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Sunday, May 02, 2021

Una politica appesa a Fedez

Il rapper dice che la Rai è lottizzata, e improvvisamente se lo ricordano tutti. Sul merito, il ddl Zan, soprattutto il centrosinistra sconta vent'anni di smemoratezze

di Mauro Suttora

HuffPost, 2 maggio 2021

Ricordavo la deliziosa Ilaria Capitani portavoce di Walter Veltroni nel 2007, quando intervistai l'allora sindaco di Roma. Mai avrei immaginato si trasformasse in feroce belva della censura contro tal Federico Lucia da Buccinasco, tatuatissimo cantante con faccia e voce attraenti quanto quelle di Morgan.

C'eravamo liberati da appena una settimana di Grillo, suicidatosi col video sugli stupri, mo ecco Fedez. L'ennesimo famoso solo per essere famoso (trovate qualcuno che sappia canticchiare qualche sua canzone) che pretende di comiziare di politica coi miei soldi (via Rai). Anche Celentano sproloquiava, ma almeno lui aveva all'attivo decenni di inni ecologisti.

Dato il mio cognome, ogni tanto qualcuno mi ammonisce: "Sutor, ne ultra crepidam!" Ciabattino, non (andare) oltre la scarpa. E gli inglesi chiamano "ultracrepidarian" i saccenti che dispensano giudizi su questioni che oltrepassano la loro competenza.

Invece noi, tramontato il comico a 5 stelle, abbiamo il rapper "tanta roba" come nuovo maître-à-penser.

Il quale ci rivela, in ritardo di mezzo secolo su Pannella, che la Rai è lottizzata. E che, essendo servizio pubblico, magari non può concedere proprio a tutti di vomitare insulti in diretta tv contro un politico davanti a milioni senza contraddittorio.

Ovviamente, poi, il populismo abbisogna di vittimismo. Quindi il povero rapper che si chiama come un corriere espresso lamenta di avete subìto una tentata castrazione verbale da parte dell'incantevole Capitani. Ma lo fa in modo simpatico, stile 'Le vite degli altri': registrando e pubblicando la loro telefonata privata. E, come nella Ddr, tagliandone gli spezzoni che non gli convengono.

Tuttavia l'avvenimento più stupefacente di queste ore è che si è scatenato il 'dibattito'. Letta e Zingaretti, di sinistra, se la prendono con una dirigente Rai di sinistra. L'inevitabile Di Maio loda Fedex: "Una persona che in tutto quello che fa ci mette il cuore", col 'ci' rafforzativo molto millennial. E ci mancherebbe: Fedez si esibiva sui palchi grillini quando loro erano arroganti come lui adesso, prima della ripulita.

Gli addetti ai social di tutti i politici li hanno costretti a esprimersi sull'argomento del giorno. Resistono solo Draghi, Cartabia e Mattarella.

Quanto al contenuto del "messaggio" del nuovo EmilioFedez progressista, ricordo che la prima proposta di legge contro l'omofobia porta la firma di Franco Grillini (cui i grillini con la minuscola hanno tagliato il vitalizio nonostante abbia un tumore). È del 2001: sono passati vent'anni, il Pd ha governato per dieci, nel frattempo Salvini ha fatto pure in tempo a cambiare idea ("Allora era d'accordo con me", dice Grillini).

La legge Zan merita sicuramente una discussione seria e approfondita: come proteggere gli lgbt, per esempio, senza ledere le libertà di parola e opinione?

Dilemmi importanti, mettere d'accordo gli eterni Capuleti e Montecchi della scena pubblica italiana sarà difficile.

Per carità, anche Jean-Paul Sartre era fazioso. Ma più cauto di Fedez: la sua compagna Simone De Beauvoir non possedeva decine di milioni di follower.

Mauro Suttora

Thursday, May 03, 2001

Per chi votano i gay?

SORPRESA: PRIMO BERLUSCONI. PARLA ROBERTO SCHENA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 3 maggio 2001

I gay italiani votano a destra o a sinistra? Il dibattito è esploso sulle tre riviste mensili degli omosessuali: Babilonia, Pride e Guide Magazine. E ha rivelato spaccature impensabili, almeno stando al panorama delle candidature per le politiche del 13 maggio. Dove, infatti, la sinistra fa il pieno dell’“offerta”, con almeno cinque esponenti dell’ufficialità omosessuale italiana pronti a entrare in Parlamento: il fondatore di Arcigay Franco Grillini con i Ds, Gianpaolo Silvestri con i verdi, e ben tre candidati con Rifondazione. Nella Casa delle libertà, invece, il deserto.

Giovanni Dall’Orto, direttore della rivista Pride, ha accusato Babilonia di pencolare verso destra soltanto per avere osato ospitare un intervento di Giuliano Ferrara. E Natalia Aspesi gli ha subito fatto eco su Repubblica.

Babilonia è il giornale storico del movimento gay italiano. Infatti, dopo gli antesignani radicali del Fuori di Angelo Pezzana (del quale proprio in queste settimane si festeggia il trentennale della nascita), dagli anni Ottanta le lotte di liberazione sono state prese in mano dall’Arcigay (galassia Pci). Fino al giugno 1999 Babilonia, con le sue 15mila copie, era l’unico giornale omosessuale.

