Killer della strada, licenza di uccidere
Inchiesta: vittime senza giustizia
Giovani vite spezzate, famiglie distrutte. Chi guida ubriaco o drogato e ammazza rischia oltre 12 anni. Ma quasi sempre se la cava con meno di uno. Ecco perché la strage degli innocenti è una lista che ci fa vergognare. E cresce ogni anno
di Mauro Suttora
Roma, 11 giugno 2008
Quarantuno morti. Una strage. Il trenta per cento in più rispetto allo stesso periodo dell' anno scorso. Tante sono le vittime dei pirati della strada nei primi cinque mesi del 2008. Dieci solo a Roma. Gli ultimi: Alessio Giuliani e Flaminia Giordani, i fidanzati in scooter uccisi due settimane fa a Roma, sulla Nomentana.
Ma lo scandalo vero sta nel comportamento dei giudici. Fino a due anni fa l' omicidio colposo era punito col carcere da sei mesi a cinque anni. Poi il minimo è stato alzato a due anni per le uccisioni sulla strada. E con le aggravanti si arriverebbe oltre i dodici. "Invece nove volte su dieci i colpevoli se la cavano con pene inferiori all' anno", denuncia Enrico Gelpi, presidente dell' Aci. E spesso, grazie alla condizionale, non passano neanche un giorno in carcere.
Rispetto ai cinquemila morti annui sulle strade italiane, le vittime dei pirati si distinguono perché i loro investitori non si fermano a soccorrerle, spesso in preda ad alcol e droga. Ma "pirati" vengono definiti tutti gli automobilisti che guidano con particolare imprudenza o scelleratezza, fino appunto a provocare l' uccisione di persone innocenti.
L' osservatorio dell' Asaps (Associazione amici Polizia stradale) registra un aumento addirittura dell' 82 per cento di tutti gli episodi di pirateria, che nel 2008 hanno provocato anche 105 feriti. "Sempre più spesso, nell' 85 per cento dei casi, le vittime sono pedoni o ciclisti", avverte Giordano Biserni, presidente dell' Asaps. "Chi li colpisce ha l'auto che marcia ancora, e quindi si può allontanare impunemente, specie di notte. Hanno paura di perdere punti della patente o la patente stessa, o per lo stato di ebbrezza, o perché l' assicurazione è scaduta o falsa".
Unico dato positivo: nei tre quarti dei casi il pirata viene individuato: o immediatamente o nei giorni successivi. L' aggravarsi del fenomeno ha provocato una risposta: nel decreto sulla sicurezza, il governo ha appena aumentato fino a dieci anni la pena massima di carcere per l' omicidio colposo, se il conducente è ubriaco o drogato. "Il problema però", ci spiega l'avvocato Federico Alfredo Bianchi di Roma, "è che nonostante i pirati rischiassero anche prima fino a dodici anni con le aggravanti per omissione di soccorso e altro, inspiegabilmente i giudici comminavano loro quasi sempre il minimo della pena".
Fra patteggiamenti, attenuanti e riti abbreviati, insomma, la giustizia evapora. Perché ? "L' omicidio colposo trova comprensione presso i giudici perché, si dice, può capitare a tutti", spiega Biserni. "Nel senso che tutti guidiamo e quindi potrebbe capitare a ciascuno di noi, per una distrazione, di investire e ammazzare qualcuno".Qui però si ha a che fare non con gente comune, ma con disgraziati che si imbottiscono di droga o alcol e che si lanciano a mo' di roulette russa nella notte per vedere quanti semafori rossi riescono a passare indenni, com' è capitato nell' ultimo caso della via Nomentana.
Perciò, anche prima dell' inasprimento della pena minima, tutto si giocava attorno a queste due parole: "dolo eventuale". "Il pirata non ammazza per semplice colpa", ci dice l'avvocato Bianchi, specializzato nell' assistenza ai parenti delle vittime, "ma mette nel conto di potere uccidere. Quindi il suo non è omicidio colposo, ma doloso". In quasi tutti i casi, però, compreso quello della Nomentana, i magistrati derubricano l' omicidio da doloso a colposo.
Come il 23 aprile 2007, ad Appignano sul Tronto (Ascoli Piceno), quando un furgone guidato da Marco Ahmetovic, nomade ubriaco di 22 anni, investì e uccise quattro ragazzi fra i 16 e i 18 anni. A ottobre l' investitore era già stato scarcerato. Qualcuno gli aveva perfino proposto di esibirsi come modello, vista la "fama" conquistata. Il pm aveva chiesto solo tre anni e tre mesi. Chissà se ha contato la pressione dell' opinione pubblica, ma Ahmetovic è stato condannato a sei anni e sei mesi. Cioè 19 mesi per ogni sua vittima.
Domenica 5 agosto 2007 è morta Giulia Bollo, 21 anni, di Civitavecchia: si è schiantata contro un albero di Guidonia (Roma) su un' auto guidata da un amico 25enne ubriaco e drogato che andava a velocità folle. Dev' essere ancora processato.
Atroce il destino della povera Giovanna Rachele Mazzeo, 26enne siciliana emigrata da Milazzo a Treviso per lavorare al Coin. La sera dello scorso 4 novembre aveva portato il suo cane a fare la pipì sul Terraglio, lo stradone che esce da Treviso verso Venezia. Era sulle strisce pedonali nella frazione Frescada di Preganziol, quando è stata spazzata via da una Citroeen. Il conducente, Francesco Parise, 56 anni, dipendente delle Ferrovie, si è costituito 72 ore dopo. "Ho sentito un botto, avevo visto un cane, non mi sono fermato perché pensavo di aver preso lui", si è giustificato. Sette mesi dopo, è libero e non è stato ancora processato.
Una strage che ha emozionato è stata quella di Fiumicino (Roma) nel febbraio di quest' anno: cinque morti, tutti donne e bambini che aspettavano l' autobus sul bordo di via Geminiano Montanari. Una Fiat Stilo in assetto da corsa guidata dal 21enne Simone Perrini arrivata a velocità folle si è scontrata con un pick up Mitsubishi e ha scagliato un' altra vettura fra la gente, come in un autoscontro. "Non sono un mostro, non sono un assassino, andavo a 90", si scagiona Perrini, che si è fermato a soccorrere le vittime. Assieme a lui è indagato per omicidio colposo plurimo il pizzaiolo Alessandro Cresta.
Pochi giorni dopo, il 17 marzo, è la volta di due giovani turiste irlandesi che stavano attraversando il lungotevere a Roma di fronte a Castel Sant' Angelo per tornare in albergo. Travolte e uccise da una Mercedes guidata da Friedrich Vernarelli, 32enne ubriaco che poi non si ferma e, quando viene arrestato, si rifiuta di sottoporsi al test dell' alcol. Vernarelli è ancora in carcere. Il 28 maggio la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Ma il suo avvocato ora dice che andava a 85 e non a 120 all' ora, e ha chiesto due perizie: una per stabilire se le due irlandesi stavano attraversando col rosso, e l' altra per capire se avessero bevuto pure loro. Era la festa di San Patrizio, patrono degli irlandesi...
L' 11 aprile a Napoli, nel quartiere Scampia, un ragazzino di 10 anni e la madre sono stati uccisi da un 39enne invalido al 100 per cento per disturbi psichici al quale era stata ritirata la patente. I poliziotti lo hanno salvato dalla folla inferocita che stava per linciarlo.
Poche ore dopo, sempre a Napoli, è stato travolto e ucciso Salvatore Lauretano, operatore Rai, sposato, due figlie, che correva al bordo di una strada fra San Sebastiano e San Giorgio, allenandosi per la maratona. Infine, alla mezzanotte del 22 maggio, l' ultimo episodio della via crucis: i fidanzatini 23enni Flaminia e Alessio falciati sul motorino all' incrocio fra la via Nomentana e viale Regina Margherita a Roma dalla Mercedes di Stefano Lucidi, 33 anni, al quale era già stata tolta la patente. Era lanciato a 90 ed è passato col rosso. "No, andavo a 70 ed era giallo", si è difeso lui.
Mauro Suttora
RIQUADRO:
"Al processo l' assassino di mio figlio mi ha riso in faccia"
Il killer stava per uscire di prigione per decorrenza dei termini, e allora lui per far celebrare finalmente il processo è dovuto andare a incatenarsi davanti al Quirinale. "Ma ricordo che il magistrato quasi sbuffò contro di me, mi disse che era stufo di tutte quelle polemiche". Giovanni Delle Cave, ristoratore di Latina, ha perso il figlio 22enne Eros otto anni fa: "Passeggiava sul lungomare di Latina verso mezzanotte, era estate. Improvvisamente un' auto con a bordo cinque russi ubriachi si è abbattuta su di lui e i suoi amici. Sono morti in due, un terzo è stato spinto in un fosso accanto alla strada. Naturalmente i russi sono scappati".
