Monday, December 09, 2013
Guerra di Esselunga
IL PADRE-PADRONE 88ENNE BERNARDO CAPROTTI CONTRO I FIGLI GIUSEPPE E VIOLETTA
di Mauro Suttora
Oggi, 4 dicembre 2013
«Spero sempre in una riconciliazione con mio padre»: questo è l’unico commento che Giuseppe Caprotti fa con Oggi sul dissidio che da dieci anni lo contrappone al padre Bernardo, fondatore di Esselunga.
Il padrone quasi novantenne della più redditizia catena di supermercati in Italia (ben 230 milioni di utile su un fatturato di 6,8 miliardi l’anno scorso, con un clamoroso +3% nonostante la crisi) ha appena sparato a zero sui due figli del primo matrimonio con Giorgina Venosta (poi moglie di Aldo Bassetti): «Negli anni ho dato a Giuseppe 82 milioni, 74 a Violetta e quattro al suo ex marito newyorkese». Più la villa di famiglia con parco di Albiate (Monza Brianza) a lui, e un castello in Svizzera a lei.
Questo per rispondere alla clamorosa notizia secondo cui Caprotti senior li a vrebbe quasi diseredati: negli ultimi dieci anni, infatti, su 80 milioni di donazioni ne ha dati solo due a Giuseppe e sette a Violetta, contro 30 alla seconda moglie Giuliana, dieci alla figlia di secondo letto Marina Sylvia, e soprattutto altri dieci alla fedele segretaria 65enne Germana Chiodi. Troppo fedele, secondo alcuni: nominerebbe lei i dirigenti di Esselunga e licenzierebbe quelli non graditi.
Scene da film, con auto nere
Una vera Dinasty lombarda, insomma, con scene degne di un film. Come quella del 2004 quando Bernardo fece parcheggiare quattro Mercedes nere con autista sotto la sede centrale Esselunga a Pioltello (Milano). Dopo una burrascosa riunione licenziò in tronco tre dei massimi dirigenti, accusandoli di aver preso tangenti e facendoli portar via dalle auto.
«La quarta era per me?», gli domanda il figlio Giuseppe, che dopo una gavetta di dieci anni era diventato amministratore delegato. «Non ancora», gli rispose il padre, ridendo. Ma da allora i rapporti si sono guastati, e Giuseppe è stato esautorato.
Il 3 dicembre c’è stata un’udienza del processo in cui i figli si oppongono al padre che nel 2011 li ha privati delle loro quote nella società fiduciaria proprietaria di Esselunga. Ma i tempi della giustizia sono eterni. Intanto, Caprotti senior ha annunciato che il 23 dicembre va in pensione. Non seminerà più il panico ogni mattina negli uffici del colosso con 20mila dipendenti e 140 supermercati (due in apertura a Roma, i primi così a sud). Ma c’è da scommettere che, come azionista, continuerà a piombare di sorpresa fra casse e scaffali con le sue ispezioni.
Insomma, alla fine la guerra dei Caprotti verrà decisa all’apertura del testamento. Come in tante famiglie ricche e illustri, dai Berlusconi in giù, con dissidi fra figli di primo e secondo letto.
Lusso fra Londra e New York
E pensare che all’Esselunga fino a dieci anni fa tutto sembrava procedere per il meglio. L’irrequieta Violetta, disinteressata a una carriera aziendale, viveva fra Londra e New York. Due mariti (2004 e 2010), due sfarzosi matrimoni: il primo all’hotel Dorchester con 600 invitati, il secondo con un gallerista belga e ricevimento doppio, a Venezia e Saint Tropez.
Il tranquillo Giuseppe, invece, dopo la laurea in storia alla Sorbona e stages in catene di supermarket negli Stati Uniti, si era fatto strada nell’azienda famigliare. Sotto la sua guida Esselunga si era tolta di dosso l’immagine di catena «dura»: guerra al sindacato, severità con i dipendenti, cassiere che si lamentavano di non potere andare in bagno a fare la pipì. Caprotti junior aveva introdotto vendite online e prodotti biologici.
Poi l’improvvisa rottura, e versioni contrapposte: l’anziano padre accusa il figlio di non far quadrare i conti, il figlio risponde con una spiegazione psicologica tratta dall’Adriano di Marguerite Yourcenar: «Eravamo troppo diversi perché potesse trovare in me quel continuatore docile che avrebbe usato i suoi stessi metodi e fatto i suoi stessi errori. Ma era obbligato ad accettarmi. Ed era un’eccellente ragione per odiarmi».
Mauro Suttora
Monday, November 25, 2013
D'Annunzio socialista: come Grillo
Pochi sanno che il Vate per un anno fu deputato del Psi, e addirittura candidato nel 1900 per il partito allora di estrema sinistra. Usava toni da Grillo, e riuscì a ingannare i dirigenti socialisti. Ma gli elettori bocciarono questa sua capriola
di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 22 novembre 2013
«Sono spinto dal disgusto per gli altri
partiti. Non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere. Ciò
che esiste adesso è nulla, marciume, morte che si oppone alla vita. Bisogna
dapprima saccheggiare tutto».
Beppe Grillo? No: Gabriele D'Annunzio. Era il 1899,
e il Vate passò ai socialisti dopo due anni da deputato di destra. Uno
Scilipoti ante litteram. Non aspettò neppure la conclusione del mandato per
compiere il salto della quaglia, come facevano di solito i trasformisti alla
Depretis per salvare il decoro. Lui, principale precursore e ispiratore del
fascismo, ci mise poco a passare da un estremo all'altro del Parlamento.
L'occasione fu l'ostruzionismo contro le leggi
liberticide del governo Pelloux. «Vado verso la vita!», fu la celebre frase con
cui il poeta giustificò il tradimento. Che non fu di poco conto: i socialisti,
allora, erano gli estremisti dell'opposizione di sinistra (repubblicani,
radicali). Entravano e uscivano di prigione, i cannoni del generale Bava
Beccaris li avevano massacrati durante la rivolta del 1898. E proprio
D'Annunzio era uno dei loro principali zimbelli: odiavano quel poetucolo nano,
strafottente e decadente, idolo della piccola borghesia. Il quale a sua volta
non perdeva occasione per irridere le loro idee di eguaglianza.
Si sta concludendo l'anno dannunziano (150°
dalla nascita, 1863). Quasi nessuno ha ricordato l'anno socialista del poeta di
Pescara, parentesi minima in una turbolenta vita tutta spesa all'estrema
destra: dalla beffa di Buccari all'impresa di Fiume, dal volo su Vienna al ritiro
nel Vittoriale.
Ma, soprattutto, risulta incredibile l'infatuazione dei massimi
dirigenti socialisti, dal direttore del quotidiano Avanti! Leonida Bissolati al segretario Filippo Turati, per il Vate
individualista ed esibizionista. Il quale nei pochi mesi in cui sventolò la
«bandiera color vermiglio» (gli dava noia chiamarla rossa) non abbandonò
affatto le proprie idee da superuomo nietzschiano. Ciononostante, il Psi si
lasciò prendere da un incomprensibile entusiasmo per il convertito. Un po' come
oggi, quando chiunque a destra si opponga a Silvio Berlusconi (da Gianfranco
Fini ad Angelino Alfano) viene immediatamente rivalutato e portato sugli altari
dal Pd.
Gli unici a mantenere un po' d'equilibrio furono
gli elettori di sinistra: fecero subito giustizia di quella banderuola
arrogante, bocciandolo nel collegio fiorentino dove il Psi lo aveva candidato
nelle politiche anticipate dell’agosto 1900.
Ricostruiamo questa grottesca vicenda 'contro
natura' grazie a documenti inediti o dimenticati rinvenuti dal professor
Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, che
sta pubblicando il libro D'Annunzio
socialista. «Il poeta, eletto deputato nel 1897 per la destra in un
collegio della sua terra d'origine, Ortona in provincia di Chieti», ricorda
Alosco, «si batteva per il ripristino della grandezza della patria sul modello
di Roma imperiale. Anelava alla supremazia di una classe dominante che
possedesse virtù aristocratiche, appannate dal dominio della borghesia
bottegaia. Nazionalista, disprezzava profondamente ogni principio democratico».
Cosa provocò, allora, il voltafaccia del 1899?
«L'ostruzionismo della sinistra contro i provvedimenti straordinari proposti
dal governo del generale Luigi Pelloux», spiega il professor Alosco, «al quale
in giugno si unirono anche i liberali illuminati di Giolitti e Zanardelli.
L'ostruzionismo era un metodo fino ad allora sconosciuto nelle nostre aule
parlamentari. Ma era giustificato dalla gravità delle leggi in votazione:
domicilio coatto ripristinato anche per motivi politici, polizia che poteva
vietare riunioni in luoghi pubblici, scioglimento di associazioni ritenute
sovversive, impiegati pubblici militarizzati, restrizioni alla libertà di
stampa».
