? Fino a.... un'altra spaccatura?

Prima o poi la spaccatura è inevitabile. Probabilmente i movimentisti come Di Battista, Lezzi, Morra e i tanti rimasti ancora nel M5s finiranno in un nuovo partito, magari usufruendo dei servizi di Casaleggio, che medita vendetta.

In che modo Conte pensa di destabilizzare o indebolire Draghi e il governo? Che partita politica intende giocare?

Conte non vuole destabilizzare il governo Draghi. Anzi, spera che duri il più possibile, perché le prossime elezioni falcidieranno i grillini, riducendoli del 60-70 per cento. Però alzerà la voce, come Salvini, per accontentare gli estremisti come Di Battista e non perdere quel tipo di elettori.

M5S è il partito italiano più filo-cinese, come può far parte di un governo ultra-atlantista? Questa contraddizione rischia prima o poi di esplodere come problema politico?

Non penso, in Italia la politica estera interessa a pochi e non sposta voti.

Dopo la fine dei rapporti con Casaleggio, come verrà risolta la spinosa questione dei debiti nei confronti dell’Associazione Rousseau?

Se i grillini daranno al figlio di Casaleggio i 250mila euro pattuiti, non ci saranno problemi. Ma spero per loro che nell'accordo rientri anche una clausola, magari segreta, di 'non concorrenzialità' alle prossime elezioni politiche. Un partitino Casaleggio-Di Battista-Paragone potrebbe rosicchiare un 5-10 per cento ai grillini. 

Letta-Conte, da tempo si annusano, ma la fusione fredda non scatta. Cambierà qualcosa? E produrrà subito effetti in vista delle prossime amministrative?

Alle amministrative di autunno grillini e Pd saranno in concorrenza. Anche dove avranno un candidato unico, come a Napoli, le liste saranno separate. Né vedo possibilità di fusione in seguito. Al massimo di annessione da parte del Pd, se i grillini andranno sotto il 10 per cento.


Qual è il tuo pronostico su Roma?

Ballottaggio Pd-centrodestra. La Raggi non dovrebbe superare il 15 per cento.


Wednesday, June 16, 2021

Euro 2020, Finlandia-Russia e gli eroici soldati sciatori che nel 1940 bloccarono Stalin

di Mauro Suttora

HuffPost, 16 giugno 2021

Oggi alle 15 si gioca Russia-Finlandia. La Russia è 38esima nel ranking Fifa, la Finlandia 54esima. Ma è la prima volta nella storia che i finlandesi riescono a qualificarsi alla fase finale di un campionato europeo o mondiale. E sono reduci dalla clamorosa vittoria sulla Danimarca, decima al mondo.
Quindi godono dell'abbrivio dell'entusiasmo, il famoso 'momentum'. Diversamente dai russi, reduci dal deprimente 0-3 contro il Belgio di superLukaku. Il Belgio guida la classifica Fifa e arrivò terzo all'ultimo mondiale, ma resta sempre un Paese di 11 milioni di abitanti rispetto ai 144 della Russia. Figurarsi se i russi dovessero sfigurare anche contro la Finlandia, che ha appena cinque milioni di abitanti.

I finlandesi noi li conosciamo bene: sono arrivati secondi nel girone eliminatorio vinto dall'Italia nel 2019, battendo Grecia, Bosnia, Armenia e Liechtenstein.
Ma gli amanti della storia conoscono la Finlandia anche per altri motivi. Indro Montanelli, innanzitutto. Che nell’inverno 1939/40 scrisse articoli memorabili per il Corriere della Sera sulla guerra Finlandia-Urss. Scatenata da Stalin il quale, d'accordo con Hitler, voleva ingoiare il pacifico Paese in base alla parte segreta del patto Molotov-Ribbentrop. La Finlandia aveva conquistato l'indipendenza per la prima volta nella storia nel 1917, dopo essere stata sempre sottomessa nei secoli a Svezia o Russia. E a 30 sottozero resistette molto più a lungo dei poveri polacchi, appena spartiti fra nazisti e comunisti. Una guerra epica: 115 aerei finlandesi contro 2.300 sovietici.
Cosicché all'armistizio del marzo 1940 Stalin dovette accontentarsi di annettere la Carelia.

Nel dopoguerra, e fino al crollo del comunismo, la Finlandia ha poi dato il proprio nome allo stato di soggezione in cui cadono certe Nazioni deboli, succubi di vicini potenti e arroganti: "finlandizzazione". Urho Kekkonen, vecchio ed eterno presidente finlandese dagli anni 50 agli 80, guidava in sostanza un Paese satellite di Mosca, anche se rimaneva una libera democrazia. In cambio la Finlandia ebbe le Olimpiadi del 1952 e la conferenza di pace del 1975. Anche oggi a Cina e Russia piacerebbe 'finlandizzare' l'Europa intera.
Il terzo motivo per cui la Finlandia è conosciuta in Italia è la sua lingua impossibile: "ugrofinnico" è sinonimo di incomprensibile.

Il massimo dell'indecifrabilità fu raggiunto dall'incredibile impresa del 28 maggio 1987, quando il 18enne tedesco Mathias Rust riuscì a volare da Helsinki a Mosca su un piccolo aereo privato, atterrando industurbato davanti al Cremlino. Quella perforazione del massimo apparato militare mondiale da parte di un pacifista brufoloso provocò all'impero sovietico un'umiliazione da cui non si riprese più.  
Dopo di allora la Finlandia non ha più fatto notizia. Perché è un Paese civilissimo, dove quindi non succede mai niente. L'unica epopea è stata quella della Nokia, gigante dei telefonini negli anni 90, poi crollata e ora risorta. Questo articolo è scritto su un Nokia.

Per il resto, il maggior brivido che può scuotere la felice e monotona vita di un abitante di Helsinki è quello di imbarcarsi la sera dei weekend su un traghetto per Tallinn (Estonia). Oltrepassato il limite delle acque territoriali, sbronze a volontà: sui liquori non grava più la supertassa che cerca di limitare la piaga dell'alcolismo. Andate a vedere il film 'Un altro giro' e capirete.

Perciò, se alle 17 di oggi i calciatori finlandesi vincessero o anche solo pareggiassero contro la Russia, finirebbero nei libri di storia come gli eroici soldati sciatori finlandesi del 1940.
Mauro Suttora

Sunday, June 13, 2021

Quando la Sardegna “confinava” con il Principato di Monaco

Alla scoperta delle tante storie dei confini italiani con Mauro Suttora

di Roberto Roveda

Unione Sarda, 13 giugno 2021

A cavallo del Terzo millennio ci siamo sentiti tutti un po’ globalizzati e i confini sono sembrati retaggio di un passato destinato a cedere sempre più il passo alla libera circolazione delle persone, dei prodotti e delle idee. Nel giro di pochi anni però le cose sono cambiate rapidamente e drammaticamente, facendo tornare d’attualità le frontiere. Prima le crisi economica, poi l’aumento dei flussi migratori ed infine la pandemia da Coronavirus hanno fatto riapparire quei controlli sulle linee di confine che erano scomparsi da anni. 