Dopo sei mesi il processo non era stato ancora fatto, e il signor Delle Cave ha dovuto sollecitarlo con modi clamorosi. "Quando l' assassino di mio figlio è stato condannato a due anni e all' espulsione, si è voltato verso di me e mi ha riso in faccia. Non dimenticherò mai quel momento. Anche perché adesso lo vedo che scorrazza sempre beato in zona. Altro che espulsione !". Da allora Giovanni Delle Cave si batte per le vittime dei pirati. Ha fondato assieme all' avvocato di Roma Federico Alfredo Bianchi l' Associazione europea familiari delle vittime della strada, di cui è vicepresidente. La presidente è Lilia Gaviani Dellamore di Cesena. Sul sito internet c' è il resoconto della loro attività.
Delle Cave pochi giorni fa era di nuovo davanti al Quirinale con uno striscione di protesta. Oltre al danno, la beffa: "Dopo otto anni non abbiamo ricevuto ancora un centesimo di risarcimento. Ovviamente il tagliando dell' assicurazione del russo era falso, ma c' è un fondo per le vittime. A mia moglie hanno "misurato" il dolore per la morte del figlio, domandandole per quanto tempo non era venuta a lavorare nel ristorante".
M.S.
Friday, June 13, 2008
Roberta Mancino, paracadutista
"Volo libera coi marines"
Una paracadutista italiana addestra i soldati statunitensi
Roberta Mancino è campionessa mondiale di "free style". È andata a lavorare in North Carolina, con allievi molto speciali. "E pensare che sono una pacifista..."
di Mauro Suttora
Raeford (Stati Uniti), 11 giugno 2008
Confessa: "Ogni volta che mi butto dall' aereo provo le stesse sensazioni di quando faccio l' amore". Beata lei: perché Roberta Mancino, 26 anni, da Nettuno (Roma), di lanci ogni giorno ne fa anche una dozzina. Ora però il piacere è continuo, perché la nostra campionessa di paracadutismo free style (quello che prevede spettacolari figure di gruppo in volo libero prima di aprire il paracadute) è approdata nel più grande tunnel del vento del mondo: quello di Raeford, nella Carolina del Nord.
I lanci non danno pane: nonostante gli sponsor tecnici, anche i paracadutisti di livello mondiale come Roberta per mantenersi devono lavorare. Così lei è diventata istruttrice. "E fra i miei allievi ci sono anche dei soldati americani, ai quali insegno il free fly". E cos' è ? "Devono imparare come non ruzzolare in aria, a rallentare, ad accelerare...". Anche a sparare ? "Ma no ! Il tunnel del vento è solo un grande simulatore dove si galleggia come se si fosse per aria. Io poi odio le guerre e le armi, sono pacifista".
Fate l' amore, non la guerra. Potrebbe essere questo il motto della bella Roberta, che da modella ha posato nuda e che continua a farlo anche lanciandosi dagli aerei (in cambio di ben 20 mila dollari): alcune sue foto sono finite sull' edizione americana di Playboy. Comprensibile, quindi, l' entusiasmo nei suoi confronti dei soldati americani, che rintracciano queste sue generosissime immagini su Internet e poi, appena finita la lezione, la invitano a cena. Ma le loro speranze di riuscirci sono finora risultate vane. Anche se Roberta si è appena lasciata col fidanzato...
Ma com' è iniziata questa passione ? "Ho fatto i primi lanci ad Anzio nel 2001, e mi è subito piaciuto. Così ho frequentato un corso e ho preso il brevetto". Le capitali del paracadutismo sportivo in Italia, oltre ad Anzio, sono Reggio Emilia, Fano, Arezzo. Una ventina di squadre che si allenano per costruire figure con posti assegnati in aria. Da terra i giudici votano le migliori coreografie basandosi sui video filmati da un paracadutista che si lancia contemporaneamente.
Il primo record italiano per Roberta è arrivato nel 2005. Poi quello europeo in Spagna, replicato l' anno scorso. Infine quello mondiale. E da lì, il salto oltre Atlantico: "Passo tutto l' inverno in Arizona, fra Phoenix e Tucson. Lì il tempo è bello, ci si può lanciare sempre. E i prezzi sono minori. In Italia invece ogni lancio costa 25 euro...". Che però non è moltissimo. "No, ma per allenarci ne facciamo tanti. Io sono arrivata a quattromila". Né si risparmia nel Wind tunnel della Carolina, che costa 750 dollari all' ora. Lì si fa a meno degli aerei, ma le condizioni simulate sono quelle di un lancio da cinquemila metri di quota a una velocità di 250 chilometri l' ora. Il prossimo grande appuntamento per Roberta Mancino è ai mondiali di agosto in Francia. "Mi sto allenando fra una lezione e l' altra. E oltre ai militari insegno anche a bambini e anziani".
Il paracadutismo in America è più popolare che in Italia: perfino l' ex presidente George Bush senior ci ha tenuto a farsi immortalare mentre si lanciava, incosciente, per festeggiare l' ottantesimo compleanno. E lei, Roberta, pensa di paracadutarsi fino a quell' età ? "Per ora mi godo il presente. Noi paracadutisti siamo una specie di tribù, siamo sempre in movimento cercando i posti migliori per lanciarci. Volare dà una sensazione di libertà totale". Hai mai avuto paura ? "Solo in uno dei primissimi lanci. Mi sono bloccata, ho guardato giù e non sono riuscita a saltare dall' aereo. Sono ritornata a terra a bordo. Ma il giorno dopo ci ho riprovato, e la paura era passata".
Diplomata in ragioneria, Roberta da piccola ha fatto per anni danza classica. È minuta di corpo, non dà l' impressione della sportivona vitaminizzata. La grazia e il ritmo acquisiti danzando le servono ora per il free style. Ma prima le era scattata la molla degli sport estremi: ha nuotato fra gli squali, si è data anche al parapendio... "Tutto troppo noioso. Non c' è niente come volare".
Mauro Suttora
Una paracadutista italiana addestra i soldati statunitensi
Roberta Mancino è campionessa mondiale di "free style". È andata a lavorare in North Carolina, con allievi molto speciali. "E pensare che sono una pacifista..."
di Mauro Suttora
Raeford (Stati Uniti), 11 giugno 2008
Confessa: "Ogni volta che mi butto dall' aereo provo le stesse sensazioni di quando faccio l' amore". Beata lei: perché Roberta Mancino, 26 anni, da Nettuno (Roma), di lanci ogni giorno ne fa anche una dozzina. Ora però il piacere è continuo, perché la nostra campionessa di paracadutismo free style (quello che prevede spettacolari figure di gruppo in volo libero prima di aprire il paracadute) è approdata nel più grande tunnel del vento del mondo: quello di Raeford, nella Carolina del Nord.
I lanci non danno pane: nonostante gli sponsor tecnici, anche i paracadutisti di livello mondiale come Roberta per mantenersi devono lavorare. Così lei è diventata istruttrice. "E fra i miei allievi ci sono anche dei soldati americani, ai quali insegno il free fly". E cos' è ? "Devono imparare come non ruzzolare in aria, a rallentare, ad accelerare...". Anche a sparare ? "Ma no ! Il tunnel del vento è solo un grande simulatore dove si galleggia come se si fosse per aria. Io poi odio le guerre e le armi, sono pacifista".
Fate l' amore, non la guerra. Potrebbe essere questo il motto della bella Roberta, che da modella ha posato nuda e che continua a farlo anche lanciandosi dagli aerei (in cambio di ben 20 mila dollari): alcune sue foto sono finite sull' edizione americana di Playboy. Comprensibile, quindi, l' entusiasmo nei suoi confronti dei soldati americani, che rintracciano queste sue generosissime immagini su Internet e poi, appena finita la lezione, la invitano a cena. Ma le loro speranze di riuscirci sono finora risultate vane. Anche se Roberta si è appena lasciata col fidanzato...
Ma com' è iniziata questa passione ? "Ho fatto i primi lanci ad Anzio nel 2001, e mi è subito piaciuto. Così ho frequentato un corso e ho preso il brevetto". Le capitali del paracadutismo sportivo in Italia, oltre ad Anzio, sono Reggio Emilia, Fano, Arezzo. Una ventina di squadre che si allenano per costruire figure con posti assegnati in aria. Da terra i giudici votano le migliori coreografie basandosi sui video filmati da un paracadutista che si lancia contemporaneamente.
Il primo record italiano per Roberta è arrivato nel 2005. Poi quello europeo in Spagna, replicato l' anno scorso. Infine quello mondiale. E da lì, il salto oltre Atlantico: "Passo tutto l' inverno in Arizona, fra Phoenix e Tucson. Lì il tempo è bello, ci si può lanciare sempre. E i prezzi sono minori. In Italia invece ogni lancio costa 25 euro...". Che però non è moltissimo. "No, ma per allenarci ne facciamo tanti. Io sono arrivata a quattromila". Né si risparmia nel Wind tunnel della Carolina, che costa 750 dollari all' ora. Lì si fa a meno degli aerei, ma le condizioni simulate sono quelle di un lancio da cinquemila metri di quota a una velocità di 250 chilometri l' ora. Il prossimo grande appuntamento per Roberta Mancino è ai mondiali di agosto in Francia. "Mi sto allenando fra una lezione e l' altra. E oltre ai militari insegno anche a bambini e anziani".
