DOPO LE ACCUSE DELLA MORATTI A PISAPIA, ECCO GLI SCHELETRI NEGLI ARMADI DEGLI ULTRAS DEGLI ANNI DI PIOMBO
di Mauro Suttora
Oggi, 14 maggio 2011
Chi sono i «politici con passato estremista», come Silvio Berlusconi ha bollato Giuliano Pisapia, concorrente di Letizia Moratti alla carica di sindaco di Milano? Dipende da cosa si intende per «estremista». Tutti sanno che Pisapia fino a cinque anni fa era deputato di Rifondazione comunista. Quasi nessuno, invece, ricordava che fosse stato in carcere per ben quattro mesi e poi processato per il furto del furgone con cui nel 1977 gli autonomi volevano sequestrare William Sisti, dirigente della sinistra extraparlamentare.
Glielo ha rinfacciato la Moratti in un dibattito tv, e Pisapia l’ha querelata per diffamazione. Da quel processo, infatti, fu assolto. «E chiesi l’appello per essere completamente scagionato: non grazie a un’amnistia, ma con formula piena», precisa il politico-avvocato milanese.
Nell’Italia lacerata durante l’intero decennio dei ’70 dagli «anni di piombo», però, Pisapia non è l’unico politico famoso a essere stato estremista da giovane. A sinistra, ma anche a destra. Massimo D’Alema, per esempio, non ha mai avuto guai con la giustizia, eppure ricorda perfino con un certo orgoglio di avere lanciato una bottiglia molotov durante il ’68 a Pisa: frequentava la prestigiosa Normale, era del Pci e non un extraparlamentare, ma partecipò anche lui alle rivolte studentesche. Così come il pacatissimo ex ministro della Margherita Paolo Gentiloni.
E, per andare nel centrodestra, l’altrettanto moderato ministro degli Esteri Franco Frattini praticava la vendita militante del Manifesto, mentre il siciliano Gianfranco Micciché era di Lotta Continua. Fabrizio Cicchitto è sempre stato nel Psi, però si è vantato di «avere fatto a botte con i fascisti nel ’68. Prendendole». Quanto a Gaetano Pecorella, deputato Pdl, prima di difendere Berlusconi è stato l’avvocato di tutti gli extraparlamentari rossi a Milano. Ancora nell’87 sostenne in un’arringa che un pestaggio a colpi di chiave inglese poteva essere «la legittima applicazione di un principio costituzionale».
Con la sconfitta di Rifondazione comunista e Verdi tre anni fa sono usciti dal Parlamento quasi tutti i sessantottini. I loro avversari ex neofascisti, invece, hanno fatto carriera. A cominciare dal leader Gianfranco Fini, ferito da un candelotto al ginocchio durante gli scontri con la polizia. A Milano nessun «rosso» osava passare per piazza San Babila: lì il capo dei giovani missini era Ignazio La Russa, con cane lupo al guinzaglio.
L’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno finì in prigione nell’81 per avere aggredito con quattro camerati uno studente. Ce l’aveva sia con con i russi, sia con gli americani: per una molotov contro l’ambasciata sovietica fece addirittura otto mesi di carcere, mentre nell’89 lo arrestarono per avere bloccato l’auto del presidente George Bush padre. Ma alla fine è sempre stato assolto.
Cinque anni per «banda armata»
Il deputato Pdl Marcello De Angelis ha subìto una condanna definitiva a cinque anni per banda armata e associazione sovversiva: era nel gruppo terrorista di estrema destra Terza Posizione. Ne scontò tre (più sei mesi di carcere in Inghilterra, dov’era scappato), è uscito nell’89. Da poco è stato nominato direttore del quotidiano ex An Secolo d’Italia, strappato ai finiani.
C’è perfino un vicepresidente del Senato «pregiudicato»: lo stimatissimo Domenico Nania, pure lui ex Msi, fu condannato nel ’68 a sette mesi per lesioni volontarie personali durante scontri tra studenti di destra e di sinistra a Messina. Ma aveva solo 18 anni.
Era iscritto al Fronte della gioventù (i giovani missini guidati da Fini e poi da Alemanno) anche Niccolò Ghedini. L’attuale avvocato di Berlusconi venne interrogato in questura a Bologna dopo la strage del 1980 alla stazione, perché nella sua sezione padovana c’era un sospettato.
Insomma, molti dei dirigenti Pdl ex An e Msi hanno curriculum a dir poco turbolenti. Quindi, non si sa fino a che punto sia convenuto al premier e alla Moratti riesumare i peccati di gioventù degli avversari di sinistra, perché anche nel centrodestra potrebbe affiorare qualche imbarazzo.
E perfino il nonviolento Pannella...
Perfino i radicali gandhiani hanno dato scandalo, quando nell’83 fecero eleggere in Parlamento e liberare (dopo quattro anni di carcere preventivo) il professor Toni Negri, ideologo degli autonomi, condannato a 17 anni per insurrezione armata. Fuggito in Francia, tornò nel ‘97 per scontare la pena. Libero dal 2003.
Un altro caso si è verificato nel 2006: Marco Pannella fece eleggere deputato Sergio D’Elia, ex terrorista di Prima linea condannato a 25 anni (scontati la metà) per banda armata e concorso morale in omicidio. Due anni dopo il Pd non lo ha più voluto fra i nove eletti radicali ospitati nelle sue liste.
Lo stesso Pannella, comunque, ricorda: «All’inizio degli anni ’50 credo di aver slogato una spalla a Caradonna, capo degli universitari fascisti. Le ho date e le ho prese».
Mauro Suttora
Wednesday, May 25, 2011
Saturday, May 21, 2011
parla l'unica ministra libica
INTERVISTA A SALWA DAGHILI
di Mauro Suttora
per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera
Bengasi, 21 maggio 2011
Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».
Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.
«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.
La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».
Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».
Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».
Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».
A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.
Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».
«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
per Io Donna, settimanale del Corriere della Sera
Bengasi, 21 maggio 2011
Porta il velo, ma il disegno è Burberry. Arab chic, e non le domando se è originale: è già abbastanza imbarazzata. Quando le ho chiesto l’età ha scherzato timida: «Non gliela dico, è il solo segreto di stato che abbiamo qui a Bengasi».
Però anche la rivoluzione di Libia, come quelle tunisina ed egiziana, vola sui social network. E lì Salwa Daghili rivela i suoi 44 anni. Unica donna fra i tredici ministri nel «governo» (ufficialmente: «consiglio provvisorio») della nuova Libia libera. La incontro nel suo ufficio, al piano terra di un’elegante palazzina circondata da giardino sul lungomare di Bengasi. Proprio qui 80 anni fa stava lo spietato generale Rodolfo Graziani, e nel 2008 Silvio Berlusconi firmò lo sciagurato accordo di amicizia con Muammar Gheddafi.
«Non sono passati tre mesi dalla rivoluzione del 17 febbraio», dice Salwa, «e ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi dopo 42 anni». Lei viene da una famiglia facoltosa e numerosa: cinque fratelli, quattro sorelle. Suo padre, uomo d’affari, finì tre anni in prigione e agli arresti domiciliari sotto il colonnello. Poi però ha potuto viaggiare. «Avevo 15 anni quando visitammo Roma, il Vaticano, Milano… Mi piacque molto Verona», dice Salwa nel suo compìto francese.
La laurea in legge, «la vita in un clima di perenne paura», il matrimonio con un medico, i tre figli che ora hanno 15, 13 e 9 anni. Qualche stagione in Polonia dietro al marito andato lì a lavorare, poi lui ha seguito lei a Parigi per ben quattro anni: «Nel primo ho imparato bene il francese, quindi ho ottenuto il dottorato in diritto costituzionale alla Sorbona. In Francia ho capito l’importanza dei diritti dell’uomo. Anzi, della persona… Due anni fa siamo tornati a Bengasi. Come docente universitaria di diritto cercavo di instillare nei miei studenti l’amore per la legalità. Era il mio unico, piccolo modo di battermi contro il regime».
Poi, improvvisa, l’ondata. Tutti i giovani libici, esaltati dalle rivolte di Tunisi e Cairo viste sulla tv Al Jazeera, si danno appuntamento in strada il 17 febbraio: l’anniversario degli morti del 2006 davanti al consolato italiano di Bengasi. «Ufficialmente protestavamo contro la maglietta anti-islam di quel vostro ministro [il leghista Roberto Calderoli, ndr], ma il vero bersaglio era Gheddafi».
Questa volta, incredibilmente, la rivolta riesce. Molti poliziotti e soldati, invece di sparare contro i giovani, passano con loro. «Ero in strada anch’io, e pure i miei figli. Quello grande di 15 anni continua ad aiutare i rivoluzionari, ho dovuto imporgli il coprifuoco: alle dieci di sera, a casa».
Ora Salwa è incaricata di preparare la costituzione della nuova Libia: «Quando sarà tutta unita, Tripoli compresa», tiene a precisare. È andata a Parigi a chiedere consigli e a prendere contatti. «Sanciremo il rispetto dei diritti individuali e di tutte le minoranze». Anche quelle religiose? «Certo. In Libia attualmente con ci sono ebrei né cristiani, tranne i lavoratori filippini che sono scappati. Ma state sicuri: non diventeremo un altro Iran. I libici sono musulmani praticanti, ma moderati».
A duecento metri dalla palazzina bianca di Salwa Daghili incontriamo le altre «donne della rivoluzione». Le sorelle Bugaighis innanzitutto, belle e vistose, anche perché i loro capelli corvini non sono nascosti da foulard. La 44enne Salwa, avvocatessa, è portavoce del Consiglio provvisorio nell’ex palazzo del tribunale, il primo a essere conquistato dagli insorti. Anche lei madre di tre figli, sempre in prima fila alle manifestazioni che vengono ancora organizzate per fornire uno sfogo all’entusiasmo dei giovani – frustrati dallo stallo militare – e qualche occasione fotografica ai pochi giornalisti rimasti a Bengasi.
Sua sorella Iman, 49, era professore di odontoiatria all’università, e non sa quando riprenderanno le lezioni: «C’è ancora così tanto da fare. All’inizio pensavamo che Gheddafi sarebbe caduto entro pochi giorni, poi entro qualche settimana. Ora capiamo che è questione di mesi. Prima o poi succederà, ne siamo sicure. Ma intanto dobbiamo fare andare avanti uno stato. Abbiamo ricominciato a esportare un po’ di petrolio dal porto di Tobruk, ma cento milioni di dollari al mese non bastano. Per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici ci vorrebbe il quadruplo».
«Al governo a Bengasi ora ci sono ingegneri, professori, avvocati», spiega Najla Mangoush, madre separata di Gaida, 10 anni, e Raghad, 5. «Io parlo bene l’inglese, quindi tengo i rapporti con diplomatici e giornalisti. Siamo tutti volontari. Ma quanto potrà durare il nostro entusiasmo?»
Mauro Suttora
Wednesday, May 18, 2011
Mario Draghi e la nipotina
IL GOVERNATORE DELLA BANCA D'ITALIA VA A PRENDERE LA NIPOTINA ALL'ASILO A MILANO
di Mauro Suttora
Oggi, 11 maggio 2011
Le foto che pubblichiamo in queste pagine non sono una «paparazzata». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, infatti, è una delle persone più riservate della scena pubblica: nessuna apparizione a feste, inaugurazioni o salotti, vita sociale limitata a pochi amici fidati di vecchia data, rarissime interviste. Non è quindi, «materiale da gossip».
E proprio perché nessun fotografo lo (in)segue mai, grande è stata la sorpresa di un nostro reporter quando l'altra mattina se l'è trovato di fronte, tranquillamente seduto con la moglie al tavolino di un bar all'aperto nel parco Sempione di Milano. All'inizio non l'aveva neppure riconosciuto. Poi il governatore si è alzato, ed è stato chiaro il motivo della sua presenza in quel luogo: aspettava l'uscita della sua nipotina da un asilo lì vicino.
Draghi sta per diventare l'uomo più importante d'Europa. A giorni si aspetta il via libera della Germania alla sua nomina a presidente della Bce (Banca centrale europea). Carica che dura otto anni, e che dà il potere di guidare l'economia di un intero continente. Poltrona molto ambita, quindi, ed è un onore per l'Italia che sia un nostro concittadino a ricoprirla. Eppure Draghi non rinuncia ai piccoli piaceri anonimi della vita di ogni giorno, come quello dei nonni che accompagnano a casa la nipotina. Senza scorta, senza pompa, senza auto blu, senza fanfare.
Non è la prima volta che lo schivo governatore della Banca d'Italia finisce sui giornali proprio per questa sua «normalità», così rara fra politici, potenti e «vip» di ogni risma. Quattro anni fa, per esempio, fece notizia perché salì su un semplice treno Intercity tornando da un convegno da Brescia a Milano. A Roma rinunciò a frequentare un club di fitness dopo essersi lasciato scappare una mezza confidenza con un compagno di spogliatoio. Il quale era un giornalista, e subito la pubblicò.
È appassionato di calcio tiene per la Roma, ma nessuno lo ha mai visto nella tribuna dello stadio Olimpico, sempre affollata di autorità e invitati vari. Quando suo figlio Giacomo (oggi 32enne vicepresidente alla banca Morgan Stanley a Londra) si è laureato all'università Bocconi (tesi con il professor Francesco Giavazzi), la famiglia lo ha festeggiato con una semplice pizza, nel ristorante milanese Rossopomodoro. Oltre al tennis e al jogging, da un po' Draghi pratica anche il golf. Ma non risulta iscritto ad alcun circolo esclusivo.
Insomma, un vero teutonico, alieno ai fasti del potere. Proprio per questo i tedeschi hanno accettato la sua nomina a guardiano dell'euro, nonostante provenga dal Paese che, dopo la Grecia, ha il peggior debito statale. D'altra parte, quando parla in pubblico (solo nelle occasioni ufficiali), Draghi incita sempre al rigore: «Per pareggiare il bilancio l'Italia deve ridurre le spese del sette per cento», ha incitato l'ultima volta dieci giorni fa.
Anche suo padre era dirigente bancario, ma lo lasciò orfano a soli 15 anni. E la madre scomparve poco dopo. Draghi frequentava il liceo Massimo dei gesuiti all'Eur. Fra i suoi compagni di scuola, Luca Montezemolo e i fratelli Abete. Divenne lui il capofamiglia, occupandosi del fratello e della sorella minore Andreina, storica dell'arte diventata famosa nel 1999 per avere scoperto affreschi medioevali nella chiesa dei Quattro Coronati a Roma. A 19 anni ha conosciuto la moglie Serena, padovana di origini nobili, durante una vacanza sul Brenta. Prima di Giacomo ha avuto la figlia Federica, laureata in biologia, oggi 35enne dirigente della società biotech Genextra e mamma della bimba che appare in queste foto.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 11 maggio 2011
Le foto che pubblichiamo in queste pagine non sono una «paparazzata». Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, infatti, è una delle persone più riservate della scena pubblica: nessuna apparizione a feste, inaugurazioni o salotti, vita sociale limitata a pochi amici fidati di vecchia data, rarissime interviste. Non è quindi, «materiale da gossip».
E proprio perché nessun fotografo lo (in)segue mai, grande è stata la sorpresa di un nostro reporter quando l'altra mattina se l'è trovato di fronte, tranquillamente seduto con la moglie al tavolino di un bar all'aperto nel parco Sempione di Milano. All'inizio non l'aveva neppure riconosciuto. Poi il governatore si è alzato, ed è stato chiaro il motivo della sua presenza in quel luogo: aspettava l'uscita della sua nipotina da un asilo lì vicino.
Draghi sta per diventare l'uomo più importante d'Europa. A giorni si aspetta il via libera della Germania alla sua nomina a presidente della Bce (Banca centrale europea). Carica che dura otto anni, e che dà il potere di guidare l'economia di un intero continente. Poltrona molto ambita, quindi, ed è un onore per l'Italia che sia un nostro concittadino a ricoprirla. Eppure Draghi non rinuncia ai piccoli piaceri anonimi della vita di ogni giorno, come quello dei nonni che accompagnano a casa la nipotina. Senza scorta, senza pompa, senza auto blu, senza fanfare.
Non è la prima volta che lo schivo governatore della Banca d'Italia finisce sui giornali proprio per questa sua «normalità», così rara fra politici, potenti e «vip» di ogni risma. Quattro anni fa, per esempio, fece notizia perché salì su un semplice treno Intercity tornando da un convegno da Brescia a Milano. A Roma rinunciò a frequentare un club di fitness dopo essersi lasciato scappare una mezza confidenza con un compagno di spogliatoio. Il quale era un giornalista, e subito la pubblicò.