Abbiamo così in un certo senso riscoperto che l’Italia prima o poi “finisce” per lasciare posto ad altre terre, lingue, culture e amministrazioni. Già, ma dove nascono i confini terrestri della nostra Penisola? E veramente, come si pensa spesso, coincidono con le Alpi e sono rimasti immutati nel corso dei secoli?

Le cose non sono così semplici, come ci racconta il giornalista Mauro Suttora nel suo Confini (Neri Pozza, 2021, pp. 288, anche e-book), vera miniera di storie, aneddoti e segreti riguardanti le frontiere italiane. Nel libro riviviamo, infatti, le tante vicissitudini attraverso le quali si sono formati i limiti geografici e linguistici del nostro Paese. 

Storie ricche di sorprese, dato che abbiamo terre patrie in cui si parla il tedesco (Alto-Adige), francese (Valle d’Aosta) e lo sloveno (nel Friuli) mentre l’italiano è l’idioma più diffuso in alcune aree della Svizzera ai confini con la Lombardia.

Storie inaspettate se pensiamo che per qualche decennio la Sardegna ha “confinato” addirittura con il Principato di Monaco, come ci conferma proprio Mauro Suttora:

“Per più di trent’anni, dal 1815 al 1848, il regno di Sardegna, che riuniva oltre all’isola, il Piemonte e la Liguria, aveva i propri confini in comune con il Principato monegasco, che all’epoca era grande dieci volte di più rispetto ad oggi e comprendeva anche Roccabruna e Mentone. Allo stesso tempo il regno sardo confinava con la vicina Francia. Insomma, per quanto sia un’isola la Sardegna non è per nulla estranea alle dinamiche di confine. Anzi, alla fine, la Sardegna è forse il regno antecedente all’Italia di cui mi occupo di più data la complessità delle vicende della nostra frontiera occidentale, quella con la Francia. E i sardi non sono estranei per nulla alle vicende delle nostre frontiere orientali come insegnano le vicende della Prima guerra mondiale”.

Ma cosa c’entra la Sardegna con i confini durante la Grande guerra?

“Per conquistare Gorizia nell’agosto 1916 muoiono cinquantamila soldati italiani contro quarantamila austriaci. In particolare, la battaglia di Doberdò del 6 agosto è ricordata come una delle più sanguinose della Prima guerra mondiale: cinquemila morti italiani, tremilacinquecento austriaci. Viene soprannominata “battaglia dei popoli” perché combattuta dai sardi della brigata Sassari contro reparti asburgici anch’essi a forte connotazione etnica: ungheresi, rumeni e sloveni”

Quello di Gorizia è un confine veramente tribolato…

“Come tutto il confine orientale, la cui costruzione è costata all’Italia seicento mila morti durante la Prima guerra mondiale e altre migliaia durante la Seconda, con tutto il corollario di esodi di popolazioni, stragi, foibe. Basti dire che Gorizia è passata di mano ben sette volte tra il 1916 e il 1946, un record mondiale!”.

Ma tutti i confini nazionali sono stati il frutto di lotte tanto terribili?

“Fortunatamente no. Il confine con la Svizzera è in pace da più di cinquecento anni, con l’eccezione delle guerre per il controllo della Valtellina, in Lombardia, che è stata occupata dagli Svizzeri dal 1512 al 1797. Il confine con la Francia ha una vicenda molto movimentata, piena di storie da raccontare però non ci è costato in termini di lutti quanto la frontiera orientale”.

Davvero la Francia ha cercato anche annettersi la Valle d’Aosta in anni non lontanissimi?

“Si, accadde nel 1945 e a favorire il tentativo fu il generale De Gaulle. A fermarlo fu una inedita convergenza d’intenti tra partigiani e fascisti”.

Ma noi italiani conosciamo i nostri confini?

“Assolutamente no. Siamo rimasti fermi a Mazzini che diceva che il nostro Paese ha i confini più belli, addirittura ‘sublimi’, perché è delimitato dalle Alpi a nord e dal mare a sud”.

E non è così?

“Ci sono moltissimi posti dove il confine terrestre con coincide con lo spartiacque delle Alpi. Come dico nel libro la pipì degli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) e Tarvisio (Udine) non finisce nel Po, ma nel mar Nero, attraverso il Danubio. In Lombardia, la Val di Lei, in provincia di Sondrio, fa parte invece del bacino idrografico del fiume Reno. Se aggiungiamo il fatto che spesso confini linguistici e geografici non coincidono per nulla - con il tedesco, il francese e lo sloveno parlato in terra italiana - abbiamo già capito quanto ci sia da scoprire sulla storia delle nostre frontiere”.

Roberto Roveda

Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Saturday, June 05, 2021

I socialisti che diventarono fascisti





















La tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del libro di uno dei suoi principali collaboratori

di Mauro Suttora 

HuffPost, 4 giugno 2021

La maggioranza dei dirigenti socialisti italiani aderì al fascismo. È questa la tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del nuovo libro di uno dei suoi principali collaboratori: Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea all’università di Napoli, autore di ‘I socialfascisti’ (D’Amico editore, 2021).

“Furono tanti i socialisti che aderirono al fascismo, o si ritirarono dalla politica, o scrissero a Mussolini facendo atto di sottomissione, collaborando e affiancando il regime”, scrive Alosco. “In confronto a loro i socialisti fuoriusciti all’estero o clandestini in Italia appaiono una minoranza trascurabile”.

Senza nulla togliere agli eroi dell’antifascismo come Pertini, Nenni, i fratelli Rosselli, Lelio Basso o Ernesto Rossi, insomma, nel decennio del consenso al regime (1928-38) fra i socialisti prevalsero rassegnazione e “indifferentismo” (la definizione sconsolata che i marxisti ‘scientifici’ davano da Parigi della situazione italiana).

Alosco esamina i casi più eclatanti di passaggio dalla sinistra al fascismo. Arturo Labriola, fondatore del partito socialista a Napoli, economista, deputato, ministro del Lavoro con Giolitti nel 1921, finì sull’Aventino e scappò in Francia. Ma nel 1935 tornò clamorosamente in Italia, lodando Mussolini per la guerra d’Etiopia. Il duce lo ricevette in nome del comune passato soreliano, e trovò lavoro a lui e al figlio. Più in là il collaborazionismo di Labriola non si spinse, ma tanto bastò perché il partito socialista gli negasse un seggio alla Consulta nel 1945. 

