Ipotesi sulle possibili conseguenze, per l'Italia e il resto del mondo, della rivolta popolare contro il regime di Gheddafi
Oggi, 2 marzo 2011
Nel Nordafrica è arrivata la libertà. E forse (speriamo) la democrazia. Ma i pericoli sono ancora tanti. Anche per noi
di Mauro Suttora
Evviva: dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia sembra quasi liberatada un regime e avviata verso la democrazia. Ma per noi italiani si aprono molti interrogativi. Ci sarà un'invasione di profughi? Un pericolo terrorismo? Il prezzo della benzina salirà? E le nostre commesse? «L'Unione Europea deve capire che il problema non è italiano, ma continentale», dice l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu. «E questo per due motivi. Primo: l'Italia è il confine sud di tutta l'Europa, una volta entrati da qui c'è libertà di circolazione senza più barriere alle frontiere. Secondo: la stragrande maggioranza degli immigrati entrati ultimamente dalla Tunisia non vuole fermarsi in Italia, ma proseguire verso altri Paesi».
Le rivolte in Libia, Egitto e Tunisia provocheranno una valanga di arrivi? C'è chi parla addirittura di 300 mila profughi. Ma è un'esagerazione. Per gli africani che entrano nel sud di questi Paesi per imbarcarsi dalle loro coste, basta ripristinare con i nuovi governi i precedenti accordi di sorveglianza. Cosa che è stata già fatta con la Tunisia, e che potrà avvenire anche in Libia una volta che la situazione si sarà chiarita. Se invece si teme che una parte dei sei milioni di libici fugga da una guerra civile prolungata e sanguinosa, basterà che l'apposita agenzia Onu installi campi profughi alle frontiere con Egitto e Tunisia. Ma tutta la Libia tranne Tripoli ormai sembra libera, e la vita sta tornando alla normalità. Certo, la capitale ha tre milioni di abitanti, cioè metà della popolazione. Ma i giacimenti petroliferi sono soprattutto in Cirenaica, e la produzione (con relativi introiti) potrà continuare a sostenere i ricchi libici. I quali non pagano pochissime tasse, e hanno scuola e assitenza sanitaria gratuita: non sono certo poveracci in fuga.
TERRORISTI
Il figlio di Gheddafi, Saif el Islam, quando le cose iniziavano a mettersi male aveva sventolato la minaccia islamica: «A Bengasi Al Qaida ha già proclamato il califfato». Nulla di vero, anche se qualche sprovveduto - perfino ai piani alti delle diplomazie europee - ha abboccato. Il che non significa che il pericolo del fanatismo non esista. «Ma in Libia ha sempre prevalso la tradizione senussita », assicura il principe Idris al Senussi , nipote dell'ultimo re e pretendente al trono, «cioè una corrente islamica moderata e aperta alla modernità».
Come in tutte le rivoluzioni, non è la prima impressione quella che conta. Il fatto che adesso in Libia - ma anche in Egitto e Tunisia - non si vedano in giro barbette da fanatico e simboli religiosi, non significa che fra qualche mese possa farsi largo e prevalere una fazione estremista. Anche democraticamente: a Gaza le prime elezioni libere del 2006 sono state vinte da Hamas. Negli Anni 80 pure Gheddafi, come i sauditi e gli Stati Uniti, commise l'errore di finanziare e mandare in Afghanistan dei mujaheddin per combattere gli invasori sovietici. Finita la guerra, Osama Bin Laden e i talebani non deposero le armi. Alcuni guerriglieri di origine libica tornarono in patria, ma furono subito incarcerati da Gheddafi. In Libia quindi negli Anni 90 non si ebbe la lotta integralista che insanguinò l'Algeria. Ma ora gli estremisti sono stati scarcerati (apposta?) dal colonnello, e potrebbero ricominciare a fare proseliti.
LO SCENARIO PEGGIORE
Lo scenario peggiore è quello di una resistenza prolungata da parte di Gheddafi a Tripoli, e di una disintegrazione della Libia fra le diverse tribù e fazioni. In mancanza di un forte potere centrale avrebbero la meglio le bande di predoni del deserto nelle zone meno battute, e la Libia si trasformerebbe in una Somalia. Sarebbe il luogo ideale per l'installazione di cellule e basi di Al Qaeda, come avvenne in Afghanistan negli Anni 90.
BENZINA
La Libia produce 1,8 milioni di barili al giorno di petrolio. Sembra tanto, ma è solo il due per cento dell'estrazione mondiale. Quindi gli aumenti di prezzo sia del greggio, sia della benzina alla pompa, sono solo speculazioni, senza rapporto con la realtà. Sulle quotazioni mondiali non possiamo farci nulla, vengono decise nelle borse di Londra e New York. E scontano il clima generale d'incertezza: se le rivolte si propagassero ai Paesi grandi produttori (Arabia, 12 per cento, o Iran, 5), allora potremmo cominciare a preoccuparci. Vero è che un quarto del fabbisogno delle nostre raffinerie proviene dalla Libia. Ma le petroliere possono sostituire i loro punti di rifornimento.
Quanto alla benzina a 1,55 e il gasolio a 1,43, come sempre i petrolieri scaricano immediatamente gli aumenti sul costo finale. Ma il petrolio raffinato per quella benzina l'hanno comprato ai prezzi vecchi. Quindi ne stanno approfittando per ampliare i loro margini. Dovrebbe intervenire il mister Prezzi del ministero Attività produttive. Anche per il gas, niente paura: ci sono varie e valide alternative di approvvigionamento. E poi si va verso la bella stagione, niente più riscaldamento...
COMMESSE
Sono in ballo 12 miliardi di euro all'anno: la somma di import ed export tra Italia e Libia. Siamo il loro principale partner commerciale. Le nostre principali società coinvolte sono Eni, Unicredit, Prismian, Sirti, Ansaldo, Finmeccanica e Impregilo, e hanno tutte perso in Borsa. Il 2 per cento delle azioni Eni sono in mano a Gheddafi. Il quale possiede un'eguale quota in Finmeccanica (produttore di armi), e addirittura il 7 per cento nella Juventus e nella prima banca italiana, Unicredit. L'azienda di costruzioni Impregilo è impegnata in opere colossali, per un un miliardo di euro. Riuscirà a finirle solo se torna la pace.
Mauro Suttora
Wednesday, March 02, 2011
Tuesday, March 01, 2011
intervista a Lara Comi
"SILVIO, TROVA UNA CHE TI AMA"
per la prima volta parla l'eurodeputata pdl accusata di "velinismo"
Oggi, 21 febbraio 2011
di Mauro Suttora
Bella, è bella: alta, occhi azzurri. «Ma non ho mai fatto la velina. E non ho niente a che spartire con Sara Tommasi, tranne la laurea alla Bocconi».
Lara Comi, 28 anni, da Saronno (Varese), dal 2009 è eurodeputata Pdl. Con Barbara Matera e Licia Ronzulli era stata bollata come una delle tre giovani «favorite» che Silvio Berlusconi spedì a Bruxelles. Avrebbero dovuto essere di più, ma la famosa lettera di denuncia della moglie Veronica bloccò l’operazione.
La Comi aveva seguito pure lei il corso di tre giorni sull’Europa tenuto dai ministri Franco Frattini e Renato Brunetta. Poi però le showgirl più vistose e imbarazzanti come Angela Sozio furono depennate.
«E pensare che Silvio me l’aveva chiesto: “Vuoi darti alla politica o allo spettacolo?”», si lamenta oggi la Tommasi. «E io come una stupida scelsi lo spettacolo. Mentre oggi potrei essere tranquilla all’Europarlamento». Invece di finire nel vortice delle intercettazioni, con l’sms «Spero k krepi kon le tue troie» spedito al premier, che purtroppo rischia di passare alla storia.
«Io con tutto ciò non ho niente a che fare», dice la Comi, «e tengo a precisare due cose. Primo, con me Berlusconi è sempre stato correttissimo. Sono andata a casa sua sia ad Arcore, sia a Roma. Mai in Sardegna. Ma erano tranquille cene di lavoro con altri politici e imprenditori, uomini e donne...»
Ha visto la discoteca del “bunga bunga”?
«Due anni fa ho visitato un locale al piano di sotto, ma mi era sembrata una normale sala proiezioni. Nessun palo da lap-dance. Seconda precisazione: io la gavetta l’ho fatta. Non sono una miracolata. Ho lavorato in Forza Italia come attivista da quando avevo 19 anni. Ho volantinato e montato gazebi per passione, conosco bene la politica di base, cosa vuol dire faticare. Dopo la laurea ho lavorato alla Beiersdorf, la società che fra l’altro produce la Nivea, e alla Giochi Preziosi, da cui adesso ho l’aspettativa. Sono stata assistente di Maria Stella Gelmini. E quando lei è diventata coordinatrice lombarda del partito, ho diretto i giovani della regione».
Quanto prendeva alla Giochi Preziosi?
«Mille e 300 euro al mese».
E adesso, da eurodeputata?
«Cinquemila e 500».
Un bel salto. Cosa pensa del «cursus honorum»? Già i romani duemila anni fa avevano regole ferree per le carriere politiche: i consoli dovevano essere stati prima tribuni e questori.
«Giusto. Ma è giusto anche che l’Europarlamento sia rappresentativo di tutte le età e professioni, oltre che di tutte le nazioni. Infatti, non sono l’unica ventenne. Anzi, c’è una danese più giovane di me. E poi, alle europee abbiamo dovuto conquistarci le preferenze una ad una in quattro regioni. Lì non ci sono liste bloccate con elezione garantita».
Cosa pensa del Rubygate?
«Assurdo».
Assurdo che un 74enne paghi per avere a cena delle ventenni?
«Non credo che il presidente abbia pagato nessuno. Ma colpevolizzo più le donne, che ci sono andate per libera scelta».
E Berlusconi?
«Ognuno è libero di comportarsi come crede, nella vita privata».
Ma se suo padre o suo nonno si comportasse così, cosa gli direbbe?
«Di trovarsi una donna fissa che gli vuole veramente bene».
E quella gemella che frequentava Arcore avendo un fidanzato indagato per camorra?
«Appunto. Berlusconi deve circondarsi di persone che conosce, e di cui possa fidarsi».
Cioè il contrario delle ragazze di via Olgettina.
«Sì. Però trovo assurdi anche i cortei che strumentalizzano la dignità delle donne. Quella non si conquista urlando per strada, ma portando a casa più ruoli e posti nelle aziende e nelle istituzioni».
Mauro Suttora
Thursday, February 17, 2011
Libia, intervista a Idris Al Senussi
"È UN RISCHIO ANCHE PER L'ITALIA"
Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"
di Mauro Suttora
Libero, 17 febbraio 2011
«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».
Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.
«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».
C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?
«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».
Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.
Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.
Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.
Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.
Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».
Mauro Suttora
intervista Cnn 21.2.11
Il principe Idris Al Senussi, nipote del re deposto 42 anni fa, avverte: "Potrebbe finire in una carneficina. E i delinquenti verrebbero da noi"
di Mauro Suttora
Libero, 17 febbraio 2011
«Sono molto preoccupato. Se Gheddafi imbocca la strada del pugno di ferro, finirà in una carneficina. Non a casa i disordini sono scoppiati a Bengasi. C’è infatti il pericolo che sulla richiesta di libertà si sovrapponga anche un tentativo separatista da parte della Cirenaica contro la Tripolitania».
Il principe Idris Al Senussi, 54 anni, nipote dell’omonimo ultimo re di Libia rimosso 42 anni fa, è in partenza da Roma per Washington. Guida la potente corrente islamica moderata dei senussiti, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E i senussiti hanno la loro base proprio a Bengasi.
«Gheddafi non è stupido», dice Senussi a Libero, «ha capito che il vento sta cambiando e che ci vuole qualche apertura. Per questo ha da poco restituito qualche proprietà privata ai libici, fra cui anche diversi miei parenti senussiti. Ma se adesso copia Mubarak e, per contrastare i dimostranti, fa scendere in piazza dei picchiatori suoi sostenitori, si illude di poter risolvere le cose. Prima o poi, questione di settimane o mesi, la rivolta riprenderà».
C’è pericolo di estremismo islamico in Libia?
«Per ora no. Ma se Gheddafi rilascia, come ha annunciato, 110 prigionieri del Gruppo combattente islamico libico dal carcere di Abu Salim, vuol dire che cerca di creare il caos. E la cosa riguarda anche l’Italia, perché nei giorni scorsi pare abbia fatto attraversare la frontiera con la Tunisia da delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri libiche, che poi si sarebbero imbarcati verso Lampedusa dal porto tunisino di Zarzis».
Idris Senussi aveva 14 anni quando ci fu il golpe del 1969, e da allora non è più tornato in Libia. In questi decenni ha lavorato come finanziere e mediatore d’affari. Grazie alle sue conoscenze presso le famiglie regnanti arabe è stato consulente per Eni, Condotte e altre grandi aziende italiane con commesse in Medio Oriente. Suo padre era nipote e braccio destro del vecchio re Idris, che lo aveva indicato come erede al trono. Negli anni ’70 cercò di fare assassinare Gheddafi con l’operazione segreta “Hilton Assignment”, fallita perché i servizi segreti italiani avvisarono il dittatore libico.
Oggi anche un cugino di Idris, Muhammad, avanza dall’esilio di Londra pretese dinastiche. Ma Muhammad è troppo vicino agli islamici fanatici dell’Ikhwan. E questa scelta estremista lo ha messo ai margini del movimento senussita, che è invece aperto alla modernità.
Secondo Gregory Copley, del centro studi Defense & Foreign Affairs di Washington, il principe Idris Senussi potrebbe fungere da catalizzatore per una successione tranquilla a Gheddafi, che ormai ha 69 anni. Fino a poco tempo fa l’imprevedibile colonnello sembrava orientato a una soluzione dinastica, di cui avrebbe beneficiato il figlio Saif al-Islam. Ma anche Saif sarebbe troppo vicino agli estremisti islamici per i gusti del tradizionalista ma laico padre.
Qualcuno ipotizza per la Libia una soluzione «spagnola», come quella adottata nel 1975 per il pacifico passaggio di poteri dal generalissimo Franco alla monarchia costituzionale restaurata di re Juan Carlos.
Per questo il principe Al Senussi tiene bassi i toni, e il 4 febbraio ha lanciato un appello a Gheddafi affinché attui aperture politiche: «La grande novità delle rivoluzioni tunisina ed egiziana è che per la prima volta non si sono viste bandiere americane bruciate in piazza, né sentiti slogan contro Israele. Speriamo che Gheddafi capisca la nuova situazione, per non fare la fine di Ben Ali e di Mubarak».
Mauro Suttora
intervista Cnn 21.2.11
Wednesday, February 16, 2011
Il no al burqa è di sinistra
Giorgio Oldrini, sindaco Pd di Sesto San Giovanni (Milano), proibisce il velo totale delle donne islamiche
Oggi, 4 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«Sono al massimo quattro le donne che vanno in giro col burqa nella nostra città. Ma è bene stabilire il principio: nei luoghi pubblici le donne hanno il diritto di non andare in giro velate».
Parola di Giorgio Oldrini, 64 anni, sindaco dell’ex bastione comunista alle porte di Milano, ancor oggi governato dal Pd. La sua adesione a una mozione della Lega nord fa notizia, perché lui è un ex comunista con i fiocchi: figlio del sindaco Pci partigiano e internato in lager nazista che governò Sesto dal 1946 al ‘62, corrispondente dell’Unità da Cuba, grande ammiratore di Che Guevara e di Fidel Castro... Qui nella sua stanza in municipio campeggia un grande ritratto di Marx.
«Però sotto, come vede, c’è un candelabro che mi è stato regalato dalla comunità islamica, con cui abbiamo un ottimo rapporto», dice.