È appassionato di calcio tiene per la Roma, ma nessuno lo ha mai visto nella tribuna dello stadio Olimpico, sempre affollata di autorità e invitati vari. Quando suo figlio Giacomo (oggi 32enne vicepresidente alla banca Morgan Stanley a Londra) si è laureato all'università Bocconi (tesi con il professor Francesco Giavazzi), la famiglia lo ha festeggiato con una semplice pizza, nel ristorante milanese Rossopomodoro. Oltre al tennis e al jogging, da un po' Draghi pratica anche il golf. Ma non risulta iscritto ad alcun circolo esclusivo.
Insomma, un vero teutonico, alieno ai fasti del potere. Proprio per questo i tedeschi hanno accettato la sua nomina a guardiano dell'euro, nonostante provenga dal Paese che, dopo la Grecia, ha il peggior debito statale. D'altra parte, quando parla in pubblico (solo nelle occasioni ufficiali), Draghi incita sempre al rigore: «Per pareggiare il bilancio l'Italia deve ridurre le spese del sette per cento», ha incitato l'ultima volta dieci giorni fa.
Anche suo padre era dirigente bancario, ma lo lasciò orfano a soli 15 anni. E la madre scomparve poco dopo. Draghi frequentava il liceo Massimo dei gesuiti all'Eur. Fra i suoi compagni di scuola, Luca Montezemolo e i fratelli Abete. Divenne lui il capofamiglia, occupandosi del fratello e della sorella minore Andreina, storica dell'arte diventata famosa nel 1999 per avere scoperto affreschi medioevali nella chiesa dei Quattro Coronati a Roma. A 19 anni ha conosciuto la moglie Serena, padovana di origini nobili, durante una vacanza sul Brenta. Prima di Giacomo ha avuto la figlia Federica, laureata in biologia, oggi 35enne dirigente della società biotech Genextra e mamma della bimba che appare in queste foto.
Mauro Suttora
Obama e Osama
PERCHE' GLI AMERICANI HANNO UCCISO E NON ARRESTATO BIN LADEN
di Mauro Suttora
Oggi, 8 maggio 2011
Per una settimana il mondo intero ha discusso se il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dovesse pubblicare la foto di Osama Bin Laden morto. «Ce l’abbiamo, ma è troppo raccapricciante per mostrarla», è stata la puerile scusa accampata da Washington. Come se centinaia di immagini di guerra o di lager nazisti non fossero altrettanto orrende.
Alla fine gli autoeletti guardiani dei nostri stomachi presunti minorenni hanno mostrato non una foto, ma interi video del capo terrorista quand’era ancora vivo. Colpo da maestri: queste immagini hanno ucciso Osama più del colpo in fronte forse illegale che lo ha giustiziato.
Avete presente i «fuori onda» di Striscia la notizia? Anche i personaggi più rispettabili sprofondano nel ridicolo se li si sorprende a dire sciocchezze o a mettersi le dita nel naso pensando di non essere inquadrati. Non sapremo mai il nome dell’attendente di Al Qaeda che ha filmato il suo capo mentre ammira i propri video su una sgangherata tv. Ma dovrebbero dargli una medaglia. Egli è infatti un involontario eroe, quasi quanto i veri eroi del commando che è volato di notte con gli elicotteri in Pakistan per eliminare il «most wanted» dopo ben dieci anni di caccia.
Lo squallore di quelle inquadrature, la piccineria di un assassino esibizionista che si tinge la barba bianca per rivendicare le sue stragi, il suo sguardo perso quando guarda fuori campo chiedendo «Come sono venuto?», sono le vere armi letali che hanno distrutto in pochi secondi il mito del Male. Più di due intere guerre in Afghanistan e Iraq, più di migliaia di soldati (anche italiani) uccisi, più dei centomila civili arabi innocenti morti come «danni collaterali».
Ricordate il film Il grande dittatore di Charlie Chaplin? Hitler e Mussolini furono sepolti dalle risate, prima di finire annientati nel conflitto da loro provocato. Così oggi Osama perde qualsiasi «aura» fra i suoi miseri cavi tv e cenci ad Abbottabad, e nel 2003 l’altro Grande cattivo Saddam finì la carriera quando venne estratto da un buco e gli furono esaminati i denti come come ad un animale.
Piccoli dettagli che fanno la grande storia. Perché non c’è dubbio che la data del 2 maggio 2011 sarà ricordata come la fine dell’incubo mondiale che ci ha attanagliato per tutto il decennio degli «anni Zero». Andatelo a dire ai parenti delle migliaia di vittime di Osama, dell’11 settembre 2001 a New York ma anche del 2008 a Bombay, del 2002 a Bali, del 2003 a Nassirya, del 2004 a Madrid, del 2005 a Londra, fino ai poveri diciotto squartati vivi due settimane fa nella più bella terrazza con vista di Marrakesh, che il boia di Al Qaeda non doveva essere ucciso ma catturato vivo per poi venire sottoposto a regolare processo e naturalmente non essere condannato a morte perché noi europei siamo civili, e quindi contro la pena capitale. In ogni caso, se «pietà non l’è morta», la salma di Osama non doveva essere gettata in mare bensì sepolta dopo funerale. A costo di subire per un secolo sia un effetto Predappio (pellegrinaggi di aficionados), sia un rischio Mike Bongiorno (bara trafugata).
«Nessuno tocchi Caino?» Gli americani, compreso il democratico e raffinato Obama, hanno una concezione più biblica della giustizia: «You get what you give», prima o poi ti tocca quello che hai dato agli altri.
Sbagliano? Può darsi. Però, anche qui, proviamo a osservare i dettagli. Guardate le facce delle persone nella grande foto della pagina precedente. Non mostrano la stolidità di un Bush, l’arroganza di un Cheney. Sono quelle che abbiamo tutti noi quando siamo preoccupatissimi per un avvenimento pericoloso. I visi di Obama, di Hillary Clinton, del vicepresidente Joe Biden e degli altri dirigenti della superpotenza che ha violato il diritto internazionale, che ha invaso lo spazio aereo di uno stato sovrano per «fare giustizia», sembrano quelli di gente normale e perbene. Il più importante fra loro, il presidente, pare addirittura capitato lì per caso: se ne sta appartato, senza poltrona. Passava in corridoio una segretaria, era curiosa: hanno fatto entrare anche lei, però ora le tocca allungare il collo per vedere meglio...
Ma andiamo sul concreto. D’ora in poi saremo più sicuri? Certo che no. Continueremo a tribolare prima di salire sugli aerei, anche se proprio da qualche giorno - prima della morte di Osama - molti aeroporti hanno attenuato il divieto un po’ incomprensibile di portare qualsiasi liquido a bordo (sì, quel tizio si era confezionato una bombetta, ma guardateci: sembriamo tutti terroristi?). Nel covo del capo di Al Qaeda sono stati scoperti piani per far deragliare treni. Quindi, sono pericolosi anche quelli. Però lo sapevamo già da sette anni, dopo l’attentato alla stazione spagnola di Atocha. Idem per metrò e bus, dopo le bombe inglesi del 2005.
«Nelle prossime settimane e mesi potrebbero entrare in azione cellule di terroristi dormienti per vendicare la morte del loro capo», avvertono i servizi segreti occidentali. Insomma, abbiamo schiacciato la testa del serpente, ma forse abbiamo anche risvegliato un nido di vipere.
Ci sono però tre motivi di ottimismo. Innanzitutto la «primavera araba». Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen dimostrano che anche l’Islam vuole libertà e democrazia. Non si crede più alla favola degli estremisti religiosi, che davano tutte le colpe agli «infedeli» e dirottavano la rabbia popolare su Israele, Usa e Occidente. Per la prima volta nella storia i musulmani si ribellano ai propri dittatori. È una novità epocale, come il crollo del comunismo nel 1989.
Seconda buona notizia: Osama era ancora il capo operativo di Al Qaeda. Molti analisti pensavano che fosse rimasto una figura simbolica, ma staccata dalla gestione concreta degli attentati. Invece la grande quantità di documenti trovati a casa sua dimostra che il mascalzone comandava e decideva ancora. Quindi è stata decapitata la testa funzionante di Al Qaeda. E nelle organizzazioni verticistiche gli adepti si demoralizzano, quando i vertici scompaiono.
Il terzo motivo per ben sperare, infine, sta nella messe di «file» segreti portati via dal commando: ci vorranno settimane per tradurli tutti dall’arabo, ma sono in vista altri clamorosi arresti e blitz. È già partito un drone americano contro il capo di Al Qaeda nello Yemen. Obiettivo mancato, ma le fila dei terroristi sono ormai scompaginate, impaurite e frustrate. Prossimo bersaglio: Al Zawahiri, il vice-Osama egiziano.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 8 maggio 2011
Per una settimana il mondo intero ha discusso se il presidente degli Stati Uniti Barack Obama dovesse pubblicare la foto di Osama Bin Laden morto. «Ce l’abbiamo, ma è troppo raccapricciante per mostrarla», è stata la puerile scusa accampata da Washington. Come se centinaia di immagini di guerra o di lager nazisti non fossero altrettanto orrende.
Alla fine gli autoeletti guardiani dei nostri stomachi presunti minorenni hanno mostrato non una foto, ma interi video del capo terrorista quand’era ancora vivo. Colpo da maestri: queste immagini hanno ucciso Osama più del colpo in fronte forse illegale che lo ha giustiziato.
Avete presente i «fuori onda» di Striscia la notizia? Anche i personaggi più rispettabili sprofondano nel ridicolo se li si sorprende a dire sciocchezze o a mettersi le dita nel naso pensando di non essere inquadrati. Non sapremo mai il nome dell’attendente di Al Qaeda che ha filmato il suo capo mentre ammira i propri video su una sgangherata tv. Ma dovrebbero dargli una medaglia. Egli è infatti un involontario eroe, quasi quanto i veri eroi del commando che è volato di notte con gli elicotteri in Pakistan per eliminare il «most wanted» dopo ben dieci anni di caccia.
Lo squallore di quelle inquadrature, la piccineria di un assassino esibizionista che si tinge la barba bianca per rivendicare le sue stragi, il suo sguardo perso quando guarda fuori campo chiedendo «Come sono venuto?», sono le vere armi letali che hanno distrutto in pochi secondi il mito del Male. Più di due intere guerre in Afghanistan e Iraq, più di migliaia di soldati (anche italiani) uccisi, più dei centomila civili arabi innocenti morti come «danni collaterali».
Ricordate il film Il grande dittatore di Charlie Chaplin? Hitler e Mussolini furono sepolti dalle risate, prima di finire annientati nel conflitto da loro provocato. Così oggi Osama perde qualsiasi «aura» fra i suoi miseri cavi tv e cenci ad Abbottabad, e nel 2003 l’altro Grande cattivo Saddam finì la carriera quando venne estratto da un buco e gli furono esaminati i denti come come ad un animale.
Piccoli dettagli che fanno la grande storia. Perché non c’è dubbio che la data del 2 maggio 2011 sarà ricordata come la fine dell’incubo mondiale che ci ha attanagliato per tutto il decennio degli «anni Zero». Andatelo a dire ai parenti delle migliaia di vittime di Osama, dell’11 settembre 2001 a New York ma anche del 2008 a Bombay, del 2002 a Bali, del 2003 a Nassirya, del 2004 a Madrid, del 2005 a Londra, fino ai poveri diciotto squartati vivi due settimane fa nella più bella terrazza con vista di Marrakesh, che il boia di Al Qaeda non doveva essere ucciso ma catturato vivo per poi venire sottoposto a regolare processo e naturalmente non essere condannato a morte perché noi europei siamo civili, e quindi contro la pena capitale. In ogni caso, se «pietà non l’è morta», la salma di Osama non doveva essere gettata in mare bensì sepolta dopo funerale. A costo di subire per un secolo sia un effetto Predappio (pellegrinaggi di aficionados), sia un rischio Mike Bongiorno (bara trafugata).
«Nessuno tocchi Caino?» Gli americani, compreso il democratico e raffinato Obama, hanno una concezione più biblica della giustizia: «You get what you give», prima o poi ti tocca quello che hai dato agli altri.
Sbagliano? Può darsi. Però, anche qui, proviamo a osservare i dettagli. Guardate le facce delle persone nella grande foto della pagina precedente. Non mostrano la stolidità di un Bush, l’arroganza di un Cheney. Sono quelle che abbiamo tutti noi quando siamo preoccupatissimi per un avvenimento pericoloso. I visi di Obama, di Hillary Clinton, del vicepresidente Joe Biden e degli altri dirigenti della superpotenza che ha violato il diritto internazionale, che ha invaso lo spazio aereo di uno stato sovrano per «fare giustizia», sembrano quelli di gente normale e perbene. Il più importante fra loro, il presidente, pare addirittura capitato lì per caso: se ne sta appartato, senza poltrona. Passava in corridoio una segretaria, era curiosa: hanno fatto entrare anche lei, però ora le tocca allungare il collo per vedere meglio...
Ma andiamo sul concreto. D’ora in poi saremo più sicuri? Certo che no. Continueremo a tribolare prima di salire sugli aerei, anche se proprio da qualche giorno - prima della morte di Osama - molti aeroporti hanno attenuato il divieto un po’ incomprensibile di portare qualsiasi liquido a bordo (sì, quel tizio si era confezionato una bombetta, ma guardateci: sembriamo tutti terroristi?). Nel covo del capo di Al Qaeda sono stati scoperti piani per far deragliare treni. Quindi, sono pericolosi anche quelli. Però lo sapevamo già da sette anni, dopo l’attentato alla stazione spagnola di Atocha. Idem per metrò e bus, dopo le bombe inglesi del 2005.
«Nelle prossime settimane e mesi potrebbero entrare in azione cellule di terroristi dormienti per vendicare la morte del loro capo», avvertono i servizi segreti occidentali. Insomma, abbiamo schiacciato la testa del serpente, ma forse abbiamo anche risvegliato un nido di vipere.
Ci sono però tre motivi di ottimismo. Innanzitutto la «primavera araba». Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Yemen dimostrano che anche l’Islam vuole libertà e democrazia. Non si crede più alla favola degli estremisti religiosi, che davano tutte le colpe agli «infedeli» e dirottavano la rabbia popolare su Israele, Usa e Occidente. Per la prima volta nella storia i musulmani si ribellano ai propri dittatori. È una novità epocale, come il crollo del comunismo nel 1989.
Seconda buona notizia: Osama era ancora il capo operativo di Al Qaeda. Molti analisti pensavano che fosse rimasto una figura simbolica, ma staccata dalla gestione concreta degli attentati. Invece la grande quantità di documenti trovati a casa sua dimostra che il mascalzone comandava e decideva ancora. Quindi è stata decapitata la testa funzionante di Al Qaeda. E nelle organizzazioni verticistiche gli adepti si demoralizzano, quando i vertici scompaiono.
Il terzo motivo per ben sperare, infine, sta nella messe di «file» segreti portati via dal commando: ci vorranno settimane per tradurli tutti dall’arabo, ma sono in vista altri clamorosi arresti e blitz. È già partito un drone americano contro il capo di Al Qaeda nello Yemen. Obiettivo mancato, ma le fila dei terroristi sono ormai scompaginate, impaurite e frustrate. Prossimo bersaglio: Al Zawahiri, il vice-Osama egiziano.
Mauro Suttora
Friday, May 13, 2011
"Ero figlia del duce, non amante"
"Claretta Petacci pensava fossi l'amante del duce. Invece sono sua figlia"
Elena Curti, 88 anni, risponde alle accuse dei diari di Claretta Petacci
dal nostro inviato Mauro Suttora
Acquapendente (Viterbo), 11 maggio 2011
«Questa precoce prostituta che hai elevato a tua consigliera, amante e confidente, mentre si dava a te per calcolo, per orgoglio, per vizio, ti ridicoleggia con giovani amanti... Tolleri che questa indefinibile ragazza, mocciosa e impudente, ti spubblichi e ti invilisca sfruttando il tuo nome e vendendo il tuo prestigio?».
Estate 1944. La guerra infuria, e a Salò (Brescia) Benito Mussolini guida la Repubblica sociale sotto il controllo dei nazisti. Ogni giovedì riceve a rapporto nel proprio studio una bellissima ragazza 21enne, che lavora per il segretario del partito Alessandro Pavolini. È la sua figlia naturale Elena Curti, avuta a Milano da una relazione con Angela Cucciati, moglie del capo fascista Bruno Curti. La madre, poi separata, aveva rivelato il segreto alla figlia quando compì 18 anni.
Ma la gelosissima Claretta Petacci, principale amante del duce, non conosce questo legame di sangue. E sospetta che la giovane Elena sia l’ennesima conquista del suo Benito, traditore seriale.
Attraverso i propri informatori Claretta scopre che Elena lavora con i giovani del battaglione Bir El Gobi. E che in quel clima da caserma le vengono attribuite molte relazioni. Intima a Mussolini di interrompere gli appuntamenti settimanali.