Fu quest'ultimo provvedimento a urtare la
suscettibilità di D'Annunzio, che scriveva da anni su giornali nazionali: il
governo non poteva limitare la sfera degli uomini di pensiero. Dopo mesi di
grandi turbolenze, il 23 marzo 1900 votò anche lui contro il governo. Più per
motivi estetici che politici. Il giorno dopo, infatti, aderì ufficialmente
all'Estrema sinistra, accolto da un'ovazione, con queste parole: «Da una parte
vi sono molti morti che urlano, dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come
uomo d'intelletto, vado verso la vita».
Tre giorni dopo D’Annunzio riprende la metafora
vivi/morti, oggi cara a Grillo, in un articolo sul Mattino di Napoli diretto dal suo amico-nemico Edoardo Scarfoglio.
Poi vota un ordine del giorno per la scuola laica. Tanto basta ai giovani
socialisti fiorentini per mandargli subito un telegramma: «Studenti plaudono
vostro atto generoso osato in mezzo tanta viltà».
Il Vate si sente già un capo della sinistra. Sull'ostruzionismo
dichiara a un giornale inglese: «Non fuvvi battaglia, ma una ritirata che vale
più di una battaglia […] Non ho alcuna speranza nella pacificazione invocata.
Se avvenisse non potrebbe essere sincera». Non sembra il Berlusconi di oggi?
Il governo comunque, indebolito, per ridimensionare
la sinistra scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Il Psi candida
D'Annunzio a Firenze, dove il poeta risiede da due anni nella villa La
Capponcina, a Settignano.
L'Avanti!
di Bissolati si sbrodola: «L'adesione di D'Annunzio all'Estrema ha un alto
significato. L'impulso intellettuale che spinse il finissimo artista a correre
con noi sta ad indicare quanto l'azione dell'Estrema risponda alle ragioni
della dignità civile». Precisa: «Da D'Annunzio ci separa il concetto che noi
abbiamo della vita sociale. Ma ad esso ci uniscono il bisogno di libertà e
l'esigenza di condizioni civili che assicurino il pieno e rigoglioso sviluppo
dell'individuo, così come del corpo sociale».
Nei mesi seguenti l'organo socialista accentua
l'ammirazione per il Vate: «Artista superiore e illustre», «Figura gloriosa di
letterato, poeta, commediografo, romanziere, viva e fulgida gloria d'Italia».
Nota il professor Alosco: «L'Avanti!
dà più spazio a lui che a esponenti di primo piano del partito come Andrea
Costa, cui dedica poche righe di cronaca dei comizi. Ma, soprattutto, pubblica
in prima pagina suoi articoli e ampie recensioni delle sue opere. Nei titoli
usa perfino lo stile aulico dannunziano: 'secondo assalto' invece di ballottaggio,
'vigilia d'armi', 'dopo la lotta'». E pazienza se il Psi, pacifista, detesta
tutto ciò che sa di militarismo.
D'Annunzio pubblica il libro Il Fuoco? Bissolati gli regala un lungo
articolo in prima. «Del tutto inusitato in un giornale politico, figurarsi in
quello del partito socialista», si sorprende Alosco. Il Vate ricambia
sull'unico terreno comune che trova con la sinistra: scrive un'ode a Garibaldi.
E nei comizi tesse elogi degli agricoltori.
Anche Turati considera D'Annunzio un
rivoluzionario sia nell'arte, sia nel sociale. Aveva scritto infatti già nel
1881 sul giornale La Farfalla: «Se lo
lasciano fare è capace del suo bravo colpo di stato artistico, sconvolgendo gli
ordini e le gerarchie costituite». E l'anno dopo: «Coscientemente o incoscientemente,
è socialista e ribelle».
Ciononostante, l'Inimitabile al voto viene
sconfitto: il conte di destra Tommaso Combray Digny raccoglie quasi il doppio
dei suoi suffragi, 1.158 contro 619. D'Annunzio si consola solo per aver
raddoppiato i trecento voti del proprio predecessore candidato di
sinistra.
Dopo il disastro l'infatuazione socialista
scema. D'Annunzio dice al Times dopo
la sconfitta: «Credete che io sia socialista? Io sono sempre lo stesso; fra
quella gente e me esiste una barriera. Sono e rimango individualista ad
oltranza, individualità feroce. Mi piacque entrare un istante nella fossa dei
leoni, ma vi fui spinto per disgusto degli altri partiti. Il socialismo in
Italia è un'assurdità. Da noi non c'è più altra possibile politica che quella
del distruggere». E via, verso nuove avventure. Ingrato.
Mauro Suttora
Wednesday, November 20, 2013
parla McCurry
IL FOTOGRAFO PIU' FAMOSO DEL MONDO
di Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Milano, 13 novembre 2013
Mille persone in fila sotto la pioggia in via San Vittore. Soltanto 180 riescono a entrare nella sala del Museo della Scienza e della Tecnica. C’è una conferenza di Steve McCurry, 63 anni, il fotografo più famoso del mondo. Popolare come una rockstar: la scorsa estate ha parlato a Siena, all’inaugurazione di una sua mostra (prorogata fino al 6 gennaio), stessa folla.
McCurry è diventato una celebrità nel giugno 1985, grazie al ritratto della ragazza afghana. Ma non ha smesso di viaggiare. Ancor oggi si lancia in avventure sconsiderate, in zone di guerra. Perché?
«Suona banale dirlo, ma è per l’adrenalina. Mi eccita schivare le pallottole».
È pericoloso.
«Ma è anche il mestiere più bello del mondo. Lo faccio da 40 anni, non smetterei mai».
Fa più fatica, oggi?
«Al contrario. Con l’esperienza sono diventato più bravo. Forse perché sono basso: riesco a intrufolarmi dappertutto».
Deve passare inosservato?
«Sì. La prima volta che andai in Afghanistan, nel 1978, ero oggetto di una curiosità esotica. Tutti mi si affollavano attorno, curiosi per la mia attrezzatura».
Come fece?
«Aspettavo. La dote principale per un fotografo è saper aspettare. Quando la gente si abitua a me, posso cominciare a lavorare».
Dopo quanto tempo?
«Se sei fortunato, bastano quindici secondi per convincere una persona a regalarti la sua anima. Altrimenti, bisogna attendere che la guardia si abbassi».
E quando si è abbassata?
«Allora fa capolino l’essenza dell’anima, l’esperienza scolpita sul viso di una persona».
Come fa a catturarla con un clic?
«Cerco di far capire cosa vuol dire essere quella persona. Una persona imprigionata in un paesaggio più ampio, cui si può dare il nome di “condizione umana”».
Qual è il suo posto preferito?
«L’India. Fotograficamente, è il Paese più affascinante del mondo. Non ce n’è un altro così ricco e vario per geografia e cultura».
Quante volte c’è stato?
«Circa 85. Mi piace il caos e la confusione di Bombay e Calcutta. Città pazze, quindi fantastiche per lavorarci. Ma tutta l’Asia è più ricca, visivamente, dei Paesi occidentali».
Perché?
«Perché lì la vita scorre per strada. Giocano, lavorano, mangiano, vivono all’aperto. Dove fa più freddo la gente si rintana dentro casa. E nelle città ricche la vita è troppo ordinata e organizzata per essere interessante».
In più, lei vuole la guerra.
«No. Le conseguenze della guerra. È importante che qualcuno le mostri, e che siano conosciute da tutti».
Berlusconi e i suoi vice: Galliani, Alfano
VIA DAL MILAN IL PRIMO. VIA DAL GOVERNO IL SECONDO?
di Mauro Suttora
Adesso la data fatidica è il 27 novembre: il Senato vota la sua «decadenza» dopo la condanna per frode fiscale a quattro anni di carcere, e due di interdizione dai pubblici uffici.
«I magistrati non possono eliminare dalla politica il capo di uno dei maggiori partiti», dicono in coro i suoi. Subito dopo, però, si dividono. Alfano esclude di far cadere il governo guidato da Enrico Letta di cui è vice, dando le dimissioni e togliendo la fiducia: «Si andrebbe al voto e vincerebbe la sinistra». «Traditore, vuoi rimanere attaccato alla poltrona anche dopo che la sinistra ha espulso Berlusconi dal Parlamento», gli ribattono i «lealisti» (Denis Verdini, Raffaele Fitto, Sanro Bondi).
Il Consiglio nazionale del Pdl è convocato per sabato 16 novembre. Sono 863 i membri che annunceranno la morte del partito, e la rinascita di Forza Italia. Ma per farlo devono arrivare ai due terzi dei voti.