E allora perché rovinarlo per una questione solo teorica? «Perché noi pratichiamo l’accoglienza, ma nel concreto. Siamo uno dei 40 comuni italiani - su 8 mila - che hanno un ufficio apposito per aiutare gli stranieri, nel 18 per cento delle nostre case comunali ci sono loro, e nel prossimo bando di assegnazione hanno il 44 per cento delle domande. Ma la solidarietà sta in piedi solo se c’è rispetto per le tradizioni e le conquiste civili, costate decenni di lotte. In Italia per arrivare alla parità tra uomo e donna abbiamo battagliato. Ci sono doveri nostri, ma anche doveri degli altri».
Sesto non è un posto qualunque. «Intanto, con i nostri 83 mila abitanti siamo la quinta città della Lombardia. Ci superano solo Milano, Brescia, Bergamo e Monza. E abbiamo il 14 per cento di stranieri, che salgono al 20 nelle scuole. Tutti arrivati negli ultimi 10-15 anni, quindi un’immigrazione biblica: fortissima e concentrata».
Che vi fa paura? «Assolutamente no. Anzi, ne siamo orgogliosi. Ma il peso dell’accoglienza qui grava sui pensionati ex operai, non su Tronchetti. Non siamo nel centro di Milano, dove vivono i ricchi. Quindi bisogna evitare paure e disagi».
Non è la prima volta che Oldrini prende provvedimenti controcorrente. Negli ultimi mesi, prima ha sistemato i ben tredici centri cinesi di «massaggi» sorti magicamente a Sesto negli ultimi tempi. Chiusura entro le dieci di sera, visto che gli orari li decide il sindaco. «Quanto ai controlli sulla prostituzione, competono alla polizia».
Poi è stata la volta del «muro anti-rom»: recintata un’area dismessa dove si erano accampati gli zingari. «I quali hanno la brutta abitudine di far chiedere la carità ai loro bimbi. È una di quelle tradizioni che bisogna superare, come l’infibulazione».
Chiamparino e Penati
Insomma, come Filippo Penati, suo predecessore sindaco di Sesto fino al 2001, e a Torino Sergio Chiamparino, Oldrini non ha paura di prendere decisioni «di destra». «In realtà concetti come legalità e dignità delle donne sono di sinistra. Dopodiché, offriamo 5 mila alloggi pubblici, otto asili nido, sei centri anziani, due case di riposo. E agli immigrati questo interessa».
Oldrini fu assunto da Carlo Rossella nel settimanale Panorama di Silvio Berlusconi durante gli anni ‘90: «Ma non ho mai sentito il suo fiato sul collo.
E ora si candida anche lei?
«A che cosa?»
A capo Pd. Lo fanno tutti...
«Mi va benissimo Bersani. Io sono rimasto vetero: il capo è uno solo. Quindi, disciplina». Come nelle strade di Sesto...
Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«Sono al massimo quattro le donne che vanno in giro col burqa nella nostra città. Ma è bene stabilire il principio: nei luoghi pubblici le donne hanno il diritto di non andare in giro velate».
Parola di Giorgio Oldrini, 64 anni, sindaco dell’ex bastione comunista alle porte di Milano, ancor oggi governato dal Pd. La sua adesione a una mozione della Lega nord fa notizia, perché lui è un ex comunista con i fiocchi: figlio del sindaco Pci partigiano e internato in lager nazista che governò Sesto dal 1946 al ‘62, corrispondente dell’Unità da Cuba, grande ammiratore di Che Guevara e di Fidel Castro... Qui nella sua stanza in municipio campeggia un grande ritratto di Marx.
«Però sotto, come vede, c’è un candelabro che mi è stato regalato dalla comunità islamica, con cui abbiamo un ottimo rapporto», dice.
E allora perché rovinarlo per una questione solo teorica? «Perché noi pratichiamo l’accoglienza, ma nel concreto. Siamo uno dei 40 comuni italiani - su 8 mila - che hanno un ufficio apposito per aiutare gli stranieri, nel 18 per cento delle nostre case comunali ci sono loro, e nel prossimo bando di assegnazione hanno il 44 per cento delle domande. Ma la solidarietà sta in piedi solo se c’è rispetto per le tradizioni e le conquiste civili, costate decenni di lotte. In Italia per arrivare alla parità tra uomo e donna abbiamo battagliato. Ci sono doveri nostri, ma anche doveri degli altri».
Sesto non è un posto qualunque. «Intanto, con i nostri 83 mila abitanti siamo la quinta città della Lombardia. Ci superano solo Milano, Brescia, Bergamo e Monza. E abbiamo il 14 per cento di stranieri, che salgono al 20 nelle scuole. Tutti arrivati negli ultimi 10-15 anni, quindi un’immigrazione biblica: fortissima e concentrata».
Che vi fa paura? «Assolutamente no. Anzi, ne siamo orgogliosi. Ma il peso dell’accoglienza qui grava sui pensionati ex operai, non su Tronchetti. Non siamo nel centro di Milano, dove vivono i ricchi. Quindi bisogna evitare paure e disagi».
Non è la prima volta che Oldrini prende provvedimenti controcorrente. Negli ultimi mesi, prima ha sistemato i ben tredici centri cinesi di «massaggi» sorti magicamente a Sesto negli ultimi tempi. Chiusura entro le dieci di sera, visto che gli orari li decide il sindaco. «Quanto ai controlli sulla prostituzione, competono alla polizia».
Poi è stata la volta del «muro anti-rom»: recintata un’area dismessa dove si erano accampati gli zingari. «I quali hanno la brutta abitudine di far chiedere la carità ai loro bimbi. È una di quelle tradizioni che bisogna superare, come l’infibulazione».
Chiamparino e Penati
Insomma, come Filippo Penati, suo predecessore sindaco di Sesto fino al 2001, e a Torino Sergio Chiamparino, Oldrini non ha paura di prendere decisioni «di destra». «In realtà concetti come legalità e dignità delle donne sono di sinistra. Dopodiché, offriamo 5 mila alloggi pubblici, otto asili nido, sei centri anziani, due case di riposo. E agli immigrati questo interessa».
Oldrini fu assunto da Carlo Rossella nel settimanale Panorama di Silvio Berlusconi durante gli anni ‘90: «Ma non ho mai sentito il suo fiato sul collo.
E ora si candida anche lei?
«A che cosa?»
A capo Pd. Lo fanno tutti...
«Mi va benissimo Bersani. Io sono rimasto vetero: il capo è uno solo. Quindi, disciplina». Come nelle strade di Sesto...
Mauro Suttora
Wednesday, February 09, 2011
parla il principe Idris Al Senussi
"ATTENTI, L'AFRICA È TUTTA IN FIAMME"
Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"
Oggi, 9 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».
Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».
Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?
«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».
Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?
«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».
La Libia sembra tranquilla.
«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».
Che è usato anche in Egitto.
«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».
In Marocco c’è calma.
«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».
E in Libano?
«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».
Che cosa può fare l’Italia?
«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».
Si candida a tornare in Libia?
«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».
Mauro Suttora
Prima intervista esclusiva con il nipote dell'ultimo re di Libia, estromesso dal golpe di Gheddafi nel 1969. Che avverte: "Le rivolte di Tunisia ed Egitto possono propagarsi anche a Libia e Algeria"
Oggi, 9 febbraio 2011
di Mauro Suttora
«La maggioranza dei giovani tunisini ed egiziani, con grandi sacrifici loro e delle loro famiglie, hanno studiato, si sono laureati. Oppure hanno un diploma e un mestiere. Si informano, si confrontano col resto del mondo su internet. Insomma, sono moderni. Si accorgono che il mondo fa progressi, che i loro amici e parenti emigrati dall’altra parte del mare, anche in Italia, a poche decine di chilometri di distanza, stanno in un mondo dove ci sono diritti, speranze e benessere. Invece nei loro Paesi non trovano chi interpreta i loro bisogni. Nessuno si interessa a loro. Protestando dimostrano di amare i loro Paesi, che vorrebbero floridi e dove invece ristagna la povertà per molti e la ricchezza per pochissimi. Allora vanno in strada a chiedere cambiamenti. Così in Yemen, Algeria. E il disagio cova anche nella mia Libia».
Idris Al Senussi conosce bene il Nordafrica. Nipote dell’ultimo re di Libia, di cui porta il nome e che nel 1969 venne rimosso dal golpe di Muammar Gheddafi, ora vive fra Roma e Washington. Guida il movimento senussita: una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non musulmani, che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. E avverte: «I nostri giovani non hanno più pazienza. Hanno studiato, guardano Al Jazeera e le altre tv arabe e non, trovano su internet tutte le notizie che fino a pochi anni fa i regimi riuscivano a nascondere. Dobbiamo aiutarli affinché domani possano essere buoni dirigenti».
Non teme che succeda come nell’Iran del ’79, passato dallo Scià agli ayatollah fanatici e violenti? Oppure come a Gaza, dove le prime elezioni libere sono state vinte dagli estremisti di Hamas?
«Avete notato una cosa? Per la prima volta ci sono state manifestazioni di arabi senza una bandiera americana bruciata, o uno slogan contro Israele. Non danno più la colpa agli altri, non ci sono più capri espiatori. Come in tutti i Paesi civili, se le cose non vanno se la prendiamo con i propri governanti. E, se non fossero stati attaccati dai sostenitori di Mubarak, sarebbero stati cortei nonviolenti».
Perché le rivoluzioni sono scoppiate proprio adesso?
«Il Muro di Berlino è crollato nel 1989, e non cinque anni prima o dopo. Ci sono tanti fattori. La crisi economica toglie letteralmente il pane di bocca alla gente, perché lo stipendio medio è di 200 euro al mese ma un chilo di pane costa due euro, quasi come in Europa. Wikileaks ha rivelato che gli americani disprezzano la gestione di quei governanti che loro stessi finanziano . In Tunisia la scintilla è stato il gesto del laureato che si è bruciato perché la polizia gli aveva sequestrato il carretto della frutta con cui manteneva la famiglia. Gli egiziani si sono mossi a loro volta vedendo che i tunisini hanno avuto successo. E l’effetto domino può continuare».
La Libia sembra tranquilla.
«Gheddafi sta al potere da 42 anni. È il governante autoritario più longevo del mondo. Quando il tempo al governo è molto lungo, si tende a perdere il contatto con la realtà e ad avere paura del cambiamento. La Libia ha molto petrolio e pochi abitanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati: quattro milioni contro gli 80 dell’Egitto. Eppure, invece di avere una ricchezza diffusa e prosperare, è ancora arretrata. Gheddafi ha preferito beneficiare più i suoi seguaci e parenti. Mi auguro che faccia tesoro dei cambiamenti che si annunciano, e che non governi ancora col pugno di ferro».
Che è usato anche in Egitto.
«Mubarak ha torturato gli oppositori in carcere per 30 anni, in Tunisia Ben Alì lo ha fatto per 24 anni. Mentre i cinesi sopportano la mancanza di libertà politica perché almeno garantisce loro ricchezza e sviluppo, da noi non c’è né libertà politica, né economica».
In Marocco c’è calma.
«Lì stanno meglio. C’è una monarchia parlamentare, ci sono partiti, giornali, c’è abbastanza libertà. Si è formata una classe media, una borghesia forte. Il giovane re sta facendo riforme. Insomma, esiste uno sbocco alle tensioni».
E in Libano?
«Bene o male quella è una democrazia, malgrado 17 diverse etnie religiose».
Che cosa può fare l’Italia?
«Aiutare Mubarak nella transizione a quella che potrebbe essere la più grande democrazia del mondo arabo. Quanto alla Libia, proprio quest’anno cade il centenario dell’invasione italiana. Mi auguro che Gheddafi, vedendo il vento di libertà che soffia sul Maghreb, compia dei passi e crei istituzioni che permettano il passaggio pacifico alla democrazia. Lui è intelligente, ha capito che ci vuole un’apertura. A dimostrazione di questo, da poco ha restituito qualche proprietà ai libici, tra i quali anche miei parenti senussiti. E sembra concedere qualche libertà nel campo del commercio».
Si candida a tornare in Libia?
«Tornerò se e quando arriverà il tempo giusto, e prego che sia vicino. Ma dobbiamo trovare tutti un percorso pacifico e ordinato».
Mauro Suttora
Assange come Vanunu?
La tremenda condanna che ha colpito il pacifista Mordechai Vanunu: 18 anni in carcere (11 in isolamento totale) per spionaggio. Aveva rivelato un segreto di Pulcinella: che Israele ha la bomba atomica
di Mauro Suttora
Oggi, 9 febbraio 2011
Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.
Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.
Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.
di Mauro Suttora
Oggi, 9 febbraio 2011
Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.
Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.
Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.
Assange aspetta il verdetto
Julian agli arresti domiciliari in inghilterra attende la sentenza sull'estradizione
Ha fatto tremare il mondo con le sue rivelazioni on line. Il dittatore della Tunisia è caduto anche grazie a lui. Ma ora il capo di Wikileaks teme un processo in Svezia. E intanto...
di Mauro Suttora
Oggi, 5 febbraio 2011
Il 7 febbraio il tribunale di Londra decide se estradare Julian Assange in Svezia. Il capo del sito Internet che rivela i segreti di Stato è accusato di molestie sessuali da due sue ex ammiratrici di Stoccolma, che lo hanno denunciato nonostante fossero andate volontariamente a letto con lui.
Dopo aver assaggiato il carcere di sua maestà, mister Wikileaks si trova da due mesi agli arresti domiciliari nella campagna inglese. Lo ospita nella propria tenuta di campagna un suo ricco fan, che lo aveva nascosto quando Assange era ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ora il turbolento Julian, come si vede da queste foto, ha molto tempo a disposizione. Che impiega anche dando da mangiare alle galline nel pollaio, e rispondendo alle cartoline di auguri che gli arrivano dagli ammiratori. Niente di più lontano dall' immagine dell'hacker, del pirata supertecnologico circondato da fili e computer, che si era costruito finora.
Intanto, la guerra continua. Wikileaks, infatti, è stata colpita dalle società che raccoglievano le donazioni per finanziarla: su richiesta del governo statunitense, Visa, MasterCard, Paypal e Amazon hanno bloccato i flussi di denaro. Subito è scattata la vendetta degli hacker. Cinque di loro, giovanissimi (dai 15 ai 26 anni), sono stati arrestati in Gran Bretagna pochi giorni fa per una serie di attacchi informatici contro i siti «traditori». Sono accusati di appartenere al cyber-commando Anonymous, che ha compiuto assalti on line da diversi computer contemporaneamente, diffondendo un virus. Hanno bloccato anche il sito del governo svedese, colpevole di volere l'estradizione di Assange. Ora rischiano una condanna fino a 10 anni di carcere e 6 mila euro di multa. E il mese scorso anche in Olanda sono stati arrestati due adolescenti con accuse analoghe.
Intanto, le rivelazioni di Wikileaks hanno prodotto i primi effetti concreti. La rivolta popolare che ha cacciato il dittatore tunisino Ben Ali è stata provocata anche dalla diffusione delle frasi crude che l'ambasciatore americano a Tunisi aveva usato nel telex segreto di un suo rapporto a Washington: «Qui la famiglia del presidente è come una mafia, ruba e si appropria di tutto».
Sono tanti i governi, compreso quello italiano, messi in imbarazzo dalla pubblicazione di tutta la corrispondenza diplomatica riservata degli Usa. Perfino le «feste selvagge» di Silvio Berlusconi non sono sfuggite ai diplomatici americani, i quali ne avevano scrupolosamente riferito al Dipartimento di Stato (il loro ministero degli Esteri).
Denudata la diplomazia confidenziale del mondo intero grazie all'aiuto del soldatino ventenne americano Bradley Manning (che gli ha passato i documenti e ora rischia decine di anni di carcere per alto tradimento), Assange ha compiuto la sua mossa più intelligente. Ha offerto tutto lo scottante materiale ai giornali più prestigiosi del mondo( New York Times, Guardian, Spiegel, Le Monde, El Pais), rendendoli di fatto suoi complici.