Il paracadutismo in America è più popolare che in Italia: perfino l' ex presidente George Bush senior ci ha tenuto a farsi immortalare mentre si lanciava, incosciente, per festeggiare l' ottantesimo compleanno. E lei, Roberta, pensa di paracadutarsi fino a quell' età ? "Per ora mi godo il presente. Noi paracadutisti siamo una specie di tribù, siamo sempre in movimento cercando i posti migliori per lanciarci. Volare dà una sensazione di libertà totale". Hai mai avuto paura ? "Solo in uno dei primissimi lanci. Mi sono bloccata, ho guardato giù e non sono riuscita a saltare dall' aereo. Sono ritornata a terra a bordo. Ma il giorno dopo ci ho riprovato, e la paura era passata".
Diplomata in ragioneria, Roberta da piccola ha fatto per anni danza classica. È minuta di corpo, non dà l' impressione della sportivona vitaminizzata. La grazia e il ritmo acquisiti danzando le servono ora per il free style. Ma prima le era scattata la molla degli sport estremi: ha nuotato fra gli squali, si è data anche al parapendio... "Tutto troppo noioso. Non c' è niente come volare".
Mauro Suttora
Friday, June 06, 2008
Iuri Maria Prado e De Marchi
Cambio di linea
Addio editoriali di Prado e De Marchi.
Radio radicale spegne le voci liberiste
di Mauro Suttora
Libero, 6 giugno 2008
Radio radicale ha eliminato i quattro editoriali bisettimanali del mattino (l’orario di massimo ascolto) di Iuri Maria Prado e di Luigi De Marchi. Andavano in onda da una dozzina d'anni. Si cancella così la fase «liberista» della radio e del partito radicale, iniziata nel 1992, che aveva portato all'exploit della lista Bonino nel ’99 (8,5%).
Prado, 43 anni, avvocato milanese, ha uno studio specializzato in «proprietà industriale» (marchi e brevetti). Appassionato di Gadda e Savinio, nel ’96 era stato contattato da Pannella che apprezzava i suoi editoriali sul Giornale allora diretto da Vittorio Feltri. «Ma da quando nel 2006 scrissi su Libero che non avrei più votato radicale, non mi ha più chiamato. Mi ha solo detto: “Mi spiace per te”».
Nel suo ultimo editoriale, l’altroieri, Prado ha ringraziato Radio radicale per avergli sempre garantito totale libertà, «anche quando esprimevo opinioni diverse dalla linea del partito. Un caso quasi unico, in Italia». Ma dopo la svolta a sinistra di Pannella due anni fa, l’alleanza con i socialisti di Boselli nella riesumata Rosa nel pugno e l’appoggio a Prodi, era evidente che Prado e De Marchi si sono trovati spiazzati.
Stesso destino toccato ai due brillanti giovani allevati da Pannella negli anni ’90: Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone. Il primo si è candidato con Berlusconi già nel 2006, pur mantenendo ottimi rapporti con i radicali. Capezzone invece ha consumato un’acrimoniosa rottura con il partito di cui era stato segretario per cinque anni, e ora è portavoce di Forza Italia. L’unico radicale di destra rimasto a collaborare con Radio radicale è Marco Taradash, che cura la rassegna stampa al sabato.
L’ottuagenario Luigi De Marchi è un monumento del libertarismo italiano. Psicologo e politologo, negli anni ’50 introdusse in Italia il pensiero di Wilhelm Reich e nei ’60 fondò l’Aied (Associazione italiana educazione demografica), con i primi consultori sessuali. Nel ’67 si ritrovò in piazza San Pietro con Pannella sotto lo slogan: «Contro l’aborto, sì alla pillola».
All’inizio degli anni ’90 si avvicinò alla Lega, scrivendo saggi sulla «nuova lotta di classe liberale: produttori contro burocrati». In quel periodo anche i radicali si allearono con i leghisti, promuovendo assieme vari referendum liberisti. Due volte alla settimana De Marchi distillava il suo pensiero «psicopolitico» per Radio radicale, prima della seguitissima rassegna stampa del direttore Massimo Bordin.
Suscitava consensi ma anche forti avversioni: «Ogni volta che iniziava la sua rubrica spegnevo la radio per quei tre inascoltabili minuti», dice Angiolo Bandinelli, storico dirigente radicale e commentatore del Foglio.
I maligni collegano l’allontanamento di Prado e De Marchi ai trenta milioni di finanziamento concessi da Prodi nel novembre scorso alla radio per la trasmissione delle sedute parlamentari fino al 2010. «Sciocchezze», commenta il direttore Bordin, «a De Marchi ho già proposto un’altra collocazione nel palinsesto a partire dall’autunno».
Mauro Suttora
Addio editoriali di Prado e De Marchi.
Radio radicale spegne le voci liberiste
di Mauro Suttora
Libero, 6 giugno 2008
Radio radicale ha eliminato i quattro editoriali bisettimanali del mattino (l’orario di massimo ascolto) di Iuri Maria Prado e di Luigi De Marchi. Andavano in onda da una dozzina d'anni. Si cancella così la fase «liberista» della radio e del partito radicale, iniziata nel 1992, che aveva portato all'exploit della lista Bonino nel ’99 (8,5%).
Prado, 43 anni, avvocato milanese, ha uno studio specializzato in «proprietà industriale» (marchi e brevetti). Appassionato di Gadda e Savinio, nel ’96 era stato contattato da Pannella che apprezzava i suoi editoriali sul Giornale allora diretto da Vittorio Feltri. «Ma da quando nel 2006 scrissi su Libero che non avrei più votato radicale, non mi ha più chiamato. Mi ha solo detto: “Mi spiace per te”».
Nel suo ultimo editoriale, l’altroieri, Prado ha ringraziato Radio radicale per avergli sempre garantito totale libertà, «anche quando esprimevo opinioni diverse dalla linea del partito. Un caso quasi unico, in Italia». Ma dopo la svolta a sinistra di Pannella due anni fa, l’alleanza con i socialisti di Boselli nella riesumata Rosa nel pugno e l’appoggio a Prodi, era evidente che Prado e De Marchi si sono trovati spiazzati.
Stesso destino toccato ai due brillanti giovani allevati da Pannella negli anni ’90: Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone. Il primo si è candidato con Berlusconi già nel 2006, pur mantenendo ottimi rapporti con i radicali. Capezzone invece ha consumato un’acrimoniosa rottura con il partito di cui era stato segretario per cinque anni, e ora è portavoce di Forza Italia. L’unico radicale di destra rimasto a collaborare con Radio radicale è Marco Taradash, che cura la rassegna stampa al sabato.
L’ottuagenario Luigi De Marchi è un monumento del libertarismo italiano. Psicologo e politologo, negli anni ’50 introdusse in Italia il pensiero di Wilhelm Reich e nei ’60 fondò l’Aied (Associazione italiana educazione demografica), con i primi consultori sessuali. Nel ’67 si ritrovò in piazza San Pietro con Pannella sotto lo slogan: «Contro l’aborto, sì alla pillola».
All’inizio degli anni ’90 si avvicinò alla Lega, scrivendo saggi sulla «nuova lotta di classe liberale: produttori contro burocrati». In quel periodo anche i radicali si allearono con i leghisti, promuovendo assieme vari referendum liberisti. Due volte alla settimana De Marchi distillava il suo pensiero «psicopolitico» per Radio radicale, prima della seguitissima rassegna stampa del direttore Massimo Bordin.
Suscitava consensi ma anche forti avversioni: «Ogni volta che iniziava la sua rubrica spegnevo la radio per quei tre inascoltabili minuti», dice Angiolo Bandinelli, storico dirigente radicale e commentatore del Foglio.
I maligni collegano l’allontanamento di Prado e De Marchi ai trenta milioni di finanziamento concessi da Prodi nel novembre scorso alla radio per la trasmissione delle sedute parlamentari fino al 2010. «Sciocchezze», commenta il direttore Bordin, «a De Marchi ho già proposto un’altra collocazione nel palinsesto a partire dall’autunno».