L’anno dopo si fece eleggere in una lista liberale, e fu senatore fino al 1953 tornando a sinistra, tanto che fu capolista Pci alle comunali di Napoli nel 1956.

Un altro caso scandaloso fu quello di Emilio Caldara, primo sindaco socialista in una grande città, a Milano dal 1914 al 1920. Grazie alla sua buona amministrazione divenne più popolare di Turati, e portò il Psi al trionfo elettorale del 1919: primo partito col 32% (allora i fascisti ebbero solo 4mila voti).

Dopo lo scioglimento dei partiti e l’inizio della dittatura Caldara tornò a fare l’avvocato, ma nel 1934 chiese un colloquio a Mussolini, che conosceva bene come collega consigliere comunale a Milano. Gli propose di collaborare al corporativismo, che riteneva vicino agli ideali socialisti. Fu il duce a declinare l’offerta del gruppo di Caldara, per evitare frizioni con i sindacalisti fascisti.

Ma forse l’episodio più pregnante fu quello dell’intero gruppo dirigente della Cgl, il sindacato di sinistra. I suoi due primi segretari, Rinaldo Rigola e Ludovico d’Aragona, si offrirono anch’essi a Mussolini nel 1927, entusiasti per la Carta del lavoro fascista. L’unico a opporsi, dall’esilio parigino, fu Bruno Buozzi.

Anche Alberto Beneduce, issato dal duce alla testa dell’Iri nel 1933, era di sinistra, tanto da chiamare col bizzarro nome di Idea Nuova Socialista la figlia, poi moglie di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.

Tragico il destino di Nicola Bombacci, l’ex segretario nazionale socialista passato prima al Pci e poi al fascismo (Mussolini gli finanziò il giornale ‘La Verità’), fucilato a Dongo e appeso in piazzale Loreto col duce, Claretta e i gerarchi.

Ma il professore Alosco presenta molti altri casi di dirigenti politici e sindacali socialisti i quali via via chinarono la testa di fronte al fascismo, che acquistava un consenso sempre maggiore.

Nel 1932, per il decennale del regime, Mussolini era così saldo al potere che potè permettersi magnanimità: amnistiò i due terzi dei 1056 condannati per reati politici, e liberò 595 confinati.

Il crescente consenso deprimeva gli antifascisti fuoriusciti a Parigi, che passavano molto tempo in dispute ideologiche fra loro. Tutto sommato, lo sprezzante epiteto di “socialfascisti”, con cui il comunista Togliatti equiparava i socialisti antibolscevichi ai fascisti, aveva un fondamento nei fatti.

Mauro Suttora

Thursday, June 03, 2021

Caos M5S/ Iscritti, nome, simbolo: duello Casaleggio-Conte

intervista a Mauro Suttora

ilsussidiario.net, 3 giugno 2021 

Conte si aggiudica il primo round nello scontro con Casaleggio per avere gli elenchi degli iscritti. Ma quante saranno le riprese non è dato sapere, dunque la partita rimane aperta. Senza accordo si andrà alla battaglia legale, osserva Mauro Suttora, giornalista e scrittore, osservatore dei 5 Stelle dai tempi del Vaffa. I dati dei 180mila registrati a Rousseau sono un pretesto, perché in palio ci sono il nome e il simbolo del Movimento, senza i quali la leadership di Conte è solo virtuale.

La crisi di M5s rimane profonda ed è difficile prevederne le sorti. Alcuni punti fermi – per ora – secondo Suttora: Di Maio più contiano, crollo di consensi alle comunali, niente Draghi al Colle “perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti”.

Il Garante della privacy nel suo provvedimento ha stabilito che l’Associazione Rousseau deve consegnare al Movimento i dati personali degli iscritti. Sei sorpreso?

No. Se la Casaleggio fosse una semplice società di servizi che gestisce l’elenco degli iscritti grillini, sarebbe ovvio che dovrebbe consegnare l’indirizzario al legittimo proprietario, il Movimento 5 Stelle (M5s). Ma formalmente ha ragione Davide Casaleggio quando chiede al Garante di indicargli a chi consegnare i dati.

Dunque: l’Associazione Rousseau, dice il Garante, è responsabile del trattamento e M5s è il titolare. Casaleggio non è d’accordo e ha risposto che non saprebbe a chi darli, perché non si sa chi sia il rappresentante legale di M5s. Che ne pensi?

Hanno ragione entrambi. Vito Crimi è scaduto, tanto che il tribunale di Cagliari ha nominato un rappresentante pro tempore in un’altra causa. Ma sostanzialmente ormai c’è una frattura, e quindi prima o poi il figlio di Casaleggio dovrà cedere il malloppo. Vedremo in cambio di quanti soldi: ci sono centinaia di migliaia di euro in ballo.

Tutto questo vuol dire una cosa: battaglia legale.

Certo. È risibile l’ultimatum di cinque giorni imposto dal Garante. Qualsiasi Tar lo annullerebbe. Se il M5s avesse versato a Casaleggio i 400mila euro richiesti, la questione sarebbe già risolta. Grillo spinge per un accordo. Ma Conte ha voluto attendere la pronuncia del Garante. Nominato da lui, come insinua Casaleggio.

Come andrà a finire non lo sappiamo. Tu cosa dici?

È una disputa ridicola, anche perché iscriversi al M5s non costa nulla, quindi non vale nulla. Conte potrebbe quindi lasciare i 180mila registrati a Casaleggio e ricostituirsi da zero una nuova base di iscritti in pochi giorni, tramite un appello sui social degli eletti: i grillini più popolari, come lui, Di Maio, Taverna o Fico, hanno centinaia di migliaia di seguaci che aderirebbero subito.

E perché non lo fa?

Ma perché così perderebbe simbolo e nome, che verrebbero sfruttati da Casaleggio junior con i movimentisti Di Battista, Lezzi, Morra e Paragone.

Dunque Conte, nel frattempo, si ritrova leader dimezzato. Brutta faccenda.

E Casaleggio nota giustamente che Conte non è neppure iscritto al M5s, quindi ineleggibile alla sua guida.

Veniamo al fattore Di Maio. La sua svolta garantista non è stata presa benissimo all’interno di M5s. L’ha fatta solo perché è al governo oppure ha altre ambizioni? E quali?