Adesso il direttore del New York Times, Bill Keller, ha svelato i retroscena del suo rapporto con Assange. Mesi di lavoro segreto, i dubbi su cosa pubblicare e cosa no, le proteste dei lettori, alcuni dei quali contrariati dalle rivelazioni di documenti top secret. «Dall'odore, sembrava che non si fosse lavato da giorni», ha raccontato il direttore del New York Times. Poi la sua trasformazione in una celebrity che si comporta da grande seduttore e si descrive come il «grande burattinaio» della stampa. Keller rivela che Richard Holbrooke, il compianto plenipotenziario Usa in Iraq e Afghanistan morto da poco, a una festa gli aveva sussurrato che le indiscrezioni che il giornale stava per pubblicare avrebbero reso quasi impossibile il suo lavoro. Ma gli fece anche capire di comprendere le ragioni della stampa libera.
E ora le banche svizzere
Per Keller, Assange è «un Peter Pan imbevuto di teorie cospirative, arrogante, diffidente fino alla paranoia, ideologicamente motivato dal desiderio di colpire gli Usa. Somiglia a un personaggio dei thriller di Stieg Larsson». Adesso Assange minaccia di rivelare i segreti delle banche svizzere, con i nomi di tutti i miliardari evasori fiscali del mondo. Dice di possedere documenti segreti contro Rupert Murdoch, il magnate delle tv Sky e Fox. Presto Hollywood farà un film su di lui. Sarà la sua consacrazione definitiva.
Mauro Suttora
Ha fatto tremare il mondo con le sue rivelazioni on line. Il dittatore della Tunisia è caduto anche grazie a lui. Ma ora il capo di Wikileaks teme un processo in Svezia. E intanto...
di Mauro Suttora
Oggi, 5 febbraio 2011
Il 7 febbraio il tribunale di Londra decide se estradare Julian Assange in Svezia. Il capo del sito Internet che rivela i segreti di Stato è accusato di molestie sessuali da due sue ex ammiratrici di Stoccolma, che lo hanno denunciato nonostante fossero andate volontariamente a letto con lui.
Dopo aver assaggiato il carcere di sua maestà, mister Wikileaks si trova da due mesi agli arresti domiciliari nella campagna inglese. Lo ospita nella propria tenuta di campagna un suo ricco fan, che lo aveva nascosto quando Assange era ricercato dalle polizie di mezzo mondo. Ora il turbolento Julian, come si vede da queste foto, ha molto tempo a disposizione. Che impiega anche dando da mangiare alle galline nel pollaio, e rispondendo alle cartoline di auguri che gli arrivano dagli ammiratori. Niente di più lontano dall' immagine dell'hacker, del pirata supertecnologico circondato da fili e computer, che si era costruito finora.
Intanto, la guerra continua. Wikileaks, infatti, è stata colpita dalle società che raccoglievano le donazioni per finanziarla: su richiesta del governo statunitense, Visa, MasterCard, Paypal e Amazon hanno bloccato i flussi di denaro. Subito è scattata la vendetta degli hacker. Cinque di loro, giovanissimi (dai 15 ai 26 anni), sono stati arrestati in Gran Bretagna pochi giorni fa per una serie di attacchi informatici contro i siti «traditori». Sono accusati di appartenere al cyber-commando Anonymous, che ha compiuto assalti on line da diversi computer contemporaneamente, diffondendo un virus. Hanno bloccato anche il sito del governo svedese, colpevole di volere l'estradizione di Assange. Ora rischiano una condanna fino a 10 anni di carcere e 6 mila euro di multa. E il mese scorso anche in Olanda sono stati arrestati due adolescenti con accuse analoghe.
Intanto, le rivelazioni di Wikileaks hanno prodotto i primi effetti concreti. La rivolta popolare che ha cacciato il dittatore tunisino Ben Ali è stata provocata anche dalla diffusione delle frasi crude che l'ambasciatore americano a Tunisi aveva usato nel telex segreto di un suo rapporto a Washington: «Qui la famiglia del presidente è come una mafia, ruba e si appropria di tutto».
Sono tanti i governi, compreso quello italiano, messi in imbarazzo dalla pubblicazione di tutta la corrispondenza diplomatica riservata degli Usa. Perfino le «feste selvagge» di Silvio Berlusconi non sono sfuggite ai diplomatici americani, i quali ne avevano scrupolosamente riferito al Dipartimento di Stato (il loro ministero degli Esteri).
Denudata la diplomazia confidenziale del mondo intero grazie all'aiuto del soldatino ventenne americano Bradley Manning (che gli ha passato i documenti e ora rischia decine di anni di carcere per alto tradimento), Assange ha compiuto la sua mossa più intelligente. Ha offerto tutto lo scottante materiale ai giornali più prestigiosi del mondo( New York Times, Guardian, Spiegel, Le Monde, El Pais), rendendoli di fatto suoi complici.
Adesso il direttore del New York Times, Bill Keller, ha svelato i retroscena del suo rapporto con Assange. Mesi di lavoro segreto, i dubbi su cosa pubblicare e cosa no, le proteste dei lettori, alcuni dei quali contrariati dalle rivelazioni di documenti top secret. «Dall'odore, sembrava che non si fosse lavato da giorni», ha raccontato il direttore del New York Times. Poi la sua trasformazione in una celebrity che si comporta da grande seduttore e si descrive come il «grande burattinaio» della stampa. Keller rivela che Richard Holbrooke, il compianto plenipotenziario Usa in Iraq e Afghanistan morto da poco, a una festa gli aveva sussurrato che le indiscrezioni che il giornale stava per pubblicare avrebbero reso quasi impossibile il suo lavoro. Ma gli fece anche capire di comprendere le ragioni della stampa libera.
E ora le banche svizzere
Per Keller, Assange è «un Peter Pan imbevuto di teorie cospirative, arrogante, diffidente fino alla paranoia, ideologicamente motivato dal desiderio di colpire gli Usa. Somiglia a un personaggio dei thriller di Stieg Larsson». Adesso Assange minaccia di rivelare i segreti delle banche svizzere, con i nomi di tutti i miliardari evasori fiscali del mondo. Dice di possedere documenti segreti contro Rupert Murdoch, il magnate delle tv Sky e Fox. Presto Hollywood farà un film su di lui. Sarà la sua consacrazione definitiva.
Mauro Suttora
Monday, February 07, 2011
I radicali salvano Berlusconi
Pannella stangherà i pm per conto del Cav
Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier
di Mauro Suttora
Libero, 7 febbraio 2011
Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).
In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.
Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.
Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».
Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».
I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.
Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.
L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.
Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».
Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier
di Mauro Suttora
Libero, 7 febbraio 2011
Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).
In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.
Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.
Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».
Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».
I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.
Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.
L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.
Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».
Saturday, February 05, 2011
La talpa più grande del mondo
Questa fresa è da record
Maxiopere: così nasce la nuova galleria dell'autostrada Bologna-Firenze
È più alta di un palazzo di cinque piani. Non si può trasportare dalla Germania via terra: per scavare l'Appennino ha dovuto fare il periplo dell' Europa... Appuntamento al 2013
di Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
Alzi la mano chi non ha sofferto andando in auto da Bologna a Firenze, sull'Autosole. Le 90 mila auto e soprattutto Tir che ci passano ogni giorno fanno di questi 80 chilometri una delle autostrade più intasate del mondo. Ma un altro record mondiale sta per essere battuto da queste parti. A perforare la galleria Sparvo della nuova Variante di valico sta per arrivare la maxifresa più grande della Terra. Con i suoi 15 metri e 62 centimetri di diametro ha battuto di un metro quella che sta scavando un tunnel idroelettrico sotto le cascate del Niagara. «E supera di venti centimetri anche la talpa che abbiamo mandato a Shanghai», dicono alla Herrenknecht, la società tedesca che costruisce questi giganti, «ma lì il terreno da perforare è sabbioso». Sotto l'Appennino, invece, la talpona avrà a che fare con roccia dura.
«Ma riuscirà ad avanzare al ritmo di dieci metri al giorno, contro i 15 al mese dei metodi tradizionali», dicono alla Toto di Chieti, l'impresa costruttrice che ha comprato questa meraviglia al prezzo di 53 milioni di euro. Così i cinque chilometri della galleria (2.500 metri per ciascun senso di marcia) verranno ultimati in 500 giorni, e potremo percorrere la nuova Bologna-Firenze nel 2013. Ma c' è un' altra impresa in corso proprio in questi giorni. La maxitalpa, infatti, è così grande e pesante (4.300 tonnellate) che non è trasportabile attraverso i valichi alpini, né ferroviari né stradali.
Quindi, per arrivare in Italia dalla fabbrica tedesca di Schwanau, vicino alla Foresta Nera, ha fatto un giro dell' oca che l'ha portata a imbarcarsi nel porto belga di Anversa. Ora, dopo aver circumnavigato l'Europa, è arrivata nel porto di Ravenna. E da lì lo scudo frontale (separabile dal resto della fresa, lungo 120 metri) verrà trasportato fino all' imbocco della galleria dal lato nord. Dopo questa faticosissima installazione, sarà pronta a lavorare a maggio.
Il nome ufficiale della talpa è Tbm: Tunnel boring machine. Non si limita a scavare la galleria: subito dopo mette in posa le centine prefabbricate di cemento armato che foderano il tunnel. Lo scavo della galleria Sparvo è particolarmente complesso, perché i prospetti geologici hanno evidenziato la possibile presenza di zone con presenza di miscele gassose. È il famigerato «grisù», che esplodendo ha provocato centinaia di vittime nelle miniere di tutto il mondo.
La maxi talpa lavora nella massima sicurezza, perché la testa di scavo agisce all' interno di una camera chiusa e sigillata. Questo permette ai minatori di lavorare al riparo, all' interno dello scudo. La fresa viene controllata da un operatore specializzato che si trova all'interno di una cabina di pilotaggio e che, grazie a speciali monitor e sistemi computerizzati, è in grado di «guidare» lo scavo con precisione millimetrica. La testa dello scudo è attrezzata con denti e dischi ( cutter ) che rompono la roccia e portano il materiale nella camera di scavo posteriore. Qui la rimozione del materiale avviene in automatico attraverso un nastro trasportatore che lo trasferisce all'esterno della galleria.
Il rivestimento del tunnel, infine, viene posizionato da un robot radiocomandato da un tecnico, ed è attrezzato con guarnizioni che garantiscono la tenuta all'acqua e al gas. Per aumentare i parametri di sicurezza, oltre alla sigillatura del fronte di scavo, è stata incapsulata anche la catena di trasporto del materiale, in modo da evitare ogni propagazione di gas nelle zone dove lavorano gli addetti. C'è anche una rete di controllo dell' atmosfera sia nella zona incapsulata sia in tutte le aree del talpone, per intervenire immediatamente nel caso di rilevamento di gas e di superamento delle soglie di allarme.
Pronta dopo 17 anni
La Variante di valico Bologna-Firenze ha avuto una storia tormentata. Decisa nel 1996, i lavori sono iniziati soltanto nel 2002 nel tratto di Sasso Marconi, e due anni dopo in quello di montagna. Il costo finale sarà enorme: 3,6 miliardi di euro.
Mauro Suttora
Maxiopere: così nasce la nuova galleria dell'autostrada Bologna-Firenze
È più alta di un palazzo di cinque piani. Non si può trasportare dalla Germania via terra: per scavare l'Appennino ha dovuto fare il periplo dell' Europa... Appuntamento al 2013
di Mauro Suttora
Oggi, 4 febbraio 2011
Alzi la mano chi non ha sofferto andando in auto da Bologna a Firenze, sull'Autosole. Le 90 mila auto e soprattutto Tir che ci passano ogni giorno fanno di questi 80 chilometri una delle autostrade più intasate del mondo. Ma un altro record mondiale sta per essere battuto da queste parti. A perforare la galleria Sparvo della nuova Variante di valico sta per arrivare la maxifresa più grande della Terra. Con i suoi 15 metri e 62 centimetri di diametro ha battuto di un metro quella che sta scavando un tunnel idroelettrico sotto le cascate del Niagara. «E supera di venti centimetri anche la talpa che abbiamo mandato a Shanghai», dicono alla Herrenknecht, la società tedesca che costruisce questi giganti, «ma lì il terreno da perforare è sabbioso». Sotto l'Appennino, invece, la talpona avrà a che fare con roccia dura.
«Ma riuscirà ad avanzare al ritmo di dieci metri al giorno, contro i 15 al mese dei metodi tradizionali», dicono alla Toto di Chieti, l'impresa costruttrice che ha comprato questa meraviglia al prezzo di 53 milioni di euro. Così i cinque chilometri della galleria (2.500 metri per ciascun senso di marcia) verranno ultimati in 500 giorni, e potremo percorrere la nuova Bologna-Firenze nel 2013. Ma c' è un' altra impresa in corso proprio in questi giorni. La maxitalpa, infatti, è così grande e pesante (4.300 tonnellate) che non è trasportabile attraverso i valichi alpini, né ferroviari né stradali.
Quindi, per arrivare in Italia dalla fabbrica tedesca di Schwanau, vicino alla Foresta Nera, ha fatto un giro dell' oca che l'ha portata a imbarcarsi nel porto belga di Anversa. Ora, dopo aver circumnavigato l'Europa, è arrivata nel porto di Ravenna. E da lì lo scudo frontale (separabile dal resto della fresa, lungo 120 metri) verrà trasportato fino all' imbocco della galleria dal lato nord. Dopo questa faticosissima installazione, sarà pronta a lavorare a maggio.
Il nome ufficiale della talpa è Tbm: Tunnel boring machine. Non si limita a scavare la galleria: subito dopo mette in posa le centine prefabbricate di cemento armato che foderano il tunnel. Lo scavo della galleria Sparvo è particolarmente complesso, perché i prospetti geologici hanno evidenziato la possibile presenza di zone con presenza di miscele gassose. È il famigerato «grisù», che esplodendo ha provocato centinaia di vittime nelle miniere di tutto il mondo.
La maxi talpa lavora nella massima sicurezza, perché la testa di scavo agisce all' interno di una camera chiusa e sigillata. Questo permette ai minatori di lavorare al riparo, all' interno dello scudo. La fresa viene controllata da un operatore specializzato che si trova all'interno di una cabina di pilotaggio e che, grazie a speciali monitor e sistemi computerizzati, è in grado di «guidare» lo scavo con precisione millimetrica. La testa dello scudo è attrezzata con denti e dischi ( cutter ) che rompono la roccia e portano il materiale nella camera di scavo posteriore. Qui la rimozione del materiale avviene in automatico attraverso un nastro trasportatore che lo trasferisce all'esterno della galleria.
Il rivestimento del tunnel, infine, viene posizionato da un robot radiocomandato da un tecnico, ed è attrezzato con guarnizioni che garantiscono la tenuta all'acqua e al gas. Per aumentare i parametri di sicurezza, oltre alla sigillatura del fronte di scavo, è stata incapsulata anche la catena di trasporto del materiale, in modo da evitare ogni propagazione di gas nelle zone dove lavorano gli addetti. C'è anche una rete di controllo dell' atmosfera sia nella zona incapsulata sia in tutte le aree del talpone, per intervenire immediatamente nel caso di rilevamento di gas e di superamento delle soglie di allarme.
Pronta dopo 17 anni
La Variante di valico Bologna-Firenze ha avuto una storia tormentata. Decisa nel 1996, i lavori sono iniziati soltanto nel 2002 nel tratto di Sasso Marconi, e due anni dopo in quello di montagna. Il costo finale sarà enorme: 3,6 miliardi di euro.
Mauro Suttora
Wednesday, February 02, 2011
Marina Berlusconi in politica?
Oggi, 24 gennaio 2011
di Mauro Suttora
E dopo vent’anni di Silvio Berlusconi, altri venti con sua figlia Marina? Fino a poche settimane fa, nessuno pensava che la primogenita 44enne del premier potesse darsi alla politica. Ma negli ultimi giorni la crisi del Rubygate ha dato un’accelerata a tutto. Compresa l’ipotesi di un passo indietro di Silvio, compensato da una simultanea discesa in campo di Marina.