Il dittatore acconsente, ma Elena vuole vederlo ancora. E lui la riceve. Sapendo però che la tremenda Claretta sarebbe venuta a saperlo quasi subito, si affretta a scriverle: «Ha tanto insistito che si trattava di cose politiche che l’ho ricevuta oggi alle 12, con a immediata portata il vicesegretario del partito. Aveva qualcosa da dirmi sull’ambiente della Mas, che pare dominato da una donna, e sul Barbarigo, battaglione totalmente fascista. Non la vedevo dal 6 giugno. Questi mesi di attività hanno lasciato tracce sul suo volto. Il colloquio è durato una decina di minuti, dopodiché l’ho pregata di non venire più a Gargnano, per nessun motivo. L’ha capito e si è allontanata. Questa è la assoluta verità. Chiedo, perché lo merito, il tuo abbraccio».
LETTERE DESECRETATE
Questo messaggio, e quello di risposta di Claretta, sono stati appena pubblicati nel libro L’ultima lettera di Benito (Mondadori) di Barbara Raggi e Pasquale Chessa. Ai quali l’Archivio Centrale dello Stato ha permesso di visionare tutti i diari e le lettere della Petacci, resi pubblici dopo 70 anni.
La replica di Claretta a Mussolini è furibonda: «Giurasti sulla memoria di tuo figlio che mai più la Curti avrebbe varcato la soglia del tuo ufficio... [E invece] la Curti sgonnellava nelle prime ore del pomeriggio in bici in pieno sole, e in pieno giorno veniva da te... Prendi come vessillifera questa pettegola immorale, e non senti tutto il ridicolo e la miseria morale di questo gesto? I segni che tu trovi sul suo volto e che attribuisci alla sua attività lavorativa - sono infatti lavorativi: anche per una costituzione così robusta un battaglione è estenuante invero!».
Insomma, Claretta accusa la povera Elena («Donna screditata, chiacchierata, in continua vita dissoluta») addirittura di relazioni contemporanee e promiscue. E fa qualche nome: Gai, Ciolfi...
Elena Curti, oggi lucidissima ed elegante signora 88enne, ci riceve a casa sua e leggendo la lettera scoppia a ridere: «E certo, il povero Ciolfi era il mio fidanzato. Più per volontà di sua madre che mia, per la verità... Invece Giulio Gai era figlio dell’ex ministro dell’Economia Silvio. In quell’ambiente di intrighi le voci correvano. Io ero la madrina del battaglione Bir El Gobi. Frequentavo tanti uomini, perfino Mussolini una volta si preoccupò per la mia verginità. Che invece persi anni dopo con un altro fidanzato, se proprio si vuole saperlo...».
La Curti ha affidato le proprie memorie al libro Il chiodo a tre punte (ed. Iuculano, 2003): «La guerra non ci impediva di andare a spettacoli di varietà come quelli di Dario Fo e della bellissima Franca Rame, che facevano furore con la loro ironia piccante. Spirava aria di fronda, ma nessuno censurava gli spettacoli».
Il 25 aprile ‘45 anche Elena Curti fa parte del convoglio di gerarchi che con Mussolini cerca di raggiungere la Valtellina. Quando dicono a Claretta che c’è anche lei, la Petacci dà in escandescenze. A quel punto qualcuno la informa della parentela segreta.
«E allora quando ci siamo incontrate per la prima e ultima volta, il 27 aprile», racconta la signora Curti, «lei mi ha rivolto uno sguardo indagatore, incuriosito. Notai i suoi occhi azzurri, quasi viola. Io ero nell’autoblindo accanto a Mussolini, lei invece viaggiava su un’auto con il fratello Marcello, la cognata Zita Ritossa e i loro due piccoli figli. Poi Mussolini salì sul camion tedesco in cui lo arrestarono i partigiani. La fine è nota».
Mauro Suttora
Elena Curti, 88 anni, risponde alle accuse dei diari di Claretta Petacci
dal nostro inviato Mauro Suttora
Acquapendente (Viterbo), 11 maggio 2011
«Questa precoce prostituta che hai elevato a tua consigliera, amante e confidente, mentre si dava a te per calcolo, per orgoglio, per vizio, ti ridicoleggia con giovani amanti... Tolleri che questa indefinibile ragazza, mocciosa e impudente, ti spubblichi e ti invilisca sfruttando il tuo nome e vendendo il tuo prestigio?».
Estate 1944. La guerra infuria, e a Salò (Brescia) Benito Mussolini guida la Repubblica sociale sotto il controllo dei nazisti. Ogni giovedì riceve a rapporto nel proprio studio una bellissima ragazza 21enne, che lavora per il segretario del partito Alessandro Pavolini. È la sua figlia naturale Elena Curti, avuta a Milano da una relazione con Angela Cucciati, moglie del capo fascista Bruno Curti. La madre, poi separata, aveva rivelato il segreto alla figlia quando compì 18 anni.
Ma la gelosissima Claretta Petacci, principale amante del duce, non conosce questo legame di sangue. E sospetta che la giovane Elena sia l’ennesima conquista del suo Benito, traditore seriale.
Attraverso i propri informatori Claretta scopre che Elena lavora con i giovani del battaglione Bir El Gobi. E che in quel clima da caserma le vengono attribuite molte relazioni. Intima a Mussolini di interrompere gli appuntamenti settimanali.
Il dittatore acconsente, ma Elena vuole vederlo ancora. E lui la riceve. Sapendo però che la tremenda Claretta sarebbe venuta a saperlo quasi subito, si affretta a scriverle: «Ha tanto insistito che si trattava di cose politiche che l’ho ricevuta oggi alle 12, con a immediata portata il vicesegretario del partito. Aveva qualcosa da dirmi sull’ambiente della Mas, che pare dominato da una donna, e sul Barbarigo, battaglione totalmente fascista. Non la vedevo dal 6 giugno. Questi mesi di attività hanno lasciato tracce sul suo volto. Il colloquio è durato una decina di minuti, dopodiché l’ho pregata di non venire più a Gargnano, per nessun motivo. L’ha capito e si è allontanata. Questa è la assoluta verità. Chiedo, perché lo merito, il tuo abbraccio».
LETTERE DESECRETATE
Questo messaggio, e quello di risposta di Claretta, sono stati appena pubblicati nel libro L’ultima lettera di Benito (Mondadori) di Barbara Raggi e Pasquale Chessa. Ai quali l’Archivio Centrale dello Stato ha permesso di visionare tutti i diari e le lettere della Petacci, resi pubblici dopo 70 anni.
La replica di Claretta a Mussolini è furibonda: «Giurasti sulla memoria di tuo figlio che mai più la Curti avrebbe varcato la soglia del tuo ufficio... [E invece] la Curti sgonnellava nelle prime ore del pomeriggio in bici in pieno sole, e in pieno giorno veniva da te... Prendi come vessillifera questa pettegola immorale, e non senti tutto il ridicolo e la miseria morale di questo gesto? I segni che tu trovi sul suo volto e che attribuisci alla sua attività lavorativa - sono infatti lavorativi: anche per una costituzione così robusta un battaglione è estenuante invero!».
Insomma, Claretta accusa la povera Elena («Donna screditata, chiacchierata, in continua vita dissoluta») addirittura di relazioni contemporanee e promiscue. E fa qualche nome: Gai, Ciolfi...
Elena Curti, oggi lucidissima ed elegante signora 88enne, ci riceve a casa sua e leggendo la lettera scoppia a ridere: «E certo, il povero Ciolfi era il mio fidanzato. Più per volontà di sua madre che mia, per la verità... Invece Giulio Gai era figlio dell’ex ministro dell’Economia Silvio. In quell’ambiente di intrighi le voci correvano. Io ero la madrina del battaglione Bir El Gobi. Frequentavo tanti uomini, perfino Mussolini una volta si preoccupò per la mia verginità. Che invece persi anni dopo con un altro fidanzato, se proprio si vuole saperlo...».
La Curti ha affidato le proprie memorie al libro Il chiodo a tre punte (ed. Iuculano, 2003): «La guerra non ci impediva di andare a spettacoli di varietà come quelli di Dario Fo e della bellissima Franca Rame, che facevano furore con la loro ironia piccante. Spirava aria di fronda, ma nessuno censurava gli spettacoli».
Il 25 aprile ‘45 anche Elena Curti fa parte del convoglio di gerarchi che con Mussolini cerca di raggiungere la Valtellina. Quando dicono a Claretta che c’è anche lei, la Petacci dà in escandescenze. A quel punto qualcuno la informa della parentela segreta.
«E allora quando ci siamo incontrate per la prima e ultima volta, il 27 aprile», racconta la signora Curti, «lei mi ha rivolto uno sguardo indagatore, incuriosito. Notai i suoi occhi azzurri, quasi viola. Io ero nell’autoblindo accanto a Mussolini, lei invece viaggiava su un’auto con il fratello Marcello, la cognata Zita Ritossa e i loro due piccoli figli. Poi Mussolini salì sul camion tedesco in cui lo arrestarono i partigiani. La fine è nota».
Mauro Suttora
Thursday, May 12, 2011
Le nozze di Mara Carfagna
"Mara, tutto perdonato: a giugno ci sposiamo"
Pace fatta tra la Carfagna e il fidanzato, dopo le rivelazioni di Bocchino. Marco Mezzaroma ha portato la sua bella ministra alle Maldive per Pasqua. Per un anticipo di luna di miele: lei ha già comprato il vestito di nozze nella natia Salerno
di Mauro Suttora
Oggi, 11 maggio 2011
Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti ai milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto un'amicizia particolare con la ministra Mara Carfagna. L'erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell'epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di provocare sofferenze alla moglie Gabriella. Quindi l'onore è salvo.
Sembrava che il mat rimonio Carfagna-Mezzaroma, fissato per il 25 giugno, foss e rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del Partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.
Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d'Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, a Pasqua ha portato Mara alle Maldive, in uno dei resort più lussuosi dell'arcipelago, il Palm Beach.
Più travagliata, invece, l'atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo aveva aperto i giochi con un' intervista-confessione a un settimanale. In cui l' unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassi mo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».
Poi una stilettata politica: «Un po' di delusione c'è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata "telecomandata" da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania». Altre considerazion i sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un'amante sei uno sfigato».
La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».
Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l'abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall'inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l' abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all' altare per sposare il preside Salvatore Carfagna. La Passaro dichiara di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all' insegna della sobrietà e dell' eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, ancora top secret, al primo colpo.
Mauro Suttora
Pace fatta tra la Carfagna e il fidanzato, dopo le rivelazioni di Bocchino. Marco Mezzaroma ha portato la sua bella ministra alle Maldive per Pasqua. Per un anticipo di luna di miele: lei ha già comprato il vestito di nozze nella natia Salerno
di Mauro Suttora
Oggi, 11 maggio 2011
Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti ai milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto un'amicizia particolare con la ministra Mara Carfagna. L'erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell'epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di provocare sofferenze alla moglie Gabriella. Quindi l'onore è salvo.
Sembrava che il mat rimonio Carfagna-Mezzaroma, fissato per il 25 giugno, foss e rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del Partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.
Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d'Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, a Pasqua ha portato Mara alle Maldive, in uno dei resort più lussuosi dell'arcipelago, il Palm Beach.
Più travagliata, invece, l'atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo aveva aperto i giochi con un' intervista-confessione a un settimanale. In cui l' unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassi mo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».
Poi una stilettata politica: «Un po' di delusione c'è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata "telecomandata" da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania». Altre considerazion i sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un'amante sei uno sfigato».
La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».
Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l'abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall'inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l' abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all' altare per sposare il preside Salvatore Carfagna. La Passaro dichiara di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all' insegna della sobrietà e dell' eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, ancora top secret, al primo colpo.
Mauro Suttora
Papi Benito intercetta la escort
Il primo a spiare al telefono le sue mantenute fu il duce
Divorato dalla gelosia, Mussolini fece spiare la poetessa Cornelia Tanzi, una mondana d'alto bordo che incontrava a Palazzo Venezia. E poi ascoltava le sue parole con altre amanti, compresa la Petacci. Alla fine la spedì al confino...
di Roberto Angelino
Novella 2000, 12 maggio 2011
C' era una escort (ma all'epoca non si chiamavano ancora così) che s'infilava tra le lenzuola di Benito Mussolini, e che il Duce, per timore che lei parlasse troppo, faceva intercettare dagli agenti segreti dell'Ovra. Divertendosi poi ad ascoltare, talora in dolce compagnia di un'altra donna, tutti i colloqui che lei aveva al telefono o scambiava con conoscenti e amiche.
Lo rivela, nel secondo numero del nuovo mensile Bbc History Italia, un interessante articolo di Mauro Suttora, che curò Mussolini segreto , la raccolta dei diari di Claretta Petacci edita da Rizzoli. Proprio alla giovane amante, che l'annotò nel suo quadernetto segreto, il capo del fascismo aveva confidato: «Che vuoi, avrò avuto migliaia di donne... Molte le ho prese una sola volta e non ricordo neanche la loro fisionomia. La più fredda, anzi direi glaciale, era la Cornelia. Frigida, indifferente».
Lei è la scrittrice Cornelia Tanzi, figlia della proprietaria di una "casa di comodo". Fisicamente è bella, non bellissima. Così la descrive quel "vitellone romagnolo" di Benito: «Ha gambe lunghe, è esile, sottile, alta, bruna». Conosce Mussolini grazie alle poesie, una al giorno, che gli manda. Lui s'intriga e la fa convocare a Palazzo Venezia, dove vanno subito al sodo. Una relazione particolare, la loro. Cornelia è in pratica una mondana d'alto bordo, una via di mezzo fra la mantenuta e la escort di lusso: «Si spogliava distratta, apatica, faceva cadere la camicia, si vedevano queste due gambe lunghe, si metteva lì e via, senza scomporsi. Tutto in meno di mezz'ora. Faceva il suo servizio, si rivestiva e poi diceva: "Ricorderai che ti ho scritto nella lettera...". Io le davo una somma e via. Fino a nuovo occorrere di danaro non si faceva più viva... Viene da me quando ha bisogno di rifarsi il guardaroba. L'avessi mai veduta vibrare, mostrare interesse per me. Nulla».
Avida e glaciale. E disinibita. Benito la disprezza, ma non riesce a farne a meno. Anzi, come rivela a Claretta, è geloso di lei e dei suoi amanti, tra cui un certo Baldi, proprietario della pensione dove vive, un certo avvocato De Santis che le ha pagato la macchina, e anche il popolare poeta romanesco Carlo Alberto Salustri, più conosciuto con l'anagramma del suo cognome: Trilussa.
Mussolini la fa intercettare e poi racconta tutto alla Petacci: «Era una puttana! Una volta ha detto, in un albergo: "Sì, io ho tanta intimità col Duce e gli ho lasciato il rossetto sulle labbra...". La chiamai: "Sentite, voi mi avete reso ridicolo. Adesso vi allontanerete per due o tre anni da Roma: andate in esilio. Se non volete andarci con le buone, vi ci manderò con i carabinieri"». Benito, che non sopporta gli altri uomini, spedisce dunque Cornelia "al confino" in Piemonte. Ma anche lì ordina di intercettare le sue telefonate, che poi gira alla Petacci: «Toh, questa è un' intercettazione alla Tanzi, leggi», le dice il 19 febbraio 1938. E Claretta annota nel diario: «La Tanzi parla con un' amica a cui confida che [col duce] ormai è finita. L’amica risponde: “Come mai?” E la Tanzi: “Quando gli uomini hanno un’altra donna si dimenticano di quelle che hanno avuto e hanno”.
E l’amica: “Ma anche gli uomini hanno un cuore”.
E la Tanzi: “Sì, ce l’hanno fra le gambe (‘volgare’, commenta a questo punto Claretta). È un anno ormai che aspetto, e credo che non vale la pena attendere ancora. Ma [Mussolini] se ne pentirà”».
Benito dice orgoglioso a Claretta: «Vedi che sono sincero? Lei dice un anno, ma è molto di più che non la vedo. Ormai è finita».
Claretta gli risponde: «È pietosa e volgare, per essere una scrittrice e un’intellettuale».
Mussolini: «Sì, hai ragione, è piuttosto brutta questa espressione. Credo che la signora alla quale telefona sia la sua amica, tu intendi come. Mi ha tradito sempre, anche in modo piuttosto sporco. Ha avuto una vita un po’ strana, chiacchierava troppo. Spargeva in giro che era la mia moglie morganatica, che io facevo ciò che lei voleva. Così troncai. Adesso ha diversi amanti, anche Trilussa [poeta romanesco, 1871-1950], e prende danari. Fa marchette insomma. Un certo avvocato De Santis le ha pagato la macchina. Basta, basta».