In ogni caso, anche se dentro al suo partito prevarrà Berlusconi, non è detto che il governo Letta cada. Alla Camera, infatti, Pd e Scelta Civica hanno la maggioranza anche senza il Pdl. E al Senato bastano 20-30 senatori Pdl (o ex Cinque stelle) per conservarla. Dopodiché, Letta potrebbe andare avanti a governare anche fino al 2015, come spera il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
L’altro fronte che angustia l’ex premier in questi giorni è quello sportivo. Il suo Milan è in crisi nera, e la figlia Barbara ha chiesto la testa del vicepresidente Adriano Galliani. Anche qui, Berlusconi non si commuove. Facile disfarsi dell’allenatore Massimiliano Allegri: appartiene all’unica categoria di lavoratori immediatamente licenziabili in Italia. Più problematico rompere i rapporti con Galliani, che per più di un quarto di secolo è stato l’alter ego del cavaliere nel calcio, e che prima aveva messo in piedi tutta la rete dei ripetitori delle tv Fininvest.
L’uscita del vicepresidente sarà morbida, posticipata a primavera e compensata lautamente. Questo non toglie che ricorda un po’ la testa di Giovanni Battista ottenuta da Salomè dopo aver danzato per il padre Erode.
La bella e arrembante Barbara-Salomè richiamerà al Milan Paolo Maldini come direttore tecnico ed eventualmente Clarende Seedorf. Ma il padre comincia anche a considerarla per un futuro politico, dopo il no della primogenita Marina. Qui però le cose per il povero Berlusconi si complicano. Perché un conto è far andare d’accordo i due galletti Alfano e Fitto, un altro Marina e Barbara.
di Mauro Suttora
Oggi, 13 novembre 2013
Brutto mese, novembre, per Berlusconi. Due anni fa venne estromesso dal governo per far posto a Mario Monti. L’anno scorso i sondaggi davano il Popolo delle Libertà crollato al 15 per cento senza di lui. Dovette riprendere la guida del partito da Angelino «senza quid» Alfano per pareggiare in extremis le politiche di febbraio.
Adesso la data fatidica è il 27 novembre: il Senato vota la sua «decadenza» dopo la condanna per frode fiscale a quattro anni di carcere, e due di interdizione dai pubblici uffici.
«I magistrati non possono eliminare dalla politica il capo di uno dei maggiori partiti», dicono in coro i suoi. Subito dopo, però, si dividono. Alfano esclude di far cadere il governo guidato da Enrico Letta di cui è vice, dando le dimissioni e togliendo la fiducia: «Si andrebbe al voto e vincerebbe la sinistra». «Traditore, vuoi rimanere attaccato alla poltrona anche dopo che la sinistra ha espulso Berlusconi dal Parlamento», gli ribattono i «lealisti» (Denis Verdini, Raffaele Fitto, Sanro Bondi).
«Farete la fine di Fini»
Alla fine decide Berlusconi in persona: «Come possono i nostri senatori e ministri collaborare con chi compie un omicidio politico?» E aggiunge minaccioso: «Non andrete da nessuna parte. Anche Fini e gli altri ebbero due settimane di spazio sui giornali. Ma poi è finita com’è finita».
Il Consiglio nazionale del Pdl è convocato per sabato 16 novembre. Sono 863 i membri che annunceranno la morte del partito, e la rinascita di Forza Italia. Ma per farlo devono arrivare ai due terzi dei voti.
In ogni caso, anche se dentro al suo partito prevarrà Berlusconi, non è detto che il governo Letta cada. Alla Camera, infatti, Pd e Scelta Civica hanno la maggioranza anche senza il Pdl. E al Senato bastano 20-30 senatori Pdl (o ex Cinque stelle) per conservarla. Dopodiché, Letta potrebbe andare avanti a governare anche fino al 2015, come spera il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
I governativi hanno i voti necessari
Si ritornerebbe, insomma, allo scenario del 2 ottobre. Quando i «governativi» del Pdl (oltre ad Alfano gli altri ministri Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, più big come Fabrizio Cicchitto e Roberto Formigoni) avevano già racimolato i voti necessari a proseguire le «larghe intese». E Berlusconi, piuttosto che perdere, con un colpo di scena votò la fiducia.
L’altro fronte che angustia l’ex premier in questi giorni è quello sportivo. Il suo Milan è in crisi nera, e la figlia Barbara ha chiesto la testa del vicepresidente Adriano Galliani. Anche qui, Berlusconi non si commuove. Facile disfarsi dell’allenatore Massimiliano Allegri: appartiene all’unica categoria di lavoratori immediatamente licenziabili in Italia. Più problematico rompere i rapporti con Galliani, che per più di un quarto di secolo è stato l’alter ego del cavaliere nel calcio, e che prima aveva messo in piedi tutta la rete dei ripetitori delle tv Fininvest.
L’uscita del vicepresidente sarà morbida, posticipata a primavera e compensata lautamente. Questo non toglie che ricorda un po’ la testa di Giovanni Battista ottenuta da Salomè dopo aver danzato per il padre Erode.
La bella e arrembante Barbara-Salomè richiamerà al Milan Paolo Maldini come direttore tecnico ed eventualmente Clarende Seedorf. Ma il padre comincia anche a considerarla per un futuro politico, dopo il no della primogenita Marina. Qui però le cose per il povero Berlusconi si complicano. Perché un conto è far andare d’accordo i due galletti Alfano e Fitto, un altro Marina e Barbara.
Mauro Suttora
Italiani a New York
Bill de Blasio sindaco, ma i nostri connazionali sono ancora discriminati. Adesso i figli dei nostri emigrati sono sia al vertice della città sia dello stato, con Andrew Cuomo. Eppure l’invisibile apartheid sociale di Manhattan colpisce ancora gli italoamericani. Ecco come
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
New York (Stati Uniti), 13 novembre 2013
Potrebbe perfino diventare presidente degli Stati Uniti, un giorno. Bill de Blasio da Sant’Agata dei Goti (Benevento), nuovo sindaco di New York, ha avuto tanti di quei voti che fra otto o 12 anni nulla gli vieterebbe di ambire alla poltrona più importante del mondo. Come fu già per Rudy Giuliani, altro sindaco italoamericano fino al 2001 e candidato alle primarie presidenziali nel 2008.
Ma cosa vuol dire essere italoamericani oggi a New York? Molti ignorano che nella città apparentemente più aperta e democratica del mondo, incredibilmente, esiste ancora l’apartheid. Nessun italiano può abitare in un palazzo/zona di ebrei o wasp (acronimo che significa white, anglosaxon protestant, cioè bianchi, anglosassoni protestanti) o irlandesi o neri. E viceversa.
I miliardari di Park avenue
Perfino a Park Avenue uno come Gianni Agnelli aveva trovato posto in un bulding «international», ovvero riservato ai miliardari stranieri, mentre i palazzi vicini sono totalmente ebrei o wasp. Quasi mai misti.
Ugualmente, nelle decine di feste di gala che accendono ogni notte Manhattan, dal Waldorf Astoria al Plaza, vige una codice non detto, ma strettissimo per cui è praticamente impossibile per un nero o un italiano accedere ai board e ai tavoli delle feste di beneficenza più ambìte: basta scorrere le liste dei cognomi degli invitati per accorgersene. Ed è qui che si svolge la vita sociale che conta.
Gli italoamericani, anche quelli ricchi, sono confinati in zone ben precise di Brooklyn, Staten Island, Bronx e New Jersey. Vantano una sola giornalista famosa: Maria Bartiromo, appena passata dalla rete tv Cnbc alla Fox.
Sono discriminati come mafiosi, considerati tutti Sopranos, e la sede della loro Fondazione (Knights of Columbus, Cavalieri di Colombo, organizzatori dell’annuale parata del 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America), nell’elegante Upper East Side, è tanto prestigiosa quanto snobbata dall’establishment sociale/finanziario/culturale.
Poliziotti e pompieri, feudi nostri
Le uniche rivincite ce le prendiamo in politica (un altro italiano, Andrew Cuomo, è presidente dello stato di New York), nel cinema (Robert De Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Francis Ford Coppola) e negli altri due feudi newyorkesi, polizia e pompieri, in condominio con gli irlandesi.
Certo, i ristoranti di Cipriani o la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada sono affollati anche dai newyorkesi che contano. Ma quella è considerata un’Italia raffinata, lontana dagli immigrati.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
New York (Stati Uniti), 13 novembre 2013
Potrebbe perfino diventare presidente degli Stati Uniti, un giorno. Bill de Blasio da Sant’Agata dei Goti (Benevento), nuovo sindaco di New York, ha avuto tanti di quei voti che fra otto o 12 anni nulla gli vieterebbe di ambire alla poltrona più importante del mondo. Come fu già per Rudy Giuliani, altro sindaco italoamericano fino al 2001 e candidato alle primarie presidenziali nel 2008.