Di Maio, per rendersi presentabile, ora rinnega gli innumerevoli Vaffa contro gli altri politici lanciati dai grillini negli ultimi 14 anni. Ma i Vaffa sono l’unica ragione sociale del M5s, che ancor oggi si definisce MoVimento con quella V maiuscola che sta per Vaffa e Vendetta. Sarebbe come chiedere al Milan di rinunciare ai colori rosso e nero, o all’Italia di abolire il tricolore.

Con chi sta Di Maio tra Conte e Casaleggio?

Con il più forte, che in questo momento è Conte.

Conte è un raffinato professionista. È stato capo del governo. Però non ha la cazzimma e l’astuzia di Di Maio. Chi sarà il leader?

Sono entrambi democristiani, tecnicamente perfetti nella loquela scioltissima e nella gestione del potere. Ma Conte nei sondaggi ha ancora un gradimento del 50%, doppio rispetto al guaglione che tre anni fa lo scelse prima come ministro, e poi come premier. L’unico errore di Di Maio.

Grillo ha chiuso?

Direi di sì, dopo il video isterico sul figlio.

Insomma qual è la posta in gioco? Sopravvivere alle comunali? Controllare i gruppi parlamentari per condizionare la partita del Colle? Fare un nuovo partito? O cos’altro?

Distinguiamo. Per Conte l’obiettivo è sfruttare al massimo, e in qualsiasi modo, la notorietà ottenuta con due anni e mezzo di guida del governo. Per i parlamentari grillini invece è sopravvivere, conservare il più a lungo possibile i 12mila euro di stipendio mensile agguantati per miracolo. Alle comunali di ottobre sarà già tanto se almeno a Napoli o a Roma supereranno il 10%. Nelle altre città sarà un disastro.

E alle presidenziali di gennaio?

Non voteranno Draghi, perché sarebbe difficile cambiare premier senza nuove elezioni. Nelle quali loro sparirebbero tutti, tranne una trentina di big che si ricicleranno in qualche modo.

È vero che c’è una pattuglia di pentastellati che preme su Conte perché ritiri l’appoggio al governo Draghi?

C’è di tutto lì dentro, governisti, antigovernativi, dibattistiani, dimaiani, contiani…

Federico Ferraù

Saturday, May 22, 2021

Comunali e giustizia, le partite che decidono chi sale al Colle

Le elezioni comunali determineranno il peso dei partiti, che dopo avere eletto il successore di Mattarella (Draghi) non potranno evitare le urne

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 22 maggio 2021

“Fino alle presidenziali di gennaio il governo Draghi può stare tranquillo. Poi mi sembra logico che venga eletto al Quirinale e si vada a nuove elezioni”. Batterà il candidato della sinistra, secondo Mauro Suttora, giornalista, libertario per autodefinizione, un passato all’Europeo, Oggi, Newsweek e New York Observer

Elezioni? Sì, “perché non sarà più possibile tenere in vita un parlamento non rappresentativo”. Dunque gli eventi potrebbero essere molto più lineari di quello che lasciano pensare i densissimi retroscena politici sul rinnovo della presidenza della Repubblica. Chissà se è vero. È un fatto, però, che tutti i tentativi di Letta di rafforzare il peso politico del Pd al governo non stanno riuscendo. E il primo momento di verità per i partiti –  le comunali di settembre-ottobre – è ormai dietro l’angolo.

Cosa ci dice la bocciatura della proposta Letta da parte di Draghi?

Oggi l’Italia sulle grandi eredità incassa solo 0,8 miliardi annui contro i 14 della Francia, gli 8 della Germania, i 6 del Regno Unito e i 3 della Spagna. Quindi un problema di tasse di successione esiste. Ma Draghi ha già detto più volte che non si possono aumentare le imposte.

E cosa ci dice del Pd?

L’uscita di Letta è incomprensibile. Un autogol pari a quello di Grillo su suo figlio indagato per stupro. Bastava proponesse che si spostino, a parità di gettito, un po’ delle tasse che colpiscono il lavoro (diminuendo le aliquote Irpef) a quelle sulle eredità dei ricchi. 

E invece?

Invece, Letta è caduto nel solito vizio della sinistra: aumentare imposte già altissime, senza contropartita.

Chi logora chi, nel governo di unità nazionale, tra centrodestra, centrosinistra e Draghi?

I sondaggi ci dicono che soffrono il Pd – destino comune dei socialisti europei, spariti in Francia e Grecia, e bastonati in Spagna, Gran Bretagna e Germania –, e la Lega sfidata dai Fratelli d’Italia. La prova del nove avverrà alle comunali di autunno. Draghi invece non sembra logorato.

C’è ancora qualcuno che in una fase delicata come questa vorrebbe incrinare il patto di unità nazionale, mettendo in discussione un governo senza alternative?

Fino alle presidenziali di gennaio il governo Draghi può stare tranquillo. Poi mi sembra logico che Draghi venga eletto al Quirinale e si vada a nuove elezioni.

Si sussurra che Di Maio lavori ad un nuovo governo. Ti risulta? Con quali prospettive?

Mi sembra comico che Di Maio possa lavorare ad alcunché. Ai grillini non resta che tentare di riciclarsi in qualche modo, con chiunque, come ha già fatto Conte.

La Corte dei conti ha stoppato il vaccino italiano Reithera per “l’assenza di un valido e sufficiente investimento produttivo” da parte di Invitalia. D’Alema e i suoi uomini tengono il punto o sono destinati ad arretrare?

Non so quanto si possa ancora collegare Arcuri a D’Alema. Il primo, se sopravviverà, lo dovrà a Conte. D’Alema è uscito distrutto dalle ultime elezioni, assieme a Bersani: vale il 2 per cento.

D’Alema, Letta, il Pd, M5s. E Prodi. Non ti sembra un’ottima squadra per salvare un’idea dell’Italia, garantendosi il Colle?

Prodi presidente della Repubblica? Troppo vecchio. Il suo tempo è finito.

Quando si gioca la partita? Nel 2022 o nel 2023?

Il centrosinistra è terrorizzato dalle elezioni, visti i sondaggi. Ma ormai il 2022 sarà il quarto anno della legislatura, non sarà più possibile tenere in vita un parlamento non rappresentativo. Il M5s, primo partito col 33%, non esiste più da due anni, dimezzato dai sondaggi. A Montecitorio ci sono solo zombies. L’unico pericolo è che questi residuati bellici vogliano sopravvivere fino al maturare delle loro pensioni, nell’autunno 2022.

Il centrodestra può spuntarla? Come?

Moderandosi per non spaventare l’Europa e i mercati.