Divorato dalla gelosia, Mussolini fece spiare la poetessa Cornelia Tanzi, una mondana d'alto bordo che incontrava a Palazzo Venezia. E poi ascoltava le sue parole con altre amanti, compresa la Petacci. Alla fine la spedì al confino...
di Roberto Angelino
Novella 2000, 12 maggio 2011
C' era una escort (ma all'epoca non si chiamavano ancora così) che s'infilava tra le lenzuola di Benito Mussolini, e che il Duce, per timore che lei parlasse troppo, faceva intercettare dagli agenti segreti dell'Ovra. Divertendosi poi ad ascoltare, talora in dolce compagnia di un'altra donna, tutti i colloqui che lei aveva al telefono o scambiava con conoscenti e amiche.
Lo rivela, nel secondo numero del nuovo mensile Bbc History Italia, un interessante articolo di Mauro Suttora, che curò Mussolini segreto , la raccolta dei diari di Claretta Petacci edita da Rizzoli. Proprio alla giovane amante, che l'annotò nel suo quadernetto segreto, il capo del fascismo aveva confidato: «Che vuoi, avrò avuto migliaia di donne... Molte le ho prese una sola volta e non ricordo neanche la loro fisionomia. La più fredda, anzi direi glaciale, era la Cornelia. Frigida, indifferente».
Lei è la scrittrice Cornelia Tanzi, figlia della proprietaria di una "casa di comodo". Fisicamente è bella, non bellissima. Così la descrive quel "vitellone romagnolo" di Benito: «Ha gambe lunghe, è esile, sottile, alta, bruna». Conosce Mussolini grazie alle poesie, una al giorno, che gli manda. Lui s'intriga e la fa convocare a Palazzo Venezia, dove vanno subito al sodo. Una relazione particolare, la loro. Cornelia è in pratica una mondana d'alto bordo, una via di mezzo fra la mantenuta e la escort di lusso: «Si spogliava distratta, apatica, faceva cadere la camicia, si vedevano queste due gambe lunghe, si metteva lì e via, senza scomporsi. Tutto in meno di mezz'ora. Faceva il suo servizio, si rivestiva e poi diceva: "Ricorderai che ti ho scritto nella lettera...". Io le davo una somma e via. Fino a nuovo occorrere di danaro non si faceva più viva... Viene da me quando ha bisogno di rifarsi il guardaroba. L'avessi mai veduta vibrare, mostrare interesse per me. Nulla».
Avida e glaciale. E disinibita. Benito la disprezza, ma non riesce a farne a meno. Anzi, come rivela a Claretta, è geloso di lei e dei suoi amanti, tra cui un certo Baldi, proprietario della pensione dove vive, un certo avvocato De Santis che le ha pagato la macchina, e anche il popolare poeta romanesco Carlo Alberto Salustri, più conosciuto con l'anagramma del suo cognome: Trilussa.
Mussolini la fa intercettare e poi racconta tutto alla Petacci: «Era una puttana! Una volta ha detto, in un albergo: "Sì, io ho tanta intimità col Duce e gli ho lasciato il rossetto sulle labbra...". La chiamai: "Sentite, voi mi avete reso ridicolo. Adesso vi allontanerete per due o tre anni da Roma: andate in esilio. Se non volete andarci con le buone, vi ci manderò con i carabinieri"». Benito, che non sopporta gli altri uomini, spedisce dunque Cornelia "al confino" in Piemonte. Ma anche lì ordina di intercettare le sue telefonate, che poi gira alla Petacci: «Toh, questa è un' intercettazione alla Tanzi, leggi», le dice il 19 febbraio 1938. E Claretta annota nel diario: «La Tanzi parla con un' amica a cui confida che [col duce] ormai è finita. L’amica risponde: “Come mai?” E la Tanzi: “Quando gli uomini hanno un’altra donna si dimenticano di quelle che hanno avuto e hanno”.
E l’amica: “Ma anche gli uomini hanno un cuore”.
E la Tanzi: “Sì, ce l’hanno fra le gambe (‘volgare’, commenta a questo punto Claretta). È un anno ormai che aspetto, e credo che non vale la pena attendere ancora. Ma [Mussolini] se ne pentirà”».
Benito dice orgoglioso a Claretta: «Vedi che sono sincero? Lei dice un anno, ma è molto di più che non la vedo. Ormai è finita».
Claretta gli risponde: «È pietosa e volgare, per essere una scrittrice e un’intellettuale».
Mussolini: «Sì, hai ragione, è piuttosto brutta questa espressione. Credo che la signora alla quale telefona sia la sua amica, tu intendi come. Mi ha tradito sempre, anche in modo piuttosto sporco. Ha avuto una vita un po’ strana, chiacchierava troppo. Spargeva in giro che era la mia moglie morganatica, che io facevo ciò che lei voleva. Così troncai. Adesso ha diversi amanti, anche Trilussa [poeta romanesco, 1871-1950], e prende danari. Fa marchette insomma. Un certo avvocato De Santis le ha pagato la macchina. Basta, basta».
Wednesday, May 04, 2011
La Carfagna si sposa
Oggi, 4 maggio 2011
di Mauro Suttora
Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti a milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto una relazione clandestina con la ministra Mara Carfagna.
L’erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell’epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di tradire la moglie Gabriella con la stupenda Mara. Quindi l’onore è salvo.
Il castello Carandini
Per un po’ sembrava che il matrimonio, fissato per il 25 giugno, fosse rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.
Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d’Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, ha portato Mara per Pasqua alle Maldive, nel resort più lussuoso dell’arcipelago. E queste foto testimoniano la ritrovata armonia.
Più travagliata, invece, l’atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo sembrava avere accettato le scuse e il pentimento pubblico di Italo, con un’intervista altrettanto pubblica a un settimanale. In cui l’unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassimo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».
«Telecomandata da Italo»
Poi una stilettata politica: «Un po’ di delusione c’è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata “telecomandata” da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania».
Altre considerazioni sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un’amante sei uno sfigato».
La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».
L’abito da sposa
Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l’abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall’inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l’abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all’altare per sposare il preside Salvatore Carfagna.
La Passaro dice di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all’insegna della sobrietà e dell’eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, per ora top secret, al primo colpo.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti a milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto una relazione clandestina con la ministra Mara Carfagna.
L’erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell’epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di tradire la moglie Gabriella con la stupenda Mara. Quindi l’onore è salvo.
Il castello Carandini
Per un po’ sembrava che il matrimonio, fissato per il 25 giugno, fosse rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.
Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d’Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, ha portato Mara per Pasqua alle Maldive, nel resort più lussuoso dell’arcipelago. E queste foto testimoniano la ritrovata armonia.
Più travagliata, invece, l’atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo sembrava avere accettato le scuse e il pentimento pubblico di Italo, con un’intervista altrettanto pubblica a un settimanale. In cui l’unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassimo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».
«Telecomandata da Italo»
Poi una stilettata politica: «Un po’ di delusione c’è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata “telecomandata” da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania».
Altre considerazioni sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un’amante sei uno sfigato».
La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».
L’abito da sposa
Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l’abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall’inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l’abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all’altare per sposare il preside Salvatore Carfagna.
La Passaro dice di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all’insegna della sobrietà e dell’eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, per ora top secret, al primo colpo.
Mauro Suttora
Thursday, April 28, 2011
A 10 anni non conoscono i Romani
LE ASSURDITA' DEI NUOVI PROGRAMMI DI STORIA ALLE ELEMENTARI E MEDIE INFERIORI
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Fino a una decina di anni fa la storia si cominciava a studiare in terza elementare. A otto anni ci appassionavamo alle vicende di Attilio Regolo con la sua botte, di Muzio Scevola con la sua mano, delle oche sul Campidoglio. Oggi, se accompagniamo i nostri figli di dieci anni in gita a Roma, notiamo gran sorpresa quando vedono il Colosseo. Non sanno nulla. Perché il programma di storia è stato spalmato su tutti gli ultimi sei anni della scuola dell'obbligo, e i romani si studiano solo in quinta.
Tutta la terza elementare si perde fra i cavernicoli della preistoria. La quarta va dagli egizi e sumeri ai greci. E così via. In teoria, un ragazzino italiano non conosce Garibaldi fino a tredici anni. Così si sprecano proprio gli anni in cui meglio si imprimono storie, concetti e nozioni (sì, nozioni). Sanno tutto su Pokemon e Gormiti, e poco o nulla sulla storia nostra. Forse prima era assurdo ripetere tre volte (elementari, media, liceo) la stessa storia. Ma ora si esagera nell'altro senso.
Anche in geografia. Prima imparavamo a memoria tutte le province a 8-9 anni. Ora Enna e Lecco non sanno dove sono. E per Brasile o Cina si aspetta fino a 13 anni.
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Fino a una decina di anni fa la storia si cominciava a studiare in terza elementare. A otto anni ci appassionavamo alle vicende di Attilio Regolo con la sua botte, di Muzio Scevola con la sua mano, delle oche sul Campidoglio. Oggi, se accompagniamo i nostri figli di dieci anni in gita a Roma, notiamo gran sorpresa quando vedono il Colosseo. Non sanno nulla. Perché il programma di storia è stato spalmato su tutti gli ultimi sei anni della scuola dell'obbligo, e i romani si studiano solo in quinta.
Tutta la terza elementare si perde fra i cavernicoli della preistoria. La quarta va dagli egizi e sumeri ai greci. E così via. In teoria, un ragazzino italiano non conosce Garibaldi fino a tredici anni. Così si sprecano proprio gli anni in cui meglio si imprimono storie, concetti e nozioni (sì, nozioni). Sanno tutto su Pokemon e Gormiti, e poco o nulla sulla storia nostra. Forse prima era assurdo ripetere tre volte (elementari, media, liceo) la stessa storia. Ma ora si esagera nell'altro senso.
Anche in geografia. Prima imparavamo a memoria tutte le province a 8-9 anni. Ora Enna e Lecco non sanno dove sono. E per Brasile o Cina si aspetta fino a 13 anni.
I libri di scuola sono comunisti?
Gabriella Carlucci all'attacco dei testi di storia «faziosi»
Venti deputati Pdl chiedono una commissione d'inchiesta per alcuni passaggi "cruciali". Gli storici insorgono. Ma qualcuno ammette: «Il problema esiste». Giudicate voi
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Palmiro Togliatti? «Uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali». Ma nessun riferimento al fatto che il segretario del Pci fino al 1964 fosse stato, negli anni Trenta a Mosca, uno dei principali collaboratori del dittatore Josip Stalin nell'Internazionale comunista, durante il peggior periodo delle purghe e dei gulag.
Enrico Berlinguer? «Uomo di profonda onestà intellettuale e morale, misurato e alieno alla retorica». Il che è certamente vero. Ma, anche qui, sottacendo, per esempio, la mancata condanna, da parte del partito comunista di cui era dirigente, delle invasioni sovietiche in Cecoslovacchia o Afghanistan. Oppure la critica alla dittatura dell'Urss che però non divenne mai rottura.
E i gulag, i famigerati campi di lavoro comunisti? «La loro ignominia non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto, o peggio dalla conversione di Stalin all'imperialismo». Fino ad arrivare a Rosy Bindi, lodata perché vent'anni fa «combatté gli inquisiti» di Tangentopoli.
Alcune definizioni contenute nei manuali di storia per l'ultimo anno delle scuole superiori hanno fatto arrabbiare la deputata Gabriella Carlucci e una ventina di suoi colleghi del Pdl, che hanno chiesto l'istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici.
Ecco il passo «incriminato» del libro Camera-Fabietti sul 1994: «Berlusconi, nonostante le ricorrenti promesse di vendite, cessioni e altri provvedimenti radicali, non sembrava ansioso di superare l' anomalia senza precedenti di un capo del governo che era grande imprenditore, monopolista o quasi delle reti tv private: un'anomalia denunciata dalla Lega e dalle opposizioni, e ammessa dallo stesso Berlusconi. L'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi di Berlusconi (...)»
Un altro libro messo sotto accusa dalla Carlucci è l'Ortoleva-Revelli. Qui appare un giudizio positivo sull'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, detestato dai berlusconiani perché nel 1995 non concesse il voto anticipato, aprendo la strada al governo Dini e alla vittoria di Prodi del '96. Ancor oggi il 92enne Scalfaro è più antiberlusconiano che mai, e non lo nasconde.
«In Italia negli ultimi cinquant'anni lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico», sostiene la Carlucci. «Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' ideologia comunista i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali, anzi si rafforzano. E si scagliano non solo contro gli attori della storia che hanno combattuto l'avanzata del comunismo, ma anche contro la parte politica che oggi è antagonista della sinistra».
Nel mirino della Carlucci sono finiti in particolare due libri: il Camera-Fabietti (edizioni Zanichelli) e La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra della casa editrice Le Monnier che, per ironia della sorte, appartiene al gruppo Mondadori, di proprietà di Silvio Berlusconi.
Il quale Berlusconi viene così maltrattato a pagina 1.682 del Camera-Fabietti: «Nel 1994 l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal governo alle pensioni, alla sanità e alla previdenza sociale».
«Ognuno ha diritto ad avere il suo punto di vista e anche la sua faziosità», dice la Carlucci, «può scrivere articoli o libri, poi li comprerà chi vuole. Ma si può essere così di parte in libri di testo che migliaia di studenti devono, per forza, comprare e studiare? Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano e anche fazioso, spesso superficiale?».
«Il vero problema è che non si discute più di storia nella società, per colpa soprattutto della tv», risponde Pino Polistena, professore di storia prima di diventare preside del liceo civico Manzoni di Milano. «Ma la tv non è il solo imputato: sociologi come Norbert Elias ci spiegano che è la modernità stessa a privilegiare il presente. Per questo la storia è in sofferenza, non per i travisamenti dei libri di testo. È vero, alcuni di essi sfiorano il dogmatismo storico. Ma anche se a questi testi si associano docenti altrettanto dogmatici, non esiste un vero problema didattico. Perché ovunque si discuta di storia si determina un effetto positivo, per il fatto stesso di discuterne».
«La ex soubrette Gabriella Carlucci propone addirittura una commissione d'inchiesta parlamentare per purgare i libri di storia?», sbotta Pasquale Chessa, già vicedirettore di Panorama (settimanale della Mondadori) e storico lui stesso. «Nemmeno Orwell aveva pensato una cosa del genere. Verrebbe voglia di interrogare in storia la Carlucci. Ma da che pulpito parla, da quale cattedra? La politica stia lontana dalla cultura. La signora studi la storia, e non si permetta di interferire con il libero dibattito delle idee».
Ma lodare Togliatti senza accennare ai suoi demeriti non è scorretto?
«Incompletezze e imprecisioni non si possono punire per legge. Nemmeno sotto l'Inquisizione il giudizio positivo su una persona era considerato un insulto alla storia. Per fortuna , dico io, ci sono queste frasi che possono essere messe a confronto con altri giudizi. Io per primo da trent'anni, come giornalista, m i sono sempre battuto contro il conformismo storico di sinistra. Per esempio evidenziando i famosi strafalcioni filosovietici dell'enciclopedia Garzantina negli anni Ottanta, che per questo avevamo soprannominato "Garzantova". Ed è ovvio che Tranfaglia aveva torto quando accusò De Felice per i suoi libri sul fascismo considerati "revisionisti". Ma, ripeto: lontano dalla politica».
Marco Revelli, docente universitario, è uno degli autori presi di mira dalla Carlucci. Nel suo L'età contemporanea, scritto con Peppino Ortoleva, c'è il giudizio troppo laudatorio espresso su Oscar Luigi Scalfaro che abbiamo evidenziato a pagina 49. «Non ho creduto ai miei occhi quando ho letto la critica al passo su Scalfaro», dice a Oggi. «Fra tutti i personaggi possibili, sono andati a pescare un giudizio positivo su un democristiano, non su un comunista. Attenzione: un giudizio, non un fatto. E, come insegna Benedetto Croce - un liberale, non un comunista - le interpretazioni sono necessariamente libere».
Ma non ci vorrebbe più equilibrio, professore?
«Certo, però solo un ministro come la Gelmini può dire che i libri di storia devono essere "oggettivi". Nessun testo può offrire l'unica verità. Io esorto sempre i miei studenti a ricercare le verità, al plurale, leggendo decine di testi. Il problema vero, in realtà, è Berlusconi. È lui la questione del contendere. Siamo arrivati al punto che non solo non si possono criticare i suoi vizi, ma qualcuno vorrebbe vietare perfino le lodi alle virtù dei suoi avversari. Certi berlusconiani hanno in testa solo il bunga-bunga, e misurano tutto con metro da tifosi. Cercano di guadagnare punti agli occhi del loro capo, o meglio del loro Dio. Perfino il ministro fascista Gentile aveva maggiore tolleranza nei confronti delle eterodossie».
Ma perché per gli storici è così difficile equiparare la svastica alla falce e martello, fra le disgrazie del secolo scorso?
«Esiste una robusta corrente storiografica che lo fa, accomunando fascismi e comunismi sotto la categoria del totalitarismo. È un dibattito molto interessante. Ma, appunto, è un dibattito. Che non può essere deciso da un decreto ministeriale...»