Mauro Suttora
Wednesday, June 04, 2008
Il ballo delle vergini
Stravaganze d'America: il voto di purezza
«No sex in the city»: i padri s’impegnano a difendere la castità delle figlie fino alle nozze. È un’idea delle nuove chiese evangeliche, che fa discutere. Ma tra i suoi fan c’è anche il presidente degli Stati Uniti Bush
New York (Stati Uniti), 4 giugno 2008
Ci mancavano i «balli della purezza». Dagli Stati Uniti, fonte inesauribile di stravaganze, arriva la notizia che si stanno moltiplicando i cosiddetti purity ball: cerimonie annuali simili a serate di gala in cui gli adepti delle nuove chiese cristiane evangeliche si impegnano pubblicamente e solennemente a proteggere e preservare la verginità delle proprie figlie teen-ager. Compito arduo, in un Paese dove tutte le statistiche indicano che l’età del primo rapporto sessuale è attorno ai 14-15 anni. E dove i giovani che eventualmente si ritrovassero vergini a 18 anni finiscono in quei college descritti nell’ultimo libro di Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato. Si ingozzava di sesso, in un arrapamento continuo!».
Per reagire a questi eccessi, nel profondo Sud religioso dell’America sono nati nel 1998 i «Balli della purezza». «Io, padre di Elizabeth, scelgo di fronte a Dio di proteggere mia figlia con autorità nel campo della purezza. Sarò puro nella mia vita come uomo, marito e padre. Sarò una persona integra e onesta nel guidare mia figlia e pregare per lei, come il sacerdote della mia casa. E questa promessa verrà usata nel nome di Dio per influenzare le prossime generazioni». Queste sono, letteralmente, le parole che i padri pronunciano in giuramento con tanto di spadoni in difesa dell’illibatezza della figlia teen-ager. I loro eventuali fidanzatini sono avvertiti: niente rapporti sessuali prima del matrimonio.
Già negli Anni 80 erano nati alcuni gruppi di giovani religiosi che sventolavano con orgoglio la propria castità. Ma solo con la presidenza di George Bush alcuni Stati della «cintura della Bibbia» sono arrivati a finanziare con soldi pubblici corsi di educazione sessuale in cui l’astinenza viene propagandata come il miglior anticoncezionale, la migliore protezione contro le malattie veneree e il baluardo più efficace contro il fenomeno dilagante delle ragazze madri di 16-18 anni, diffuso soprattutto nei ghetti neri.
Ma questi «Balli della purezza», con l’entrata in campo diretta dei padri, segnano un ulteriore passo per le chiese del Texas, del Dakota o del Missouri.
Così li critica la femminista Eve Ensler: «Alle ragazze che affidano la propria verginità al padre viene di fatto tolto il diritto alla sessualità. Fino a quando non firmano un contratto con un altro uomo: il marito. Diventano invisibili. Non esistono più».
Che per evitare gli eccessi della promiscuità sessuale non si debba cadere in eccessi opposti lo sostengono anche molti cristiani evangelici, come Betsy Hart: «Sono cristiana e credo fermamente che il sesso sia riservato al matrimonio. Ma non farei mai una cosa simile per i miei figli, maschi o femmine. Questa fissazione per la verginità finisce con l’essere controproducente. Cristo, condannando l’ipocrisia dei farisei esibizionisti, ci ha insegnato che il peccato non è ciò che entra in una persona, ma ciò che esce dal suo cuore».
In effetti, le statistiche dimostrano che chi si impegna alla castità conserva la propria verginità «tecnica» solo 18 mesi più a lungo delle altre ragazze, ma ha una probabilità sei volte maggiore di praticare il sesso orale. Che, come arrivò a (sper)giurare l’ex presidente Bill Clinton, secondo alcuni non sarebbe sesso completo.
Non si capisce poi perché i ragazzi maschi non debbano essere oggetto di un’attenzione altrettanto rigorosa di quella riservata alle loro sorelle.
In ogni caso, anche se circoscritto a poche decine di migliaia di persone in un Paese con 300 milioni di abitanti, il ritorno alla verginità sembra un fenomeno in crescita. Forse per reazione ai matrimoni gay, appena legalizzati anche in California dopo il Massachusetts, o all’eutanasia permessa in Oregon.
Insomma, esiste un’America rurale ed economicamente arretrata dove questi messaggi rassicuranti fanno presa. E un tribunale ha appena condannato l’«intro-missione» della polizia che ha liberato le donne di un gruppo religioso che praticava la poligamia in Texas. Massima libertà per tutti, negli Stati Uniti. Anche troppa.
Sbaglia quindi chi immagina che l’America sia tutta libertina come nel film appena uscito 'Sex and the City'. Quella è solo New York: basta attraversare il fiume Hudson per scoprire che le donne disinibite e gli omosessuali di Manhattan non hanno vita facile altrove.
Il 22 luglio, per esempio, si riunirà ad Orlando (Florida) il congresso nazionale del Centro per l’astinenza, fondato nel 1993 da Leslee Unruh, energica biondona del Sud Dakota. In questo quindicennio la sua propaganda per un «nuova verginità» ha fatto proseliti anche nelle università più di sinistra, come Harvard a Boston o Columbia a New York. Si sono formati piccoli gruppi non più tanto catacombali di ragazzi che, spesso delusi dal sesso promiscuo praticato in passato anche da loro stessi, aspettano il matrimonio, o almeno il grande amore, per «donarsi completamente». Proprio come il giocatore del Milan Kakà.
E poiché gli americani sono pragmatici, aumentano gli interventi chirurgici per richiudere l’imene. Ovvero per riguadagnare una verginità perduta. Non siamo nella Sicilia di un secolo fa. Siamo nel Paese guida dell’Occidente, dove c’è ancora l’illusione che, con po’ di fortuna, ottimismo e buona volontà, tutto è possibile. Rivergination compresa.
In fondo, fanno parte del Grande sogno americano anche i simpatici signori di queste foto, convinti di proteggere l’innocenza delle proprie figliole.
● E in Italia, la verginità è ancora un valore? «Il 45 per cento dei giovani tra i 18 e i 25 anni ritiene la verginità un valore importante», dice la psicosessuologa Marinella Cozzolino.
● Meno legati al valore della verginità gli universitari di Teramo, che hanno risposto alla domanda: «Andiamo a letto con tutti/e o aspettiamo l’amore?». Per l’80 per cento la verginità non è un valore.
Mauro Suttora
«No sex in the city»: i padri s’impegnano a difendere la castità delle figlie fino alle nozze. È un’idea delle nuove chiese evangeliche, che fa discutere. Ma tra i suoi fan c’è anche il presidente degli Stati Uniti Bush
New York (Stati Uniti), 4 giugno 2008
Ci mancavano i «balli della purezza». Dagli Stati Uniti, fonte inesauribile di stravaganze, arriva la notizia che si stanno moltiplicando i cosiddetti purity ball: cerimonie annuali simili a serate di gala in cui gli adepti delle nuove chiese cristiane evangeliche si impegnano pubblicamente e solennemente a proteggere e preservare la verginità delle proprie figlie teen-ager. Compito arduo, in un Paese dove tutte le statistiche indicano che l’età del primo rapporto sessuale è attorno ai 14-15 anni. E dove i giovani che eventualmente si ritrovassero vergini a 18 anni finiscono in quei college descritti nell’ultimo libro di Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons: «Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato. Si ingozzava di sesso, in un arrapamento continuo!».
Per reagire a questi eccessi, nel profondo Sud religioso dell’America sono nati nel 1998 i «Balli della purezza». «Io, padre di Elizabeth, scelgo di fronte a Dio di proteggere mia figlia con autorità nel campo della purezza. Sarò puro nella mia vita come uomo, marito e padre. Sarò una persona integra e onesta nel guidare mia figlia e pregare per lei, come il sacerdote della mia casa. E questa promessa verrà usata nel nome di Dio per influenzare le prossime generazioni». Queste sono, letteralmente, le parole che i padri pronunciano in giuramento con tanto di spadoni in difesa dell’illibatezza della figlia teen-ager. I loro eventuali fidanzatini sono avvertiti: niente rapporti sessuali prima del matrimonio.
Già negli Anni 80 erano nati alcuni gruppi di giovani religiosi che sventolavano con orgoglio la propria castità. Ma solo con la presidenza di George Bush alcuni Stati della «cintura della Bibbia» sono arrivati a finanziare con soldi pubblici corsi di educazione sessuale in cui l’astinenza viene propagandata come il miglior anticoncezionale, la migliore protezione contro le malattie veneree e il baluardo più efficace contro il fenomeno dilagante delle ragazze madri di 16-18 anni, diffuso soprattutto nei ghetti neri.
Ma questi «Balli della purezza», con l’entrata in campo diretta dei padri, segnano un ulteriore passo per le chiese del Texas, del Dakota o del Missouri.
Così li critica la femminista Eve Ensler: «Alle ragazze che affidano la propria verginità al padre viene di fatto tolto il diritto alla sessualità. Fino a quando non firmano un contratto con un altro uomo: il marito. Diventano invisibili. Non esistono più».