Lo auspica a tutta prima pagina il Giornale, quotidiano di famiglia. Ma già a novembre l’attuale direttore, Alessandro Sallusti, aveva dichiarato: «È lei l’unica che può continuare la rivoluzione». Marina infatti, abbandonando la ritrosia a occuparsi di politica, aveva caricato a testa bassa contro il finiano Italo Bocchino che accusava Berlusconi di considerare palazzo Chigi «casa propria»: «Mio padre di case ne ha abbastanza, e le ha comprate con soldi suoi. Non certo con quelli del partito…». Il riferimento è all’appartamento di Montecarlo in cui si è installato il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Ancor più violento e improvviso, ed estraneo quindi allo stile felpato e meditato sfoggiato finora da Marina, l’attacco allo scrittore Roberto Saviano. Il quale ha dedicato una sua laurea «honoris causa» ai magistrati di Milano che accusano Berlusconi per prostituzione minorile e concussione. «Mi fa letteralmente orrore che Saviano calpesti e rinneghi tutto quello per cui ha sempre proclamato di battersi: il rispetto della libertà, della legalità e della dignità delle persone», ha dichiarato la figlia.
Non è la prima volta che Marina si scontra con Saviano, il quale pubblica i suoi libri con la Mondadori, di cui lei è presidente. Lo scorso aprile Berlusconi criticò l’autore di Gomorra perché scrivendo di mafia farebbe cattiva pubblicità all’Italia. Saviano gli replicò, ma Marina lo fulminò: «Saviano non riesce a distinguere fra una libera critica e una censura».
E adesso? Veramente lo scettro anche politico dell’impero berlusconiano sta per passare alla erede? Magari in cambio dell’accettazione da parte di Silvio di un governo Letta-Tremonti, di un seggio da senatore a vita per se stesso (con annesse garanzie giudiziarie) e l’assicurazione che le sue aziende non verranno smembrate?
Non sono molte le figlie di politici che cercano di raccogliere l’eredità dei genitori. L’ultima è, proprio in questi giorni, la figlia di Jean-Marie Le Pen, guarda caso un’altra Marina. Il presidente 82enne del Front National l’ha fatta eleggere eurodeputata, e ora le ha affidato il partito di estrema destra. Ma la Marina parigina era già vicepresidente del partito da otto anni.
Nulla, invece, indica una propensione della figlia di Berlusconi per la politica. Entrata in punta di piedi alla Fininvest senza laurearsi, a 29 anni Marina ne diventa vicepresidente. Nel 2005, quando l’avvocato Aldo Bonomo muore, presidente. Ma si tratta dell’azienda capogruppo di famiglia: naturale che ne venga assicurata la successione dinastica.
Un’altra morte prematura proietta Marina in cima alla Mondadori: quella del presidente Leonardo, cui subentra nel 2003. A quel punto, il futuro è chiaro. I due figli di primo letto di Berlusconi si sono divisi l’impero mediatico da quasi sei miliardi di fatturato: a Pier Silvio le tv Mediaset, a Marina libri e giornali. L’incoronazione definitiva arriva con l’ingresso nella classifica Forbes delle donne più ricche e potenti del pianeta, e nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca (che ha fra le sue partecipate anche Rizzoli Corriere della Sera, e quindi il giornale che state leggendo).
Le riviste di famiglia, intanto, cominciano a pompare l’immagine di Marina. Il settimanale Chi pochi mesi fa ha pubblicato sue foto fintamente «rubate» a seno nudo, in cui lei espone il nuovo petto rifatto. Sposata con il ballerino Maurizio Vanadia, ex compagno del suo chirurgo plastico Angelo Villa, ne ha avuto due figli: Gabriele, 8 anni, e Silvio, 6.
Rimangono per ora fuori dalla spartizione i tre figli del secondo matrimonio di Silvio con Veronica Lario. Ed è questo, forse, il fronte più delicato. La combattiva Barbara, infatti, ha detto che vorrebbe lavorare pure lei in Mondadori. E, affetti filiali a parte, sembra vicina più alle idee politiche progressiste della madre che a quelle di centrodestra del padre.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
E dopo vent’anni di Silvio Berlusconi, altri venti con sua figlia Marina? Fino a poche settimane fa, nessuno pensava che la primogenita 44enne del premier potesse darsi alla politica. Ma negli ultimi giorni la crisi del Rubygate ha dato un’accelerata a tutto. Compresa l’ipotesi di un passo indietro di Silvio, compensato da una simultanea discesa in campo di Marina.
Lo auspica a tutta prima pagina il Giornale, quotidiano di famiglia. Ma già a novembre l’attuale direttore, Alessandro Sallusti, aveva dichiarato: «È lei l’unica che può continuare la rivoluzione». Marina infatti, abbandonando la ritrosia a occuparsi di politica, aveva caricato a testa bassa contro il finiano Italo Bocchino che accusava Berlusconi di considerare palazzo Chigi «casa propria»: «Mio padre di case ne ha abbastanza, e le ha comprate con soldi suoi. Non certo con quelli del partito…». Il riferimento è all’appartamento di Montecarlo in cui si è installato il fratello della compagna di Gianfranco Fini.
Ancor più violento e improvviso, ed estraneo quindi allo stile felpato e meditato sfoggiato finora da Marina, l’attacco allo scrittore Roberto Saviano. Il quale ha dedicato una sua laurea «honoris causa» ai magistrati di Milano che accusano Berlusconi per prostituzione minorile e concussione. «Mi fa letteralmente orrore che Saviano calpesti e rinneghi tutto quello per cui ha sempre proclamato di battersi: il rispetto della libertà, della legalità e della dignità delle persone», ha dichiarato la figlia.
Non è la prima volta che Marina si scontra con Saviano, il quale pubblica i suoi libri con la Mondadori, di cui lei è presidente. Lo scorso aprile Berlusconi criticò l’autore di Gomorra perché scrivendo di mafia farebbe cattiva pubblicità all’Italia. Saviano gli replicò, ma Marina lo fulminò: «Saviano non riesce a distinguere fra una libera critica e una censura».
E adesso? Veramente lo scettro anche politico dell’impero berlusconiano sta per passare alla erede? Magari in cambio dell’accettazione da parte di Silvio di un governo Letta-Tremonti, di un seggio da senatore a vita per se stesso (con annesse garanzie giudiziarie) e l’assicurazione che le sue aziende non verranno smembrate?
Non sono molte le figlie di politici che cercano di raccogliere l’eredità dei genitori. L’ultima è, proprio in questi giorni, la figlia di Jean-Marie Le Pen, guarda caso un’altra Marina. Il presidente 82enne del Front National l’ha fatta eleggere eurodeputata, e ora le ha affidato il partito di estrema destra. Ma la Marina parigina era già vicepresidente del partito da otto anni.
Nulla, invece, indica una propensione della figlia di Berlusconi per la politica. Entrata in punta di piedi alla Fininvest senza laurearsi, a 29 anni Marina ne diventa vicepresidente. Nel 2005, quando l’avvocato Aldo Bonomo muore, presidente. Ma si tratta dell’azienda capogruppo di famiglia: naturale che ne venga assicurata la successione dinastica.
Un’altra morte prematura proietta Marina in cima alla Mondadori: quella del presidente Leonardo, cui subentra nel 2003. A quel punto, il futuro è chiaro. I due figli di primo letto di Berlusconi si sono divisi l’impero mediatico da quasi sei miliardi di fatturato: a Pier Silvio le tv Mediaset, a Marina libri e giornali. L’incoronazione definitiva arriva con l’ingresso nella classifica Forbes delle donne più ricche e potenti del pianeta, e nel consiglio d’amministrazione di Mediobanca (che ha fra le sue partecipate anche Rizzoli Corriere della Sera, e quindi il giornale che state leggendo).
Le riviste di famiglia, intanto, cominciano a pompare l’immagine di Marina. Il settimanale Chi pochi mesi fa ha pubblicato sue foto fintamente «rubate» a seno nudo, in cui lei espone il nuovo petto rifatto. Sposata con il ballerino Maurizio Vanadia, ex compagno del suo chirurgo plastico Angelo Villa, ne ha avuto due figli: Gabriele, 8 anni, e Silvio, 6.
Rimangono per ora fuori dalla spartizione i tre figli del secondo matrimonio di Silvio con Veronica Lario. Ed è questo, forse, il fronte più delicato. La combattiva Barbara, infatti, ha detto che vorrebbe lavorare pure lei in Mondadori. E, affetti filiali a parte, sembra vicina più alle idee politiche progressiste della madre che a quelle di centrodestra del padre.
Mauro Suttora
Friday, January 28, 2011
Wednesday, January 19, 2011
Berlusconi e Mussolini
La guerra del gossip da Mussolini al premier
Corriere della Sera, 19 gennaio 2011, pag. 43
di Gian Antonio Stella
«Io non sono il garzone di un barbiere, ho una posizione da rispettare» . Settant’anni prima di Silvio Berlusconi, perfino Benito Mussolini si era posto il problema del decoro. Era il Duce, era osannato dalle folle, aveva in pugno l’Italia, i giornalisti erano così servili che La Stampa arrivò a scrivere che il suo cavallo bianco, quando lui gli parlava, nitriva «in modo significativo» . E non c’era magistrato, anche se l’adulterio sulla carta poteva essere perseguito, che mai e poi mai avrebbe osato inquisirlo. Era lui che comandava i giudici. Eppure se lo pose, il problema.
La rilettura di Mussolini segreto, diari di Claretta Petacci curato da Mauro Suttora e uscito nel 2009 da Rizzoli, alla luce di quanto accade in questi giorni, è assai interessante. Aiuta a capire come sono cambiati i costumi. Nel Paese ma soprattutto lassù in alto. Nel mondo del potere. Il Capoccione, infatti, pagina dopo pagina, sembra avere quasi l’ossessione di non dare scandalo. E se non perde occasione per mostrare i muscoli su tutto il resto, in questa materia si mostra prudente. Spesso prudentissimo.
Le voci che girano gli danno fastidio e lo dice anche all’amante: «Tuo marito parlerà naturalmente con gli altri ufficiali, a mensa o altrove, e dirà: “Mussolini, che predica tanto la famiglia, l’unione, i figli, ha distrutto la mia famiglia, mi ha preso la moglie…”. La mia posizione è insostenibile…»
I pettegolezzi sulle sue attività amatorie, più che spingerlo a battute da sciupafemmine, lo preoccupano: «Di chi vuoi che parlino alla Camera, al Senato, a teatro, nei ricevimenti, nelle case? Di Mussolini, di ciò che fa, dice, pensa… Quando erano i primi tempi ho girato in auto scoperta con la Sarfatti, e andavo in giro con lei anche di giorno. Ma allora ero ancora un giornalista, un ragazzo, non quel che sono oggi. Ora è diverso. Sai cosa dicono? “Prima voleva essere Napoleone, ora vuol essere Cesare e non gli basta. Andando di seguito diventerà Nerone”» .
Claretta vuole essere invitata al ricevimento per la conquista dell’Albania? Il Duce rifiuta: «Sarebbe uno scandalo. Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l’amante. Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza». E insiste: «Voglio che tu sia la donna del mistero, che se anche si sa che tu sei la mia amante, non se ne sia sicuri, che allora l’amore perde il profumo. Io tengo al mio prestigio, quando questo pericola io tronco. Lo sa già mezza Roma…». E ancora: «Dovevamo essere più prudenti. Non sono un uomo comune, sono esposto a tutti i frizzi, a tutti i colpi» . Insomma, guai se la faccenda diventa un tormentone «di cui si parla nei caffè o dalle sarte».
Sinceramente: se si poneva questo problema perfino lui, un dittatore ateo padrone dell’Italia che per avere l’appoggio del Vaticano era arrivato a sposarsi in chiesa e a rimettere i crocifissi nelle scuole, davvero pensava il Cavaliere, a prescindere da eventuali reati (auguri), di potersi permettere tutto?
Gian Antonio Stella (rubrica "Tuttifrutti")
Corriere della Sera, 19 gennaio 2011, pag. 43
di Gian Antonio Stella
«Io non sono il garzone di un barbiere, ho una posizione da rispettare» . Settant’anni prima di Silvio Berlusconi, perfino Benito Mussolini si era posto il problema del decoro. Era il Duce, era osannato dalle folle, aveva in pugno l’Italia, i giornalisti erano così servili che La Stampa arrivò a scrivere che il suo cavallo bianco, quando lui gli parlava, nitriva «in modo significativo» . E non c’era magistrato, anche se l’adulterio sulla carta poteva essere perseguito, che mai e poi mai avrebbe osato inquisirlo. Era lui che comandava i giudici. Eppure se lo pose, il problema.
La rilettura di Mussolini segreto, diari di Claretta Petacci curato da Mauro Suttora e uscito nel 2009 da Rizzoli, alla luce di quanto accade in questi giorni, è assai interessante. Aiuta a capire come sono cambiati i costumi. Nel Paese ma soprattutto lassù in alto. Nel mondo del potere. Il Capoccione, infatti, pagina dopo pagina, sembra avere quasi l’ossessione di non dare scandalo. E se non perde occasione per mostrare i muscoli su tutto il resto, in questa materia si mostra prudente. Spesso prudentissimo.
Le voci che girano gli danno fastidio e lo dice anche all’amante: «Tuo marito parlerà naturalmente con gli altri ufficiali, a mensa o altrove, e dirà: “Mussolini, che predica tanto la famiglia, l’unione, i figli, ha distrutto la mia famiglia, mi ha preso la moglie…”. La mia posizione è insostenibile…»
I pettegolezzi sulle sue attività amatorie, più che spingerlo a battute da sciupafemmine, lo preoccupano: «Di chi vuoi che parlino alla Camera, al Senato, a teatro, nei ricevimenti, nelle case? Di Mussolini, di ciò che fa, dice, pensa… Quando erano i primi tempi ho girato in auto scoperta con la Sarfatti, e andavo in giro con lei anche di giorno. Ma allora ero ancora un giornalista, un ragazzo, non quel che sono oggi. Ora è diverso. Sai cosa dicono? “Prima voleva essere Napoleone, ora vuol essere Cesare e non gli basta. Andando di seguito diventerà Nerone”» .
Claretta vuole essere invitata al ricevimento per la conquista dell’Albania? Il Duce rifiuta: «Sarebbe uno scandalo. Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l’amante. Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza». E insiste: «Voglio che tu sia la donna del mistero, che se anche si sa che tu sei la mia amante, non se ne sia sicuri, che allora l’amore perde il profumo. Io tengo al mio prestigio, quando questo pericola io tronco. Lo sa già mezza Roma…». E ancora: «Dovevamo essere più prudenti. Non sono un uomo comune, sono esposto a tutti i frizzi, a tutti i colpi» . Insomma, guai se la faccenda diventa un tormentone «di cui si parla nei caffè o dalle sarte».
Sinceramente: se si poneva questo problema perfino lui, un dittatore ateo padrone dell’Italia che per avere l’appoggio del Vaticano era arrivato a sposarsi in chiesa e a rimettere i crocifissi nelle scuole, davvero pensava il Cavaliere, a prescindere da eventuali reati (auguri), di potersi permettere tutto?
Gian Antonio Stella (rubrica "Tuttifrutti")
Wednesday, January 12, 2011
Operai Fiat
In concreto, cosa cambia a Mirafiori? Pause, mensa, mutua, straordinari, sindacato. Viaggio nel conflitto che rivoluziona la fabbrica dell'auto
dal nostro inviato a Torino Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Avete la Lancia Musa o la Fiat Idea? È probabile che le spazzole tergicristallo ve le abbia montate Maria Epifania. Ha un minuto e venti seconde per farlo, su ogni macchina. Lo fa da anni. «Mi sveglio alle quattro di mattina per arrivare in fabbrica alle sei. Prima in auto da Volpiano, il mio paese, a Settimo Torinese. Poi in corriera fino a Torino. Non è tanto la levataccia a pesarmi, quanto il cambio di turno ogni settimana. Quello pomeridiano inizia alle due e finisce alle dieci, ma non riesco ad essere a casa prima delle undici e mezzo. Mi corico a mezzanotte. In pratica, è come cambiare fuso orario ogni sette giorni». In cambio di 1.200 euro al mese.
Vita di operai Fiat. Nella fabbrica più importante d’Italia, Mirafiori. Quella che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ora minaccia di smantellare se vince il no al referendum del 14 gennaio. Polverizzando così più di un secolo di storia dell’auto a Torino.