E Mattarella invece? Intendo Mattarella come potere uscente, capace di sostenere un suo candidato – o una sua candidata, come la ministra Cartabia. Può farcela?

Lasciamolo pensionarsi. Quanto alla Cartabia, il suo garantismo è ammirevole, ma la Guardasigilli non esprime un consenso.

Il Csm nel caos non rende facile il lavoro di Cartabia. Cosa vedi su questo fronte? Un approfondirsi della crisi o spiragli di soluzione?

La giustizia italiana non esiste più. Ormai nel mondo reale, quello dell’economia internazionale, chi fa affari in Italia si cautela dalle controversie nominando preventivamente arbitri. Entrare in un palazzo di giustizia significa regredire di un secolo, fra timbri, notifiche fatte a mano, scartoffie e tempi intollerabili.

Come valuti i referendum che intendono proporre Radicali e Lega?

Mossa intelligente da parte di entrambi. In realtà la responsabilità civile dei magistrati è già stata introdotta da un referendum radicale ben 34 anni fa, dopo il caso Tortora. Ma la casta giudiziaria l’ha annullata, azzeccando i soliti garbugli. E quanto alla separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e dell’accusa, ottima idea. Ma a sud di Roma, dove interi territori sono controllati dalle mafie, come garantire l’indipendenza – e la sicurezza – delle procure della repubblica?

Federico Ferraù

Wednesday, May 19, 2021

I due ultranovantenni del Mondo

Il racconto di Angiolo Bandinelli, le foto di Paolo Di Paolo

di Mauro Suttora

HuffPost, 19 maggio 2021


Angiolo Bandinelli ha 94 anni. Partigiano a Roma, iscritto al partito d’azione, poi fondatore di quello radicale con Marco Pannella. Segretario del partito ai tempi pioneristici, mezzo secolo fa, fra marce antimilitariste, caso Braibanti (l’omosessuale accusato di plagio), divorzio e obiezione di coscienza alla naja. 

Infine deputato nel 1986, ma soltanto per un anno e soltanto perché Spadaccia “ruotò” in suo favore (mica come i grillini che frignano perché devono abbandonare le poltrone dopo dieci anni: gli eletti radicali lasciavano il seggio a metà legislatura, dopo appena due anni e mezzo).

In realtà il suo gesto più memorabile, in politica, fu offrire uno spinello, lui consigliere comunale, al sindaco di Roma nel 1979: il popolarissimo comunista Petroselli, che lo amava anche fra gli insulti.

Ammiro Bandinelli da 40 anni, da quando lo vedevo tirare la volata al pupillo Rutelli nei congressi radicali, perché fu giornalista del leggendario settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio. Scrisse una cinquantina di articoli su quella bibbia dei liberali di sinistra, che si spense con il suo fondatore nel 1968 (data non casuale).

Ora il ragazzo Bandinelli ha pubblicato una bellissimo racconto: La Perla (edizioni Galaad). Lui è un poligrafo voltairiano, gli piace il passo breve, quindi scrivere articoli sul Foglio e libretti Millelire per Stampa alternativa di Marcello Baraghini, altro nume della controcultura.

Sottotitolo di La Perla: “Favola senechiana”. Perché?, gli chiedo per e-mail (basta telefonate, è sordo). “Perché è piena di morti, come nelle tragedie di Seneca”, mi risponde dalla sua bella casa romana al parco Nemorense.

Ha litigato con tutti, sia i radicali di destra (il partito che ora raccoglie firme con i leghisti per separare i procuratori dell’accusa dai giudici) che quelli di sinistra (Bonino, +Europa). Tratta male anche me: “Non capisci un c. di politica, come tutti i milanesi”. Per questo lo amo.

Paolo Di Paolo ha 96 anni, due più di Bandinelli. È stato il fotografo storico del Mondo, paginate in bianco e nero che spiegavano tutto da sole. Chiuso il settimanale, nell’ultimo mezzo secolo non ha più voluto lavorare.  È venuto a Milano per inaugurare una mostra di sue foto organizzata dalla figlia alla galleria Sozzani di Corso Como 10 a Milano: La lunga strada di sabbia, aperta fino a fine agosto.

Sono le immagini che illustrarono un reportage di Pier Paolo Pasolini del 1959 sulla rivista Successo. Viaggio geniale sulle coste della penisola da Ventimiglia a Muggia (Trieste), nell’Italia del boom. Non so se sono più belle le foto o il testo, raccolto in libro da Guanda. Ma sicuramente le parole scritte di Pasolini guadagnarono dalle immagini di Di Paolo, e viceversa. 

Ho incrociato da poco l’inchiesta pasoliniana scrivendo il mio libro ‘Confini, storia e segreti delle nostre frontiere’. Folgorante la descrizione dell’unica turista che i due scovarono a prendere il sole sulla spiaggia a Ventimiglia: “Una giovincella olandese, bella come un cipressetto”. La foto di Di Paolo vidima il giudizio di Pasolini.

Mauro Suttora

 

Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Thursday, May 06, 2021

Inutile illudersi, presto dovremo fare i conti con i No vax

Per i vaccini la libertà di scelta e gli incentivi appaiono più conformi alla Costituzione rispetto all'obbligo

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 maggio 2021

Inutile illudersi. Fra qualche settimana, al massimo fra pochi mesi, dovremo fare i conti con i novax. Il ritmo delle vaccinazioni covid sta già rallentando in alcune regioni del Sud, anche per la diffidenza verso AstraZeneca. Stesso problema negli Usa: pure lì agli antivaccinisti si sommano le paure create dalla sospensione per dieci giorni in aprile del vaccino Johnson & Johnson. 

Riusciremo a raggiungere l’immunità di gregge, con il 70% di vaccinati? La Gran Bretagna è già arrivata al 60% di prime dosi nella popolazione adulta (33 milioni su 55), e i risultati si vedono: i contagi sono crollati a duemila al giorno, i decessi a meno di venti. Per non parlare di Israele e degli Emirati arabi, che hanno quasi azzerato i morti. 

L’Italia potrà tollerare un 20-30% di non vaccinati. Ma difficilmente si arriverà all'obbligo. Lo spiega Alessandro Negroni, professore associato abilitato in Filosofia del diritto, nel suo libro appena pubblicato: 'La libertà di (non) vaccinarsi' (ed. Vicolo del Pavone). "Da un punto di vista liberale", sostiene il professor Negroni, "varie considerazioni di carattere giuridico indicano l’opportunità, se non la necessità, di evitare l’obbligatorietà del vaccino contro il covid-19. L’articolo 32 della Costituzione, infatti, impone un limite invalicabile: 'Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana'". 