Ma cosa vuol dire essere italoamericani oggi a New York? Molti ignorano che nella città apparentemente più aperta e democratica del mondo, incredibilmente, esiste ancora l’apartheid. Nessun italiano può abitare in un palazzo/zona di ebrei o wasp (acronimo che significa white, anglosaxon protestant, cioè bianchi, anglosassoni protestanti) o irlandesi o neri. E viceversa.
I miliardari di Park avenue
Perfino a Park Avenue uno come Gianni Agnelli aveva trovato posto in un bulding «international», ovvero riservato ai miliardari stranieri, mentre i palazzi vicini sono totalmente ebrei o wasp. Quasi mai misti.
Ugualmente, nelle decine di feste di gala che accendono ogni notte Manhattan, dal Waldorf Astoria al Plaza, vige una codice non detto, ma strettissimo per cui è praticamente impossibile per un nero o un italiano accedere ai board e ai tavoli delle feste di beneficenza più ambìte: basta scorrere le liste dei cognomi degli invitati per accorgersene. Ed è qui che si svolge la vita sociale che conta.
Gli italoamericani, anche quelli ricchi, sono confinati in zone ben precise di Brooklyn, Staten Island, Bronx e New Jersey. Vantano una sola giornalista famosa: Maria Bartiromo, appena passata dalla rete tv Cnbc alla Fox.
Sono discriminati come mafiosi, considerati tutti Sopranos, e la sede della loro Fondazione (Knights of Columbus, Cavalieri di Colombo, organizzatori dell’annuale parata del 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America), nell’elegante Upper East Side, è tanto prestigiosa quanto snobbata dall’establishment sociale/finanziario/culturale.
Poliziotti e pompieri, feudi nostri
Le uniche rivincite ce le prendiamo in politica (un altro italiano, Andrew Cuomo, è presidente dello stato di New York), nel cinema (Robert De Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Francis Ford Coppola) e negli altri due feudi newyorkesi, polizia e pompieri, in condominio con gli irlandesi.
Certo, i ristoranti di Cipriani o la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada sono affollati anche dai newyorkesi che contano. Ma quella è considerata un’Italia raffinata, lontana dagli immigrati.
Mauro Suttora
Wednesday, November 13, 2013
Barbara Berlusconi
di Mauro Suttora
Oggi, 6 novembre 2013
Negli sprint di ciclismo di solito vince il secondo, che sbuca da dietro all’improvviso infilando l’apripista. Lo stesso farà Barbara Berlusconi, ai danni della sorellastra Marina?
Negli sprint di ciclismo di solito vince il secondo, che sbuca da dietro all’improvviso infilando l’apripista. Lo stesso farà Barbara Berlusconi, ai danni della sorellastra Marina?
Missione impossibile, all’apparenza. Marina B. è sugli scudi di tutti i berlusconiani. Da tre mesi, dopo la condanna del padre, è diventata una dei suoi consiglieri più stretti in politica. Materia che le è totalmente indifferente, presa com’è dalla presidenza Mondadori. Lei e papà continuano a smentire una sua discesa in campo nei palazzi romani. Ma più negano, meno i forzisti ci credono: addirittura due su tre, dice qualche sondaggio, scommettono su di lei come erede politica.
E Barbara freme. Alla soglia dei trent’anni, la terzogenita di Silvio vuole farsi strada. Il solco è tracciato: per lei c’è il Milan, quarta gamba dell’impero di famiglia dopo Mediaset (andata al fratellastro Pier Silvio), Mondadori (Marina) e Forza Italia. Due anni fa, dopo la laurea breve in filosofia (Marina invece non è laureata), B.B. è stata nominata consigliere d’amministrazione della squadra di calcio.
«Immagino un mio futuro in Mondadori», aveva osato dichiarare, causando sconcerto nel padre e ira nella sorellastra che vedeva minacciato il feudo acquisito dal 2003. Provocazione? Invasione di campo? «Sarà manovrata dalla madre», sussurrarono i maligni. Veronica Lario, già in tempestosa rotta con l’ex marito e gran paladina della sorte dei propri tre figli.
Ma in questi anni Barbara ha imparato a giocare in proprio. E ormai le va stretto il seggiolino da consigliere d’amministrazione del Milan con cui era stata tacitata dopo quella sua prima alzata di testa.
Il giocattolo non le basta più. «Ci vuole un cambio di rotta nella società», ha annunciato dopo l’umiliante sconfitta in casa del Milan con la Fiorentina. Protesta con il padre, naturalmente precisa che non ce l’ha con Adriano Galliani. Ma vale di più il vicepresidente quasi 70enne che sta perdendo tutto o la figlia arrembante del presidente? Pagherà, come sempre, l’allenatore: Massimiliano Allegri. Pagherà anche per aver trattato male Alexander Pato, il baby-fidanzato di Barbara (cinque anni in meno) usato e buttato come tanti altri giovani simboli mancati dell’ex squadrone (Kaka, Stephan El Shaarawy).
La capricciosa Barbara, invaghita del «papero», ci aveva progettato casa assieme: si era fatta dare dal babbo 9,3 milioni per mezzo migliaio di metri quadri di attico e superattico in centro a Milano. Ora, dopo il mesto ritorno di Pato in Brasile a gennaio e la fine della storia a luglio, Barbara si è messa con un altro 24enne: lo studente di economia Lorenzo Guerrieri, barman a tempo perso nell’enoteca monzese Mulino dove si sono conosciuti. Addominali scolpitissimi, praticamente un sosia di Pato. Anche lui di Monza come Giorgio Valaguzza, dal quale senza sposarlo B.B. ha avuto i figli Alessandro (che ha appena compiuto sei anni) ed Edoardo. Gira e rigira, insomma, le berluschine nelle cose importanti sempre attorno alla loro Brianza ruotano.
Fra Barbara e Marina i rapporti sono agrodolci. Il gelo durato anni, dopo il mancato arrembaggio di B.B. alla Mondadori, pare si sia stemperato di recente. Ora tutti i figli, di primo e secondo letto, accorrono presso il padre 77enne nelle occasioni importanti: feste, compleanni e condanne penali.
Ma Barbara rimane il terrore degli addetti stampa Fininvest e la delizia dei giornalisti: le sue interviste, contrariamente a quelle di Marina, non sono concordate. Quindi ogni volta escono affermazioni clamorose e imprevedibili. Come quando disse che mai e poi mai avrebbe fatto vedere ai figli certi programmi delle tv Mediaset, e Maurizio Costanzo si offese. Nel 2007 ammise di aver fatto comprare dal padre per 20 mila euro certe imbarazzantissime foto scattatele da un paparazzo davanti a una discoteca di Milano. E dovette spiegare al pm Henry John Woodcock (detestato da Berlusconi) il ricatto subìto da Fabrizio Corona.
Nulla di più lontano dalla tranquilla vita privata di Marina. La quale al massimo convoca lei i paparazzi per farsi ritrarre a bordo piscina in foto «finte rubate». Dopo un fidanzamento durato dieci anni ma finito male, ha sposato il padre dei suoi due figli (Gabriele e Silvio), l’ex ballerino Maurizio Vanadia.
Come finirà il confronto/duello fra le due primedonne dell’impero di Arcore? Barbara, contrariamente a Marina, non ha mai detto che non le piace la politica. Dopotutto, suo padrino di battesimo nel 1984 fu Bettino Craxi, allora premier all’apice della gloria. «È bravissima, meglio lei di Marina», assicura il filosofo Massimo Cacciari. Che è di sinistra, ma era anche il rettore dell’università San Raffaele dove B.B. si è laureata.
Mauro Suttora
Wednesday, October 23, 2013
Grillo è stufo?
QUANTI GRATTACAPI PER IL FONDATORE DEI 5 STELLE
Diktat sui clandestini. Sanzioni ai dissidenti. Capilista benemeriti eliminati. Nessuna democrazia. I grillini sono in panne. Ma dicono: «La colpa non è di Beppe, i danni li fa Casaleggio»
Oggi, 16 ottobre 2013
di Mauro Suttora
«Ha perso la testa». Questo è il commento più comune fra gli sconsolati attivisti del Movimento 5 stelle (M5s). Si riferiscono non a Beppe Grillo, fondatore e padre-padrone del movimento, ma al suo guru Gianroberto Casaleggio: è lui a gestire, in concreto, il secondo partito italiano.
Grillo si sta stufando del suo giocattolo. I 150 parlamentari eletti a febbraio fanno troppo di testa loro. Due senatori sono riusciti a sconfiggere il Pdl facendo passare in commissione un proprio emendamento che abolisce il reato di clandestinità per gli immigrati.