Che per evitare gli eccessi della promiscuità sessuale non si debba cadere in eccessi opposti lo sostengono anche molti cristiani evangelici, come Betsy Hart: «Sono cristiana e credo fermamente che il sesso sia riservato al matrimonio. Ma non farei mai una cosa simile per i miei figli, maschi o femmine. Questa fissazione per la verginità finisce con l’essere controproducente. Cristo, condannando l’ipocrisia dei farisei esibizionisti, ci ha insegnato che il peccato non è ciò che entra in una persona, ma ciò che esce dal suo cuore».
In effetti, le statistiche dimostrano che chi si impegna alla castità conserva la propria verginità «tecnica» solo 18 mesi più a lungo delle altre ragazze, ma ha una probabilità sei volte maggiore di praticare il sesso orale. Che, come arrivò a (sper)giurare l’ex presidente Bill Clinton, secondo alcuni non sarebbe sesso completo.
Non si capisce poi perché i ragazzi maschi non debbano essere oggetto di un’attenzione altrettanto rigorosa di quella riservata alle loro sorelle.
In ogni caso, anche se circoscritto a poche decine di migliaia di persone in un Paese con 300 milioni di abitanti, il ritorno alla verginità sembra un fenomeno in crescita. Forse per reazione ai matrimoni gay, appena legalizzati anche in California dopo il Massachusetts, o all’eutanasia permessa in Oregon.
Insomma, esiste un’America rurale ed economicamente arretrata dove questi messaggi rassicuranti fanno presa. E un tribunale ha appena condannato l’«intro-missione» della polizia che ha liberato le donne di un gruppo religioso che praticava la poligamia in Texas. Massima libertà per tutti, negli Stati Uniti. Anche troppa.
Sbaglia quindi chi immagina che l’America sia tutta libertina come nel film appena uscito 'Sex and the City'. Quella è solo New York: basta attraversare il fiume Hudson per scoprire che le donne disinibite e gli omosessuali di Manhattan non hanno vita facile altrove.
Il 22 luglio, per esempio, si riunirà ad Orlando (Florida) il congresso nazionale del Centro per l’astinenza, fondato nel 1993 da Leslee Unruh, energica biondona del Sud Dakota. In questo quindicennio la sua propaganda per un «nuova verginità» ha fatto proseliti anche nelle università più di sinistra, come Harvard a Boston o Columbia a New York. Si sono formati piccoli gruppi non più tanto catacombali di ragazzi che, spesso delusi dal sesso promiscuo praticato in passato anche da loro stessi, aspettano il matrimonio, o almeno il grande amore, per «donarsi completamente». Proprio come il giocatore del Milan Kakà.
E poiché gli americani sono pragmatici, aumentano gli interventi chirurgici per richiudere l’imene. Ovvero per riguadagnare una verginità perduta. Non siamo nella Sicilia di un secolo fa. Siamo nel Paese guida dell’Occidente, dove c’è ancora l’illusione che, con po’ di fortuna, ottimismo e buona volontà, tutto è possibile. Rivergination compresa.
In fondo, fanno parte del Grande sogno americano anche i simpatici signori di queste foto, convinti di proteggere l’innocenza delle proprie figliole.
● E in Italia, la verginità è ancora un valore? «Il 45 per cento dei giovani tra i 18 e i 25 anni ritiene la verginità un valore importante», dice la psicosessuologa Marinella Cozzolino.
● Meno legati al valore della verginità gli universitari di Teramo, che hanno risposto alla domanda: «Andiamo a letto con tutti/e o aspettiamo l’amore?». Per l’80 per cento la verginità non è un valore.
Mauro Suttora
I dittatori più longevi
Nella gara dei tiranni Mugabe batte Mao e Pol Pot
Libero, 4 giugno 2008
di Mauro Suttora
Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.
Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.
Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».
Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.
Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).
Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.
Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.
Mauro Suttora
Libero, 4 giugno 2008
di Mauro Suttora
Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che ieri ha parlato al vertice Fao di Roma, è un decano fra i despoti mondiali: è al potere da 28 anni. Più longevi di lui sono soltanto il sultano del Brunei e quattro altri tiranni africani: Omar Bongo (Gabon) che si installò 41 anni fa, il libico Muammar Gheddafi (dal 1969) e, con appena un anno in più al potere di Mugabe, Eduardo Dos Santos (Angola) e Teodoro Obiang Nguema (Guinea Equatoriale). L’Africa, insomma, la fa da padrona in questo triste elenco.
Mugabe, come l’iraniano Ahmadinejad, tecnicamente non potrebbe essere definito «dittatore». Nello Zimbabwe come in Iran, infatti, si svolgono regolarmente elezioni presidenziali. Ma i risultati sono falsati o truccati, a causa della mancanza di libertà.
Secondo Freedom House sono otto le dittature peggiori del mondo: Birmania, Corea del Nord, Cuba, Libia, Somalia, Sudan, Turkmenistan e Uzbekistan. Subito dopo, lo Zimbabwe di Mugabe assieme a Bielorussia, Cina, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Arabia Saudita e Siria. Al terzo peggior posto Camerun, Ciad, Iran, Swaziland e Vietnam. Ma anche Brunei e Angola vengono considerati Paesi «non liberi». Si «salva» solo Omar Bongo: il suo Gabon è considerato «parzialmente libero».
Ieri al vertice Fao ha preso la parola anche Isaias Afewerki, dittatore dell’Eritrea. Come Mugabe e tanti altri leader africani (da Dos Santos al tanzaniano Nyerere, dal keniota Kenyatta al guineano Houphuet-Boigny), all’inizio era un liberatore e padre della patria. Ma col passare degli anni si è attaccato al potere e incattivito. Esattamente come accade in «The Interpreter» (2006), l’ultimo film con Nicole Kidman e Sean Penn del povero Sydney Pollack, scomparso la scorsa settimana.
Se non avesse abdicato in favore del fratello Raul, in vetta alla classifica ci sarebbe stato Fidel Castro. Per pochi mesi non ha raggiunto i 49 anni di dominio assoluto esercitati dal coreano Kim Il Sung (1945-94), prima di morire lasciando lo scettro al figlio Kim Jong Il (che quindi è già arrivato a 14 anni). Fra gli immarcescibili, notevoli l’albanese Enver Hoxha (40 anni, fino all’85), lo spagnolo Francisco Franco e il persiano Reza Pahlevi (entrambi durati 39anni), e lo jugoslavo Tito (35, come Saddam Hussein).
Relativamente poco hanno resistito Hitler (12 anni) e Mussolini (23). Molto di più i comunisti Stalin (29) e Mao (27).
Naturalmente la durata di un dittatore non è correlata alla sua ferocia. Al cambogiano Pol Pot sono bastati quattro anni per sterminare un quarto dei suoi sudditi.
Incredibile, invece, la quantità di tiranni che riescono a morire tranquilli nel proprio letto. Perfino i cannibali e sanguinari Bokassa e Idi Amin Dada sono riusciti a scappare in esilio. Il tirannicidio, giudicato legittimo dagli antichi greci e perfino dalla Chiesa, non viene più molto praticato. Dove sono finiti gli anarchici dell’Ottocento? Se aspettiamo i tribunali Onu, nessuno verrà punito. Perfino il serbo Milosevic ha fatto in tempo a crepare per conto suo, prima della fine del processo all’Aia.
Mauro Suttora
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Tuesday, June 03, 2008
Mangiano pure sulla fame
PAPPONI MONDIALI
Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad
Libero, 3 giugno 2008
di Mauro Suttora
Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.
Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.
Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.
Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.
Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.
Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.
Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.
Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.
L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).
Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.
Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.
Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.
Mauro Suttora
Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad
Libero, 3 giugno 2008
di Mauro Suttora
Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.
Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.
Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.
Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.
Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.
Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.
Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.
Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.
L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).
Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.
Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.
Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.
Mauro Suttora
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Mr. Mugabe non gradito
Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente
Il Foglio, 3 giugno 2008
Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.
Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.
Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.
La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».
Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.
C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.
Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.
Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.
Mauro Suttora
Il Foglio, 3 giugno 2008
Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.
Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.
Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.
La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».
Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.
C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.
Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.
Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.
Mauro Suttora
Friday, May 30, 2008
No sex, siamo in the City
DA SPARARSI
Un italiano a Manhattan: le americane godono solo con lo shopping. Da oggi nei cinema 'Sex in the City'
Libero, 30 maggio 2008
di Mauro Suttora
«Scusa Mauro, questo tuo articolo è ben scritto e divertente, ma non pubblichiamo vendette private. E poi parole come "frigidità" e "clitoride" rimangono ancora off limits per noi».
Così il vicedirettore del settimanale Newsweek bocciò una delle column che avevo scritto per loro. Era il 2004. Come sempre d’estate a New York faceva un caldo umido brutale, e io ero disperato perché la mia fidanzata americana mi aveva mollato. Di colpo, con un'e-mail. Non voleva più vedermi, né sentirmi al telefono. Eliminato senza discussioni dopo tre mesi di amore (un periodo medio-lungo, per i ritmi nevrastenici di Manhattan).