Quell’anno Roberto Schena fonda Pride. L’anno scorso lascia Pride a Dall’Orto e trasforma Guide Magazine, fino ad allora una semplice guida ai locali, nel terzo mensile gay italiano. Tutti sulle 15 mila copie, anche se Pride e Guide Magazine vengono distribuiti gratis nelle centinaia di locali gay, perché vivono tranquillamente di sola pubblicità.

L’effervescenza editoriale del mondo gay (stimato in Italia in due-tre milioni di individui) è testimoniata anche dalla nascita di vari siti Internet. Il più seguìto, www.gay.it, è stato acquistato per due miliardi da Seat-Pagine Gialle.

Schena, principale artefice di questa moltiplicazione di riviste (e di dibattito), non è affatto di sinistra. Anzi: è il capo delle redazioni cultura, spettacoli e sport della Padania, il quotidiano della Lega Nord. Ha in mano un buon terzo del giornale. E nel tempo libero confeziona Guide Magazine.

«L’attuale confronto è nato dagli articoli di Ferrara sul Foglio e su Panorama», spiega Schena, «in cui la destra viene invitata a liberarsi dalla vecchia paccottiglia omofoba. Ma sono stati soprattutto i dati di un sondaggio elettorale del sito gay.it ad avere mandato in tilt la sinistra».

Roba da non credere: Silvio Berlusconi risulta primo col 25 per cento, davanti a Francesco Rutelli col 24. Terza Emma Bonino: 14 per cento. Segue all’11 Fausto Bertinotti, mentre Valter Veltroni incassa un misero sei, superato perfino da Gianfranco Fini col sette. Umberto Bossi e Antonio Di Pietro prendono il tre per cento, e gli altri candidati raccolgono il restante sette per cento.

Sommando questi consensi, la Casa della Libertà conquisterebbe il non disprezzabile 35 per cento, mentre l’Ulivo senza Rifondazione si fermerebbe al 30.

Sul numero di aprile di Guide Magazine Schena, in perfetta par condicio, ha ospitato un articolo pro-sinistra di Sergio Lo Giudice, presidente di Argigay, e uno in cui il teologo milanese Giovanni Felice Mapelli nega che i Ds possano farsi paladini dei gay: «La loro cultura è tutt’altro che liberale, sono frenati da un eccesso di opportunismo: in Europa vengono scavalcati dai loro colleghi socialisti. In cinque anni di governo del centrosinistra sono naufragati tutti i progetti di legge che riguardavano le coppie di fatto, la discriminazione per orientamento sessuale, la procreazione assistita omologa ed eterologa, l’adozione da parte delle coppie sposate e quella dei single».

Ma Schena come si trova in un partito, la Lega, che negli ultimi due anni ha dato una forte sterzata verso i valori tradizionali cattolici, con Bossi che non perde occasione per ribadire con toni anche offensivi la sua totale contrarietà alla minima apertura nei confronti dei gay?

«Mi trovo benissimo: sono omosessuale dichiarato da sempre, ma non ho mai dovuto nascondere alcunché. Lavoro alla Padania dalla sua fondazione e nessuno mi ha discriminato, anzi. Insomma, sono l’esempio vivente che la politica della Lega non è rivolta contro i gay in quanto tali. Bossi sta facendo scelte tattiche sulle unioni civili che personalmente non condivido. Ma anche Ppi e Democratici, nell’Ulivo, hanno le sue stesse posizioni. Mi dispiace per i consensi gay che il centrodestra potrebbe facilmente avere, ma che sciupa perché non sa coltivare i rapporti. La giunta Albertini ha ottime relazioni con Dolce & Gabbana, Armani e tutto il mondo della moda: basterebbe imitare il modello Milano».
Mauro Suttora

Saturday, March 24, 2001

«Busoni, culatoni», disse Prosperini

GAYPRIDE A MILANO: SINDACO ALBERTINI IMBARAZZATO

di Mauro Suttora
Il Foglio, marzo 2001

«I busoni stiano al loro posto, al massimo diamogli dei paracarri per divertirsi. Meno male che il sindaco Albertini ha avuto un’impennata di orgoglio maschio: nessun patrocinio del Comune per il gay Pride a Milano, e se proprio vogliono sfilare in corteo mandiamoli in una miniera abbandonata, o in una contrada deserta... Le sfilate dei culatoni sono una roba schifosa, quelli tirano fuori l’uccello e se lo piantano nel didietro di fronte a tutti... Certe cose le facciano nelle loro alcove, con la vaselina e al buio, senza pretendere di venire a mimare amplessi nel centro della città, dove passano donne e bambini!»

Basta pronunciare la parola «gay» e il vicepresidente del consiglio regionale lombardo, Piergianni Prosperini (An, ex Lega), esplode in una serie incontenibile di insulti. Scusi, ma lei non fa parte della Casa delle libertà? «Certo, ma non Casa dell’indecenza. Quelli di Forza Italia fanno tanto i liberali, i libertari, i libertoidi, e poi finiscono con queste pulsioni busonesche. La verità è che noi siamo un partito virile, loro no...» 