La Corte costituzionale però nel 2018 ha dichiarato legittimo l'obbligo vaccinale per i bambini. "Sì, ma il vaccino contro il covid rientra nel concetto di 'sperimentazione medica': ha ricevuto dalla European Medicines Agency, la Ema, una 'conditional marketing authorisation', autorizzazione all’immissione in commercio subordinata a condizioni, che viene concessa sulla base di dati clinici meno completi di quelli normalmente richiesti, e quindi in presenza di un rischio insito nel fatto che sono necessari dei dati aggiuntivi". 

Questo non significa che il vaccino contro il covid-19 sia dannoso per la salute (il modulo del consenso informato, rileva Negroni, indica comunque che "non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza"), o che non ci si debba vaccinare: semplicemente, secondo la nostra Costituzione, "il vaccino non deve essere reso obbligatorio perché nessuno può essere sottoposto a sperimentazione medica senza un consenso libero, consapevole e informato. Lo stabilisce il codice di Norimberga, varato dopo le criminali sperimentazioni naziste, e ribadito dalla dichiarazione di Helsinki, dal rapporto Belmont e dalla convenzione di Oviedo: un principio irrinunciabile per uno stato di diritto di matrice liberale". 

Insomma, in materia di politiche vaccinali la libertà di scelta è preferibile e più conforme alla Costituzione rispetto a un modello basato su obblighi giuridici rigorosi. Il libro di Negroni non è 'contro' vaccini, scienza o medicina, ma 'a favore' della libertà. Riguardo alle vaccinazioni in età pediatrica, di cui anche tratta il volume, all'estero si trovano obblighi vaccinali muniti di sanzione penale, come in Francia. Ma all’estremo opposto esistono programmi promozionali massimamente rispettosi dell’autonomia individuale, come in Gran Bretagna. 

A metà strada l'esperienza Usa, dove l'obbligo viene introdotto per determinati vaccini, ad esempio contro il morbillo, soltanto in determinati stati e per determinati periodi, quando la malattia supera un certo numero di contagi, e dove sono ampiamente diffuse esenzioni.

Quindi anche in Italia niente obblighi, ma misure per spingere i riluttanti a proteggersi: incentivi, disincentivi, raccomandazioni più o meno pressanti.

Mauro Suttora

Sunday, May 02, 2021

Una politica appesa a Fedez

Il rapper dice che la Rai è lottizzata, e improvvisamente se lo ricordano tutti. Sul merito, il ddl Zan, soprattutto il centrosinistra sconta vent'anni di smemoratezze

di Mauro Suttora

HuffPost, 2 maggio 2021

Ricordavo la deliziosa Ilaria Capitani portavoce di Walter Veltroni nel 2007, quando intervistai l'allora sindaco di Roma. Mai avrei immaginato si trasformasse in feroce belva della censura contro tal Federico Lucia da Buccinasco, tatuatissimo cantante con faccia e voce attraenti quanto quelle di Morgan.

C'eravamo liberati da appena una settimana di Grillo, suicidatosi col video sugli stupri, mo ecco Fedez. L'ennesimo famoso solo per essere famoso (trovate qualcuno che sappia canticchiare qualche sua canzone) che pretende di comiziare di politica coi miei soldi (via Rai). Anche Celentano sproloquiava, ma almeno lui aveva all'attivo decenni di inni ecologisti.

Dato il mio cognome, ogni tanto qualcuno mi ammonisce: "Sutor, ne ultra crepidam!" Ciabattino, non (andare) oltre la scarpa. E gli inglesi chiamano "ultracrepidarian" i saccenti che dispensano giudizi su questioni che oltrepassano la loro competenza.

Invece noi, tramontato il comico a 5 stelle, abbiamo il rapper "tanta roba" come nuovo maître-à-penser.

Il quale ci rivela, in ritardo di mezzo secolo su Pannella, che la Rai è lottizzata. E che, essendo servizio pubblico, magari non può concedere proprio a tutti di vomitare insulti in diretta tv contro un politico davanti a milioni senza contraddittorio.

Ovviamente, poi, il populismo abbisogna di vittimismo. Quindi il povero rapper che si chiama come un corriere espresso lamenta di avete subìto una tentata castrazione verbale da parte dell'incantevole Capitani. Ma lo fa in modo simpatico, stile 'Le vite degli altri': registrando e pubblicando la loro telefonata privata. E, come nella Ddr, tagliandone gli spezzoni che non gli convengono.

Tuttavia l'avvenimento più stupefacente di queste ore è che si è scatenato il 'dibattito'. Letta e Zingaretti, di sinistra, se la prendono con una dirigente Rai di sinistra. L'inevitabile Di Maio loda Fedex: "Una persona che in tutto quello che fa ci mette il cuore", col 'ci' rafforzativo molto millennial. E ci mancherebbe: Fedez si esibiva sui palchi grillini quando loro erano arroganti come lui adesso, prima della ripulita.

Gli addetti ai social di tutti i politici li hanno costretti a esprimersi sull'argomento del giorno. Resistono solo Draghi, Cartabia e Mattarella.

Quanto al contenuto del "messaggio" del nuovo EmilioFedez progressista, ricordo che la prima proposta di legge contro l'omofobia porta la firma di Franco Grillini (cui i grillini con la minuscola hanno tagliato il vitalizio nonostante abbia un tumore). È del 2001: sono passati vent'anni, il Pd ha governato per dieci, nel frattempo Salvini ha fatto pure in tempo a cambiare idea ("Allora era d'accordo con me", dice Grillini).

La legge Zan merita sicuramente una discussione seria e approfondita: come proteggere gli lgbt, per esempio, senza ledere le libertà di parola e opinione?

Dilemmi importanti, mettere d'accordo gli eterni Capuleti e Montecchi della scena pubblica italiana sarà difficile.

Per carità, anche Jean-Paul Sartre era fazioso. Ma più cauto di Fedez: la sua compagna Simone De Beauvoir non possedeva decine di milioni di follower.

Mauro Suttora

Saturday, May 01, 2021

Da Tarvisio a Gorizia, la storia raccontata attraverso i confini




















cartina © Raffaella Suttora

Suttora ricostruisce i cambiamenti nel corso delle epoche. Grande spazio alle vicende legate alle nostre frontiere

di Mauro Suttora

Messaggero Veneto, quotidiano di Udine e del Friuli, 1 maggio 2021 

Perché il confine fra Italia Slovenia sta proprio a Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? E quello con la Francia di Ventimiglia? E da quanto tempo Chiasso separa Italia e Svizzera?

