La tremenda condanna che ha colpito il pacifista Mordechai Vanunu: 18 anni in carcere (11 in isolamento totale) per spionaggio. Aveva rivelato un segreto di Pulcinella: che Israele ha la bomba atomica
di Mauro Suttora
Oggi, 9 febbraio 2011
Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.
Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.
Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.
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Wednesday, February 09, 2011
Thursday, March 13, 2003
Vietnam a New York
UNA MOSTRA NEWYORKESE GLORIFICA IL VIETNAM (E TACE SULLE LIBERTÀ VIOLATE)
Due dittature, due misure?
Il Foglio
13 marzo 2003
di Mauro Suttora
New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.
Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.
Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.
La repressione dei Montagnards
Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.
“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.
Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.
Due dittature, due misure?
Il Foglio
13 marzo 2003
di Mauro Suttora
New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.
Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.
Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.
La repressione dei Montagnards
Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.
“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.
Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.
Saturday, September 08, 1984
Uganda: era meglio Amin Dada?
Stragi con 330mila morti, dice l'opposizione. Quindicimila, ammette il governo. Un fatto è certo: dopo quattro anni di apparente democrazia, regna sempre il terrore
di Mauro Suttora
Europeo, 8 settembre 1984
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