Mi sembrava di essere improvvisamente piombato dentro una puntata di "Sex and the City". Anche perché la mia Liza, trentenne imperiosa dai lunghi capelli lisci e tacchi a spillo, assomigliava a quelle quattro. Anzi, ne era la fusione: sexy come Samantha, dolce come Charlotte, abrasiva come Miranda, brillante come Carrie. E drogata di shopping come tutt'e quattro.
Per due notti dormii poco, per tre giorni mangiai pochissimo. Mentre andavo a lavorare alla Rizzoli, sulla 57esima Strada, mi veniva da vomitare per i miasmi provenienti dai ristoranti cinesi. Poi, avendo il triplo degli anni di un adolescente, vidi il lato comico della tragedia. E cominciai a scrivere. Da allora non ho più smesso. E sono diventato uno dei massimi esperti mondiali di quella inimitabile specie animale che sono le donne di Manhattan. Ho perfino scritto un libro su di loro: «No Sex in the City» (Cairo, 2a edizione 2007).
Cestinandomi l'articolo il caporedattore di Newsweek mi fornì un consiglio prezioso: «Perché non lo proponi al New York Observer? Quelli sì che lo apprezzerebbero». L'Observer: il settimanale in carta rosa dei radical-chic newyorkesi. Sessantamila copie vendute quasi tutte nell'Upper East Side, dove vivono i miliardari, e d'estate negli Hamptons, dove i Rockefeller e i Vanderbilt svacanzano sempre assieme, in gregge, fin dai tempi di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby.
Quattro cose sono rimaste uguali da quei clamorosi anni Venti: il colore assurdamente giallo canarino e verde smeraldo dei vestiti estivi, le donne ridanciane e vogliose di parties, le auto veloci e il tasso alcolico.
Manhattan è, dopo la Carnia, il posto al mondo dove si beve di più. Per un motivo semplice: quando si smette non occorre prendere l’auto per tornare a casa, basta gettarsi in un taxi o in un vagone del metrò. Ma anche perché le donne di Sex and the City hanno bisogno di un bicchiere per cominciare a parlare, del secondo per sorridere e del terzo per disinibirsi. Al quarto però crollano, quindi la «finestra di opportunità» (come la chiamano gli americani, in marketinghese) per noi maschietti è molto stretta.
All’Observer sono stati felici di pubblicare il mio articolo, in cui descrivevo da entomologo la frigidità della mia apparentemente sexyssima (pantaloni aderenti color leopardo) ma in realtà anoressica e anorgasmica Liza, e la tendenza sua e di tante newyorkesi (statistiche alla mano) a soddisfarsi da sole, accarezzandosi il (la?) clitoride. Infatti il motto delle femmine di Sex and the City è: «Perché accontentarsi di un uomo, quando si può avere un intero dito (il proprio)?»
Sia chiaro: come tutti gli italiani, ero e continuo a essere perdutamente innamorato dell’America e di New. Ma un conto è divertirsi osservando le traversie delle quattro smandrappate di Sex and…, un conto è viverci dentro. Un inferno.
Liza (ma poi anche Marsha, mia fidanzata per un anno) smetteva di lavorare alle sei, e mi invitava a qualche «evento»: un aperitivo, l’inaugurazione di un negozio, la vernice di una galleria d’arte, la presentazione di un libro. Poi il ristorante. Le «ragazze» di Manhattan (si fanno pateticamente chiamare «girls» anche a 50 anni) si atteggiano a superfemministe, ma accettano svelte il conto pagato dal maschio. Dappertutto: dal cocktail al ristorante, dal taxi alla discoteca. Se poi gli lasci la tua carta di credito in un negozio di scarpe, borse o vestiti, ti sposano subito.
Tornavamo a casa dal Soho Club (di moda quattro anni fa) dopo mezzanotte. In taxi ci baciavamo, lei era focosa, ma arrivati su si lanciava sotto la doccia. Io la aspettavo speranzoso a letto. Però alla fine mi diceva: «Sono distrutta. Dormiamo, dai».
Al mattino di svegliava alle sei. Si metteva la tuta, le scarpe da ginnastica, e scendeva a far jogging a Central Park. Se pioveva o faceva troppo freddo o caldo, tapis roulant in palestra. Tornava a casa accaldata, rossa in viso, sensualissima. Io ero pronto, ma lei mi sgusciava via: doccia. E dopo era ormai «troppo tardi, devo correre al lavoro». Usciva di casa alle otto senza aver fatto neppure colazione: comprava un bicchierone sotto da Starbucks, e se lo portava in metro.
«Sono stressata, ho bisogno di relax», mi diceva per giustificare questa sua riluttanza all’accoppiamento. Io cercavo di spiegarle che il sesso serve appunto a rilassarsi. Ma lei non capiva: per gli americani il sesso è una specie di ginnastica, un’ulteriore attività pratica che si aggiunge alle tante altre. E in caso di problemi c’è sempre una guida che in 12 step li risolve.
Si rilassava nei wek-end, questo sì. Quindi facevamo regolarmente l’amore al sabato. «Come gli svizzeri», le ho detto. «Adoro il cioccolato svizzero», ha risposto, ignara del mio sarcasmo. Nonostante le scollature e il leopardume, a letto era più fredda del monte Bianco. «Non vengo mai la prima volta», mi disse Liza dopo un deludente debutto. Aspettai con trepidazione la seconda volta, e mi diedi un sacco da fare. Niente. «Vengo raramente», annunciò distrattamente. «Ma mi piace anche così», precisò subito, per non fare la figura della «loser», la perdente.
Ecco, questo è il vero Sex nella city. Certo, non si può generalizzare. New York resta la capitale del mondo gaudente, e ha il più alto tasso di single del pianeta. Quindi a letto ci si arriva facilmente. Ma è sul materasso che cominciano i dolori. Perché Carrie e amiche raggiungono molto più facilmente la soddisfazione comprando sandali Manolo Blahnik (la mia Liza preferiva il negozio Jimmy Choo di Madison Avenue, da me soprannominato «dai 200 ($) in su»). No Sex in the City.
Mauro Suttora
Un italiano a Manhattan: le americane godono solo con lo shopping. Da oggi nei cinema 'Sex in the City'
Libero, 30 maggio 2008
di Mauro Suttora
«Scusa Mauro, questo tuo articolo è ben scritto e divertente, ma non pubblichiamo vendette private. E poi parole come "frigidità" e "clitoride" rimangono ancora off limits per noi».
Così il vicedirettore del settimanale Newsweek bocciò una delle column che avevo scritto per loro. Era il 2004. Come sempre d’estate a New York faceva un caldo umido brutale, e io ero disperato perché la mia fidanzata americana mi aveva mollato. Di colpo, con un'e-mail. Non voleva più vedermi, né sentirmi al telefono. Eliminato senza discussioni dopo tre mesi di amore (un periodo medio-lungo, per i ritmi nevrastenici di Manhattan).
Mi sembrava di essere improvvisamente piombato dentro una puntata di "Sex and the City". Anche perché la mia Liza, trentenne imperiosa dai lunghi capelli lisci e tacchi a spillo, assomigliava a quelle quattro. Anzi, ne era la fusione: sexy come Samantha, dolce come Charlotte, abrasiva come Miranda, brillante come Carrie. E drogata di shopping come tutt'e quattro.
Per due notti dormii poco, per tre giorni mangiai pochissimo. Mentre andavo a lavorare alla Rizzoli, sulla 57esima Strada, mi veniva da vomitare per i miasmi provenienti dai ristoranti cinesi. Poi, avendo il triplo degli anni di un adolescente, vidi il lato comico della tragedia. E cominciai a scrivere. Da allora non ho più smesso. E sono diventato uno dei massimi esperti mondiali di quella inimitabile specie animale che sono le donne di Manhattan. Ho perfino scritto un libro su di loro: «No Sex in the City» (Cairo, 2a edizione 2007).
Cestinandomi l'articolo il caporedattore di Newsweek mi fornì un consiglio prezioso: «Perché non lo proponi al New York Observer? Quelli sì che lo apprezzerebbero». L'Observer: il settimanale in carta rosa dei radical-chic newyorkesi. Sessantamila copie vendute quasi tutte nell'Upper East Side, dove vivono i miliardari, e d'estate negli Hamptons, dove i Rockefeller e i Vanderbilt svacanzano sempre assieme, in gregge, fin dai tempi di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby.
Quattro cose sono rimaste uguali da quei clamorosi anni Venti: il colore assurdamente giallo canarino e verde smeraldo dei vestiti estivi, le donne ridanciane e vogliose di parties, le auto veloci e il tasso alcolico.
Manhattan è, dopo la Carnia, il posto al mondo dove si beve di più. Per un motivo semplice: quando si smette non occorre prendere l’auto per tornare a casa, basta gettarsi in un taxi o in un vagone del metrò. Ma anche perché le donne di Sex and the City hanno bisogno di un bicchiere per cominciare a parlare, del secondo per sorridere e del terzo per disinibirsi. Al quarto però crollano, quindi la «finestra di opportunità» (come la chiamano gli americani, in marketinghese) per noi maschietti è molto stretta.