«Io chiedo solo di lavorare», dice Maria. «Ma con dignità. Non voglio scegliere fra lavoro e diritti. Quindi voterò no». E se la fabbrica chiude? «Chi non risica non rosica. Non accetto l’alternativa: o così, o stai a casa. È un ricatto».
Via Bologna, assemblea di delegati nella sede Uilm. «Un sindacalista deve saper mangiare merda quando le vacche sono magre, e farla mangiare quando sono grasse. Adesso, mangiamo merda». Più chiaro di così: Maurizio Peverati, capo Uil alla Fiat, voterà sì. «Anche perché noi 5 mila di Mirafiori non possiamo mettere in pericolo lo stipendio di 80 mila dipendenti dell’indotto. Calcolando le famiglie, sono 240 mila persone che a Torino vivono grazie alla Fiat».
In Fiat Pietro Milana e sua moglie Adelaide si sono conosciuti e sposati: «Era il 1989, lavoravamo nello stabilimento di Rivalta. Allora in città la Fiat aveva 40 mila dipendenti, otto volte quelli di oggi. Poi è arrivata la crisi, Rivalta ha chiuso. Non si assume più nessuno da 14 anni, non si fanno investimenti da 20. Mirafiori è diventato lo stabilimento più vecchio del mondo. E ora che Marchionne vuole metterci un miliardo per la nuova joint-venture Fiat-Chrysler, facciamo gli schizzinosi per dieci minuti di pausa in meno e perché forse ci sarà da lavorare la domenica? Magari, dico io. Vorrebbe dire che le cose vanno bene».
Ma la Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil, dice che sono molti i punti inaccettabili del nuovo contratto, firmato solo dalla Cisl e da voi della Uil. Risponde Milana: «Vediamoli uno per uno. Le pause? Prima ce n’erano tre a turno, due di un quarto d’ora e una di dieci minuti. Ora saranno tutte di dieci minuti. La mensa? Spostata da metà a fine turno. Così chi vuole va a casa mezz’ora prima».
Non vi pagano più i primi due giorni di malattia. «Solo a chi fa il furbo e si dà malato il venerdì o il lunedì, per allungare il weekend. Poi magari li vediamo tornare abbronzati perché sono andati a sciare».
Ma chi sta male veramente? «Nessun problema. Una commissione paritetica azienda-sindacati valuterà i casi anomali di chi nei dodici mesi precedenti si è messo in mutua più di tre volte nei giorni critici, e solo se l’assenteismo supera il 3,5 per cento».
Adesso quant’è?
«Sette per cento, ma causato quasi sempre dalle stesse 400 persone. Non sarà un problema dimezzarlo, visto che il tre mezzo è la media nazionale».
E gli straordinari? La Fiom calcola che, triplicandolo a 120 ore annue obbligatorie a testa, la Fiat risparmia più di 200 assunzioni in caso di «vacche grasse».
«Senta, con gli straordinari riusciamo ad arrivare a 1.700 al mese. Ora invece, in cassa integrazione, siamo a 800. A tutti fa comodo guadagnare un po’ di più. Infatti, quando li facevamo al sabato, c’era la coda. Però la Fiom faceva scattare lo sciopero appena l’azienda parlava di maggiore utilizzo degli impianti. Certo, anche a me piacerebbe starmene a casa il sabato con mio figlio. Però so anche che dieci anni fa nessuno lavorava la domenica, mentre ora i centri commerciali sono tutti aperti. Le cose cambiano...»
In peggio, secondo la Fiom. I rappresentanti dei lavoratori, per esempio. Non potrete più votarli direttamente: saranno nominati dai sindacati. Ma solo da quelli che firmano l’accordo. Quindi niente Cgil-Fiom, e niente trattenute in busta paga per i loro iscritti. Cancellati.
«Il problema è che la Fiom non firma mai, per partito preso: per ragioni politiche, non sindacali. Salvo poi accettare i miglioramenti strappati dagli altri sindacati. Certo, questa della rappresentanza è una forzatura. Ma da qui a gridare che si viola la costituzione... Teniamo presente che l’auto è in crisi in tutto il mondo, che negli Stati Uniti i sindacati hanno accettato diminuzioni degli stipendi del 20 per cento e salari dimezzati per i nuovi assunti. Qui invece non perdiamo un euro».
Maria Epifania, iscritta Fiom (come il 13% dei dipendenti di Mirafiori, percentuale analoga agli altri sindacati), vede le cose diversamente: «Dieci minuti in meno di pausa possono sembrare poca cosa. Ma in concreto, per chi sta otto ore di fila in linea di montaggio a fare sempre lo stesso movimento, anche un minuto è prezioso. Quando la catena si ferma, infatti, tutti vanno simultaneamente al bagno. Quindi formano code. Lo stesso per le macchinette del caffè. Non parliamo di chi fuma, o di chi è lontano sia dalle zone fumatori, sia dal caffè, sia dai bagni. In un quarto d’ora si riusciva a fare tutto, in dieci minuti no. La mensa, poi, era una quarta pausa. Ora che è a fine turno, non serve più».
Potete andarvene prima. «Ma digiuni... Può essere comodo per chi abita vicino a Mirafiori, ma per chi prende i mezzi come non migliora nulla: gli orari dei bus non cambiano. Io quando ho il turno pomeridiano in pratica non vedo più mio figlio per una settimana, perché vado via prima che lui torni da scuola, e quando torno dorme da un pezzo».
E la mutua?
«Il problema di Mirafiori è che ormai è uno stabilimento di gente di mezza età, piena di acciacchi. Io che ho 37 anni sono una delle più giovani, perché dopo di me nel ’97 non hanno assunto più nessuno. Non illudiamoci quindi che si riescano a rispettare le medie di malattia di altre fabbriche».
Ma qual è la condizione peggiore del nuovo accordo, secondo lei?
«Che non saremo più neppure liberi di scioperare. Chi firmerà per la nuova joint venture delle jeep, infatti, dovrà accettare automaticamente tutte le regole sui ritmi di lavoro. Nella fabbrica dove lavoravo prima facevo piccoli elettrodomestici. La catena di montaggio si fermava, eseguivo la lavorazione, poi ripartiva. Alla Fiat invece la catena si muove sempre, siamo noi a correrle dietro. Se non ce la facciamo, se il carico di lavoro è troppo forte, se fa troppo caldo o troppo freddo, non possiamo più dirlo al capo, né protestare. Non possiamo più fare nulla, pena il licenziamento. Chi si ferma è perduto, come Charlot in Tempi moderni...»
E non ha paura che Marchionne, se vince il no, chiuda Mirafiori e trasferisca tutto nelle altre fabbriche Fiat in Polonia o in Serbia, dove gli operai prendono 400 euro al mese?
«Senta, i nostri nonni e genitori hanno lottato tanto per migliorare le condizioni di lavoro, di cui ora beneficiano tutti. Ora tocca a noi. Non possiamo arrenderci. Anche perché i nostri figli un giorno potrebbero rinfacciarcelo: mamma, come hai fatto ad accettare quelle umiliazioni?»
Mauro Suttora
dal nostro inviato a Torino Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Avete la Lancia Musa o la Fiat Idea? È probabile che le spazzole tergicristallo ve le abbia montate Maria Epifania. Ha un minuto e venti seconde per farlo, su ogni macchina. Lo fa da anni. «Mi sveglio alle quattro di mattina per arrivare in fabbrica alle sei. Prima in auto da Volpiano, il mio paese, a Settimo Torinese. Poi in corriera fino a Torino. Non è tanto la levataccia a pesarmi, quanto il cambio di turno ogni settimana. Quello pomeridiano inizia alle due e finisce alle dieci, ma non riesco ad essere a casa prima delle undici e mezzo. Mi corico a mezzanotte. In pratica, è come cambiare fuso orario ogni sette giorni». In cambio di 1.200 euro al mese.
Vita di operai Fiat. Nella fabbrica più importante d’Italia, Mirafiori. Quella che l’amministratore delegato Sergio Marchionne ora minaccia di smantellare se vince il no al referendum del 14 gennaio. Polverizzando così più di un secolo di storia dell’auto a Torino.
«Io chiedo solo di lavorare», dice Maria. «Ma con dignità. Non voglio scegliere fra lavoro e diritti. Quindi voterò no». E se la fabbrica chiude? «Chi non risica non rosica. Non accetto l’alternativa: o così, o stai a casa. È un ricatto».
Via Bologna, assemblea di delegati nella sede Uilm. «Un sindacalista deve saper mangiare merda quando le vacche sono magre, e farla mangiare quando sono grasse. Adesso, mangiamo merda». Più chiaro di così: Maurizio Peverati, capo Uil alla Fiat, voterà sì. «Anche perché noi 5 mila di Mirafiori non possiamo mettere in pericolo lo stipendio di 80 mila dipendenti dell’indotto. Calcolando le famiglie, sono 240 mila persone che a Torino vivono grazie alla Fiat».
In Fiat Pietro Milana e sua moglie Adelaide si sono conosciuti e sposati: «Era il 1989, lavoravamo nello stabilimento di Rivalta. Allora in città la Fiat aveva 40 mila dipendenti, otto volte quelli di oggi. Poi è arrivata la crisi, Rivalta ha chiuso. Non si assume più nessuno da 14 anni, non si fanno investimenti da 20. Mirafiori è diventato lo stabilimento più vecchio del mondo. E ora che Marchionne vuole metterci un miliardo per la nuova joint-venture Fiat-Chrysler, facciamo gli schizzinosi per dieci minuti di pausa in meno e perché forse ci sarà da lavorare la domenica? Magari, dico io. Vorrebbe dire che le cose vanno bene».
Ma la Fiom, il sindacato metalmeccanico della Cgil, dice che sono molti i punti inaccettabili del nuovo contratto, firmato solo dalla Cisl e da voi della Uil. Risponde Milana: «Vediamoli uno per uno. Le pause? Prima ce n’erano tre a turno, due di un quarto d’ora e una di dieci minuti. Ora saranno tutte di dieci minuti. La mensa? Spostata da metà a fine turno. Così chi vuole va a casa mezz’ora prima».
Non vi pagano più i primi due giorni di malattia. «Solo a chi fa il furbo e si dà malato il venerdì o il lunedì, per allungare il weekend. Poi magari li vediamo tornare abbronzati perché sono andati a sciare».
Ma chi sta male veramente? «Nessun problema. Una commissione paritetica azienda-sindacati valuterà i casi anomali di chi nei dodici mesi precedenti si è messo in mutua più di tre volte nei giorni critici, e solo se l’assenteismo supera il 3,5 per cento».
Adesso quant’è?
«Sette per cento, ma causato quasi sempre dalle stesse 400 persone. Non sarà un problema dimezzarlo, visto che il tre mezzo è la media nazionale».
E gli straordinari? La Fiom calcola che, triplicandolo a 120 ore annue obbligatorie a testa, la Fiat risparmia più di 200 assunzioni in caso di «vacche grasse».
«Senta, con gli straordinari riusciamo ad arrivare a 1.700 al mese. Ora invece, in cassa integrazione, siamo a 800. A tutti fa comodo guadagnare un po’ di più. Infatti, quando li facevamo al sabato, c’era la coda. Però la Fiom faceva scattare lo sciopero appena l’azienda parlava di maggiore utilizzo degli impianti. Certo, anche a me piacerebbe starmene a casa il sabato con mio figlio. Però so anche che dieci anni fa nessuno lavorava la domenica, mentre ora i centri commerciali sono tutti aperti. Le cose cambiano...»
In peggio, secondo la Fiom. I rappresentanti dei lavoratori, per esempio. Non potrete più votarli direttamente: saranno nominati dai sindacati. Ma solo da quelli che firmano l’accordo. Quindi niente Cgil-Fiom, e niente trattenute in busta paga per i loro iscritti. Cancellati.
«Il problema è che la Fiom non firma mai, per partito preso: per ragioni politiche, non sindacali. Salvo poi accettare i miglioramenti strappati dagli altri sindacati. Certo, questa della rappresentanza è una forzatura. Ma da qui a gridare che si viola la costituzione... Teniamo presente che l’auto è in crisi in tutto il mondo, che negli Stati Uniti i sindacati hanno accettato diminuzioni degli stipendi del 20 per cento e salari dimezzati per i nuovi assunti. Qui invece non perdiamo un euro».
Maria Epifania, iscritta Fiom (come il 13% dei dipendenti di Mirafiori, percentuale analoga agli altri sindacati), vede le cose diversamente: «Dieci minuti in meno di pausa possono sembrare poca cosa. Ma in concreto, per chi sta otto ore di fila in linea di montaggio a fare sempre lo stesso movimento, anche un minuto è prezioso. Quando la catena si ferma, infatti, tutti vanno simultaneamente al bagno. Quindi formano code. Lo stesso per le macchinette del caffè. Non parliamo di chi fuma, o di chi è lontano sia dalle zone fumatori, sia dal caffè, sia dai bagni. In un quarto d’ora si riusciva a fare tutto, in dieci minuti no. La mensa, poi, era una quarta pausa. Ora che è a fine turno, non serve più».
Potete andarvene prima. «Ma digiuni... Può essere comodo per chi abita vicino a Mirafiori, ma per chi prende i mezzi come non migliora nulla: gli orari dei bus non cambiano. Io quando ho il turno pomeridiano in pratica non vedo più mio figlio per una settimana, perché vado via prima che lui torni da scuola, e quando torno dorme da un pezzo».
E la mutua?
«Il problema di Mirafiori è che ormai è uno stabilimento di gente di mezza età, piena di acciacchi. Io che ho 37 anni sono una delle più giovani, perché dopo di me nel ’97 non hanno assunto più nessuno. Non illudiamoci quindi che si riescano a rispettare le medie di malattia di altre fabbriche».
Ma qual è la condizione peggiore del nuovo accordo, secondo lei?
«Che non saremo più neppure liberi di scioperare. Chi firmerà per la nuova joint venture delle jeep, infatti, dovrà accettare automaticamente tutte le regole sui ritmi di lavoro. Nella fabbrica dove lavoravo prima facevo piccoli elettrodomestici. La catena di montaggio si fermava, eseguivo la lavorazione, poi ripartiva. Alla Fiat invece la catena si muove sempre, siamo noi a correrle dietro. Se non ce la facciamo, se il carico di lavoro è troppo forte, se fa troppo caldo o troppo freddo, non possiamo più dirlo al capo, né protestare. Non possiamo più fare nulla, pena il licenziamento. Chi si ferma è perduto, come Charlot in Tempi moderni...»
E non ha paura che Marchionne, se vince il no, chiuda Mirafiori e trasferisca tutto nelle altre fabbriche Fiat in Polonia o in Serbia, dove gli operai prendono 400 euro al mese?
«Senta, i nostri nonni e genitori hanno lottato tanto per migliorare le condizioni di lavoro, di cui ora beneficiano tutti. Ora tocca a noi. Non possiamo arrenderci. Anche perché i nostri figli un giorno potrebbero rinfacciarcelo: mamma, come hai fatto ad accettare quelle umiliazioni?»
Mauro Suttora
Monday, January 10, 2011
150 anni di Italia
LA SFIDA DELL'UNITÀ
Cosa ci unisce,cosa ci divide
Iniziano le celebrazioni: sette esperti ci raccontano il paese
Festeggeremo il secolo e mezzo di unificazione con federalismo fiscale e spinte separatiste. Ma davvero gli italiani non sono mai stati fatti?
di Marianna Aprile e Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Centocinquanta e non sentirli. A un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale, e alla vigilia delle celebrazioni che scandiranno il 2011, ci guardiamo attorno e ci chiediamo se, fatta l'Italia, siano poi davvero arrivati anche gli italiani. Non abbiamo mai brillato per patriottismo, anzi, siamo tradizionalmente i primi a inchiodarci alle nostre mancanze. E la politica non aiuta: saluta la ricorrenza accelerando l' attuazione del federalismo fiscale. Che significherà meno soldi per le città del centro-sud: L'Aquila, per esempio, registrerebbe un -66% rispetto al 2010, Napoli -60.