Rottura con Dario Fo e Marco Travaglio
Apriti cielo: il giorno dopo Casaleggio li ha sconfessati pubblicamente, con un diktat firmato anche da Grillo. Risultato: rivolta sia dei parlamentari, sia degli attivisti. E rottura con tutti: Dario Fo, Marco Travaglio, il quotidiano Il Fatto (l’unico vicino ai grillini). Sembra che Casaleggio sia posseduto da un «cupio dissolvi», una mania autodistruttiva. Che ha già fatto fuori Stefano Rodotà (candidato 5 stelle al Quirinale in aprile), Milena Gabanelli (la più votata per quella stessa carica), Emma Bonino (anche lei fra i presidenziabili, e antesignana della lotta contro il finanziamento pubblico ai partiti).
Sede vicino a via Montenapoleone
Il pugno di ferro di Casaleggio si fa sentire anche all’interno del movimento. La gestione apparentemente libertaria (niente statuti, sedi, dirigenti, funzionari), in realtà è quasi stalinista. Vietato ogni minimo dissenso. Casaleggio, dalla sede della sua società in centro a Milano (fra Montenapoleone e Mediobanca, zona di lusso da 20mila euro a metro quadro, alla faccia della polemica contro i «poteri forti»), si spinge a telefonare personalmente a consiglieri comunali (quello di Trieste Stefano Patuanelli) per chiedere condanne pubbliche contro i dissidenti (il senatore del Friuli-Venezia Giulia Lorenzo Battista).
Il ricatto: se non si obbedisce, il simbolo M5s viene ritirato (è di proprietà di Grillo e Casaleggio). La gestione del partito è familistica: il nipote di Grillo ne è vicepresidente, il figlio di Casaleggio guida un orwelliano e anonimo «Staff» che da Milano comanda tutti a bacchetta.
Basilicata: eliminato l’eroe verde
L’ultima scivolata: il candidato capolista alle imminenti regionali in Basilicata (17 novembre) Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provinciale, cancellato dalla lista perché condannato in primo grado a due mesi per «rivelazione di segreto d’ufficio». Vincitore alle primarie online, Di Bello è stato poi cacciato per la regola che vieta la candidatura di condannati. Peccato che il reato da lui commesso sia in realtà una medaglia: i dati «rivelati» riguardano l’inquinamento del lago Pertusillo, che fornisce acqua potabile alla regione. Di Bello, assieme a Maurizio Bolognetti (che sarà invece capolista radicale) è considerato un eroe dagli ecologisti locali. Solo per i ciechi burocrati di Casaleggio è un poco di buono.
I sondaggi continuano a dare i 5 stelle al 20%. Grazie ai passi falsi degli altri partiti, il movimento è ancora visto come l’unico voto di protesta. Ma al suo interno si sfalda. Da anni Casaleggio promette una «piattaforma» online per prendere le decisioni in maniera democratica. Ma non arriva mai, quindi decidono tutto lui e Grillo.
Alcuni eletti hanno messo a punto un «Parlamento elettronico» per mantenere l’impegno con gli elettori di consultarli sempre sulla Rete: si considerano infatti semplici «portavoce dei cittadini». Hanno raccolto 160 mila euro per realizzarlo, dalla Cina sono arrivate le chiavette per il riconoscimento, come quelle delle banche (Casaleggio invece gestisce i voti online dal suo server privato). Ma il giorno dopo la presentazione ufficiale, Casaleggio li ha bocciati.
Si contraddicono su Napolitano
Imbarazzo perfino per la fedelissima Paola Taverna, la «poetessa», nuova capogruppo al Senato dopo Vito Crimi. È andata a presentare al presidente Giorgio Napolitano il piano carceri del M5s che potrebbe evitare l’amnistia avversata dai grillini. Ma il giorno dopo Casaleggio mette sul blog una richiesta di impeachement contro Napolitano. Come si fa a dialogare con un presidente, se lo si considera un farabutto da cacciare?
Mauro Suttora
Diktat sui clandestini. Sanzioni ai dissidenti. Capilista benemeriti eliminati. Nessuna democrazia. I grillini sono in panne. Ma dicono: «La colpa non è di Beppe, i danni li fa Casaleggio»
Oggi, 16 ottobre 2013
di Mauro Suttora
«Ha perso la testa». Questo è il commento più comune fra gli sconsolati attivisti del Movimento 5 stelle (M5s). Si riferiscono non a Beppe Grillo, fondatore e padre-padrone del movimento, ma al suo guru Gianroberto Casaleggio: è lui a gestire, in concreto, il secondo partito italiano.
Grillo si sta stufando del suo giocattolo. I 150 parlamentari eletti a febbraio fanno troppo di testa loro. Due senatori sono riusciti a sconfiggere il Pdl facendo passare in commissione un proprio emendamento che abolisce il reato di clandestinità per gli immigrati.
Rottura con Dario Fo e Marco Travaglio
Apriti cielo: il giorno dopo Casaleggio li ha sconfessati pubblicamente, con un diktat firmato anche da Grillo. Risultato: rivolta sia dei parlamentari, sia degli attivisti. E rottura con tutti: Dario Fo, Marco Travaglio, il quotidiano Il Fatto (l’unico vicino ai grillini). Sembra che Casaleggio sia posseduto da un «cupio dissolvi», una mania autodistruttiva. Che ha già fatto fuori Stefano Rodotà (candidato 5 stelle al Quirinale in aprile), Milena Gabanelli (la più votata per quella stessa carica), Emma Bonino (anche lei fra i presidenziabili, e antesignana della lotta contro il finanziamento pubblico ai partiti).
Sede vicino a via Montenapoleone
Il pugno di ferro di Casaleggio si fa sentire anche all’interno del movimento. La gestione apparentemente libertaria (niente statuti, sedi, dirigenti, funzionari), in realtà è quasi stalinista. Vietato ogni minimo dissenso. Casaleggio, dalla sede della sua società in centro a Milano (fra Montenapoleone e Mediobanca, zona di lusso da 20mila euro a metro quadro, alla faccia della polemica contro i «poteri forti»), si spinge a telefonare personalmente a consiglieri comunali (quello di Trieste Stefano Patuanelli) per chiedere condanne pubbliche contro i dissidenti (il senatore del Friuli-Venezia Giulia Lorenzo Battista).
Il ricatto: se non si obbedisce, il simbolo M5s viene ritirato (è di proprietà di Grillo e Casaleggio). La gestione del partito è familistica: il nipote di Grillo ne è vicepresidente, il figlio di Casaleggio guida un orwelliano e anonimo «Staff» che da Milano comanda tutti a bacchetta.
Basilicata: eliminato l’eroe verde
L’ultima scivolata: il candidato capolista alle imminenti regionali in Basilicata (17 novembre) Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provinciale, cancellato dalla lista perché condannato in primo grado a due mesi per «rivelazione di segreto d’ufficio». Vincitore alle primarie online, Di Bello è stato poi cacciato per la regola che vieta la candidatura di condannati. Peccato che il reato da lui commesso sia in realtà una medaglia: i dati «rivelati» riguardano l’inquinamento del lago Pertusillo, che fornisce acqua potabile alla regione. Di Bello, assieme a Maurizio Bolognetti (che sarà invece capolista radicale) è considerato un eroe dagli ecologisti locali. Solo per i ciechi burocrati di Casaleggio è un poco di buono.
I sondaggi continuano a dare i 5 stelle al 20%. Grazie ai passi falsi degli altri partiti, il movimento è ancora visto come l’unico voto di protesta. Ma al suo interno si sfalda. Da anni Casaleggio promette una «piattaforma» online per prendere le decisioni in maniera democratica. Ma non arriva mai, quindi decidono tutto lui e Grillo.
Alcuni eletti hanno messo a punto un «Parlamento elettronico» per mantenere l’impegno con gli elettori di consultarli sempre sulla Rete: si considerano infatti semplici «portavoce dei cittadini». Hanno raccolto 160 mila euro per realizzarlo, dalla Cina sono arrivate le chiavette per il riconoscimento, come quelle delle banche (Casaleggio invece gestisce i voti online dal suo server privato). Ma il giorno dopo la presentazione ufficiale, Casaleggio li ha bocciati.
Si contraddicono su Napolitano
Imbarazzo perfino per la fedelissima Paola Taverna, la «poetessa», nuova capogruppo al Senato dopo Vito Crimi. È andata a presentare al presidente Giorgio Napolitano il piano carceri del M5s che potrebbe evitare l’amnistia avversata dai grillini. Ma il giorno dopo Casaleggio mette sul blog una richiesta di impeachement contro Napolitano. Come si fa a dialogare con un presidente, se lo si considera un farabutto da cacciare?
Mauro Suttora
Sunday, October 20, 2013
Nuova edizione del mio libro
Nuova copertina per la traduzione in spagnolo dei diari (autentici) di Claretta da me curati, e pubblicati in Italia da Rizzoli nel 2009
Wednesday, October 09, 2013
Maroni con la moglie a Roma
L'ex ministro dell'Interno, ora presidente della Lombardia e capo della Lega Nord, fotografato per la prima volta a spasso con la consorte per turismo nella capitale
Oggi, 2 ottobre 2013
di Mauro Suttora
Era uno dei segreti meglio custoditi d’Italia: la moglie di Roberto Maroni, già ministro dell’Interno, da sei mesi presidente della regione Lombardia e segretario della Lega Nord. Mai un’apparizione in pubblico assieme al marito, mai un’intervista o una dichiarazione.