All’Observer sono stati felici di pubblicare il mio articolo, in cui descrivevo da entomologo la frigidità della mia apparentemente sexyssima (pantaloni aderenti color leopardo) ma in realtà anoressica e anorgasmica Liza, e la tendenza sua e di tante newyorkesi (statistiche alla mano) a soddisfarsi da sole, accarezzandosi il (la?) clitoride. Infatti il motto delle femmine di Sex and the City è: «Perché accontentarsi di un uomo, quando si può avere un intero dito (il proprio)?»
Sia chiaro: come tutti gli italiani, ero e continuo a essere perdutamente innamorato dell’America e di New. Ma un conto è divertirsi osservando le traversie delle quattro smandrappate di Sex and…, un conto è viverci dentro. Un inferno.
Liza (ma poi anche Marsha, mia fidanzata per un anno) smetteva di lavorare alle sei, e mi invitava a qualche «evento»: un aperitivo, l’inaugurazione di un negozio, la vernice di una galleria d’arte, la presentazione di un libro. Poi il ristorante. Le «ragazze» di Manhattan (si fanno pateticamente chiamare «girls» anche a 50 anni) si atteggiano a superfemministe, ma accettano svelte il conto pagato dal maschio. Dappertutto: dal cocktail al ristorante, dal taxi alla discoteca. Se poi gli lasci la tua carta di credito in un negozio di scarpe, borse o vestiti, ti sposano subito.
Tornavamo a casa dal Soho Club (di moda quattro anni fa) dopo mezzanotte. In taxi ci baciavamo, lei era focosa, ma arrivati su si lanciava sotto la doccia. Io la aspettavo speranzoso a letto. Però alla fine mi diceva: «Sono distrutta. Dormiamo, dai».
Al mattino di svegliava alle sei. Si metteva la tuta, le scarpe da ginnastica, e scendeva a far jogging a Central Park. Se pioveva o faceva troppo freddo o caldo, tapis roulant in palestra. Tornava a casa accaldata, rossa in viso, sensualissima. Io ero pronto, ma lei mi sgusciava via: doccia. E dopo era ormai «troppo tardi, devo correre al lavoro». Usciva di casa alle otto senza aver fatto neppure colazione: comprava un bicchierone sotto da Starbucks, e se lo portava in metro.
«Sono stressata, ho bisogno di relax», mi diceva per giustificare questa sua riluttanza all’accoppiamento. Io cercavo di spiegarle che il sesso serve appunto a rilassarsi. Ma lei non capiva: per gli americani il sesso è una specie di ginnastica, un’ulteriore attività pratica che si aggiunge alle tante altre. E in caso di problemi c’è sempre una guida che in 12 step li risolve.
Si rilassava nei wek-end, questo sì. Quindi facevamo regolarmente l’amore al sabato. «Come gli svizzeri», le ho detto. «Adoro il cioccolato svizzero», ha risposto, ignara del mio sarcasmo. Nonostante le scollature e il leopardume, a letto era più fredda del monte Bianco. «Non vengo mai la prima volta», mi disse Liza dopo un deludente debutto. Aspettai con trepidazione la seconda volta, e mi diedi un sacco da fare. Niente. «Vengo raramente», annunciò distrattamente. «Ma mi piace anche così», precisò subito, per non fare la figura della «loser», la perdente.
Ecco, questo è il vero Sex nella city. Certo, non si può generalizzare. New York resta la capitale del mondo gaudente, e ha il più alto tasso di single del pianeta. Quindi a letto ci si arriva facilmente. Ma è sul materasso che cominciano i dolori. Perché Carrie e amiche raggiungono molto più facilmente la soddisfazione comprando sandali Manolo Blahnik (la mia Liza preferiva il negozio Jimmy Choo di Madison Avenue, da me soprannominato «dai 200 ($) in su»). No Sex in the City.
Mauro Suttora
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Friday, May 16, 2008
Mauro of Manhattan
New York Observer
April 29, 2008
by Mauro Suttora
“Why do you keep replying, ‘Thank you, but we already have plans for that evening,’ Marsha, when you know we’re free?”
“It’s just an excuse, Mauro. I just want to avoid an invitation by boring people.”
“Yes, but it sounds too … How can I say? Grandiose to me. In Italy we don’t make plans. I mean, not normal people. The government, maybe, sometimes. At least they boast it, to impress voters and pretend they are in charge. But ordinary people …”
“We are not ordinary. We’re supposed to have plans in our life. They can’t invite us like that, on the snatch, impromptu, with only a few days’ notice.”
Marsha, my Upper East Side girlfriend, can’t understand how Italians can survive always improvising—without inviting, nor making theater reservations or booking restaurants one month in advance.
“Come on, Marsha, don’t play it big. Don’t act precious. If one of my Italian friends calls us to go out on that same evening, we don’t have to invent ‘plans’ for fear of showing that our life is empty. You know we love to spend most of our evenings here, sitting in front of the TV. Actually, upgrading our cable TV menu has flooded us with wonderful movies, and improved my English, although it has almost killed our social life…”
“That was your idea.”
“No, no, no, darling, my idea was just to replace a crummy old little TV set with something civilized.”
“Yes, but then you invaded our sitting room with a monster, this humongous 42 inches plasma. Where the hell am I supposed to place food and beverage for our next parties?”
“Actually, I haven’t finished yet.”
“I know. Don’t come up with that again. No way. Don’t get me started on your freaking sound system with wires all over the place. Don’t even raise the subject.”
“But Marsha, that’s the normal consequence of buying a large-screen TV. What do we make of it, if the sound is not comparable to the vision, at the same excellence level?”
“It’s already stereo.”
“We’re talking ‘home cinema’ here, milady. … ‘Dolby Surround system.’ Remember the private screening we were invited to by the Italian distributor of Woody Allen’s Scoop in his luxurious Palazzo Borghese apartment in Rome?”
“Gee, but that was another planet. They are professionals, that’s their field. We are not movie geeks. Come on.”
“I just saw a five channels 400 dollars sound system in the store near my Rizzoli Bookstore office, on 57th Street.”
“I told you: I don’t want any of your ‘surround’ sound around here. Not that I don’t appreciate your will for improvement, but the only thing I’ll be surrounded by will be wires. See this? They’re already mushrooming all over: the TV cable, the connection to the DVD, the wire for the pay-TV box, the high-speed Internet, the telephone ... There’s such an intricated bush under the plasma screen. It was supposed to save room, but now it’s invading us.”
“It’s wireless.”
“What?”
“Yes, wireless.”
“You mean the five speakers come without wires?”
“Yeah … kind of.”
“Kind of what? The last time we had something wireless around, it was that pirate neighbor of us who stole from our wi-max, getting connected for free and making us pay for his all-night porno browsing and wanderings around the Net.”
“We discovered that almost immediately.”
“Yes, after some wonderful astronomical bills … You don’t like flat rates, do you?”
“The sound system is almost totally wireless, Marsha, I swear.”
“What do you mean ‘almost’? ‘Almost totally’ sounds sooo Italian. Like ‘Almost pregnant’.”
“The rear speakers are wireless.”
“You mean two out of five.”
“Yes ... But that’s the crucial problem we have overcome here, Marsha. Three speakers stay on the wall in front, connected by small threads we can easily disguise along the baseboard. And on this side of the room, behind the sofa, we place the other three pieces.”
“Three? Why one more? For a total of six speakers?”
“One is just a little box getting the radio signal from the other side, and distributing it to the rear speakers.”
“And that horrible big thing you showed me, what’s its name?”
“The bass subwoofer?”
“It’s too big. Where are we going to place it?”
“Did you prefer the old way, when all the speakers where huge?”
“At least they were only two, not six.”
“I love you, Marsha.”
“You stress me, Mauro. Do we have plans for tonight?”
“…”
“Don’t …”
“…”
“Come on, don’t start and touch me, I have to shower, been working all day.”
“I llloove your sexy smell.”
“I know what your plans are, regarding me. They are always the same, when we sit alone on the sofa. You only have sex in your mind.”
“I do have plans for you. I always have plans. I am a natural-born planner, my love. I wouldn’t have ventured in Iraq without a plan, like your president did, my sweet bushie …”
Mauro Suttora
wiki
April 29, 2008
by Mauro Suttora
“Why do you keep replying, ‘Thank you, but we already have plans for that evening,’ Marsha, when you know we’re free?”
“It’s just an excuse, Mauro. I just want to avoid an invitation by boring people.”
“Yes, but it sounds too … How can I say? Grandiose to me. In Italy we don’t make plans. I mean, not normal people. The government, maybe, sometimes. At least they boast it, to impress voters and pretend they are in charge. But ordinary people …”
“We are not ordinary. We’re supposed to have plans in our life. They can’t invite us like that, on the snatch, impromptu, with only a few days’ notice.”