«Sì, molti manuali sono faziosi», ammette Lorenzo Strik Lievers, docente di storia all'università di Milano. «Ma il peggio è che sono noiosi, e così allontanano gli studenti».
Alcuni libri sono scritti in sociologhese, più che in italiano...
«Come strumenti didattici sono in gran parte deplorevoli», dice Strik Lievers. «Il risultato è che quasi tutti gli studenti che arrivano all'università di storia sanno poco. Il problema riguarda soprattutto i docenti. Sono loro a scegliere i libri di testo più o meno faziosi. E non riescono ad appassionare alla materia i propri studenti. Non fanno nemmeno sospettar loro che sulla storia ci possa essere dibattito. Nessun libro di testo ha al proprio centro il concetto della discutibilità della storia. Quindi, mentre trent'anni fa gli studenti politicizzati cercavano nella storia conferme alle proprie idee, oggi che l' interesse per la politica è quasi nullo anche lo studio della storia ne soffre».
Ma forse tutta questa polemica è inutile, perché raramente nei licei, per ragioni di tempo, si studiano gli ultimi decenni. E se la soluzione fosse proprio questa? Evitare gli ultimi trent'anni, che suscitano troppe polemiche? «Idea infantile», obietta Revelli, «perché per qualcuno anche Menenio Agrippa era un comunista...»
Mauro Suttora
Venti deputati Pdl chiedono una commissione d'inchiesta per alcuni passaggi "cruciali". Gli storici insorgono. Ma qualcuno ammette: «Il problema esiste». Giudicate voi
di Mauro Suttora
Oggi, 20 aprile 2011
Palmiro Togliatti? «Uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali». Ma nessun riferimento al fatto che il segretario del Pci fino al 1964 fosse stato, negli anni Trenta a Mosca, uno dei principali collaboratori del dittatore Josip Stalin nell'Internazionale comunista, durante il peggior periodo delle purghe e dei gulag.
Enrico Berlinguer? «Uomo di profonda onestà intellettuale e morale, misurato e alieno alla retorica». Il che è certamente vero. Ma, anche qui, sottacendo, per esempio, la mancata condanna, da parte del partito comunista di cui era dirigente, delle invasioni sovietiche in Cecoslovacchia o Afghanistan. Oppure la critica alla dittatura dell'Urss che però non divenne mai rottura.
E i gulag, i famigerati campi di lavoro comunisti? «La loro ignominia non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto, o peggio dalla conversione di Stalin all'imperialismo». Fino ad arrivare a Rosy Bindi, lodata perché vent'anni fa «combatté gli inquisiti» di Tangentopoli.
Alcune definizioni contenute nei manuali di storia per l'ultimo anno delle scuole superiori hanno fatto arrabbiare la deputata Gabriella Carlucci e una ventina di suoi colleghi del Pdl, che hanno chiesto l'istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta sull'imparzialità dei libri di testo scolastici.
Ecco il passo «incriminato» del libro Camera-Fabietti sul 1994: «Berlusconi, nonostante le ricorrenti promesse di vendite, cessioni e altri provvedimenti radicali, non sembrava ansioso di superare l' anomalia senza precedenti di un capo del governo che era grande imprenditore, monopolista o quasi delle reti tv private: un'anomalia denunciata dalla Lega e dalle opposizioni, e ammessa dallo stesso Berlusconi. L'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi di Berlusconi (...)»
Un altro libro messo sotto accusa dalla Carlucci è l'Ortoleva-Revelli. Qui appare un giudizio positivo sull'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, detestato dai berlusconiani perché nel 1995 non concesse il voto anticipato, aprendo la strada al governo Dini e alla vittoria di Prodi del '96. Ancor oggi il 92enne Scalfaro è più antiberlusconiano che mai, e non lo nasconde.
«In Italia negli ultimi cinquant'anni lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico», sostiene la Carlucci. «Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell' ideologia comunista i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali, anzi si rafforzano. E si scagliano non solo contro gli attori della storia che hanno combattuto l'avanzata del comunismo, ma anche contro la parte politica che oggi è antagonista della sinistra».
Nel mirino della Carlucci sono finiti in particolare due libri: il Camera-Fabietti (edizioni Zanichelli) e La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra della casa editrice Le Monnier che, per ironia della sorte, appartiene al gruppo Mondadori, di proprietà di Silvio Berlusconi.
Il quale Berlusconi viene così maltrattato a pagina 1.682 del Camera-Fabietti: «Nel 1994 l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal governo alle pensioni, alla sanità e alla previdenza sociale».
«Ognuno ha diritto ad avere il suo punto di vista e anche la sua faziosità», dice la Carlucci, «può scrivere articoli o libri, poi li comprerà chi vuole. Ma si può essere così di parte in libri di testo che migliaia di studenti devono, per forza, comprare e studiare? Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano e anche fazioso, spesso superficiale?».
«Il vero problema è che non si discute più di storia nella società, per colpa soprattutto della tv», risponde Pino Polistena, professore di storia prima di diventare preside del liceo civico Manzoni di Milano. «Ma la tv non è il solo imputato: sociologi come Norbert Elias ci spiegano che è la modernità stessa a privilegiare il presente. Per questo la storia è in sofferenza, non per i travisamenti dei libri di testo. È vero, alcuni di essi sfiorano il dogmatismo storico. Ma anche se a questi testi si associano docenti altrettanto dogmatici, non esiste un vero problema didattico. Perché ovunque si discuta di storia si determina un effetto positivo, per il fatto stesso di discuterne».
«La ex soubrette Gabriella Carlucci propone addirittura una commissione d'inchiesta parlamentare per purgare i libri di storia?», sbotta Pasquale Chessa, già vicedirettore di Panorama (settimanale della Mondadori) e storico lui stesso. «Nemmeno Orwell aveva pensato una cosa del genere. Verrebbe voglia di interrogare in storia la Carlucci. Ma da che pulpito parla, da quale cattedra? La politica stia lontana dalla cultura. La signora studi la storia, e non si permetta di interferire con il libero dibattito delle idee».
Ma lodare Togliatti senza accennare ai suoi demeriti non è scorretto?
«Incompletezze e imprecisioni non si possono punire per legge. Nemmeno sotto l'Inquisizione il giudizio positivo su una persona era considerato un insulto alla storia. Per fortuna , dico io, ci sono queste frasi che possono essere messe a confronto con altri giudizi. Io per primo da trent'anni, come giornalista, m i sono sempre battuto contro il conformismo storico di sinistra. Per esempio evidenziando i famosi strafalcioni filosovietici dell'enciclopedia Garzantina negli anni Ottanta, che per questo avevamo soprannominato "Garzantova". Ed è ovvio che Tranfaglia aveva torto quando accusò De Felice per i suoi libri sul fascismo considerati "revisionisti". Ma, ripeto: lontano dalla politica».
Marco Revelli, docente universitario, è uno degli autori presi di mira dalla Carlucci. Nel suo L'età contemporanea, scritto con Peppino Ortoleva, c'è il giudizio troppo laudatorio espresso su Oscar Luigi Scalfaro che abbiamo evidenziato a pagina 49. «Non ho creduto ai miei occhi quando ho letto la critica al passo su Scalfaro», dice a Oggi. «Fra tutti i personaggi possibili, sono andati a pescare un giudizio positivo su un democristiano, non su un comunista. Attenzione: un giudizio, non un fatto. E, come insegna Benedetto Croce - un liberale, non un comunista - le interpretazioni sono necessariamente libere».
Ma non ci vorrebbe più equilibrio, professore?
«Certo, però solo un ministro come la Gelmini può dire che i libri di storia devono essere "oggettivi". Nessun testo può offrire l'unica verità. Io esorto sempre i miei studenti a ricercare le verità, al plurale, leggendo decine di testi. Il problema vero, in realtà, è Berlusconi. È lui la questione del contendere. Siamo arrivati al punto che non solo non si possono criticare i suoi vizi, ma qualcuno vorrebbe vietare perfino le lodi alle virtù dei suoi avversari. Certi berlusconiani hanno in testa solo il bunga-bunga, e misurano tutto con metro da tifosi. Cercano di guadagnare punti agli occhi del loro capo, o meglio del loro Dio. Perfino il ministro fascista Gentile aveva maggiore tolleranza nei confronti delle eterodossie».
Ma perché per gli storici è così difficile equiparare la svastica alla falce e martello, fra le disgrazie del secolo scorso?
«Esiste una robusta corrente storiografica che lo fa, accomunando fascismi e comunismi sotto la categoria del totalitarismo. È un dibattito molto interessante. Ma, appunto, è un dibattito. Che non può essere deciso da un decreto ministeriale...»
«Sì, molti manuali sono faziosi», ammette Lorenzo Strik Lievers, docente di storia all'università di Milano. «Ma il peggio è che sono noiosi, e così allontanano gli studenti».
Alcuni libri sono scritti in sociologhese, più che in italiano...
«Come strumenti didattici sono in gran parte deplorevoli», dice Strik Lievers. «Il risultato è che quasi tutti gli studenti che arrivano all'università di storia sanno poco. Il problema riguarda soprattutto i docenti. Sono loro a scegliere i libri di testo più o meno faziosi. E non riescono ad appassionare alla materia i propri studenti. Non fanno nemmeno sospettar loro che sulla storia ci possa essere dibattito. Nessun libro di testo ha al proprio centro il concetto della discutibilità della storia. Quindi, mentre trent'anni fa gli studenti politicizzati cercavano nella storia conferme alle proprie idee, oggi che l' interesse per la politica è quasi nullo anche lo studio della storia ne soffre».
Ma forse tutta questa polemica è inutile, perché raramente nei licei, per ragioni di tempo, si studiano gli ultimi decenni. E se la soluzione fosse proprio questa? Evitare gli ultimi trent'anni, che suscitano troppe polemiche? «Idea infantile», obietta Revelli, «perché per qualcuno anche Menenio Agrippa era un comunista...»
Mauro Suttora
Monday, April 25, 2011
Wednesday, April 20, 2011
parla il Mandela libico
INTERVISTA ESCLUSIVA A AHMED ZUBAIR AL SENUSSI, 31 ANNI IN CARCERE SOTTO GHEDDAFI. OGGI È MINISTRO DELLA NUOVA LIBIA LIBERA
dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora
Oggi, 13 aprile 2011
«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».
L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».
È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.
«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».
Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.
Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».
Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».
L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».
Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».
«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».
Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.
«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».
Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».
Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.
Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».
E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».
Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».
Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».
Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».
Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».
Mauro Suttora
dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora
Oggi, 13 aprile 2011
«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».
L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».
È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.
«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».
Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.
Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».
Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».
L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».
Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».
«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».
Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.
«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».
Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».
Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.
Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».
E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».
Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».
Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».
Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».
Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».
Mauro Suttora
Tuesday, April 19, 2011
Feltri, ora fai il pacifista?
BISOGNA AIUTARE GLI INSORTI LIBICI
editoriale su Libero, 19 aprile 2011
di Mauro Suttora
Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.
Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.
Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).
Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».
Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.
Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).
Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.
Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.
Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.
«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.
Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.
Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.
Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.
I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.
Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista
Mauro Suttora
editoriale su Libero, 19 aprile 2011
di Mauro Suttora
Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.
Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.
Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).
Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».
Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.
Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).
Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.
Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.
Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.
«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.
Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.
Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.
Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.
I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.
Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista
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Thursday, April 14, 2011
Wednesday, April 13, 2011
Viaggio nella Libia libera
DAL CAIRO A BENGASI, 1.400 KM DI AUTO NEL DESERTO
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2011
Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.
«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.
In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.
Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».
Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.
Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.
La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?
Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.
Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.
Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.
Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.
La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?
Mauro Suttora
dal nostro inviato Mauro Suttora
Oggi, 3 aprile 2011
Ci vogliono 19 ore per arrivare dall'Italia nella capitale della Libia libera, Bengasi. Solo tre in volo fino al Cairo, ma poi sedici ore di auto nel deserto per coprire 1.400 chilometri. L'aeroporto della seconda città libica, infatti, è chiuso: la «no fly zone» vale per tutti gli aerei, non solo quelli di Muammar Gheddafi.
«Welcome in the new Libia!», sorride Hamdi Al Agaili, l'imam 36enne di Derna con cui passo la frontiera egiziana. Mi ha affidato a lui Mohamed Al Senussi, nipote dell'ultimo re libico Idris, quello spodestato da Gheddafi con il golpe del 1969. Chissà perchè immaginavo gli imam tutti piuttosto arcigni, Hamdi invece è ridanciano.
In Egitto ha piovuto, poi verso El Alamein c'è stata una tempesta di sabbia. Infine il sole. Alla dogana di Sallum troviamo ancora centinaia di uomini, donne e bimbi di colore accampati, in attesa di tornare nei loro Paesi. Li assiste l'Unicef. Le guardie egiziane non offrono all'imam alcuna precedenza, nonostante la tunica da religioso: facciamo anche noi una lunga fila democratica insieme a tutti, per i timbri d'uscita.
Poi cambiamo taxi, perché l'autista egiziano non può entrare in Libia. Lo chauffeur libico è Khamis Snainy, 31 anni. Sorride pure lui, entusiasta perché «stiamo cacciando Gheddafi». Mi accorgo che il fondo della strada in Libia è migliore rispetto all'Egitto, dove perfino sull'autostrada Cairo-Alessandria (la più importante del Paese, quattro corsie) si sobbalza continuamente come sulla Salerno-Reggio Calabria. Khamis mi risponde: «Merito di voi italiani. Il ponte su cui stiamo passando è stato costruito prima della guerra. Ci avete lasciato tante cose buone, Gheddafi nessuna».
Dopo cento chilometri arriviamo nella sua città, Tobruk. Sono già le sei, sta per far buio: ci propone di passare la notte in albergo lì, e di riprendere il viaggio l'indomani. Insisto per continuare verso Bengasi, non sono stanco per le nove ore di auto. «Allora scusami, passo un attimo da casa mia, prendo un golf e mi metto le calze», dice Khamis che è in ciabatte.
Raggiungiamo un tetro quartiere di casette in cemento grigio non finite, non pitturate, con i tondini di ferro che spuntano sui tetti. Le strade sono sporche e non asfaltate. Nella polvere pascolano capre e galline fra la spazzatura. Una scena da Terzo mondo, eppure la Libia grazie al petrolio è un Paese ricchissimo. «Ma Gheddafi tiene tutto per sè, oppure spende per la sua Tripoli», spiega Khamis, «qui all'Est non viene nulla. Anche per questo abbiamo fatto la rivoluzione del 17 febbraio. Io aspetto da due anni il passaporto, non me lo danno. Per tutte le cose manca sempre qualche timbro». Leghismo in salsa libica, ma qui la divisione è fra Est e Ovest.
La notizia dei 33 miliardi di dollari di dollari di beni libici (quindi personali del dittatore Gheddafi, che controlla tutto) bloccati nei soli Stati Uniti ha esacerbato gli animi: «Vogliamo arrivare a Tripoli e impiccarlo», gridano gli «shebab», i giovani come Khamis che da un giorno all'altro si sono ribellati, sull'esempio dei loro coetanei tunisini ed egiziani. Nei paesi arabi il 70 per cento degli abitanti ha meno di trent'anni. «Adesso è il turno di Siria e Yemen», ci dice Senussi, «ma non solo: alla fine vedrete che i ragazzi faranno cadere anche il regime cinese». La rivoluzione mondiale non violenta dei giovani?
Per ora, bisogna ancora cacciare Gheddafi. Non è facile. Si fa buio, Khamis ascolta la radio. Tredici soldati democratici uccisi dal «fuoco amico» degli aerei Nato. Vedendoli arrivare, per l'entusiasmo gli sciagurati hanno sparato in aria. E i piloti li hanno scambiati per gheddafiani.
Sono le nove, la strada per Bengasi è interrotta ogni dieci chilometri dai posti di blocco. A uno carichiamo un signore col figlio di sette anni cui si è rotta l'auto. C'è un clima di fratellanza febbrile, tutti si salutano incitandosi a vicenda e si aiutano. Alle dieci, una scena surreale: superiamo quattro enormi bisarche che nella notte trasportano decine di land cruiser Toyota: i pick up su cui vengono montate le mitragliatrici. «Ah, sì, alla frontiera mi hanno detto che ce li ha regalati il Qatar», spiega Khamis. È l’unico stato che finora ha riconosciuto il governo provvisorio di Bengasi, oltre alla Francia. Gheddafi odia il Qatar, anche perché lì sta la tv Al Jazeera che fa una propaganda sfrontata per i ribelli.