Ironia del destino, i due centri cui il governo di Silvio Berlusconi ha spesso legato le sue sorti negli ultimi due anni. Ci guadagnerebbero - e tanto - Parma (+105%), Padova (+76) e Treviso (+58). A Milano gli introiti crescerebbero del 34%. Insomma, il divario tra Nord e Sud è destinato a crescere, l' antimeridionalismo trova sempre più spazio sui giornali, e anche l' identità nazionale non si sente tanto bene. O no?
«Ci divide la crisi economica, che ci rende meno tolleranti verso gli sprechi e i trasferimenti di danaro da una parte all' altra del Paese: se a Torino non ho l' asilo pubblico, non posso accettare che si investano altri soldi nella Salerno-Reggio Calabria», dice Massimo Gramellini , vicedirettore de La Stampa e autore, con Carlo Fruttero, di La Patria, bene o male . Gramellini però non crede alla divisione tra Nord e Sud: «Piuttosto siamo ostili a Roma, vista come centro degli sprechi. In fondo, l' Italia è la somma di più capitali. Se abbiamo così tante città d' arte è proprio perché i centri di potere erano molti e ogni signore investiva sul suo territorio. Dovremmo valorizzare quelle storie, invece che comprimerle: recuperarle può aiutare a riscoprire il senso delle istituzioni».
Ma il federalismo non aumenterà la distanza? «Con le giuste contromisure, il federalismo può invece avere una funzione anti-disgregante. È giusto che i soldi vengano spesi là dove sono prodotti. Ma non a scapito del senso di solidarietà, che però deve passare da una pretesa di standard di efficienza, che ridia responsabilità ai centri di spesa».
Sul federalismo e sulle sue conseguenze si può essere o meno d' accordo. Cos' è invece che ci unirà nonostante tutto? «Il contropiede. Come diceva Gianni Brera, l'italiano vince tutte le sue battaglie in contropiede: dal Piave al Bernabeu del Mondiale 1982, noi non abbiamo mai attaccato, perché siamo privi di disciplina. Però siamo furbi, e alla bisogna partiamo in contropiede. Questo unisce il torinese al napoletano. A scacchi saremmo il cavallo: imprevedibile e pieno di risorse».
Gianluigi Nuzzi ha scritto Metastasi, oltre 50 mila copie in tre settimane, in cui attraverso le parole del pentito Giuseppe Di Bella traccia un quadro desolante della diffusione della 'ndrangheta al nord. Nuzzi, a unire l' Italia è il malaffare? «A guardare la ragnatela di affari della ' ndrangheta in tutto il Paese viene fuori un' altra Italia, meno legata alla suddivisione tradizionale nord-sud. Ma a legare italianità e 'ndrangheta sono altri aspetti».
E inizia l'elenco: «La 'ndrangheta ha la doppia velocità tipica del nostro Paese. Da un lato la ricerca di metodi sempre più tecnologici per il riciclaggio, dall' altra un attaccamento morboso alle tradizioni e a una certa ritualità. E poi c' è quell' osannare in pubblico le regole, in particolare i legami di famiglia, una celebrazione cui corrispondono comportamenti privati non altrettanto rispettosi». Insomma, gli 'ndranghetisti sono arci-italiani? «Hanno la tendenza a una contrapposizione nettissima tra "noi" e "loro", un innato senso di superiorità, quello sì molto italiano».
«Certo, la mafia unisce l' Italia», dice Pino Aprile, autore di Terroni, terzo saggio più venduto del 2010. «Nel senso che versa i suoi soldi al Nord, mentre nel Sud si versa il sangue delle sue vittime. Tutte meridionali, tranne il generale Dalla Chiesa e l'avvocato Ambrosoli che la propria città, Milano, lasciò uccidere perché la sua onestà bloccava gli affari...».
Il successo di Terroni è parallelo a quello di un altro libro, Il sacco del Nord, scritto dal professore universitario Luca Ricolfi e diventato il vangelo della Lega Nord, nonostante il suo autore sia di sinistra.
Su un punto però Aprile e Ricolfi concordano: 150 anni fa, all' unificazione, il Sud non era sottosviluppato rispetto al Nord. Il divario produttivo si è creato dopo. «Poi, dal 1950 al '75 il Sud aveva diminuito la distanza, ma da allora le cose sono di nuovo peggiorate», spiega Ricolfi. Due i fattori del recupero: il boom economico e la Cassa per il Mezzogiorno. Grandi speranze: l'Alfasud, le autostrade... «Poi però l'industrializzazione ha attecchito poco, e ora il Nord ogni anno deve trasferire circa 50 miliardi al Sud».
Sono i 50 miliardi che fanno imbestialire i leghisti.
«Ma attenti: anche gli elettori di Pd e Pdl al nord condividono la rabbia per gli sprechi», avverte Ricolfi. A peggiorare le cose, l'aumento delle tasse: «Nel 1980 erano al 30 per cento, oggi siamo al 43. Ma, calcolando gli evasori, chi paga le imposte deve versare quasi il 60 per cento».
Per questo, nel 1987 la Lega ha mandato i primi parlamentari a Roma. «Ma fra le regioni sprecone non ci sono solo quelle del Sud», avverte Ricolfi. «La Liguria, per esempio, è a i primi posti per evasione e inefficienza. L'Umbria è prima per assistenzialismo. E anche le regioni autonome del Nord Val d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli incassano più di quel che pagano in tasse. Viceversa, al Sud bisogna distinguere fra le regioni con la piaga mafiosa - Sicilia, Calabria, Campania - e le altre, che stanno meglio».
Ci salverà la cultura
Tra i casi che hanno caratterizzato questo 2010 appena terminato c'è senza dubbio quello di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio protagonista, che ha incassato 30 milioni di euro al botteghino.
Miniero è un napoletano vissuto a Milano ed è fermamente convinto di una cosa: «Tra settentrionali e meridionali le affinità sono più delle discrepanze. La rappresentazione degli italiani come un popolo diviso è un affare tutto politico, e molto strumentale. Certo, il nostro patriottismo è diverso da quello, per esempio, dei francesi: abbiamo un' identità più sfaccettata. Ma il vero problema sono i pregiudizi, anche se non credo che l'antimeridionalismo sia davvero diffuso come ci viene raccontato».
Dopo aver girato tutta l'Italia dietro al suo film, Miniero non ha dubbi: «Ci uniscono senso dell' umorismo e la solidarietà nelle catastrofi, quel sentimento nazionale che quando succede qualcosa fa muovere italiani da tutto il Paese per aiutare». Quindi l'italiano si vede nel momento del bisogno? «E davanti alla nazionale di calcio. Il problema è che con la crisi si accentuano gli egoismi».
Anche a Sud, però. Basti pensare alle spinte autonomiste dei siciliani Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè: «Ci sono sempre state, e sono sempre state un po' ridicole. Il vero problema è che dovremmo smettere di piangerci addosso, e cercare di far evolvere il nostro orgoglio provinciale in orgoglio nazionale. Dovremmo imparare a guardarci con gli occhi degli stranieri».
Più pessimista è Renzo Arbore, mattatore dell'Orchestra Italiana, con la quale fa sold out in tutta italia e in tutto il mondo: «Sono un curioso degli italiani ma devo amaramente dividerli in due categorie, gli italiani "sì" e gli italiani "no". I primi hanno fame di cultura, conoscono le bellezze di questo fantastico Paese e sanno valorizzarle. Pensate alla rivalutazione dei borghi, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca. I secondi sono macroscopiche eccezioni rispetto ai primi, ma egregiamente rappresentate, e foraggiate, dalla tv dei reality, dei toni esasperati e del gossip. La tv è il nostro dittatore, perennemente all' inseguimento del cattivo gusto».
Un cattivo gusto che cozza con l' essenza profonda dell' italiano: «Siamo un Paese benedetto da Dio, un po' meno dagli italiani. La chiave di volta può essere una sempre maggiore consapevolezza culturale. Dove manca la cultura, per colpa della miseria, della disoccupazione o di altro, l' Italia è ancora da fare».
Già, ma come? «Sono abbastanza vecchio da aver vissuto fascismo, antifascismo, il boom , lo sboom , la crisi. E mi sento di poter dire che una nuova stagione si sta affacciando, un nuovo rinascimento che richiederà uomini all' altezza, figli di una generazione che ha girato il mondo e che torna in Italia con la consapevolezza di esser nata nel posto più bello del mondo».
La soluzione, quindi, arriverà dai giovani che ora fuggono all'estero? «I talenti fuggono perché la politica e le sue politiche non sono alla loro altezza. Da noi le eccellenze vengono ignorate: il jazz italiano è migliore di quello americano, la musica popolare italiana è la più varia e poliedrica del mondo. Poi ci sono la moda, la gastronomia. Noi siamo il simbolo del gusto, e all' estero ci percepiscono così».
Sembra di intravvedere un "però"... «Il pessimo senso civico di alcuni, la maleducazione, il degrado di certe zone del Sud, che indigna me per primo e che declassa agli occhi degli stranieri anche città virtuose come Torino e Venezia».
Anche Vittorio Sgarbi, che ha appena scritto Viaggio sentimentale nell'Italia dei desideri (Bompiani), punta su arte e cultura come motivo di orgoglio unificante: «Siamo uniti dalla bellezza. Gli stranieri vengono in Italia per Taormina e Capri, Ischia e Costa Smeralda. Non per Cinisello o Valdobbiadene. Nonostante tutte le catastrofi estetiche combinate dai geometri negli ultimi 50 anni, Gore Vidal prende casa a Ravello, e lì Oscar Niemeyer costruisce l'auditorium. E tutto questo ha un grande ritorno economico. Il turismo del borgo, il lusso dell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio negli Abruzzi. Perfino casa mia, il palazzo Cavallini Sgarbi di Ferrara, sta per diventare un'attrazione: fu l'abitazione di Ludovico Ariosto, e la apriremo al pubblico in gennaio».
Ricapitolando: il gusto, la solidarietà, la cultura e l'arte (soprattutto quella di sfangarla in zona Cesarini) ci rendono tutti italiani nonostante le divisioni politiche, economiche e ideologiche. Come dire che aveva ragione ancora una volta Giorgio Gaber: «Noi non ci sentiamo italiani, ma per fortuna o purtroppo lo siamo».
Marianna Aprile e Mauro Suttora
Cosa ci unisce,cosa ci divide
Iniziano le celebrazioni: sette esperti ci raccontano il paese
Festeggeremo il secolo e mezzo di unificazione con federalismo fiscale e spinte separatiste. Ma davvero gli italiani non sono mai stati fatti?
di Marianna Aprile e Mauro Suttora
Oggi, 12 gennaio 2011
Centocinquanta e non sentirli. A un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale, e alla vigilia delle celebrazioni che scandiranno il 2011, ci guardiamo attorno e ci chiediamo se, fatta l'Italia, siano poi davvero arrivati anche gli italiani. Non abbiamo mai brillato per patriottismo, anzi, siamo tradizionalmente i primi a inchiodarci alle nostre mancanze. E la politica non aiuta: saluta la ricorrenza accelerando l' attuazione del federalismo fiscale. Che significherà meno soldi per le città del centro-sud: L'Aquila, per esempio, registrerebbe un -66% rispetto al 2010, Napoli -60.
Ironia del destino, i due centri cui il governo di Silvio Berlusconi ha spesso legato le sue sorti negli ultimi due anni. Ci guadagnerebbero - e tanto - Parma (+105%), Padova (+76) e Treviso (+58). A Milano gli introiti crescerebbero del 34%. Insomma, il divario tra Nord e Sud è destinato a crescere, l' antimeridionalismo trova sempre più spazio sui giornali, e anche l' identità nazionale non si sente tanto bene. O no?
«Ci divide la crisi economica, che ci rende meno tolleranti verso gli sprechi e i trasferimenti di danaro da una parte all' altra del Paese: se a Torino non ho l' asilo pubblico, non posso accettare che si investano altri soldi nella Salerno-Reggio Calabria», dice Massimo Gramellini , vicedirettore de La Stampa e autore, con Carlo Fruttero, di La Patria, bene o male . Gramellini però non crede alla divisione tra Nord e Sud: «Piuttosto siamo ostili a Roma, vista come centro degli sprechi. In fondo, l' Italia è la somma di più capitali. Se abbiamo così tante città d' arte è proprio perché i centri di potere erano molti e ogni signore investiva sul suo territorio. Dovremmo valorizzare quelle storie, invece che comprimerle: recuperarle può aiutare a riscoprire il senso delle istituzioni».
Ma il federalismo non aumenterà la distanza? «Con le giuste contromisure, il federalismo può invece avere una funzione anti-disgregante. È giusto che i soldi vengano spesi là dove sono prodotti. Ma non a scapito del senso di solidarietà, che però deve passare da una pretesa di standard di efficienza, che ridia responsabilità ai centri di spesa».
Sul federalismo e sulle sue conseguenze si può essere o meno d' accordo. Cos' è invece che ci unirà nonostante tutto? «Il contropiede. Come diceva Gianni Brera, l'italiano vince tutte le sue battaglie in contropiede: dal Piave al Bernabeu del Mondiale 1982, noi non abbiamo mai attaccato, perché siamo privi di disciplina. Però siamo furbi, e alla bisogna partiamo in contropiede. Questo unisce il torinese al napoletano. A scacchi saremmo il cavallo: imprevedibile e pieno di risorse».
Gianluigi Nuzzi ha scritto Metastasi, oltre 50 mila copie in tre settimane, in cui attraverso le parole del pentito Giuseppe Di Bella traccia un quadro desolante della diffusione della 'ndrangheta al nord. Nuzzi, a unire l' Italia è il malaffare? «A guardare la ragnatela di affari della ' ndrangheta in tutto il Paese viene fuori un' altra Italia, meno legata alla suddivisione tradizionale nord-sud. Ma a legare italianità e 'ndrangheta sono altri aspetti».
E inizia l'elenco: «La 'ndrangheta ha la doppia velocità tipica del nostro Paese. Da un lato la ricerca di metodi sempre più tecnologici per il riciclaggio, dall' altra un attaccamento morboso alle tradizioni e a una certa ritualità. E poi c' è quell' osannare in pubblico le regole, in particolare i legami di famiglia, una celebrazione cui corrispondono comportamenti privati non altrettanto rispettosi». Insomma, gli 'ndranghetisti sono arci-italiani? «Hanno la tendenza a una contrapposizione nettissima tra "noi" e "loro", un innato senso di superiorità, quello sì molto italiano».
«Certo, la mafia unisce l' Italia», dice Pino Aprile, autore di Terroni, terzo saggio più venduto del 2010. «Nel senso che versa i suoi soldi al Nord, mentre nel Sud si versa il sangue delle sue vittime. Tutte meridionali, tranne il generale Dalla Chiesa e l'avvocato Ambrosoli che la propria città, Milano, lasciò uccidere perché la sua onestà bloccava gli affari...».
Il successo di Terroni è parallelo a quello di un altro libro, Il sacco del Nord, scritto dal professore universitario Luca Ricolfi e diventato il vangelo della Lega Nord, nonostante il suo autore sia di sinistra.
Su un punto però Aprile e Ricolfi concordano: 150 anni fa, all' unificazione, il Sud non era sottosviluppato rispetto al Nord. Il divario produttivo si è creato dopo. «Poi, dal 1950 al '75 il Sud aveva diminuito la distanza, ma da allora le cose sono di nuovo peggiorate», spiega Ricolfi. Due i fattori del recupero: il boom economico e la Cassa per il Mezzogiorno. Grandi speranze: l'Alfasud, le autostrade... «Poi però l'industrializzazione ha attecchito poco, e ora il Nord ogni anno deve trasferire circa 50 miliardi al Sud».
Sono i 50 miliardi che fanno imbestialire i leghisti.
«Ma attenti: anche gli elettori di Pd e Pdl al nord condividono la rabbia per gli sprechi», avverte Ricolfi. A peggiorare le cose, l'aumento delle tasse: «Nel 1980 erano al 30 per cento, oggi siamo al 43. Ma, calcolando gli evasori, chi paga le imposte deve versare quasi il 60 per cento».