 

In tempo di nuovi sovranismi (fortunatamente non bellicosi) è utile conoscere meglio le nostre frontiere. Che non seguono sempre il crinale delle Alpi, come ci hanno insegnato a scuola.


Nel libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza), in libreria dal 29 aprile, spiego ad esempio che la pipì fatta a Tarvisio, così come a Livigno (Sondrio) o a San Candido (Bolzano) finisce nel mar Nero: sono tutti pezzi d’Italia che si trovano al di là dello spartiacque, e che quindi non fanno parte del bacino del Po, ma di quello del Danubio (la val Canale attraverso il torrente Slizza e poi la Drava).


La sventurata Gorizia detiene un record mondiale: ha cambiato padrone ben sette volte in soli trent’anni, dal 1916 al 1947, fra fiumi di sangue. 

E sapete che lingua parlavano gli abitanti di Tarvisio quando nel 1918 passò all’Italia? Il tedesco in 6.400, lo sloveno in 1.680, e l’italiano in dieci. 

Ciononostante, la frontiera fu fissata al Coccau.


Gli attuali confini orientali del Friuli (e dell’Italia) sono nati nel 1509, quando l’imperatore austriaco Massimiliano strappò Plezzo, Tolmino e Caporetto a Venezia. 

Fino ad allora l’alta valle dell’Isonzo era stata romana, gota, longobarda, franca, del patriarcato di Aquileia e della Serenissima. 

Gli sloveni la popolarono nel 600, e visto che erano bravi agricoltori tre secoli dopo furono invitati dai patriarchi a coltivare anche le valli del Natisone, desertificate da epidemie e invasioni degli ungari.


Ma anche qui gli spartiacque non sono rispettati. Il Natisone nasce in Italia, poi entra in Slovenia e dopo dieci chilometri torna in Italia. 

Il torrente Uccea, viceversa, nasce dal crinale della val Resia e scorre per nove chilometri in Friuli prima di diventare sloveno e sfociare nell’Isonzo. 

Quanto allo Judrio, è un caso unico al mondo: fa da frontiera per quasi tutto il suo corso, prima tra Italia e Slovenia, e poi fra le province di Udine e Gorizia, ricalcando il vecchio confine italo-austriaco dal 1866 al 1918.


Sono tante le curiosità delle nostre frontiere. Fino al 1797, per secoli, la bassa friulana era divisa fra Venezia e Austria a macchia di leopardo, con molte enclaves: Gonars, Porpetto, Cervignano e Aquileia erano asburgiche, mentre Palmanova, Strassoldo e Grado stavano sotto Venezia.


L’attuale confine Italia-Slovenia a Gorizia, per rispondere alla domanda iniziale, segue il tracciato dell’ex ferrovia Transalpina Trieste-Vienna: l’unica altra frontiera nel mondo decisa dai treni è quella martoriata fra Siria e Turchia, che corre parallela ai leggendari binari Berlino-Bagdad.


Quanto alla Venezia Giulia, è una definizione recente, coniata nel 1863 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli, per distinguerla dalla Venezia Euganea (Veneto) e dalla Tridentina (Trentino). 

Ma dopo il 1945 ha dovuto cedere 112 dei suoi 127 comuni alla Jugoslavia di Tito: le intere province di Pola e Fiume, e quasi tutte quelle di Gorizia e Trieste.

Mauro Suttora

Thursday, April 29, 2021

'Confini': il senso di una linea quando nessuno rivendica più niente

Esce oggi “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” (Neri Pozza) di Mauro Suttora. Una mappa geografica e mentale che racconta chi siamo

di Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 aprile 2021

Perché il confine italo-svizzero sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai le nostre frontiere con Francia e Slovenia sono situate a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest?

In un’epoca di sovranismi, i confini tornano d’attualità. Erano spariti con l’Europa unita e il trattato di Schengen: dopo il Duemila niente più dogane, documenti, file d’auto ai valichi. Ma sono riapparsi con il coronavirus e i controlli sui migranti. Così abbiamo dovuto riscoprire i limiti terrestri della nostra penisola. Che coincidono con le Alpi, ci hanno insegnato. Ma non sempre.

Sono molti infatti gli spartiacque non rispettati: la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio. E in Lombardia una valle (la val di Lei, dietro Madesimo) non appartiene al bacino del Po, ma a quello del Reno.

Anche le frontiere linguistiche, oltre a quelle geografiche, sono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, inglobiamo centomila sloveni fra Cividale e Trieste. E oltre confine 350mila svizzeri ticinesi conservano la madrelingua italiana dopo la separazione del 1515.

Sapevate che l’attuale frontiera di Ventimiglia fu decisa da un prefetto napoleonico nel 1808? O che la sventurata Gorizia, record mondiale, ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947?

Il mio libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza) traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto: il generale francese Charles De Gaulle, per esempio, nel 1945 voleva annettere l’intera Val d’Aosta Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini dei nostri confini: dal Frejus alla Val d’Ossola, dalla Valtellina al Brennero, da Cortina al Carso. Fra storia, geografia, cultura, politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Per questo ho scritto il libro. Perché in realtà non conosciamo affatto i nostri confini. Li attraversiamo senza accorgercene, e sappiamo poco o nulla di loro.

Ho scoperto, per esempio, che antichi e romani e longobardi non tracciavano mai i confini in cima ai valichi, ma molto più a valle. Dove le famose “chiuse” (Bard in Val d’Aosta, Klausen o Sabiona in Alto Adige, Chiusaforte in Friuli) permettevano di controllare il transito con poche decine di soldati. Nel 1800 Napoleone fu bloccato per mezzo mese dagli austropiemontesi a Bard.

Di frontiere oggi si parla soprattutto per i migranti. L’Austria ogni tanto ripristina i controlli al Brennero, la Francia è in allerta continua a Modane e Ventimiglia, Slovenia e Italia hanno istituito pattuglie miste per sorvegliare. Ma per un figlio di profughi come me (mio padre scappò nel 1944 dall’isola di Lussino, oggi in Croazia) i confini rappresentano soprattutto un incubo, fortunatamente sparito col crollo dei due totalitarismi opposti ma specularmente simili: fascismo e comunismo.

Oggi grazie a Dio nessuno sano di mente rivendica più niente. Sono spariti i nazionalisti che per secoli hanno minacciato di invadere territori oltre confine, e lo hanno fatto. Ma fino al 1989 sulla frontiera di Gorizia (fotografata sulla copertina del libro) passava la Cortina di ferro, e per quasi mezzo secolo abbiamo rischiato la guerra atomica in Europa.