Alle undici ci fermiamo nel bar di un benzinaio a mangiare qualcosa. Miracolo: la tv è sintonizzata sul derby Milan-Inter. Qui l'Inter la chiamano «Inter Milan», e per non fare confusione il Milan è «AC Milan». Infine, le luci di Bengasi. In teoria è una metropoli, ma all'indomani visitandola con la luce mi dà l'impressione di una Crotone molto più slabbrata. In centro ci sono ancora i palazzetti in stile italiano anni '30, mai ristrutturati. Polvere, cattivi odori ed erbacce ovunque. Tutto sembra rotto. L’albergo dove stanno i giornalisti in teoria è a quattro stelle, in realtà a una. Anzi, un ostello. O una stalla. Possibile che la seconda città libica non avesse un hotel decente? Povera Bengasi, come l'aveva maltrattata Gheddafi.
Nell’ex palazzo di giustizia, in parte bruciato dopo l’assalto, i nuovi dirigenti democratici hanno avuto l’intelligente idea di installare l’ufficio stampa. Così tutto il mondo vede le stanze dove si torturava. Due ragazzine con il velo islamico prendono le credenziali. Sul muro esterno sono appese le tristi liste e foto di morti e feriti.
La guerra continua. Il fronte si è ormai stabilizzato a 200 chilometri da qui. Gheddafi è riuscito a riprendersi per la seconda volta il terminale petrolifero di Ras Lanuf. Ma alla Cirenaica resta la metà dei pozzi, con altri terminali. Se lo stallo continua, la Libia rimarrà divisa in due. Come la Germania prima del 1989. In realtà lo è sempre stata: Cirenaica e Tripolitania furono unificate solo dagli italiani, dopo averle strappate ai turchi esattamente cent’anni fa. Coincidenza: una nave turca ha appena attraccato a Bengasi e Misurata per portar via i feriti più gravi. E si parla dei soldati di Istanbul come forza di interposizione Onu dopo il cessate il fuoco. Torna l’impero ottomano, cacciato nel 1911?
Mauro Suttora
Wednesday, April 06, 2011
Santanchè 2: il finto master
ALTRO CHE «POSTUNIVERSITARIO»: PER IL CORSO FREQUENTATO DALLA SANTANCHÈ ALLA BOCCONI BASTAVA LA LICENZA MEDIA. E DURAVA 24 GIORNI DI LEZIONE, NON UN ANNO.
«NON PRENDIAMOCI IN GIRO», DICE IL DIRETTORE DEI MASTER BOCCONI PER 12 ANNI, «PUO' MILLANTARE QUEL CHE VUOLE, MA OFFENDE CHI IL MASTER L'HA CONSEGUITO DAVVERO, CON TANTI SACRIFICI»
di Mauro Suttora e Lorenzo Franculli
Oggi, 30 marzo 2011
Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi.
La settimana scorsa Oggi ha svelato una bugia che appare sul sito ufficiale del governo italiano: nella prima riga del proprio curriculum la Santanchè afferma di avere conseguito un master alla Sda (Scuola di direzione aziendale) Bocconi. La stessa università milanese ci aveva confermato che la sottosegretaria non l’ha mai ottenuto.
Niente diploma sul sito
C’era quindi poco da smentire. Anche perchè avevamo scritto che la signora aveva probabilmente «promosso» a master qualcuno dei tanti altri corsi della Bocconi da lei frequentato.
Ma la Santanchè, invece di rimediare togliendo dal sito governativo il riferimento al master inesistente, si è difesa attaccando: «Basta sapere un minimo di inglese, master vuol dire corso di specializzazione post laurea». Che equivale a confondere una Ferrari (il master Bocconi è considerato uno dei migliori d’Europa) con una utilitaria.
La sottosegretaria aveva anche promesso di pubblicare subito sul suo sito internet il proprio attestato di frequenza al corso. Stiamo ancora aspettando.
Mario Mazzoleni, 54 anni, ha diretto il Master in business administration (Mba) alla Bocconi per ben dodici anni, dal 1992 al 2004. Oggi insegna Management alle università di Brescia e Bologna. Ha dichiarato alla Zanzara, trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio24: «Non si può chiamare master un corso di poche decine di giorni come il progetto Gemini, quello frequentato dalla Santanchè. Un master è tutt’altra cosa. Ha bisogno di certificazioni. Su 500 domande di ammissione ne entravano 140, e di questi non tutti arrivavano fino in fondo».
Il professor Mazzoleni ribadisce a Oggi: «Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro».
Come si può definire allora la qualifica ottenuta dalla Santanchè?
«Non prendiamoci in giro. Il progetto Gemini non era un master e nemmeno un corso di specializzazione; quest’ultimo infatti deve essere inserito ufficialmente nell’ambito del regolamento dell’università, ed è rivolto a persone come manager con criteri di selezione molto accurati. Il progetto Gemini invece era indirizzato a giovani imprenditori [l’allora trentenne Santanchè aveva fondato una sua società di pubbliche relazioni, ndr] che volevano imparare a gestire la propria azienda. Un’iniziativa seria, in cui si faceva formazione su contenuti aziendali. I partecipanti svolgevano progetti sul campo, normalmente nelle proprie aziende. Ma non c’erano esami da sostenere, e alla fine veniva rilasciato solo un attestato di partecipazione. Insomma, ottenere un master è tutt’altra questione. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei “ex ragazzi” Mba sono infuriati. E poi la Santanchè si difende male. Bastava dire: “Scusate, mi sono sbagliata. Il mio non è un master ma un corso”. E tutto sarebbe finito lì».
Anche perché dal 1997 i master sono regolamentati dalla legge, e quindi non c’è più alcuna possibilità di equivoco.
Francesco Boccia, deputato Pd, insegna Economia aziendale all’università di Castellanza (Varese). Ha ottenuto il master Mba in Bocconi nel 1993-94, poi un PhD alla London School of Economics. «Per stile, non mi occupo degli affari degli altri», premette, «ma nella nostra posizione di uomini politici, e a maggior ragione per chi rappresenta il governo, serve trasparenza. L’Mba Bocconi è il master più antico in Italia, esiste da 40 anni con tutte le certificazioni internazionali e rientra nei ranking delle principali università del mondo. I master sono corsi di specializzazione post-graduate (post-laurea) che hanno un titolo specifico, riconosciuti da un sistema. Il mio master costava venti milioni di lire [quello della Santanchè sei milioni, ndr] per sedici mesi, con obbligo di superamento degli esami. Chi stava sotto la soglia di 2,9 su 5 veniva mandato via. La Santanchè non ha frequentato un master. Il suo era un serio corso di formazione, ma la Sda Bocconi ne organizza più di cento. Se poi lei pensa che un corso di perfezionamento sia un master, commette un errore di valutazione un po’ grossolano».
“Ha preferito apparire“
Pietro Mastranzo, ex deputato, consigliere comunale Pdl a Napoli, ha frequentato un corso di General management in sanità alla Bocconi, con esami selettivi. Lui però non ha scritto sul curriculum «master», bensì, correttamente, diploma. Ci dice: «In politica bisogna essere poco appariscenti. Bisogna fare, più che vantare un curriculum. La Santanchè forse ha preferito apparire… La Bocconi è un’università prestigiosa, ho ottenuto un diploma di cui vado fiero. Ma frequentare un suo corso non dà il permesso di dire che si ha un master».
Il solo mistero che rimane è perché l’ufficio stampa Bocconi, dopo l'esplosione del caso, abbia voluto «rettificare» le informazioni che esso stesso ci ha dato (senza peraltro rettificare nei contenuti neanche una virgola). Eppure i maggiori danneggiati sono proprio la Bocconi e il suo buon nome.
Lorenzo Franculli e Mauro Suttora
«NON PRENDIAMOCI IN GIRO», DICE IL DIRETTORE DEI MASTER BOCCONI PER 12 ANNI, «PUO' MILLANTARE QUEL CHE VUOLE, MA OFFENDE CHI IL MASTER L'HA CONSEGUITO DAVVERO, CON TANTI SACRIFICI»
di Mauro Suttora e Lorenzo Franculli
Oggi, 30 marzo 2011
Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi.
La settimana scorsa Oggi ha svelato una bugia che appare sul sito ufficiale del governo italiano: nella prima riga del proprio curriculum la Santanchè afferma di avere conseguito un master alla Sda (Scuola di direzione aziendale) Bocconi. La stessa università milanese ci aveva confermato che la sottosegretaria non l’ha mai ottenuto.
Niente diploma sul sito
C’era quindi poco da smentire. Anche perchè avevamo scritto che la signora aveva probabilmente «promosso» a master qualcuno dei tanti altri corsi della Bocconi da lei frequentato.
Ma la Santanchè, invece di rimediare togliendo dal sito governativo il riferimento al master inesistente, si è difesa attaccando: «Basta sapere un minimo di inglese, master vuol dire corso di specializzazione post laurea». Che equivale a confondere una Ferrari (il master Bocconi è considerato uno dei migliori d’Europa) con una utilitaria.
La sottosegretaria aveva anche promesso di pubblicare subito sul suo sito internet il proprio attestato di frequenza al corso. Stiamo ancora aspettando.
Mario Mazzoleni, 54 anni, ha diretto il Master in business administration (Mba) alla Bocconi per ben dodici anni, dal 1992 al 2004. Oggi insegna Management alle università di Brescia e Bologna. Ha dichiarato alla Zanzara, trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio24: «Non si può chiamare master un corso di poche decine di giorni come il progetto Gemini, quello frequentato dalla Santanchè. Un master è tutt’altra cosa. Ha bisogno di certificazioni. Su 500 domande di ammissione ne entravano 140, e di questi non tutti arrivavano fino in fondo».
Il professor Mazzoleni ribadisce a Oggi: «Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro».
Come si può definire allora la qualifica ottenuta dalla Santanchè?
«Non prendiamoci in giro. Il progetto Gemini non era un master e nemmeno un corso di specializzazione; quest’ultimo infatti deve essere inserito ufficialmente nell’ambito del regolamento dell’università, ed è rivolto a persone come manager con criteri di selezione molto accurati. Il progetto Gemini invece era indirizzato a giovani imprenditori [l’allora trentenne Santanchè aveva fondato una sua società di pubbliche relazioni, ndr] che volevano imparare a gestire la propria azienda. Un’iniziativa seria, in cui si faceva formazione su contenuti aziendali. I partecipanti svolgevano progetti sul campo, normalmente nelle proprie aziende. Ma non c’erano esami da sostenere, e alla fine veniva rilasciato solo un attestato di partecipazione. Insomma, ottenere un master è tutt’altra questione. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei “ex ragazzi” Mba sono infuriati. E poi la Santanchè si difende male. Bastava dire: “Scusate, mi sono sbagliata. Il mio non è un master ma un corso”. E tutto sarebbe finito lì».
Anche perché dal 1997 i master sono regolamentati dalla legge, e quindi non c’è più alcuna possibilità di equivoco.
Francesco Boccia, deputato Pd, insegna Economia aziendale all’università di Castellanza (Varese). Ha ottenuto il master Mba in Bocconi nel 1993-94, poi un PhD alla London School of Economics. «Per stile, non mi occupo degli affari degli altri», premette, «ma nella nostra posizione di uomini politici, e a maggior ragione per chi rappresenta il governo, serve trasparenza. L’Mba Bocconi è il master più antico in Italia, esiste da 40 anni con tutte le certificazioni internazionali e rientra nei ranking delle principali università del mondo. I master sono corsi di specializzazione post-graduate (post-laurea) che hanno un titolo specifico, riconosciuti da un sistema. Il mio master costava venti milioni di lire [quello della Santanchè sei milioni, ndr] per sedici mesi, con obbligo di superamento degli esami. Chi stava sotto la soglia di 2,9 su 5 veniva mandato via. La Santanchè non ha frequentato un master. Il suo era un serio corso di formazione, ma la Sda Bocconi ne organizza più di cento. Se poi lei pensa che un corso di perfezionamento sia un master, commette un errore di valutazione un po’ grossolano».
“Ha preferito apparire“
Pietro Mastranzo, ex deputato, consigliere comunale Pdl a Napoli, ha frequentato un corso di General management in sanità alla Bocconi, con esami selettivi. Lui però non ha scritto sul curriculum «master», bensì, correttamente, diploma. Ci dice: «In politica bisogna essere poco appariscenti. Bisogna fare, più che vantare un curriculum. La Santanchè forse ha preferito apparire… La Bocconi è un’università prestigiosa, ho ottenuto un diploma di cui vado fiero. Ma frequentare un suo corso non dà il permesso di dire che si ha un master».
Il solo mistero che rimane è perché l’ufficio stampa Bocconi, dopo l'esplosione del caso, abbia voluto «rettificare» le informazioni che esso stesso ci ha dato (senza peraltro rettificare nei contenuti neanche una virgola). Eppure i maggiori danneggiati sono proprio la Bocconi e il suo buon nome.
Lorenzo Franculli e Mauro Suttora
Tuesday, March 29, 2011
Santanché: non era un master Bocconi
(ANSA) - ROMA, 29 MARZO 2011
"Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi".
Il settimanale Oggi torna sulla vicenda che il settimanale definisce del "falso Master Sda Bocconi" che la Santanchè afferma di avere conseguito nel proprio curriculum sul sito internet ufficiale del governo italiano. L'università milanese ha già confermato che la sottosegretaria non l'ha mai ottenuto, afferma il settimanale anticipando il contenuto del suo nuovo articolo che riporta le dichiarazioni del Professor Mario Mazzoleni che per dodici anni (fino al 2004) ha diretto il programma dei master Bocconi:
"Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici", ha dichiarato a 'Oggi' il professore. "Non prendiamoci in giro. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei ex studenti Mba (Master Business Administration) sono infuriati. Il progetto Gemini frequentato dalla Santanchè era un'iniziativa seria, indirizzata a giovani imprenditori. Ma non era nemmeno un corso di specializzazione", conclude.
"Una settimana fa, conclude il settimanale, la sottosegretaria aveva promesso di mettere subito on line sul proprio sito l'attestato di frequenza al suo corso. Non l'ha fatto. E sul sito del governo appare ancora l'affermazione: 'Consegue un master alla Sda Bocconì". (ANSA).
"Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi".
Il settimanale Oggi torna sulla vicenda che il settimanale definisce del "falso Master Sda Bocconi" che la Santanchè afferma di avere conseguito nel proprio curriculum sul sito internet ufficiale del governo italiano. L'università milanese ha già confermato che la sottosegretaria non l'ha mai ottenuto, afferma il settimanale anticipando il contenuto del suo nuovo articolo che riporta le dichiarazioni del Professor Mario Mazzoleni che per dodici anni (fino al 2004) ha diretto il programma dei master Bocconi:
"Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici", ha dichiarato a 'Oggi' il professore. "Non prendiamoci in giro. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei ex studenti Mba (Master Business Administration) sono infuriati. Il progetto Gemini frequentato dalla Santanchè era un'iniziativa seria, indirizzata a giovani imprenditori. Ma non era nemmeno un corso di specializzazione", conclude.
"Una settimana fa, conclude il settimanale, la sottosegretaria aveva promesso di mettere subito on line sul proprio sito l'attestato di frequenza al suo corso. Non l'ha fatto. E sul sito del governo appare ancora l'affermazione: 'Consegue un master alla Sda Bocconì". (ANSA).
Wednesday, March 23, 2011
Bocconiana di panna
Daniela Santanchè colta in castagna
La sottosegretaria, sul sito del governo, dice di avere un master dell'università Bocconi. Falso. Si dimetterà, come accade in Germania?
di Mauro Suttora
Oggi, 23 marzo 2011
All'ufficio stampa dell'università sono indulgenti: «Cosa vuole, c'è un sacco di gente che si spaccia per bocconiano. Ci siamo abituati». Questa volta, però, la bugia non è stata detta da una qualunque. E, soprattutto, non è stata scritta - nero su bianco - in un posto qualunque.
Non sarà reato di falso in atto pubblico, perché il sito Internet del governo italiano non ha questo status. Ma Daniela Santanchè l'ha egualmente combinata grossa. Nominata un anno fa sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’Attuazione (sotto il ministro Gianfranco Rotondi), l’estrosa signora così esordisce nel lunghissimo curriculum che ha fatto inserire sul sito del governo: «Laureata in Scienze politiche, consegue un master alla SDA Bocconi».
Ma alla Scuola di Direzione Aziendale del prestigioso ateneo milanese di lei negli archivi non c’è traccia: «Abbiamo verificato, e dalla nostra banca dati alumni [gli ex studenti, ndr] non risulta abbia frequentato un nostro master o mba. Non possiamo escludere, ma non abbiamo modo di verificare, che abbia frequentato un corso breve».
Sì, perché la SDA Bocconi organizza in continuazione seminari di aggiornamento per manager che durano uno o più giornate. E di queste decine di migliaia di persone non conserva traccia. Ma sono corsi che non possono essere certo confusi con un master.
IL RITORNO ALL’OVILE
La Santanchè si è laureata in Scienze politiche nel 1987 all’università di Torino con una tesi sull’«Evoluzione della figura del manager industriale nelle nuove tecniche imprenditoriali». Negli studi ha conservato il suo cognome di famiglia, Garnero.