Per questo, nel 1987 la Lega ha mandato i primi parlamentari a Roma. «Ma fra le regioni sprecone non ci sono solo quelle del Sud», avverte Ricolfi. «La Liguria, per esempio, è a i primi posti per evasione e inefficienza. L'Umbria è prima per assistenzialismo. E anche le regioni autonome del Nord Val d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli incassano più di quel che pagano in tasse. Viceversa, al Sud bisogna distinguere fra le regioni con la piaga mafiosa - Sicilia, Calabria, Campania - e le altre, che stanno meglio».
Ci salverà la cultura
Tra i casi che hanno caratterizzato questo 2010 appena terminato c'è senza dubbio quello di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio protagonista, che ha incassato 30 milioni di euro al botteghino.
Miniero è un napoletano vissuto a Milano ed è fermamente convinto di una cosa: «Tra settentrionali e meridionali le affinità sono più delle discrepanze. La rappresentazione degli italiani come un popolo diviso è un affare tutto politico, e molto strumentale. Certo, il nostro patriottismo è diverso da quello, per esempio, dei francesi: abbiamo un' identità più sfaccettata. Ma il vero problema sono i pregiudizi, anche se non credo che l'antimeridionalismo sia davvero diffuso come ci viene raccontato».
Dopo aver girato tutta l'Italia dietro al suo film, Miniero non ha dubbi: «Ci uniscono senso dell' umorismo e la solidarietà nelle catastrofi, quel sentimento nazionale che quando succede qualcosa fa muovere italiani da tutto il Paese per aiutare». Quindi l'italiano si vede nel momento del bisogno? «E davanti alla nazionale di calcio. Il problema è che con la crisi si accentuano gli egoismi».
Anche a Sud, però. Basti pensare alle spinte autonomiste dei siciliani Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè: «Ci sono sempre state, e sono sempre state un po' ridicole. Il vero problema è che dovremmo smettere di piangerci addosso, e cercare di far evolvere il nostro orgoglio provinciale in orgoglio nazionale. Dovremmo imparare a guardarci con gli occhi degli stranieri».
Più pessimista è Renzo Arbore, mattatore dell'Orchestra Italiana, con la quale fa sold out in tutta italia e in tutto il mondo: «Sono un curioso degli italiani ma devo amaramente dividerli in due categorie, gli italiani "sì" e gli italiani "no". I primi hanno fame di cultura, conoscono le bellezze di questo fantastico Paese e sanno valorizzarle. Pensate alla rivalutazione dei borghi, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca. I secondi sono macroscopiche eccezioni rispetto ai primi, ma egregiamente rappresentate, e foraggiate, dalla tv dei reality, dei toni esasperati e del gossip. La tv è il nostro dittatore, perennemente all' inseguimento del cattivo gusto».
Un cattivo gusto che cozza con l' essenza profonda dell' italiano: «Siamo un Paese benedetto da Dio, un po' meno dagli italiani. La chiave di volta può essere una sempre maggiore consapevolezza culturale. Dove manca la cultura, per colpa della miseria, della disoccupazione o di altro, l' Italia è ancora da fare».
Già, ma come? «Sono abbastanza vecchio da aver vissuto fascismo, antifascismo, il boom , lo sboom , la crisi. E mi sento di poter dire che una nuova stagione si sta affacciando, un nuovo rinascimento che richiederà uomini all' altezza, figli di una generazione che ha girato il mondo e che torna in Italia con la consapevolezza di esser nata nel posto più bello del mondo».
La soluzione, quindi, arriverà dai giovani che ora fuggono all'estero? «I talenti fuggono perché la politica e le sue politiche non sono alla loro altezza. Da noi le eccellenze vengono ignorate: il jazz italiano è migliore di quello americano, la musica popolare italiana è la più varia e poliedrica del mondo. Poi ci sono la moda, la gastronomia. Noi siamo il simbolo del gusto, e all' estero ci percepiscono così».
Sembra di intravvedere un "però"... «Il pessimo senso civico di alcuni, la maleducazione, il degrado di certe zone del Sud, che indigna me per primo e che declassa agli occhi degli stranieri anche città virtuose come Torino e Venezia».
Anche Vittorio Sgarbi, che ha appena scritto Viaggio sentimentale nell'Italia dei desideri (Bompiani), punta su arte e cultura come motivo di orgoglio unificante: «Siamo uniti dalla bellezza. Gli stranieri vengono in Italia per Taormina e Capri, Ischia e Costa Smeralda. Non per Cinisello o Valdobbiadene. Nonostante tutte le catastrofi estetiche combinate dai geometri negli ultimi 50 anni, Gore Vidal prende casa a Ravello, e lì Oscar Niemeyer costruisce l'auditorium. E tutto questo ha un grande ritorno economico. Il turismo del borgo, il lusso dell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio negli Abruzzi. Perfino casa mia, il palazzo Cavallini Sgarbi di Ferrara, sta per diventare un'attrazione: fu l'abitazione di Ludovico Ariosto, e la apriremo al pubblico in gennaio».
Ricapitolando: il gusto, la solidarietà, la cultura e l'arte (soprattutto quella di sfangarla in zona Cesarini) ci rendono tutti italiani nonostante le divisioni politiche, economiche e ideologiche. Come dire che aveva ragione ancora una volta Giorgio Gaber: «Noi non ci sentiamo italiani, ma per fortuna o purtroppo lo siamo».
Marianna Aprile e Mauro Suttora
Thursday, December 30, 2010
Ligresti, Boeri, Cerba e cemento
Il grande progetto medico-scientifico di Umberto Veronesi rischia di nascondere anche qualche speculazione edilizia per cementificare il Parco Sud, ultimo polmone verde di Milano?
Milano, 30 dicembre 2010 (Agenzia Radiocor) - Salvatore Ligresti scommette sul Cerba (Centro europeo ricerca biomedica avanzata), ma punta a ottenere ulteriori volumetrie nelle aree circostanti il nuovo centro milanese di biomedica avanzata, e a edificare, in particolare, sui 60mila metri quadrati di Macconago, adiacenti all'istituto progettato da Stefano Boeri.
Queste strategie emergono da alcuni documenti riservati, consultati da Radiocor, che l'Ingegnere ha inviato, tramite le holding di famiglia, in particolare Immobiliare Costruzioni (Imco) e Altair, ai vertici del Comune di Milano per chiedere modifiche al nuovo Piano di Governo del territorio (Pgt) su terreni di loro pertinenza.
Le richieste di Ligresti sono attualmente al vaglio degli esperti comunali ma, a prescindere dalla risposta, rivelano l'assoluta centralita' degli esiti del Pgt nelle strategie di sviluppo delle holding dell'Ingegnere. Attualmente le aree del Cerba sono in pegno alle banche come garanzia per il rifinanziamento di Sinergia, la principale cassaforte dei Ligresti.
INVECE, 10 MESI FA, QUESTO ARTICOLO SU LIBERO:
Ligresti: "Su Cerba non facciamo speculazione edilizia"
Milano, 11 feb. 2010 (Adnkronos) - "Bisogna evitare di dire che si fa speculazione edilizia, perche' le aziende per sopravvivere devono guadagnare, altrimenti muoiono. Non siamo la Banca d'Italia, che stampa i soldi". Salvatore Ligresti, membro del Cda della Fondazione Cerba (Centro di ricerca biomedica avanzata), non usa mezzi termini nel difendere la gestione del progetto per la nascita del polo di ricerca che sorgera' a Milano, nei pressi dell'Ieo (Istituto europeo di oncologia) diretto da Umberto Veronesi.
A margine di un incontro all'Ieo 2 con il cardinale Dionigi Tettamanzi, in visita pastorale nella struttura di via Ripamonti, Ligresti sottolinea: "Questi sono interventi di grande interesse, dove sono previste anche le residenze per i ricercatori. E se ci danno i permessi per edificare, in due anni saremo in grado di completare buona parte del Cerba". Il programma e' di partire entro quest'anno. "I fondi - prosegue - li stiamo trovando. Ci sara' anche un grande parco che sara' gestito per trent'anni dall'Ieo".
Ligresti lancia infine un appello rivolto a tutte le amministrazioni: "L'iter burocratico e' lungo. Certo, se snellissero le procedure, specie per questo tipo di opere, sarebbe meglio". Il completamento del Cerba, che costera' centinaia di milioni di euro, "non dipende solo da noi - avverte il presidente onorario di Fondiaria Sai - Crediamo che le amministrazioni dovrebbero creare una piccola struttura ad hoc, che segua l'iter, semplifichi le procedure e si occupi delle collaborazioni con il privato. Dovrebbe succedere anche per CityLife e per la Citta' della moda, grandi opere che cambiano il volto di Milano". Lavori, conclude il costruttore, "che hanno bisogno di collaborazione ed e' tutto alla luce del sole".
PER SAPERNE DI PIU':
questo articolo di Stefano Rossi del 2008 su Repubblica.
E questo capitolo del libro 'La Colata' (ed. Chiare lettere, 2010) di Andrea Garibaldi, Ferruccio Sansa e altri
Milano, 30 dicembre 2010 (Agenzia Radiocor) - Salvatore Ligresti scommette sul Cerba (Centro europeo ricerca biomedica avanzata), ma punta a ottenere ulteriori volumetrie nelle aree circostanti il nuovo centro milanese di biomedica avanzata, e a edificare, in particolare, sui 60mila metri quadrati di Macconago, adiacenti all'istituto progettato da Stefano Boeri.
Queste strategie emergono da alcuni documenti riservati, consultati da Radiocor, che l'Ingegnere ha inviato, tramite le holding di famiglia, in particolare Immobiliare Costruzioni (Imco) e Altair, ai vertici del Comune di Milano per chiedere modifiche al nuovo Piano di Governo del territorio (Pgt) su terreni di loro pertinenza.
Le richieste di Ligresti sono attualmente al vaglio degli esperti comunali ma, a prescindere dalla risposta, rivelano l'assoluta centralita' degli esiti del Pgt nelle strategie di sviluppo delle holding dell'Ingegnere. Attualmente le aree del Cerba sono in pegno alle banche come garanzia per il rifinanziamento di Sinergia, la principale cassaforte dei Ligresti.
INVECE, 10 MESI FA, QUESTO ARTICOLO SU LIBERO:
Ligresti: "Su Cerba non facciamo speculazione edilizia"
Milano, 11 feb. 2010 (Adnkronos) - "Bisogna evitare di dire che si fa speculazione edilizia, perche' le aziende per sopravvivere devono guadagnare, altrimenti muoiono. Non siamo la Banca d'Italia, che stampa i soldi". Salvatore Ligresti, membro del Cda della Fondazione Cerba (Centro di ricerca biomedica avanzata), non usa mezzi termini nel difendere la gestione del progetto per la nascita del polo di ricerca che sorgera' a Milano, nei pressi dell'Ieo (Istituto europeo di oncologia) diretto da Umberto Veronesi.
A margine di un incontro all'Ieo 2 con il cardinale Dionigi Tettamanzi, in visita pastorale nella struttura di via Ripamonti, Ligresti sottolinea: "Questi sono interventi di grande interesse, dove sono previste anche le residenze per i ricercatori. E se ci danno i permessi per edificare, in due anni saremo in grado di completare buona parte del Cerba". Il programma e' di partire entro quest'anno. "I fondi - prosegue - li stiamo trovando. Ci sara' anche un grande parco che sara' gestito per trent'anni dall'Ieo".
Ligresti lancia infine un appello rivolto a tutte le amministrazioni: "L'iter burocratico e' lungo. Certo, se snellissero le procedure, specie per questo tipo di opere, sarebbe meglio". Il completamento del Cerba, che costera' centinaia di milioni di euro, "non dipende solo da noi - avverte il presidente onorario di Fondiaria Sai - Crediamo che le amministrazioni dovrebbero creare una piccola struttura ad hoc, che segua l'iter, semplifichi le procedure e si occupi delle collaborazioni con il privato. Dovrebbe succedere anche per CityLife e per la Citta' della moda, grandi opere che cambiano il volto di Milano". Lavori, conclude il costruttore, "che hanno bisogno di collaborazione ed e' tutto alla luce del sole".
PER SAPERNE DI PIU':
questo articolo di Stefano Rossi del 2008 su Repubblica.
E questo capitolo del libro 'La Colata' (ed. Chiare lettere, 2010) di Andrea Garibaldi, Ferruccio Sansa e altri
Wednesday, December 29, 2010
La pagella di Severgnini
LO SCRITTORE DA' I VOTI AI POLITICI
Oggi, 29 dicembre 2010
Il Parlamento di Severgnini
Berlusconi: 6. Si applica da 16 anni, qualche risultato in più dovrebbe ottenerlo.
Carfagna: 5. Studia ma è umorale, spesso si distrae. E distrae tutti i compagni seduti nei banchi vicini.
Gelmini: 5 . Grande senso del dovere. Ma la grinta bresciana non le basta.
Santanchè: 4. È omonima di quella che accusava Berlusconi di «vedere le donne solo in posizione orizzontale»?
Letta: 6. Capoclasse coscienzioso, ormai ha l'espressione del protomartire.
Tremonti: 6. Con pochi soldi, fa quel che può. Però deve rispondere più spesso alle interrogazioni.
Bondi: 5. Si applica, ma non basta. La cultura è la nostra industria.
Fini: 5. Se vuole cambiar classe, vada. Non può stare tutto il giorno sulla porta.
Bocchino: 5. Sulla porta c'è spazio per uno, non per due.
Polidori, Siliquini & c.: 4. Bocciati.
Napolitano: 8. Il preside è paziente.
Bersani: 5. Deve diventare capoclasse, invece continua a giocare nascondendosi nei banchi in fondo.
Renzi: 7. volenteroso, fantasioso. Ma i rottami non si possono buttare dalla finestra della classe.
Bindi: 6. Avrebbe l'autorità e la forza per strapazzare i propri compagni.
Franceschini: 5. Era andato in bagno, perché non torna in classe?
Di Pietro: 4. Quando urla contro il maestro Silvio, ce lo rende simpatico.
Casini: 5. Non può rimandare all'infinito la consegna del compito in classe. Che si spicci a decidersi.
Rutelli: 5. Idem.
Guzzanti: 6. Sprecato in questa classe. Meglio come giornalista.
Calearo: 3. Sospeso.
D'Alema: 4. Ha già preso la maturità quattro volte: che lasci la classe e proceda negli studi.
Vendola: 6. È l'anima della classe, ma non sarà mai capoclasse.
Pannella: 6. Dà il meglio di sè nelle gite scolastiche.
Veltroni: 6. È uscito dall' aula piangendo. Il problema è che non l'aveva mandato via nessuno.
Maroni: 6. I compiti li fa bene, ma i suoi amici lasciano a desiderare.
Bossi: 6. Annata difficile.
La Russa: 6 agli orali, 4 negli scritti. Ma è interista, quindi gli do la sufficienza.
a cura di Mauro Suttora
Oggi, 29 dicembre 2010
Il Parlamento di Severgnini
Berlusconi: 6. Si applica da 16 anni, qualche risultato in più dovrebbe ottenerlo.
Carfagna: 5. Studia ma è umorale, spesso si distrae. E distrae tutti i compagni seduti nei banchi vicini.
Gelmini: 5 . Grande senso del dovere. Ma la grinta bresciana non le basta.
Santanchè: 4. È omonima di quella che accusava Berlusconi di «vedere le donne solo in posizione orizzontale»?
Letta: 6. Capoclasse coscienzioso, ormai ha l'espressione del protomartire.
Tremonti: 6. Con pochi soldi, fa quel che può. Però deve rispondere più spesso alle interrogazioni.
Bondi: 5. Si applica, ma non basta. La cultura è la nostra industria.
Fini: 5. Se vuole cambiar classe, vada. Non può stare tutto il giorno sulla porta.
Bocchino: 5. Sulla porta c'è spazio per uno, non per due.
Polidori, Siliquini & c.: 4. Bocciati.
Napolitano: 8. Il preside è paziente.
Bersani: 5. Deve diventare capoclasse, invece continua a giocare nascondendosi nei banchi in fondo.