La riservatezza è assoluta. Di lei si conosce soltanto il nome, Emilia Macchi, e la longevità del legame col suo Bobo. Si sono infatti conosciuti sui banchi del liceo classico Caroli di Varese nei primi anni Settanta. Lei era la figlia di uno dei fondatori dell’Aermacchi, storica fabbrica di aerei; lui figlio della buona borghesia di un paese della provincia, Lozza, ma estremista di sinistra e iscritto a Democrazia Proletaria fino all’età di 24 anni, quando incontra Umberto Bossi.
Lei è dirigente dell’Aermacchi
La signora Maroni gli ha dato tre figli: la primogenita Chelo, oggi 26enne, Filippo, 21, e Fabrizio, 16. E lavora come dirigente del personale nell’Aermacchi, che si è fusa con Alenia e fa parte del colosso Finmeccanica. È finita sui giornali soltanto l’anno scorso, quando il presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi è stato indagato per corruzione.
Contrariamente alla famiglia Bossi, la famiglia Maroni si è sempre tenuta lontano dalla politica. Da un quarto di secolo Bobo è il numero due della Lega, da vent’anni è a Roma come deputato e ministro, ma non risulta che Emilia fosse mai scesa a visitare il marito nella capitale. Lacuna colmata: ecco la coppia visitare le vie del centro come normali turisti, senza scorta.
Per Maroni non sono tempi tranquilli. La Lega infatti è sempre attraversata da tensioni interne, e lui si appresta a lasciare la carica di segretario. Probabilmente a Matteo Salvini, visto che il sindaco di Verona Flavio Tosi è particolarmente inviso a Bossi.
Wednesday, October 02, 2013
Giulia Ligresti libera
ORA È TUTTA LAGO E CHIESA
Prime foto a Pallanza, sul lago Maggiore. Ha patteggiato due anni e otto mesi
Oggi, 25 settembre 2013
di Mauro Suttora
Eccola di nuovo in libertà Giulia Ligresti, figlia di Salvatore, che dal 17 luglio è stata in carcere e poi, da un mese, agli arresti domiciliari. Il 3 settembre ha patteggiato una pena di due anni e otto mesi, uscendo dall’inchiesta Fonsai. Quando la sentenza diventerà definitiva, il Tribunale di sorveglianza di Milano deciderà come dovrà scontarli: probabile l’affidamento a servizi socialmente utili, come per Silvio Berlusconi e tutti i condannati a meno di tre anni.
La Ligresti è stata condannata anche a una multa di 20 mila euro, alla confisca di cinque milioni di euro in azioni e di immobili per un valore di circa 28 milioni. Solo una piccola parte del maxisequestro del patrimonio di famiglia, di oltre 250 milioni: alberghi di lusso, complessi immobiliari, conti correnti, un campo da golf e polizze assicurative.
Rimane in carcere la sorella di Giulia, Jonella. Anche il padre, don Salvatore, resta agli arresti domiciliari (concessi perché ha più di 80 anni): rifiuta infatti di rispondere alle domane dei magistrati, che dovrebbero chiudere l’inchiesta per falso in bilancio e manipolazione del mercato entro un mese.
Il fratello di Giulia, Paolo, è sfuggito alla cattura perché vive in Svizzera. La signora Ligresti, oltre a essere mamma della ventenne Ginevra Rossini (già fidanzata di Luigi Berlusconi, ultimogenito di Silvio), si era lanciata nella moda con il marchio Gilli (le sue iniziali) e boutiques in via della Spiga a Milano e piazza di Spagna a Roma.
Tuesday, October 01, 2013
Caligaris e Parenti su Forza Italia
LA CRISI DEL PARTITO DI BERLUSCONI
di Mauro Suttora
30 settembre 2013
Forza Italia resuscita, o abortisce? Appena una settimana dopo l’inaugurazione della nuova sede, le dimissioni imposte da Silvio Berlusconi ai suoi ministri fanno vacillare l’annunciata rinascita del partito. Che si era fuso con An nel 2008, con risultati catastrofici: sei milioni di voti persi dal Pdl alle ultime elezioni. Quindi ritorno alle origini, in un momento drammatico per il leader: condannato, espulso dal Parlamento.
Ma già si annunciano illustri defezioni: i ministri Angelino Alfano («Sarò diversamente berlusconiano»), Gaetano Quagliariello («Non sono un estremista da Lotta Continua»), Beatrice Lorenzin. Fabrizio Cicchitto mugugna sulla mancanza di democrazia interna.
Che succede? Che ne è del partito che dal 1994, al governo o all’opposizione, domina la politica italiana?
«Faccia quel che vuole, le do carta bianca». Esattamente vent’anni fa Berlusconi consegnò le chiavi della palazzina romana dove sarebbe nata Forza Italia al generale Luigi Caligaris.
«Fu un’avventura entusiasmante», ricorda adesso il generale. «In quattro mesi costruimmo dal nulla un nuovo partito che divenne subito il primo della settima potenza industriale del mondo. Mai successo, nella storia».
Si ripeterà oggi il miracolo del 1993-94? «Impossibile», sentenzia Caligaris, tessera numero tre di Forza Italia (dopo il fondatore e l’ex ministro Antonio Martino). «Allora ci appoggiammo alle strutture Fininvest. Uomini d’impresa, legati da un rapporto di dipendenza a Berlusconi. Io, pur essendo abituato a obbedire, come militare, ero terrorizzato dal compito: creare un partito in poche settimane. Ma il clan dei fedelissimi mi rispose: “Nessun problema, siamo tutti bravi e il nostro capo è il più bravo di tutti”. Questo clima non è cambiato. Nessun dibattito interno. C’è più disciplina in Forza Italia che in una caserma. Berlusconi è sensibile solo alle opinioni dei fedeli».
Solo dei fedelissimi, pare, in questi giorni: i “falchi” Daniela Santanché e Denis Verdini.
«È la conferma che il modello dell'impresa privata non funziona in politica. I leader hanno bisogno di un sistema non autoritario, in cui ci sia uno scambio continuo di opinioni fra base e vertice, ma in entrambe le direzioni. La base non può limitarsi a eseguire quel che vuole il vertice».
Caligaris se ne andò nel ’97, quando gli eurodeputati di Fi passarono ai Popolari europei (Dc): «Nessuna coerenza. Dicevamo di essere liberali, finimmo democristiani. E l’ordine, come sempre, arrivò dall’alto. Inappellabile. Niente discussioni».
Un altro volto noto di quella stagione eroica era Tiziana Parenti. Titti la rossa, la pugnace magistrata pisana che contestò i colleghi milanesi (Di Pietro, Borrelli, D’Ambrosio): Tangentopoli a senso unico, Pci salvato.
Oggi lei non salva Forza Italia: «In realtà come forza politica non è mai esistita. È sempre stata un’illusione. Berlusconi si ritira ad Arcore con Confalonieri e i familiari, e decide. Eravamo commissariati dalla Fininvest, facevamo politica aziendale. Come oggi, con i deputati schierati contro la sentenza da 500 milioni per Mediaset».
La Parenti era uno dei deputati più popolari, simbolo di una giustizia non piegata a sinistra (eterna accusa forzista ai magistrati): «Berlusconi ripeteva sempre: il nostro partito si deve strutturare, io presto mi ritirerò. Per qualche anno gli ho creduto, ho aspettato. Poi mi sono sentita imbrogliata. Per essere eletta mi ero dimessa dalla magistratura, non ho preso aspettative come tanti altri. Nessun paracadute. Ma se osavo obiettare qualcosa, mi assalivano. C’è un clima di cortigianeria che rasenta il degrado umano».
La fede nel capo sembra essere il destino di molti partiti. Anche di quelli “contro”: Bossi, Di Pietro, Grillo.
«Grillo è differente da Berlusconi solo perché urla, invece di fare il borghese perbenista. Entrambi usano i parlamentari come marionette, Grillo li manda sul tetto. È drammatico che dopo vent’anni ci siano ancora persone adulte che rinunciano al senso critico».
La lista di quelli che hanno abbandonato Forza Italia è lunga: se ne potrebbe fare un altro partito.
«Ricordo i “professori”: usati come carta velina che si appallottola e si butta nel cestino. Ma tutti si legavano al carrozzone. Subivano il ricatto: “O con me o contro di me”. Non era permessa alcuna opinione alternativa. L’unico sfogo era sparlare alle spalle».
Insomma, altro che Dumas: nessun Vent’anni dopo per i moschettieri di Berlusconi?