A soli 21 anni ha sposato il chirurgo estetico Paolo Santanchè, che lascia nel ‘95 per il nuovo compagno Canio Mazzaro, imprenditore farmaceutico di Potenza. Poi è stato Mazzaro a lasciarla per Rita Rusic, ex di Vittorio Cecchi Gori.
Nel ‘99 la scoperta della politica: Ignazio La Russa la fa eleggere consigliere provinciale a Milano per An. Tre anni fa si candida premier per la Destra di Francesco Storace, in forte polemica con Silvio Berlusconi. Infine il ritorno all’ovile.
In coda ai curriculum di tutti i sottosegretari (e ministri) pubblicati su www.governo.it appare un «disclaimer»: «Biografia fornita dallo staff del sottosegretario». Un’educata presa di distanza. Come dire: se loro scrivono inesattezze, il governo non c’entra.
Pochi giorni fa l’astro nascente della politica tedesca, il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, ha dovuto dimettersi perché si è scoperto che aveva copiato parti della tesi di dottorato.
Anche altri politici, di recente, hanno lasciato il posto per peccati che in Italia sono considerati veniali: la ministra della Cultura svedese Cecilia Chilo perché pagava la baby sitter in nero, mentre non pagava il canone; la francese Michèle Alliot-Marie perché era stata ospite in vacanza del presidente tunisino Ben Ali. Chissà se adesso la signora Santanchè mollerà la sua poltrona.
Mauro Suttora
La sottosegretaria, sul sito del governo, dice di avere un master dell'università Bocconi. Falso. Si dimetterà, come accade in Germania?
di Mauro Suttora
Oggi, 23 marzo 2011
All'ufficio stampa dell'università sono indulgenti: «Cosa vuole, c'è un sacco di gente che si spaccia per bocconiano. Ci siamo abituati». Questa volta, però, la bugia non è stata detta da una qualunque. E, soprattutto, non è stata scritta - nero su bianco - in un posto qualunque.
Non sarà reato di falso in atto pubblico, perché il sito Internet del governo italiano non ha questo status. Ma Daniela Santanchè l'ha egualmente combinata grossa. Nominata un anno fa sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’Attuazione (sotto il ministro Gianfranco Rotondi), l’estrosa signora così esordisce nel lunghissimo curriculum che ha fatto inserire sul sito del governo: «Laureata in Scienze politiche, consegue un master alla SDA Bocconi».
Ma alla Scuola di Direzione Aziendale del prestigioso ateneo milanese di lei negli archivi non c’è traccia: «Abbiamo verificato, e dalla nostra banca dati alumni [gli ex studenti, ndr] non risulta abbia frequentato un nostro master o mba. Non possiamo escludere, ma non abbiamo modo di verificare, che abbia frequentato un corso breve».
Sì, perché la SDA Bocconi organizza in continuazione seminari di aggiornamento per manager che durano uno o più giornate. E di queste decine di migliaia di persone non conserva traccia. Ma sono corsi che non possono essere certo confusi con un master.
IL RITORNO ALL’OVILE
La Santanchè si è laureata in Scienze politiche nel 1987 all’università di Torino con una tesi sull’«Evoluzione della figura del manager industriale nelle nuove tecniche imprenditoriali». Negli studi ha conservato il suo cognome di famiglia, Garnero.
A soli 21 anni ha sposato il chirurgo estetico Paolo Santanchè, che lascia nel ‘95 per il nuovo compagno Canio Mazzaro, imprenditore farmaceutico di Potenza. Poi è stato Mazzaro a lasciarla per Rita Rusic, ex di Vittorio Cecchi Gori.
Nel ‘99 la scoperta della politica: Ignazio La Russa la fa eleggere consigliere provinciale a Milano per An. Tre anni fa si candida premier per la Destra di Francesco Storace, in forte polemica con Silvio Berlusconi. Infine il ritorno all’ovile.
In coda ai curriculum di tutti i sottosegretari (e ministri) pubblicati su www.governo.it appare un «disclaimer»: «Biografia fornita dallo staff del sottosegretario». Un’educata presa di distanza. Come dire: se loro scrivono inesattezze, il governo non c’entra.
Pochi giorni fa l’astro nascente della politica tedesca, il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, ha dovuto dimettersi perché si è scoperto che aveva copiato parti della tesi di dottorato.
Anche altri politici, di recente, hanno lasciato il posto per peccati che in Italia sono considerati veniali: la ministra della Cultura svedese Cecilia Chilo perché pagava la baby sitter in nero, mentre non pagava il canone; la francese Michèle Alliot-Marie perché era stata ospite in vacanza del presidente tunisino Ben Ali. Chissà se adesso la signora Santanchè mollerà la sua poltrona.
Mauro Suttora
Riforma della giustizia
Domande di Oggi
23 marzo 2011
risponde Mauro Suttora
1) Davvero Berlusconi vuole leggi che lo favoriscano?
La riforma costituzionale presentata dal governo la scorsa settimana mette tutti d' accordo soltanto su una cosa: avrà una portata «epocale». Infatti, mentre il centrodestra è convinto che servirà a limita re lo «strapotere» di una «casta», quella dei magistrati, il centrosinistra ritiene che si tratti di una ripicca del premier Silvio Berlusconi per i continui processi c he subi sce da quando è entrato in politica 17 anni fa. Per cambiare la Costituzione ci vogliono tempi lunghissimi, con doppia votazione di ogni ramo del Parlamento a mesi di distanza. E se non viene raggiunta la maggioranza dei due terzi, ci sarà un referendum. Quindi per questa riforma, se mai andrà in porto, ci vorranno anni.
Nelle foto qui sopra il ministro Angelino Alfano mostra una statistica secondo cui il numero dei processi civili è per la prima volta in diminuzione, grazie alle misure «acceleratrici» attuate dal gover no. Ment re Berlusconi fa vedere che d' ora in poi il giudice penale (in rosso) sarà imparziale fra accusa e difesa, mentre adesso «fa comunella» con l' accusa (il pubblico ministero, in nero). «Potremmo anche discutere di riformare la giustizia», dice Pier Luigi Bersani, «ma non con un premier imputato in quattro processi». La distanza quindi è grande.
2) È vero che già Gelli propose di separare le carriere?
Sì. Il cosiddetto «Piano di rinascita democratica» sequestrato nel 1981 fra le carte della loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli prevedeva la separazione fra magistrati dell' accusa (pubblici ministeri) e magistrati giudicanti.
Oltre alla responsabilità civile dei giudici per i propri errori. Il programma della P2, che alla fine degli Anni 70 cercò di attuare un colpo di Stato lento e incruento, arruolando adepti fra i dirigenti di forze armate, politica e giornali, era però molto vasto e dettagliato. Conteneva anche proposte ragionevoli per modernizzare il Paese, oltre a quelle per instaurare un governo più autoritario. Durante gli Anni 80, per esempio, Bettino Craxi fu bollato come «decisionista» perché proponeva il presidenzialismo. Ma presidenzialisti sono molti Stati di antica democrazia, come Francia e Usa.
Trent'anni dopo, la coincidenza fra alcune proposte della P2 e del governo Berlusconi viene ancora utilizzata come argomento critico da settori della sinistra. Anche perché Berlusconi stesso aveva fatto domanda di ammissione alla loggia. E piduisti furono alcuni attuali dirigenti del Pdl, come Fabrizio Cicchitto.
3) Perché i magistrati si sentono puniti dalle nuove regole costituzionali?
È ovvio che la responsabilità civile dei giudici venga avversata dall' Anm (Associazione nazionale magistrati). Introdotta da un referendum radicale nel 1987 dopo l'ingiusta condanna di Enzo Tortora, è stata poi disciplinata da una legge d'attuazione che scarica sullo Stato il pagamento dei danni agli imputati condannati da sentenze sbagliate.
Il Csm (Consiglio superiore della magistratura) sanziona i casi più gravi di incapacità dei magistrati. Ma questo avviene in casi rari, anche perché il Csm è un organo di «autogoverno »: è composto i n maggioranza assoluta da magistrati. Per questo Berlusconi vuole che il Csm sia composto per metà da membri di nomina politica.
La separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti non è di per sé punitiva, ma secondo l'Anm mette le procure sotto il controllo del governo. Idem per la polizia giudiziaria, che indagherà senza sottostare ai pm. E per l'obbligatorietà dell' azione penale: dovrebbe essere il Parlamento a stabilire ogni anno a quali reati dare la precedenza.
4) Gli assolti in primo grado non rischiano più l'appello?
Sì. È questo il cambiamento più grosso per i processi penali, quello che inciderà di più nella vita concreta di tutti noi. O, perlomeno, di coloro che hanno a che fare con la giustizia. Se subiamo una sentenza di condanna in primo grado, potremo sempre chiedere l'appello, e poi ricorrere a un terzo grado di giudizio in Cassazione. Se invece veniamo assolti, il pubblico ministero (l'accusa) non potrà più appellarsi, se non in casi gravissimi «previsti dalla legge». Insomma, per chi viene riconosciuto innocente in primo grado, l'assoluzione è definitiva. Come negli Usa. «Un bel regalo per i delinquenti» , commentano i dipietristi. « In dubio pro reo è un principio cardine di civiltà giuridica», ribatte il centrodestra: in caso di dubbio, l'accusato dev'essere assolto. E quale dubbio più grande di una sentenza di assoluzione?
Se questa norma fosse in vigore, 25 poliziotti non avrebbero potuto essere stati condannati in appello a 100 anni di carcere per le violenze al vertice G8 di Genova del 2001, perché in primo grado erano stati assolti.
Già nel 2006 il centrodestra aveva approvato la legge Pecorella per l'inappellabilità delle assoluzioni, in mancanza di nuove prove. Ma l'allora presidente Carlo Azeglio Ciampi l'aveva rimandata alle Camere per dubbia costituzionalità. E la Corte Costituzionale ne bocciò larghe parti l'anno successivo, con la motivazione che si viola il «principio di eguaglianza fra le parti».
Mauro Suttora
23 marzo 2011
risponde Mauro Suttora
1) Davvero Berlusconi vuole leggi che lo favoriscano?
La riforma costituzionale presentata dal governo la scorsa settimana mette tutti d' accordo soltanto su una cosa: avrà una portata «epocale». Infatti, mentre il centrodestra è convinto che servirà a limita re lo «strapotere» di una «casta», quella dei magistrati, il centrosinistra ritiene che si tratti di una ripicca del premier Silvio Berlusconi per i continui processi c he subi sce da quando è entrato in politica 17 anni fa. Per cambiare la Costituzione ci vogliono tempi lunghissimi, con doppia votazione di ogni ramo del Parlamento a mesi di distanza. E se non viene raggiunta la maggioranza dei due terzi, ci sarà un referendum. Quindi per questa riforma, se mai andrà in porto, ci vorranno anni.
Nelle foto qui sopra il ministro Angelino Alfano mostra una statistica secondo cui il numero dei processi civili è per la prima volta in diminuzione, grazie alle misure «acceleratrici» attuate dal gover no. Ment re Berlusconi fa vedere che d' ora in poi il giudice penale (in rosso) sarà imparziale fra accusa e difesa, mentre adesso «fa comunella» con l' accusa (il pubblico ministero, in nero). «Potremmo anche discutere di riformare la giustizia», dice Pier Luigi Bersani, «ma non con un premier imputato in quattro processi». La distanza quindi è grande.
2) È vero che già Gelli propose di separare le carriere?
Sì. Il cosiddetto «Piano di rinascita democratica» sequestrato nel 1981 fra le carte della loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli prevedeva la separazione fra magistrati dell' accusa (pubblici ministeri) e magistrati giudicanti.
Oltre alla responsabilità civile dei giudici per i propri errori. Il programma della P2, che alla fine degli Anni 70 cercò di attuare un colpo di Stato lento e incruento, arruolando adepti fra i dirigenti di forze armate, politica e giornali, era però molto vasto e dettagliato. Conteneva anche proposte ragionevoli per modernizzare il Paese, oltre a quelle per instaurare un governo più autoritario. Durante gli Anni 80, per esempio, Bettino Craxi fu bollato come «decisionista» perché proponeva il presidenzialismo. Ma presidenzialisti sono molti Stati di antica democrazia, come Francia e Usa.
Trent'anni dopo, la coincidenza fra alcune proposte della P2 e del governo Berlusconi viene ancora utilizzata come argomento critico da settori della sinistra. Anche perché Berlusconi stesso aveva fatto domanda di ammissione alla loggia. E piduisti furono alcuni attuali dirigenti del Pdl, come Fabrizio Cicchitto.
3) Perché i magistrati si sentono puniti dalle nuove regole costituzionali?
È ovvio che la responsabilità civile dei giudici venga avversata dall' Anm (Associazione nazionale magistrati). Introdotta da un referendum radicale nel 1987 dopo l'ingiusta condanna di Enzo Tortora, è stata poi disciplinata da una legge d'attuazione che scarica sullo Stato il pagamento dei danni agli imputati condannati da sentenze sbagliate.
Il Csm (Consiglio superiore della magistratura) sanziona i casi più gravi di incapacità dei magistrati. Ma questo avviene in casi rari, anche perché il Csm è un organo di «autogoverno »: è composto i n maggioranza assoluta da magistrati. Per questo Berlusconi vuole che il Csm sia composto per metà da membri di nomina politica.
La separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti non è di per sé punitiva, ma secondo l'Anm mette le procure sotto il controllo del governo. Idem per la polizia giudiziaria, che indagherà senza sottostare ai pm. E per l'obbligatorietà dell' azione penale: dovrebbe essere il Parlamento a stabilire ogni anno a quali reati dare la precedenza.
4) Gli assolti in primo grado non rischiano più l'appello?
Sì. È questo il cambiamento più grosso per i processi penali, quello che inciderà di più nella vita concreta di tutti noi. O, perlomeno, di coloro che hanno a che fare con la giustizia. Se subiamo una sentenza di condanna in primo grado, potremo sempre chiedere l'appello, e poi ricorrere a un terzo grado di giudizio in Cassazione. Se invece veniamo assolti, il pubblico ministero (l'accusa) non potrà più appellarsi, se non in casi gravissimi «previsti dalla legge». Insomma, per chi viene riconosciuto innocente in primo grado, l'assoluzione è definitiva. Come negli Usa. «Un bel regalo per i delinquenti» , commentano i dipietristi. « In dubio pro reo è un principio cardine di civiltà giuridica», ribatte il centrodestra: in caso di dubbio, l'accusato dev'essere assolto. E quale dubbio più grande di una sentenza di assoluzione?
Se questa norma fosse in vigore, 25 poliziotti non avrebbero potuto essere stati condannati in appello a 100 anni di carcere per le violenze al vertice G8 di Genova del 2001, perché in primo grado erano stati assolti.
Già nel 2006 il centrodestra aveva approvato la legge Pecorella per l'inappellabilità delle assoluzioni, in mancanza di nuove prove. Ma l'allora presidente Carlo Azeglio Ciampi l'aveva rimandata alle Camere per dubbia costituzionalità. E la Corte Costituzionale ne bocciò larghe parti l'anno successivo, con la motivazione che si viola il «principio di eguaglianza fra le parti».
Mauro Suttora
Wednesday, March 16, 2011
A volte le monarchie sono preziose
PER LA LIBIA UNA SOLUZIONE SPAGNOLA?
di Mauro Suttora
Oggi, 16 marzo 2011
Nella storia recente ci sono casi di monarchie felicemente restaurate dopo le dittature. La più famosa è quella spagnola. Il dittatore fascista Francisco Franco, che governò dal 1937 fino alla morte al 1975, decise di preparare con molto anticipo una transizione morbida dal suo regime a quello della monarchia parlamentare. Per questo volle accanto a sè il giovane Juan Carlos di Borbone, che allevò come successore. Tutto filò liscio, tranne il farsesco tentativo di golpe del tenente colonnello Antonio Tejero nel 1981, che irruppe nell’aula del Parlamento. Fu ripristinata la democrazia con tutte le libertà fonamentali, e la figura del re servì per placare le paure dei franchisti anche dopo l’arrivo dei socialisti al potere.
C’è poi il caso di re rientrati in patria dopo un lungo esilio vincendo elezioni col proprio partito. È accaduto a Simeone di Bulgaria, sovrano dal 1943 al ‘46, e poi premier dal 2001 al 2005.
Nel caso della Libia, un re senussita servirebbe da figura unificante non solo dal punto di vista politico, per conciliare Tripolitania e Cirenaica, ma anche per ragioni religiose.
di Mauro Suttora
Oggi, 16 marzo 2011
Nella storia recente ci sono casi di monarchie felicemente restaurate dopo le dittature. La più famosa è quella spagnola. Il dittatore fascista Francisco Franco, che governò dal 1937 fino alla morte al 1975, decise di preparare con molto anticipo una transizione morbida dal suo regime a quello della monarchia parlamentare. Per questo volle accanto a sè il giovane Juan Carlos di Borbone, che allevò come successore. Tutto filò liscio, tranne il farsesco tentativo di golpe del tenente colonnello Antonio Tejero nel 1981, che irruppe nell’aula del Parlamento. Fu ripristinata la democrazia con tutte le libertà fonamentali, e la figura del re servì per placare le paure dei franchisti anche dopo l’arrivo dei socialisti al potere.