Renzi: 7. volenteroso, fantasioso. Ma i rottami non si possono buttare dalla finestra della classe.
Bindi: 6. Avrebbe l'autorità e la forza per strapazzare i propri compagni.
Franceschini: 5. Era andato in bagno, perché non torna in classe?
Di Pietro: 4. Quando urla contro il maestro Silvio, ce lo rende simpatico.
Casini: 5. Non può rimandare all'infinito la consegna del compito in classe. Che si spicci a decidersi.
Rutelli: 5. Idem.
Guzzanti: 6. Sprecato in questa classe. Meglio come giornalista.
Calearo: 3. Sospeso.
D'Alema: 4. Ha già preso la maturità quattro volte: che lasci la classe e proceda negli studi.
Vendola: 6. È l'anima della classe, ma non sarà mai capoclasse.
Pannella: 6. Dà il meglio di sè nelle gite scolastiche.
Veltroni: 6. È uscito dall' aula piangendo. Il problema è che non l'aveva mandato via nessuno.
Maroni: 6. I compiti li fa bene, ma i suoi amici lasciano a desiderare.
Bossi: 6. Annata difficile.
La Russa: 6 agli orali, 4 negli scritti. Ma è interista, quindi gli do la sufficienza.
a cura di Mauro Suttora
Monday, December 27, 2010
E l'«amico» Putin?
Russia: Germania contro condanna Khodorkovsky
Berlino, 27 dic. (Adnkronos/Dpa) - La Germania critica la nuova condanna ai danni dell'ex magnate del petrolio russo Mikhail Khodorkovsky. Il commissario per i diritti umani del governo federale tedesco, Markus Loening, ha definito il verdetto con cui oggi il fondatore di Yukos e' stato dichiarato colpevole di appropriazione indebita e furto di petrolio, "un esempio di giustizia arbitraria e politicizzata" che non "mette in buona luce la situazione in Germania".
Il verdetto mostra che "la retorica del presidente Medvedev sulla stato di diritto e' appunto semplice retorica", ha poi aggiunto il commissario che ha assistito ad alcune udienze del processo nelle scorse settimane. Udienze in cui, ha aggiunto Loening, e' apparso chiaro come le testimonianze non sostenevano le accuse contro Khodorkovsky. "Al contrario le testimonianze dell'ex primo ministro russo, Mikhail Kasyanov, dell'ex ministro dell'economia, German Gref, hanno dimostrato l'infondatezza di queste accuse", ha concluso.
(caro Silvio, 70 anni fa l'«amico» Adolfo, oggi Vladimiro - fatte le ovvie differenze?)
Berlino, 27 dic. (Adnkronos/Dpa) - La Germania critica la nuova condanna ai danni dell'ex magnate del petrolio russo Mikhail Khodorkovsky. Il commissario per i diritti umani del governo federale tedesco, Markus Loening, ha definito il verdetto con cui oggi il fondatore di Yukos e' stato dichiarato colpevole di appropriazione indebita e furto di petrolio, "un esempio di giustizia arbitraria e politicizzata" che non "mette in buona luce la situazione in Germania".
Il verdetto mostra che "la retorica del presidente Medvedev sulla stato di diritto e' appunto semplice retorica", ha poi aggiunto il commissario che ha assistito ad alcune udienze del processo nelle scorse settimane. Udienze in cui, ha aggiunto Loening, e' apparso chiaro come le testimonianze non sostenevano le accuse contro Khodorkovsky. "Al contrario le testimonianze dell'ex primo ministro russo, Mikhail Kasyanov, dell'ex ministro dell'economia, German Gref, hanno dimostrato l'infondatezza di queste accuse", ha concluso.
(caro Silvio, 70 anni fa l'«amico» Adolfo, oggi Vladimiro - fatte le ovvie differenze?)
Bielorussia. E l'Italia?
editoriale sul New York Times dei ministri degli Esteri Carl Bildt (Svezia), Guido Westerwelle (Germania), Radek Sikorski (Polonia), Karel Schwarzenberg (Rep.Ceca)
Wednesday, December 22, 2010
La guerra mondiale di Wikileaks
Ecco perché i corsari informatici sono forti e imprendibili
di Mauro Suttora
Oggi, 15 dicembre
È scoppiata la terza guerra mondiale e non ce ne siamo accorti? Da quando, il 28 novembre, Wikileaks ha cominciato a svelare i 251 mila cablogrammi segreti inviati negli ultimi anni dai diplomatici degli Stati Uniti in tutto il mondo, ogni giorno scoppia un putiferio. Perché, molto furbamente, i seguaci di Julian Assange hanno deciso di centellinare le rivelazioni. L’ultima, che ha provocato grande costernazione in Vaticano, riguarda il segretario di Stato Tarcisio Bertone, numero due del Papa, definito «inadeguato» dai diplomatici americani. Ma molti altri imbarazzanti segreti verranno alla luce nelle prossime settimane: basti dire che finora sono stati pubblicati appena 1.340 documenti sul quarto di milione in possesso dei pirati informatici.
“Pericolosi come Osama”
Ma come funziona Wikileaks? E chi c’è dietro a questi «guerrieri della trasparenza» che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha definito «pericolosi quanto Osama Bin Laden»? Diciamo subito che, proprio come Al Qaeda, la struttura di Wikileaks è decentrata. Si illudono, quindi, coloro che pensano di bloccarla incarcerando il capo, Assange, o chiudendo fisicamente i computer. I due server ospitati a Stoccolma nel bunker antiatomico della società Prq, infatti, sono solo una goccia nel mare di internet.
Qualche nostro tg li ha mostrati, spacciandoli per il «cervello» di Wikileaks. Ma è solo sensazionalismo. Quella stessa società, infatti, ospita altri 8mila server. E Wikileaks può contare su centinaia di «siti-specchio» che entrano automaticamente in funzione appena ne viene disattivato uno. Lo stesso Assange ha avvertito: «Altre centinaia di militanti, oltre a me, posseggono l’intero file di 251 mila documenti, e lo rilasceranno se dovesse capitarmi qualcosa».
“Contenuto esplosivo“
Ma qual è il vero valore di questi documenti segreti? È vero che riscrivono la storia contemporanea, o sono soltanto una rimasticazione di articoli di giornale copiati da pigri incaricati di affari nelle ambasciate? In alcuni casi il contenuto è esplosivo, e quindi e' giusto il paragone con una guerra mondiale. Non però la terza: quella è già stata vinta dall’Occidente contro il comunismo nel 1989. E neanche la quarta, cominciata nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle da parte dei fanatici islamici, e ancora in corso. È la quinta o sesta, assieme all’altro grande conflitto dei nostri giorni: quello fra mondo libero e Cina.
Però i ragazzi di Wikileaks sono occidentali, quindi la definirei una guerra civile, anche se nonviolenta. È un conflitto interno alle democrazie, fra chi pensa che anche i nostri stati debbano conservare segreti, e chi invece vuole esporre tutto.
Non dimentichiamo però che fra i fondatori di Wikileaks, nell’ottobre 2006, ci sono anche importanti dissidenti cinesi: Wang Dan, leader degli studenti di Pechino massacrati in piazza Tian an men nell’89, e Xiao Qiang. Inizialmente, quindi, l’intento di Assange e soci era quello di smascherare i segreti di tutti i governi. Ed è ovvio che le dittature ne hanno molti di più, e più sanguinosi, dei regimi democratici.
Perché, allora, quasi tutte le rivelazioni finora riguardano gli Stati Uniti? Prima ci fu il filmato in cui si vedono le truppe Nato uccidere un giornalista in Afghanistan. Poi, l’estate scorsa, i documenti del Pentagono con l’ammissione ufficiale di avere ammazzato 60 mila civili innocenti nella guerra d’Iraq. E se dietro Wikileaks ci fosse la Cina o la Russia, o qualche altro avversario degli Usa?
Non credo che gli hackers di Wikileaks siano manipolati. Politicamente sono anarchici che si battono contro il potere a 360 gradi. Hanno già preannunciato rivelazioni sulle grandi banche. E se avessero documenti segreti cinesi sulla repressione in Tibet o contro Falun Gong, non esiterebbero a divulgarli. Il problema è che finora non c’è stato nessun funzionario pentito di Pechino che gliel’ha passati.
Sì, perché in realtà Wikileaks non ha mai rubato alcun documento. Si limita, come da statuto, a pubblicare, dopo averli verificati, quelli in arrivo (gratis) da persone che per un qualsiasi motivo decidono di tradire il vincolo di segretezza che li lega all’organizzazione per cui lavorano. Quindi, il vero colpevole dell’attuale terremoto è il soldato americano 22enne che ha passato i files ad Assange, e che è in carcere per spionaggio.
Giuridicamente, Wikileaks è colpevole di un unico reato: ricettazione. Magari di ricettazione attiva, o di istigazione al furto e allo spionaggio, perché invita pubblicamente i dipendenti pentiti a rivelare le magagne della propria azienda, o ministero. E si può immaginare quanti siano coloro disposti a farlo, magari per vendicarsi di essere stati licenziati, o frustrati per una mancata promozione o aumento di stipendio... E sapere che c’è lì Wikileaks pronta a fare giustizia rappresenta un incentivo formidabile.
Coinvolgere i principali giornali mondiali è stata la mossa più intelligente di Assange. Li ha coinvolti - ed è preoccupante che ce ne sia uno spagnolo, El Pais, ma nessuno italiano - ottenendo così una patente di veridicità che non avrebbe avuto da solo. Li ha anche messi uno contro l’altro, suddividendo equamente il materiale. Cosicché, per la legge della concorrenza, nessuno si è sognato di censurare parzialmente o di non pubblicare: lo avrebbe fatto qualcun altro.
Il direttore del New York Times Bill Keller ha fatto vedere i documenti al governo Usa prima di pubblicarli, e ha cancellato alcuni nomi. Il NY Times è il più esposto, perché è l’unico giornale americano. Ma, a proposito di mandanti, non mi meraviglierei se dietro alla fuga di notizie più imponente della storia ci fosse qualche repubblicano che vuole danneggiare il presidente Obama e Hillary Clinton.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 15 dicembre
È scoppiata la terza guerra mondiale e non ce ne siamo accorti? Da quando, il 28 novembre, Wikileaks ha cominciato a svelare i 251 mila cablogrammi segreti inviati negli ultimi anni dai diplomatici degli Stati Uniti in tutto il mondo, ogni giorno scoppia un putiferio. Perché, molto furbamente, i seguaci di Julian Assange hanno deciso di centellinare le rivelazioni. L’ultima, che ha provocato grande costernazione in Vaticano, riguarda il segretario di Stato Tarcisio Bertone, numero due del Papa, definito «inadeguato» dai diplomatici americani. Ma molti altri imbarazzanti segreti verranno alla luce nelle prossime settimane: basti dire che finora sono stati pubblicati appena 1.340 documenti sul quarto di milione in possesso dei pirati informatici.
“Pericolosi come Osama”
Ma come funziona Wikileaks? E chi c’è dietro a questi «guerrieri della trasparenza» che il ministro degli Esteri Franco Frattini ha definito «pericolosi quanto Osama Bin Laden»? Diciamo subito che, proprio come Al Qaeda, la struttura di Wikileaks è decentrata. Si illudono, quindi, coloro che pensano di bloccarla incarcerando il capo, Assange, o chiudendo fisicamente i computer. I due server ospitati a Stoccolma nel bunker antiatomico della società Prq, infatti, sono solo una goccia nel mare di internet.
Qualche nostro tg li ha mostrati, spacciandoli per il «cervello» di Wikileaks. Ma è solo sensazionalismo. Quella stessa società, infatti, ospita altri 8mila server. E Wikileaks può contare su centinaia di «siti-specchio» che entrano automaticamente in funzione appena ne viene disattivato uno. Lo stesso Assange ha avvertito: «Altre centinaia di militanti, oltre a me, posseggono l’intero file di 251 mila documenti, e lo rilasceranno se dovesse capitarmi qualcosa».
“Contenuto esplosivo“
Ma qual è il vero valore di questi documenti segreti? È vero che riscrivono la storia contemporanea, o sono soltanto una rimasticazione di articoli di giornale copiati da pigri incaricati di affari nelle ambasciate? In alcuni casi il contenuto è esplosivo, e quindi e' giusto il paragone con una guerra mondiale. Non però la terza: quella è già stata vinta dall’Occidente contro il comunismo nel 1989. E neanche la quarta, cominciata nel 2001 con l’attacco alle Torri gemelle da parte dei fanatici islamici, e ancora in corso. È la quinta o sesta, assieme all’altro grande conflitto dei nostri giorni: quello fra mondo libero e Cina.
Però i ragazzi di Wikileaks sono occidentali, quindi la definirei una guerra civile, anche se nonviolenta. È un conflitto interno alle democrazie, fra chi pensa che anche i nostri stati debbano conservare segreti, e chi invece vuole esporre tutto.
Non dimentichiamo però che fra i fondatori di Wikileaks, nell’ottobre 2006, ci sono anche importanti dissidenti cinesi: Wang Dan, leader degli studenti di Pechino massacrati in piazza Tian an men nell’89, e Xiao Qiang. Inizialmente, quindi, l’intento di Assange e soci era quello di smascherare i segreti di tutti i governi. Ed è ovvio che le dittature ne hanno molti di più, e più sanguinosi, dei regimi democratici.
Perché, allora, quasi tutte le rivelazioni finora riguardano gli Stati Uniti? Prima ci fu il filmato in cui si vedono le truppe Nato uccidere un giornalista in Afghanistan. Poi, l’estate scorsa, i documenti del Pentagono con l’ammissione ufficiale di avere ammazzato 60 mila civili innocenti nella guerra d’Iraq. E se dietro Wikileaks ci fosse la Cina o la Russia, o qualche altro avversario degli Usa?
Non credo che gli hackers di Wikileaks siano manipolati. Politicamente sono anarchici che si battono contro il potere a 360 gradi. Hanno già preannunciato rivelazioni sulle grandi banche. E se avessero documenti segreti cinesi sulla repressione in Tibet o contro Falun Gong, non esiterebbero a divulgarli. Il problema è che finora non c’è stato nessun funzionario pentito di Pechino che gliel’ha passati.
Sì, perché in realtà Wikileaks non ha mai rubato alcun documento. Si limita, come da statuto, a pubblicare, dopo averli verificati, quelli in arrivo (gratis) da persone che per un qualsiasi motivo decidono di tradire il vincolo di segretezza che li lega all’organizzazione per cui lavorano. Quindi, il vero colpevole dell’attuale terremoto è il soldato americano 22enne che ha passato i files ad Assange, e che è in carcere per spionaggio.
Giuridicamente, Wikileaks è colpevole di un unico reato: ricettazione. Magari di ricettazione attiva, o di istigazione al furto e allo spionaggio, perché invita pubblicamente i dipendenti pentiti a rivelare le magagne della propria azienda, o ministero. E si può immaginare quanti siano coloro disposti a farlo, magari per vendicarsi di essere stati licenziati, o frustrati per una mancata promozione o aumento di stipendio... E sapere che c’è lì Wikileaks pronta a fare giustizia rappresenta un incentivo formidabile.
Coinvolgere i principali giornali mondiali è stata la mossa più intelligente di Assange. Li ha coinvolti - ed è preoccupante che ce ne sia uno spagnolo, El Pais, ma nessuno italiano - ottenendo così una patente di veridicità che non avrebbe avuto da solo. Li ha anche messi uno contro l’altro, suddividendo equamente il materiale. Cosicché, per la legge della concorrenza, nessuno si è sognato di censurare parzialmente o di non pubblicare: lo avrebbe fatto qualcun altro.
Il direttore del New York Times Bill Keller ha fatto vedere i documenti al governo Usa prima di pubblicarli, e ha cancellato alcuni nomi. Il NY Times è il più esposto, perché è l’unico giornale americano. Ma, a proposito di mandanti, non mi meraviglierei se dietro alla fuga di notizie più imponente della storia ci fosse qualche repubblicano che vuole danneggiare il presidente Obama e Hillary Clinton.
Mauro Suttora
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