Guardi che neanche Ignazio La Russa, dirigente milanese del suo partito, è d’accordo con lei. «Peggio per lui, io sono un lombardo-veneto mentre La Russa è un siciliano, un borbonico. A me non va che si permetta di offendere la religione per strada. Che provino a farle nei Paesi musulmani, le loro sfilate. A Roma si sono travestiti da Madonna, che si travestano da Maometto. Gli omosessuali devono vivere la loro diversità in dignitoso silenzio, senza sbattercela di fronte. Sono scandalosi loro, non io. Io sono in sintonia col cardinale Biffi. Un po’ meno col cardinale Martini...»

Così parla Prosperini all’indomani di un ambiguo comunicato del sindaco Gabriele Albertini, che inizia con un «Appoggio le richieste degli omosessuali», ma non condivide «la loro scelta di organizzare un corteo». Perché? «È una manifestazione che, oltre a poter creare disagio agli altri cittadini, ha una carica di ostentazione e di sfida che ritengo inutile se non addirittura controproducente».

«Così adesso Albertini pretende anche di farci la lezione, spiegandoci cos’è meglio per noi», commenta Roberto Schena, direttore della rivista gay Guide Magazine. Che con le altre riviste (Babilonia e Pride) e l’Arcigay ha scelto Milano per la sfilata annuale di giugno. Risultato: un replay delle polemiche dell’anno scorso. 

«Noi c'eravamo opposti ferocemente al Gay Pride del 2000», spiega La Russa (An), «per due motivi: la cristianità della città di Roma, e la coincidenza col Giubileo. Poiché ora questi due ostacoli vengono meno, si faccia pure il gay Pride a Milano, anche se mi stupisco della necessità che qualcuno avverte di mostrare orgoglio per il proprio essere gay. Io ho tanti amici omosessuali che non lo nascondono, ma non hanno bisogno di esibirlo, né tantomeno di andarne orgogliosi».

Così, eccoci arrivati all’appuntamento annuale con le nostre intolleranze. Gli omosex hanno trovato questo bel termometro, il gay Pride, e lo utilizzano per misurare il grado delle libertà che siamo disposti a conceder loro. 

«Le marce dell’orgoglio gay sono una risposta a secoli di vergogna», spiega Sergio Lo Giudice, dal 1998 presidente dei 90 mila iscritti all’Arcigay «Quando abbiamo sfilato a Napoli, Venezia o Bologna, i sindaci Bassolino, Cacciari e Vitali sono sempre scesi in piazza assieme a noi, e hanno parlato dal palco. A New York perfino il ‘duro’ della destra Rudolph Giuliani ha marciato in prima fila nei nostri cortei».

Non farà così Albertini, al quale i gay avevano chiesto di «partecipare non passivamente ma attivamente, con la sua fascia tricolore», al corteo del 23 giugno. Invito respinto, e imbarazzo anche da parte del vicesindaco di Milano Riccardo De Corato (An), che declina ogni commento. 

«Un sindaco non ha certo l’obbligo di aderire a qualunque manifestazione»: così La Russa difende Albertini. «Tutti fanno finta di dimenticare che il sindaco di Milano ha anche centomila omosessuali fra i suoi cittadini».

Così adesso lo spartiacque dell’intolleranza si sposta sul percorso del corteo: gay Pride in piazza Duomo? «Perché no», concede La Russa, «magari non proprio sul sagrato. Ma se la piazza è vietata a tutti tranne che in campagna elettorale, non bisogna discriminare per i gay neanche in senso a loro favorevole». 

L’anno scorso, a Roma, la giunta Rutelli di sinistra se la cavò confinando gli omosessuali fuori dal centro storico. «I cattolici di entrambi gli schieramenti riescono a esercitare un’egemonia culturale di tipo quasi gramsciano sulla questione», constata mesto Sergio Scalpelli, ex assessore di Albertini, «anche se tutti sanno che ormai sono largamente minoritari nel Paese».

«Ma la vera partita», rivela Marco Volante, vicepresidente di Gaylib, organizzazione degli omosessuali liberali, «si gioca all’interno di Forza Italia, di gran lunga il primo partito a Milano e in Lombardia. In Comune si fronteggiano i laici guidati da Fabrizio De Pasquale e l’ala oscurantista di Massimo De Carolis e dell’ex maoista Aldo Brandirali». 

Quanto ad An, fra i suoi iscritti c’è il bolzanino Enrico Oliari, presidente di Gaylib. Fra i Ds, invece, fatica a trovare un collegio sicuro Franco Grillini, fondatore di Arcigay. Mentre Rifondazione candida Titti De Simone di Arcilesbica e garantisce la rielezione a Nichi Vendola. 

Tutto questo nel trentennale dell’esordio pubblico omosex in Italia: era l’aprile ‘71, infatti, quando il radicale torinese Angelo Pezzana protestò per un articolo de «La Stampa», e fondò il Fuori.
Mauro Suttora