C’è poi il caso di re rientrati in patria dopo un lungo esilio vincendo elezioni col proprio partito. È accaduto a Simeone di Bulgaria, sovrano dal 1943 al ‘46, e poi premier dal 2001 al 2005.
Nel caso della Libia, un re senussita servirebbe da figura unificante non solo dal punto di vista politico, per conciliare Tripolitania e Cirenaica, ma anche per ragioni religiose.
I Senussi tornano in Libia?
CHI SONO IL PRINCIPE IDRIS AL SENUSSI, NIPOTE DEL RE SPODESTATO NEL 1969, E IL CUGINO MUHAMMED
Oggi, 16 marzo 2011
di Mauro Suttora
Porto di Trieste, notte del 21 marzo 1971. Un commando di uomini armati si sta imbarcando in gran segreto sul battello Conquistator XIII. Destinazione: Libia. Dove due anni prima il 27enne Muammar Gheddafi ha spodestato il 79enne re Idris Senussi, che governava pacificamente dal 1951. Nome in codice dell’operazione: Hilton Assignment. La spedizione è finanziata da Abdallah Senussi, il «principe nero» braccio destro e nipote di re Idris. Il quale, non avendo figli, lo ha indicato come erede al trono.
Entrambi si trovavano all’estero al momento del golpe: re Idris in Turchia, il 50enne principe Abdallah in Italia, a Montecatini. A Tripoli era restato un altro nipote di Idris, Hassan: finì sul trono per un giorno, poi i militari golpisti proclamarono la repubblica. Esattamente come aveva fatto il loro eroe, Gamal Nasser, in Egitto nel ‘52. Re Faruk aveva riparato in Italia. Il libico Hassan rinunciò al trono e finì agli arresti domiciliari.
L’Italia blocca il blitz
Ora da Trieste partiva la riscossa della monarchia senussita, che aveva garantito libertà, benessere e moderazione alla Libia per vent’anni. Con grande tolleranza: gli ex coloni italiani vivevano tranquilli; cristiani, islamici ed ebrei si rispettavano anche dopo la terza guerra arabo-israeliana del ‘67, che invece negli altri Paesi arabi aveva provocato esodi di israeliti.
D’altra parte, la Senussia è tuttora una delle grandi correnti dell’Islam. Gestisce la seconda maggiore moschea alla Mecca, è aperta alla modernità. Anche la tradizionale rivalità fra la Cirenaica legata all’Egitto e la Tripolitania più maghrebina era stata risolta dai Senussi conferendo anche a Bengasi lo status di capitale della Libia. Insomma, ancor oggi, dopo i 42 anni di delirio gheddafiano, i libici ricordano con nostalgia quell’epoca. E infatti hanno subito adottato la vecchia bandiera monarchica per la loro nuova Libia liberata.
La storia sarebbe stata diversa se quella notte d’inizio primavera a Trieste i servizi segreti italiani non avessero improvvisamente bloccato la spedizione del principe Abdallah. Niente sbarco in Libia, niente liberazione dei partigiani senussiti incarcerati da Gheddafi. L’Italia non voleva una restaurazione della monarchia, nonostante i 30 mila connazionali cacciati da Gheddafi l’anno prima. E l’allora ministro degli Esteri italiano Aldo Moro pochi mesi dopo poté vantare quello «stop» direttamente con il dittatore libico, inaugurando una politica quarantennale di «appeasement» e amicizia. Che, prima del recente «bacio dell’anello» da parte di Berlusconi, ebbe un altro picco: l’avviso, da parte del premier Bettino Craxi nell’86, che gli Stati Uniti stavano per bombardare la caserma di Gheddafi (uccidendone la figlia adottiva).
Il blitz «Hilton Assignment» fatto abortire dagli 007 italiani è stato confermato da Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nel suo libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi (ed. Dalai Baldini Castoldi, 2009).
I Senussi non hanno mai abbandonato il sogno di tornare in Libia. Re Idris è morto in esilio al Cairo nell’83, suo nipote Abdallah cinque anni dopo. Il testimone è passato al principe Idris, figlio di Abdallah e omonimo del nonno: al momento del golpe del ‘69 era dodicenne in collegio a Londra.
Oggi Idris Senussi vive fra Roma e Washington, fa il mediatore d’affari. Conosce tutti i monarchi del Medio Oriente, di alcuni è parente (cugino dei re marocchino e giordano). Dalle prime nozze con un’americana ha avuto la figlia Alia. Poi si è risposato con la nobildonna spagnola Ana Maria Quinones. Ha messo a frutto i suoi contatti per far ottenere grosse commesse a Eni, Snam, Condotte, Ansaldo.
Ha preparato la rivolta del 17 febbraio in stretto contatto con i parenti rimasti in Libia. Il 4 febbraio aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi, invitandolo ad aperture e riforme dopo le liberazioni di Tunisia ed Egitto. Nessuno, un mese fa, immaginava che la rivoluzione si sarebbe estesa subito anche alla Libia. Lo avevamo intervistato (Oggi n.7), Senussi sperava ancora in una mossa intelligente (o almeno furba) da parte del dittatore: «Gheddafi nell’ultimo anno ha effettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio, ha restituito qualche proprietà privata confiscata». Ma avvertiva che anche i giovani libici, come i tunisini e gli egiziani, erano arrivati al limite della sopportazione.
Dopo l’inattesa liberazione di Bengasi il principe Idris è felice: «Hanno assaltato e liberato il palazzo dove sono nato, che Gheddafi aveva trasformato in caserma». Bene introdotto al Dipartimento di stato statunitense, è volato a Washington dove ha fornito preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana. Intervistato dalla Cnn, avverte che ormai Gheddafi è finito: «Dopo le stragi che ha commesso non c’è più possibilità di negoziato». Sua figlia, la 26enne principessa Alia, raccoglie fondi per la Croce/Mezzaluna Rossa.
Nel frattempo, a Londra compare un altro pretendente al trono libico: Muhammed Senussi, 48 anni, figlio di Hassan. Gheddafi permise a suo padre di espatriare soltanto nell’88.
Muhammed ingaggia una costosa agenzia di relazioni pubbliche, si fa intervistare da Al Jazeera. E i suoi sostenitori scatenano una battaglia via internet contro Idris: cambiano il suo ritratto su Wikipedia, l’enciclopedia online. Un conflitto fra cugini che ricorda quello fra i nostri Vittorio Emanuele di Savoia e Amedeo d’Aosta.
Il ramo dinastico di Muhammed si fa forte di quel 30 settembre ‘69, unico giorno sul trono di suo padre Hassan. Il ramo di Idris risponde che proprio l’immediata abdicazione cancella ogni diritto. A complicare le cose, infine, ecco Hashem Senussi, 60 anni, fratello maggiore del principe Idris: pure lui, che vive a Roma, si proclama erede al trono in due interviste al Tempo e al Corriere della Sera.
Questo proliferare di pretendenti significa che ci sarà veramente un trono libico su cui sedersi? Più passano i giorni, più si capisce quanto sia grande il vuoto che il quarantennio di Gheddafi ha provocato in Libia. Il nuovo governo provvisorio di Bengasi è composto da persone rispettabili, in certi casi eroiche. Ma lo stesso fatto che i capi della Libia libera debbano riciclare ex ministri e generali del dittatore dimostra la carenza di classe dirigente. E il vuoto a quelle latitudini è pericoloso, perché può essere riempito da fanatici religiosi, o da Al Qaeda.
L’esempio afghano
Prima o poi a Tripoli emergerà una nuova leadership. Ma per ora la struttura della Libia sembra simile a quella dell’Afghanistan, diviso fra decine di tribù. A Kabul oggi molti rimpiangono di non aver rimesso al suo posto il vecchio re Zahir (che regnò dal 1933 al ‘73, prima dell’esilio a Roma) dopo la liberazione dai talebani nel 2001. Avrebbe potuto garantire l’unità di una nazione fratturata meglio del presidente Karzai, e forse adesso l’Afghanistan non sarebbe più in guerra.
I Senussi tornerano a regnare in Libia, ovviamente in regime democratico costituzionale? «Se il popolo lo vorrà, siamo disponibili», è la risposta. Il plurale è maiestatis, ma almeno su questo l’accordo fra i tre prìncipi è unanime.
Mauro Suttora
Oggi, 16 marzo 2011
di Mauro Suttora
Porto di Trieste, notte del 21 marzo 1971. Un commando di uomini armati si sta imbarcando in gran segreto sul battello Conquistator XIII. Destinazione: Libia. Dove due anni prima il 27enne Muammar Gheddafi ha spodestato il 79enne re Idris Senussi, che governava pacificamente dal 1951. Nome in codice dell’operazione: Hilton Assignment. La spedizione è finanziata da Abdallah Senussi, il «principe nero» braccio destro e nipote di re Idris. Il quale, non avendo figli, lo ha indicato come erede al trono.
Entrambi si trovavano all’estero al momento del golpe: re Idris in Turchia, il 50enne principe Abdallah in Italia, a Montecatini. A Tripoli era restato un altro nipote di Idris, Hassan: finì sul trono per un giorno, poi i militari golpisti proclamarono la repubblica. Esattamente come aveva fatto il loro eroe, Gamal Nasser, in Egitto nel ‘52. Re Faruk aveva riparato in Italia. Il libico Hassan rinunciò al trono e finì agli arresti domiciliari.
L’Italia blocca il blitz
Ora da Trieste partiva la riscossa della monarchia senussita, che aveva garantito libertà, benessere e moderazione alla Libia per vent’anni. Con grande tolleranza: gli ex coloni italiani vivevano tranquilli; cristiani, islamici ed ebrei si rispettavano anche dopo la terza guerra arabo-israeliana del ‘67, che invece negli altri Paesi arabi aveva provocato esodi di israeliti.
D’altra parte, la Senussia è tuttora una delle grandi correnti dell’Islam. Gestisce la seconda maggiore moschea alla Mecca, è aperta alla modernità. Anche la tradizionale rivalità fra la Cirenaica legata all’Egitto e la Tripolitania più maghrebina era stata risolta dai Senussi conferendo anche a Bengasi lo status di capitale della Libia. Insomma, ancor oggi, dopo i 42 anni di delirio gheddafiano, i libici ricordano con nostalgia quell’epoca. E infatti hanno subito adottato la vecchia bandiera monarchica per la loro nuova Libia liberata.
La storia sarebbe stata diversa se quella notte d’inizio primavera a Trieste i servizi segreti italiani non avessero improvvisamente bloccato la spedizione del principe Abdallah. Niente sbarco in Libia, niente liberazione dei partigiani senussiti incarcerati da Gheddafi. L’Italia non voleva una restaurazione della monarchia, nonostante i 30 mila connazionali cacciati da Gheddafi l’anno prima. E l’allora ministro degli Esteri italiano Aldo Moro pochi mesi dopo poté vantare quello «stop» direttamente con il dittatore libico, inaugurando una politica quarantennale di «appeasement» e amicizia. Che, prima del recente «bacio dell’anello» da parte di Berlusconi, ebbe un altro picco: l’avviso, da parte del premier Bettino Craxi nell’86, che gli Stati Uniti stavano per bombardare la caserma di Gheddafi (uccidendone la figlia adottiva).
Il blitz «Hilton Assignment» fatto abortire dagli 007 italiani è stato confermato da Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nel suo libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi (ed. Dalai Baldini Castoldi, 2009).
I Senussi non hanno mai abbandonato il sogno di tornare in Libia. Re Idris è morto in esilio al Cairo nell’83, suo nipote Abdallah cinque anni dopo. Il testimone è passato al principe Idris, figlio di Abdallah e omonimo del nonno: al momento del golpe del ‘69 era dodicenne in collegio a Londra.
Oggi Idris Senussi vive fra Roma e Washington, fa il mediatore d’affari. Conosce tutti i monarchi del Medio Oriente, di alcuni è parente (cugino dei re marocchino e giordano). Dalle prime nozze con un’americana ha avuto la figlia Alia. Poi si è risposato con la nobildonna spagnola Ana Maria Quinones. Ha messo a frutto i suoi contatti per far ottenere grosse commesse a Eni, Snam, Condotte, Ansaldo.
Ha preparato la rivolta del 17 febbraio in stretto contatto con i parenti rimasti in Libia. Il 4 febbraio aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi, invitandolo ad aperture e riforme dopo le liberazioni di Tunisia ed Egitto. Nessuno, un mese fa, immaginava che la rivoluzione si sarebbe estesa subito anche alla Libia. Lo avevamo intervistato (Oggi n.7), Senussi sperava ancora in una mossa intelligente (o almeno furba) da parte del dittatore: «Gheddafi nell’ultimo anno ha effettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio, ha restituito qualche proprietà privata confiscata». Ma avvertiva che anche i giovani libici, come i tunisini e gli egiziani, erano arrivati al limite della sopportazione.
Dopo l’inattesa liberazione di Bengasi il principe Idris è felice: «Hanno assaltato e liberato il palazzo dove sono nato, che Gheddafi aveva trasformato in caserma». Bene introdotto al Dipartimento di stato statunitense, è volato a Washington dove ha fornito preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana. Intervistato dalla Cnn, avverte che ormai Gheddafi è finito: «Dopo le stragi che ha commesso non c’è più possibilità di negoziato». Sua figlia, la 26enne principessa Alia, raccoglie fondi per la Croce/Mezzaluna Rossa.
Nel frattempo, a Londra compare un altro pretendente al trono libico: Muhammed Senussi, 48 anni, figlio di Hassan. Gheddafi permise a suo padre di espatriare soltanto nell’88.
Muhammed ingaggia una costosa agenzia di relazioni pubbliche, si fa intervistare da Al Jazeera. E i suoi sostenitori scatenano una battaglia via internet contro Idris: cambiano il suo ritratto su Wikipedia, l’enciclopedia online. Un conflitto fra cugini che ricorda quello fra i nostri Vittorio Emanuele di Savoia e Amedeo d’Aosta.
Il ramo dinastico di Muhammed si fa forte di quel 30 settembre ‘69, unico giorno sul trono di suo padre Hassan. Il ramo di Idris risponde che proprio l’immediata abdicazione cancella ogni diritto. A complicare le cose, infine, ecco Hashem Senussi, 60 anni, fratello maggiore del principe Idris: pure lui, che vive a Roma, si proclama erede al trono in due interviste al Tempo e al Corriere della Sera.
Questo proliferare di pretendenti significa che ci sarà veramente un trono libico su cui sedersi? Più passano i giorni, più si capisce quanto sia grande il vuoto che il quarantennio di Gheddafi ha provocato in Libia. Il nuovo governo provvisorio di Bengasi è composto da persone rispettabili, in certi casi eroiche. Ma lo stesso fatto che i capi della Libia libera debbano riciclare ex ministri e generali del dittatore dimostra la carenza di classe dirigente. E il vuoto a quelle latitudini è pericoloso, perché può essere riempito da fanatici religiosi, o da Al Qaeda.
L’esempio afghano
Prima o poi a Tripoli emergerà una nuova leadership. Ma per ora la struttura della Libia sembra simile a quella dell’Afghanistan, diviso fra decine di tribù. A Kabul oggi molti rimpiangono di non aver rimesso al suo posto il vecchio re Zahir (che regnò dal 1933 al ‘73, prima dell’esilio a Roma) dopo la liberazione dai talebani nel 2001. Avrebbe potuto garantire l’unità di una nazione fratturata meglio del presidente Karzai, e forse adesso l’Afghanistan non sarebbe più in guerra.
I Senussi tornerano a regnare in Libia, ovviamente in regime democratico costituzionale? «Se il popolo lo vorrà, siamo disponibili», è la risposta. Il plurale è maiestatis, ma almeno su questo l’accordo fra i tre prìncipi è unanime.
Mauro Suttora
Thursday, March 10, 2011
Libia: che può fare l'Italia?
Oggi, 9 marzo 2011
Cosa sta succedendo?
1) GUERRA CIVILE
Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.
Cosa può fare l’Italia?
2) NO FLY ZONE
«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.
La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.
C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.
Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).
3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO
I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.
Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.
Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.
4) RIFUGIATI
Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.
Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.
Mauro Suttora
Cosa sta succedendo?
1) GUERRA CIVILE
Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.
Cosa può fare l’Italia?
2) NO FLY ZONE
«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.
La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.
C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.
Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).
3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO
I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.
Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.
Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.
4) RIFUGIATI
Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.
Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.
Mauro Suttora
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