È incredibile pensare come la guerra sia diventata inimmaginabile per noi nel giro di pochi decenni. Una rivoluzione culturale unica nella storia dell’umanità. Si va dal Friuli alla Croazia così come dalle Marche all’Abruzzo, sovrappensiero, senza ricordare le centinaia di migliaia di soldati morti inutilmente da quelle parti nel secolo scorso. Ma ancor oggi ucraini e russi si ammazzano per i loro confini. E sono passati solo vent’anni dalla guerra in Kosovo: i nostri soldati sono sempre lì, a guardia di frontiere contestate e famiglie minacciate.

È importante, quindi, conoscere i nostri confini. Attraverso di essi possiamo capire l’Italia, e quindi noi stessi.

Mauro Suttora


Le frontiere son tornate



Riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus

di Mauro Suttora

 HuffPost, 29 aprile 2021

Introduzione del libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora (Neri Pozza) 

I confini sono tornati. Qui in Europa pensavamo di averli aboliti, dopo le due guerre mondiali. “Imagine there’s no countries, immagina che non ci siano più Paesi”: avevamo messo la canzone di John Lennon perfino nelle nostre segreterie telefoniche. Prima, nel 1957, ci affratellò la Comunità europea. Poi, nel 1989, il crollo del Muro di Berlino liberò i Paesi dell’Est. Infine, nel 1997, il trattato di Schengen: quella magica parolina che permette di non accorgersi più delle frontiere. Basta dogane, documenti, file di auto ai valichi. Viaggiavamo in autostrada dopo Bordighera o Vipiteno, e continuavamo a guidare a 130 all’ora. Eravamo già entrati in Francia e Austria, ma ai nostri occhi cambiavano solo i pedaggi e il colore delle strisce sull’asfalto.

Poi è arrivato il coronavirus. E le frontiere sono resuscitate in pochi giorni. In tutto il mondo. Miliardi di persone ‘confinate’ nei propri confini: delle case, dei paesi, delle città. E poi zone rosse, regioni proibite, stati off limits. Un’esperienza incredibile, inedita, improvvisa. Niente più viaggi in aereo, nave, treno, auto. Tutti bloccati come servi della gleba nei feudi medievali. “Nell’intera storia umana non è mai avvenuto nulla di così veloce e globale”, ha avvertito Henry Kissinger dall’alto dei suoi 97 anni, “ne sentiremo gli effetti per generazioni”.

A dire il vero, c’erano state avvisaglie. Prima il movimento no-global: le grandi manifestazioni a Seattle nel 1999 e a Genova nel 2001. Poi anche in Italia, come nell’Inghilterra del Brexit e negli Usa di Trump, a destra sono apparsi i ‘sovranisti’. I loro slogan: “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “No Euro/pa”.

Una volta si chiamavano nazionalisti, e hanno fatto danni per secoli. Consoliamoci: oggi, abbandonata l’insalubre tendenza a voler spostare in avanti i propri confini, i neonazionalisti si limitano a proclamare il recupero di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare. (...)

In ogni caso, riecco i confini. Non li abbiamo resuscitati soltanto noi, ci avevano pensato i nostri vicini ben prima del virus: i populisti austriaci ripristinando i controlli al Brennero contro i clandestini, i francesi cacciando i migranti a Modane e Mentone, gli inglesi abbandonando l’Unione europea. Nel 2019 al confine fra Slovenia e Friuli-Venezia Giulia sono apparse squadre miste di poliziotti per pattugliare l’ex cortina di ferro, che da quindici anni non esisteva più.

Ma, al di là delle polemiche politiche, quali sono le frontiere dell’Italia? Davvero le conosciamo? I nostri confini naturali sono le Alpi e il mare, ci hanno insegnato. E invece no. 

Perché, ad esempio, la frontiera con la Svizzera sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai i confini con Francia e Slovenia sono situati a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest? Nessuno immagina che il loro tracciato fu deciso da un giovanissimo duca Sforza puzzolente nel 1515 (Chiasso), o da un puntiglioso prefetto napoleonico nel 1808 (Ventimiglia). Né che la sventurata Gorizia ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947: record mondiale.

Insomma, altro che ‘confini naturali’. Sono molti gli spartiacque non rispettati: sapete che la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio? Decine di chilometri quadrati e intere vallate italiane, infatti, non fanno parte del bacino del Po, ma stanno al di là delle Alpi.

Questo per quanto riguarda le frontiere geografiche. Ma anche quelle linguistiche appaiono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, e abbiamo anche centomila sloveni fra Cividale e Trieste. Un po’ si prende, un po’ si dà: oltre frontiera ben 350mila svizzeri del canton Ticino conservano come madrelingua l’italiano, fino al crinale del San Gottardo.

Per tracciare alcune frontiere c’è voluto il sangue di milioni di morti. Non occorre andare tanto indietro nel tempo: basti pensare alle carneficine nei conflitti del ’900. Per altre invece è bastato un semplice litigio sui limoni, come quello che separò Mentone dal principato di Monaco nel 1848.

Duemila anni fa i confini dell’Italia romana correvano su due fiumi: il Varo a occidente, subito dopo Nizza, e l’Arsa a oriente, nell’ascella dell’Istria. Da allora infinite guerre, invasioni, trattati, favori e dispetti hanno separato gli italiani da francesi, svizzeri, austriaci e sloveni. Ma pure italiani da italiani: Ventimiglia era frontiera fra Genova e Piemonte, Chiasso separava lombardi; mentre Tonale, Pontebba o Palmanova delimitavano la Serenissima repubblica di Venezia da zone anch’esse italianofone.

Questo libro cerca di soddisfare molte curiosità. Traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto. Chi ricorda, infatti, che il generale Charles De Gaulle nel 1945 voleva annettere alla Francia l’intera Val d’Aosta e metà Piemonte? Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani, smettendo di combattersi per qualche giorno.

Dopo l’unità d’Italia e il recupero di Trento e Trieste nel 1918, Benito Mussolini rivendicò Nizza e Savoia, Tunisia e canton Ticino, difese l’Alto Adige dalle mire naziste e occupò metà Slovenia e Dalmazia nel 1941. Nel 1942 arrivò fino al Rodano, prendendo per dieci mesi Grenoble e Chambéry, Aix-en-Provence e Tolone, oltre alla Corsica. Poi l’Italia perse tutto, e in più dovette cedere l’Istria, Fiume, Zara e metà Isonzo alla Jugoslavia, e Briga e Tenda alla Francia.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini delle nostre frontiere. Andiamo a scoprirle: dalla val d’Ossola a Cortina d’Ampezzo, dal Monginevro alla Valtellina, dal passo Resia al Carso. Fra storia, geografia, cultura e politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Mauro Suttora