«Quelli di allora non ci sono più. È una ripetizione penosa, patetica. Chi trova il coraggio di criticare lo fa solo quando viene scaricato, come Fini. Non c’è futuro per Forza Italia. Berlusconi morirà senza eredi, i tanti pretendenti non hanno alcuna possibilità di crescita. È un danno anche per il Paese».
Non è che ha un po’ di odio dell’ex?
«Guardi, ero molto amareggiata quando sono uscita. Ma era il ’97. Ne è passato di tempo. Oggi faccio l’avvocato, e quel poco di passione politica che mi è rimasta lo spendo con il Psi. Brave persone. Il mio problema con Forza Italia era solo che volevo un minimo di dibattito interno. Poi potevo anche avere torto. Ma senza falangi precostituite. Per il resto, le mie idee non sono cambiate. Infatti ho sulle spalle una querela da Di Pietro per 250mila euro».
Mauro Suttora
Wednesday, September 25, 2013
Com'è moderno il vecchio Lucrezio
IL DE RERUM NATURA TRADOTTO E COMMENTATO DA ODIFREDDI
di Mauro Suttora
Oggi, 18 settembre 2013
Quanto avete sofferto, a scuola, per il latino? E quanto
avete odiato le intraducibili versioni del De
Rerum Natura di Lucrezio?
Beh, ravvedetevi. Il nuovo libro di Piergiorgio Odifreddi (Come stanno le cose: il mio Lucrezio, la mia
Venere, ed. Rizzoli) vi farà amare il capolavoro del poeta romano.
Odifreddi, infatti, nelle pagine dispari offre una sua
versione in prosa de La Natura delle Cose.
E nelle pagine pari, di fronte, la commenta, con sorprendenti rimandi
all’attualità che la rendono godibilissima.
Bob Dylan, per esempio. Chi l’avrebbe detto che la sua
canzone più famosa, Blowin’ In The Wind
del 1962, appariva già nel verso 559 del libro IV del De Rerum (quello sulla fisiologia e i sensi umani)? «Conturbari
vocem, dum transvolat auras», che Odifreddi traduce «la voce si turba,
disperdendosi nel vento». Così, «la risposta sta soffiando nel vento» duemila
anni dopo.
Oppure Federico Fellini, Woody Allen e John Lennon. «Il film
8 e mezzo», scrive Odifreddi, «è
un’opera autobiografica che mostra Fellini mentre pensa al nuovo film che deve
girare. Idea simile a Stardust Memories
di Allen (1980), in cui la finzione dell’assassinio del regista anticipa di
poche settimane la realtà di quello di Lennon».
Ebbene, sull’autoreferenzialità dell’opera d’arte aveva già
scritto tutto Lucrezio (IV, 969-970): «Sogno di indagare la natura delle cose,
di comprenderla e di spiegarla in un libro intitolato La natura delle cose».
Anche Italo Calvino si ispira a questi versi all’inizio del
suo notissimo libro del 1979: «Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di
Italo Calvino…»
Gli esempi di autori che citano se stessi sono innumerevoli,
avverte Odifreddi: «Nell’Iliade
Elena ricama una veste di por- pora che raffigura i passi salienti dell’Iliade. Nell’Amleto si mette in scena una tragedia che è la stessa dell’Amleto. Nel Don Chisciotte, i protagonisti della seconda parte hanno letto la
prima. Nei Sei personaggi in cerca
d’autore, i sei personaggi cercano un autore che racconti la loro stessa
ricerca».
Quegli stessi versi di Lucrezio offrono un esempio
archetipico dell’indistinguibilità fra sonno e veglia. Calderon de la Barca nel
1635 ci scrisse sopra un intero poema: La
vita è sogno. «E vari film di fantascienza», aggiunge Odifreddi, «hanno
esplorato mondi popolati da esseri virtuali che credono di essere reali: da Nirvana di Gabriele Salvatores del 1997,
alla trilogia Matrix» con Keanu
Reeves.
Insomma, quanti spunti di attualità potrebbe trovare
un bravo prof di latino per appassionare i propri studenti. Invece, come
avvertiva Primo Levi, «Lucrezio non si legge volentieri nei licei:
ufficialmente perché è troppo difficile, di fatto perché dai suoi versi ha
sempre emanato odore di empietà».
Lucrezio, infatti, era un seguace dei filosofi
materialisti Democrito ed Epicuro. Per niente religioso, quindi. Anzi ateo,
come Odifreddi. Il quale polemizza: «Gli scrittori cristiani, per screditare il
più elevato canto mai intonato da un uomo alla scienza e alla ragione,
tramandarono la notizia che il poeta fosse stato pazzo, avesse scritto i suoi
versi nei recessi della follia e si fosse suicidato. Ma la cosa è poco
verosimile». In ogni caso, nel 1946 l’Unione Sovietica fu l’unico Paese al
mondo che celebrò il secondo millennio dalla morte di Lucrezio.
Una delle parti più godibili del De Rerum è quella su amore, matrimonio e sesso. Immaginate che
scandalo se a 15-16 anni ci avessero fatto tradurre questi versi che spiegano
scientificamente le polluzioni notturne (IV,1033-36): «L’adolescente in preda
ai bollenti spiriti sogna qualche ragazzina bella e prosperosa e gli si
inturgida il membro, finché eiacula a larghi e caldi fiotti per la prima volta
nella vita, imbrattandosi la veste».
Le femministe avrebbero qualcosa da ridire su questo
Lucrezio antiromantico: «Se ciò che si ama è lontano, lo si può riavvicinare
rievocandone le immagini e mormorandone il nome. Ma è meglio volgere altrove la
mente e scaricare il proprio seme in un corpo qualsiasi. Trattenerlo
nell’attesa dell’unico sempiterno amore è garanzia di affanni e dolori».
Il poeta si spinge oltre, e da perfetto epicureo
contesta il matrimonio: «Chi evita saggiamente l’amore non deve certo privarsi
del sesso: può godere delle sue gioie senza doversi sobbarcare le sue pene. E
ne ricava una pura voluttà».
Dopo una descrizione dell’atto sessuale che rasenta la
pornografia, Lucrezio diventa misogino: «Gli amanti si spossano a vicenda,
passano la vita soggetti l’uno ai capricci dell’altro. In nome dell’amore si
trascurano i propri doveri, si perde la faccia. Si sperperano patrimoni in
profumi, gioielli, scarpe e vestiti, che poi si sgualciscono imbrattandoli di
sperma».
Nessuno sospettava che
Lucrezio avesse scritto tali porcherie. Neanche gli studenti e professori dei
tanti licei a lui intitolati. È passato alla storia, invece, questo brano (attualissimo)
sull’amore che rende ciechi: «Accecàti dalla passione, attribuiamo all’amata
pregi inesistenti. Così le donne brutte si trasformano in bellezze ricercate e adulate. Le
scure vengono considerate “abbronzate”, le grossolane “naturali”, le scheletriche
“scattanti”, le nane “minute”, le enormi “maestose”. Le balbuzienti diventano
“timide”, le insopportabili “focose”, le pettegole “argute”, le moribonde
“cagionevoli”, e le già morte “tanto delicate”. Quelle con gli occhi storti
hanno lo strabismo di Venere, se posseggono attributi giganteschi sono Giunoni».
Stoccata finale, massimo dello scetticismo: «Quand’anche una donna
fosse veramente bella e attraente, non sarebbe comunque l’unica. Se vivevamo
bene senza di lei prima di conoscerla, potremmo vivere altrettanto bene anche
dopo. E comunque, a letto e altrove, non potrà che fare le stesse cose di tutte
le altre».
Lucrezio è considerato l’inventore dell’espressione «addolcire la
pillola». Odifreddi avverte che fu invece Senofonte. Fra i tanti rimandi contemporanei,
cita quello di Mary Poppins (1964): «Basta un po’ di zucchero e la pillola va
giù». Ma le pillole sarcastiche del sommo poeta latino contro l’amore è
difficile ingoiarle anche oggi.
Mauro Suttora
Monday, September 16, 2013
Wednesday, September 11, 2013
Maria di Augias
GRANDE SUCCESSO PER L'ULTIMO LIBRO DEL GIORNALISTA. CHE INDAGA SULLA MADONNA SFIDANDO I TABU'
di Mauro Suttora
Oggi, 4 settembre 2013
Si può sottoporre la Madonna a un’inchiesta giornalistica,
come se fosse un personaggio qualunque e non, per un miliardo di cattolici, la
Madre di Gesù, quindi di Dio? Corrado Augias lo ha già fatto per Gesù stesso,
quindi non ci meravigliamo che ora sotto la sua indagine – meticolosa ma di
scrittura brillante – finisca Maria di Nazareth.
Se fossimo in un Paese musulmano Augias rischierebbe la
pelle, nel sottoporre a scrutinio scientifico le divinità. Ma qualunque
cattolico che abbia letto qualche decina di righe di un vangelo apocrifo, o
ascoltato le canzoni di Fabrizio De Andrè a lei dedicate, non si scandalizzerà
più di tanto.
Augias e il professor Marco Vannini, coautore intervistato di
Inchiesta su Maria, la storia vera della
fanciulla che divenne mito (ed. Rizzoli), partono da Medjugorie (Bosnia) e
Sant’Anastasia (Napoli), due delle centinaia di luoghi di culto della Madonna
che attraggono ogni anno milioni di pellegrini, per studiare il fenomeno.
FIGLIA, MOGLIE, MADRE DI DIO
«Essendo creatura terrena Maria può essere considerata, come
ogni altra, figlia di Dio; appena adolescente diventa però anche sposa di Dio e
madre di Dio pur conservando la sua condizione verginale». Ma, aggiungono
Augias e Vannini, questa condizione già straordinaria è resa ancor più
complessa dal fatto che il Dio di cui Maria è madre, moglie e figlia, è a sua
volta una divinità triplice. Quindi lei è anche madre del Padre, e dello
Spirito Santo dal quale è stata fecondata.
QUATTRO DOGMI
Verginità. Fu Sant’Ambrogio il costruttore della figura di
Maria come moralmente perfetta, dotata di ogni virtù, soprattutto vergine.
Maria vergine e madre è una contraddizione ginecologica, ma si comprende in
rapporto alla spiritualità. Per sant’Agostino rimanevano vergini anche le
ragazze e le monache violentate dai barbari.
Maternità divina. Decisa dal concilio di Efeso nel 431.
Vinse Nestorio, patriarca di Costantinopoli, contro quello di Alessandria
(d’Egitto) Cirillo, che si limitava a definirla madre di Cristo, e non di Dio.
Immacolata Concezione. La teorizza il francescano Duns Scoto
alla fine del Duecento, contestato dai domenicani di Tommaso d’Aquino. Anche
Agostino, Bernardo, Bellarmino e Torquemada negavano che Maria fosse nata senza
peccato originale. Il dogma fu proclamato l’8 dicembre 1854 da Pio IX.
Assunzione in cielo. Nei vangeli non c’è nulla sulla morte
di Maria, né sulla sua sepoltura. Ma la credenza esplode dopo il concilio di
Efeso. Per gli ortodossi la festa dell’Assunzione (15 agosto) era importante
quanto Natale e Pasqua. Papa Pio XII proclama il dogma nel 1950: Maria è salita
in cielo anche con il corpo.
GIOVANNI EVANGELISTA
Il Vangelo di Giovanni è l’unico a farci sapere che Maria
aveva una sorella (e quindi Gesù una zia) presente accanto a lei ai piedi della
croce. Ma, soprattutto, il primo miracolo di Cristo è narrato solo da Giovanni.
La trasmutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana gli viene chiesta
esplicitamente da Maria, preoccupata perché il vino stava finendo. Gesù però,
prima di obbedirle, le risponde sgarbato: «Che c’è tra me e te, donna?» Prende
le distanze dalla madre, inizia la sua missione.
Un’altra particolarità di Giovanni evangelista è che non la
chiama mai «Maria», ma sempre «madre di Gesù».
MARIA FEMMINISTA
È lei a dare il nome a Gesù bambino, come pure era accaduto
alla madre di Giovanni Battista, sottraendo al padre Giuseppe quello che era un
suo preciso e fondamentale diritto. È vergine in quanto sottratta al «possesso»
maschile. La Madonna di Guadalupe è presa a simbolo della lotta di liberazione
delle plebi oppresse in Messico e in tutta l’America Latina. L’Immacolata tiene
sotto i piedi il serpente, ha la luna accanto, attorno al capo una corona di
stelle.
IL SUO VOLTO NELL’ARTE
Nell’arte cristiana neppure Gesù ha il ruolo eminente dato a
Maria. La quale viene ritratta nei momenti dell’esistenza che ogni donna
conosce: maternità, allattamento, preoccupazioni per il figlio, patimenti per
la sua sorte, dolore di dover seppellire la sua creatura. Le sue prime
raffigurazioni sono nelle catacombe romane di Priscilla, sulla via Salaria: col
bimbo in braccio, e nell’adorazione dei magi. Maria è Regina Coeli a Roma,
Notre-Dame a Parigi, Basilissa nell’Europa ortodossa.
SCANDALO AL CINEMA
Il 4 maggio 1985 Giovanni Paolo II presiedette un rosario di
espiazione per il film blasfemo Je vous
salue, Marie di Jean-Luc Godard. Ma il tribunale di Parigi ne permise la
libera circolazione. Rispettosa e suggestiva, invece, la Maria nel capolavoro
del regista anarchico e anticlericale Luis Bunuel, La via lattea (1968).
Mauro Suttora
Wednesday, September 04, 2013
Brescia: l'avvelenamento Caffaro Snia
«Qui è tutto inquinato. Ma mi fanno pagare l'Imu»
«Ho dovuto ammazzare i bovini, non posso coltivare più nulla, nel sangue abbiamo pcb 15 volte superiore alla norma», dice il coltivatore Antonioli. Alle porte della città, parchi vietati e una causa da 4 miliardi
di Mauro Suttora - foto di Livio Senigalliesi
Quattro miliardi di euro o un milione? Questa è l’astronomica differenza fra il costo della bonifica dell’area inquinata dalla fabbrica Snia Caffaro a Brescia, e quello che lo Stato spende ogni anno per eseguirla. A questo ritmo, i sette km quadri alla periferia della città torneranno puliti fra 4.000 anni.
L’impianto chimico ormai è chiuso, la Snia Caffaro è fallita da anni. Ma la micidiale eredità di pcb (policlorobifenili) e diossina con cui ha impregnato i terreni vicini per decenni rimane. Il commissario Marco Cappelletto ha chiesto agli ex proprietari (la finanziaria Hopa e alcune banche) un indennizzo di quattro miliardi, di cui 3,4 per danni ambientali. Intanto, il nuovo ministro dell’Ambiente Andrea Orlando (Pd) ha visitato la città e ha promesso di alzare la cifra che attualmente viene spesa per ripulire l’area.
A rischio la falda acquifera
Quel che è sicuro, è che finora tutti i cittadini danneggiati direttamente non hanno ricevuto un centesimo di rimborso. «Ho dovuto ammazzare e cremare le 21 bestie che allevavo», ci dice Pierino Antonioli, coltivatore, «perché la roggia dove la Caffaro scaricava ha inquinato i miei sette ettari coltivati a mais e fieno. Da dieci anni non posso più produrre nulla, ho reddito zero, neanche una gallina. Ma l’Imu me la fanno pagare lo stesso».
I danni della Snia Antonioli li porta anche nel sangue: «Alle ultime analisi mi hanno misurato un tasso di pcb di 220. Sono contenti, prima era 300. Ma il limite massimo sarebbe 15. Perfino un mio nipotino, che non ha mai abitato qui, ha il pcb. Dicono che l’ha preso da sua madre, mia figlia, dopo che si è trasferita».
L’area inquinata è nella periferia Est di Brescia: un cono lungo sei chilometri sotto via Milano. I tre parchi delle vie Nullo, Sorbana e Passo Gavia hanno l’erba avvelenata, e così il campo sportivo Calvesi.
I terreni della fabbrica sono ovviamente quelli più inquinati: fino a 35 metri di profondità, come un palazzo di dieci piani di terra da portar via. Peggio dell’Ilva di Taranto. Le falde acquifere sono a rischio.
Fino a dieci anni fa nessuno sospettava nulla. Poi il professore e storico Marino Ruzzenenti ha scritto un libro sulla Caffaro, e il caso è esploso.
L’impero Snia di rayon e viscosa
Dove finivano gli scarti industriali? Nelle acque di scarico e nella roggia Franzagola. La fabbrica Caffaro era entrata nell’impero Snia, quello che a Torviscosa (Udine) produceva la seta artificiale rayon.
Negli anni Novanta la Snia era ancora un gigante da 9mila dipendenti. «Venne acquistata dalla Hopa di Emilio Gnutti», spiega a Oggi Ruzzenenti, «e nel 2004 fu divisa in due: da una parte la redditizia Sorin Biomedica, tuttora quotata in Borsa, dall’altra il bidone vuoto della chimica con la Caffaro. Che infine ha chiuso i battenti ed è stata messa in liquidazione».
Chi pagherà ora per la pulizia? Il commissario liquidatore vorrebbe rivalersi almeno in parte sugli ex proprietari. Ma sarà una causa lunga e difficile.
Intanto i 200 mila abitanti di Brescia (seconda città della Lombardia) convivono con una bomba ecologica. E dall'altra parte della città l'ex cava Antonioli, trasformata in discarica di cesio 137, minaccia le falde acquifere addirittura con radiazioni nucleari.
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