Marsha, my Upper East Side girlfriend, can’t understand how Italians can survive always improvising—without inviting, nor making theater reservations or booking restaurants one month in advance.
“Come on, Marsha, don’t play it big. Don’t act precious. If one of my Italian friends calls us to go out on that same evening, we don’t have to invent ‘plans’ for fear of showing that our life is empty. You know we love to spend most of our evenings here, sitting in front of the TV. Actually, upgrading our cable TV menu has flooded us with wonderful movies, and improved my English, although it has almost killed our social life…”
“That was your idea.”
“No, no, no, darling, my idea was just to replace a crummy old little TV set with something civilized.”
“Yes, but then you invaded our sitting room with a monster, this humongous 42 inches plasma. Where the hell am I supposed to place food and beverage for our next parties?”
“Actually, I haven’t finished yet.”
“I know. Don’t come up with that again. No way. Don’t get me started on your freaking sound system with wires all over the place. Don’t even raise the subject.”
“But Marsha, that’s the normal consequence of buying a large-screen TV. What do we make of it, if the sound is not comparable to the vision, at the same excellence level?”
“It’s already stereo.”
“We’re talking ‘home cinema’ here, milady. … ‘Dolby Surround system.’ Remember the private screening we were invited to by the Italian distributor of Woody Allen’s Scoop in his luxurious Palazzo Borghese apartment in Rome?”
“Gee, but that was another planet. They are professionals, that’s their field. We are not movie geeks. Come on.”
“I just saw a five channels 400 dollars sound system in the store near my Rizzoli Bookstore office, on 57th Street.”
“I told you: I don’t want any of your ‘surround’ sound around here. Not that I don’t appreciate your will for improvement, but the only thing I’ll be surrounded by will be wires. See this? They’re already mushrooming all over: the TV cable, the connection to the DVD, the wire for the pay-TV box, the high-speed Internet, the telephone ... There’s such an intricated bush under the plasma screen. It was supposed to save room, but now it’s invading us.”
“It’s wireless.”
“What?”
“Yes, wireless.”
“You mean the five speakers come without wires?”
“Yeah … kind of.”
“Kind of what? The last time we had something wireless around, it was that pirate neighbor of us who stole from our wi-max, getting connected for free and making us pay for his all-night porno browsing and wanderings around the Net.”
“We discovered that almost immediately.”
“Yes, after some wonderful astronomical bills … You don’t like flat rates, do you?”
“The sound system is almost totally wireless, Marsha, I swear.”
“What do you mean ‘almost’? ‘Almost totally’ sounds sooo Italian. Like ‘Almost pregnant’.”
“The rear speakers are wireless.”
“You mean two out of five.”
“Yes ... But that’s the crucial problem we have overcome here, Marsha. Three speakers stay on the wall in front, connected by small threads we can easily disguise along the baseboard. And on this side of the room, behind the sofa, we place the other three pieces.”
“Three? Why one more? For a total of six speakers?”
“One is just a little box getting the radio signal from the other side, and distributing it to the rear speakers.”
“And that horrible big thing you showed me, what’s its name?”
“The bass subwoofer?”
“It’s too big. Where are we going to place it?”
“Did you prefer the old way, when all the speakers where huge?”
“At least they were only two, not six.”
“I love you, Marsha.”
“You stress me, Mauro. Do we have plans for tonight?”
“…”
“Don’t …”
“…”
“Come on, don’t start and touch me, I have to shower, been working all day.”
“I llloove your sexy smell.”
“I know what your plans are, regarding me. They are always the same, when we sit alone on the sofa. You only have sex in your mind.”
“I do have plans for you. I always have plans. I am a natural-born planner, my love. I wouldn’t have ventured in Iraq without a plan, like your president did, my sweet bushie …”
Mauro Suttora
wiki
Thursday, May 15, 2008
Emergenza sicurezza
Rom, clandestini e criminali: tutti in riga
"Colpiremo solo chi viola la legge", assicura il ministro Ronchi, "e per loro non saremo più un Paese disarmato". Ma c' è chi dice: attenzione ai facili capri espiatori
di Mauro Suttora
Roma, 28 maggio 2008
"La nostra priorità è garantire ai cittadini la necessaria protezione. Le azioni previste dal pacchetto puntano a combattere la paura entrata nelle nostre famiglie. La verità è che ormai non ci sentiamo sicuri neanche tra le mura di casa. È ora che gli italiani percepiscano un' inversione di tendenza nella lotta contro l' immigrazione clandestina".
Mentre da molti settori della politica, dell' impegno sociale e della Chiesa si sollevano allarmi sul rischio che la lotta alla criminalità si trasformi in una "criminalizzazione del diverso", Andrea Ronchi, neoministro per le Politiche comunitarie, spiega a Oggi il contenuto del decreto legge sulla sicurezza in approvazione dal Consiglio dei ministri riunito a Napoli mercoledì 21 maggio.
Non avete paura di alimentare razzismo e xenofobia?
"Episodi come quelli avvenuti a Ponticelli, il quartiere di Napoli dove la folla ha assaltato un campo Rom dopo il tentato rapimento di un neonato, non devono più accadere. Ci stiamo muovendo proprio per evitare questo rischio. Il decreto non combatte lo straniero in quanto tale, ma solo quello che non vuole essere identificato per evitare l' espulsione. Vogliamo punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che delinquono sul nostro territorio. Negli ultimi anni siamo diventati il ventre molle del Mediterraneo, la porta d' accesso all' Europa. Adesso questa porta deve essere chiusa e deve cambiare la percezione di lassismo spesso accostata al nostro Paese".
Quali sono le misure previste dal decreto ?
"Il pacchetto è in linea con la legge Bossi Fini sull' immigrazione del 2002, e coniuga solidarietà e legalità. Puntiamo a rendere il meccanismo delle espulsioni più efficace. Deve essere chiaro che chi varca la frontiera può restare soltanto se dimostra di avere un posto di lavoro e quindi un reddito. Gli altri saranno espulsi, con alcune eccezioni come le badanti cui è scaduto il permesso di soggiorno e i rifugiati politici. Inoltre puntiamo a garantire la piena operatività dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt), assicurandone la ricettività ma anche l' umanità del trattamento. In questo senso è importante allungare il limite di permanenza nei Cpt fino a 18 mesi".
C' è il rischio che questo provvedimento possa entrare in contrasto con le leggi europee e gli accordi di Schengen? "Il nostro intento non è certo quello di chiudere le porte ai cittadini europei. D' altra parte il problema non è sentito soltanto dal nostro Paese. Si tratta di una partita delicata, tant' è che le stesse istituzioni europee proprio in questi giorni si avviano a ridiscutere alcune direttive in materia".
Riuscirete a introdurre il reato di immigrazione clandestina ? "Il discorso è aperto, ma punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che commettono reati sul nostro territorio ritengo sia nel pieno diritto di uno Stato sovrano. Inoltre introdurre questo reato avrebbe un effetto deterrente molto forte sui trafficanti di esseri umani: farebbe capire che l' Italia ha davvero cambiato rotta".
Sì, il governo Berlusconi vuole esordire con un segnale di rigore. Dopo l' indulto (votato da partiti di entrambi gli schieramenti) e l' entrata della Romania in Europa, infatti, i reati sono aumentati. Ed è un fatto che i due terzi degli stranieri nelle nostre carceri oggi abbiano passaporto rumeno (semplici cittadini rumeni, o rom, ovvero zingari).
"Ma non si può fare di tutta l' erba un fascio", si accalora con Oggi da Lanciano (Chieti) il professor Santino Spinelli, docente di cultura rom nelle università di Trieste, Torino e Chieti, e artista con il nome di Alexian, "perché soltanto il 20 per cento dei 130 mila rom che vivono in Italia vengono dalla ex Jugoslavia o dalla Romania. Il resto sono cittadini italiani di antico insediamento. E non è neanche vero che siamo nomadi per cultura. I campi nomadi andrebbero smantellati, sono una forma di apartheid. Ma esistono troppe organizzazioni italiane che percepiscono soldi per "assistere gli zingari". Dateci case normali, piuttosto".
"Io le case le devo dare innanzitutto a chi ne ha diritto, e cioé ai 17 mila residenti anche stranieri che sono regolarmente in graduatoria", ribatte Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano. "Il problema è molto semplice: nei nostri campi rom ci sono duemila posti, ma ultimamente dalla Romania sono arrivate parecchie migliaia di persone. Per questi non c' è spazio, devono andarsene. Anche perché la situazione sta diventando insostenibile: solo a maggio, a Milano nove donne sono state violentate". A Milano non è questione di destra o sinistra: il presidente della Provincia Filippo Penati del Partito democratico dice che bisogna mandar via tutti i 23 mila rom accampati alla bell' e meglio. Quanto a Roma, il nuovo sindaco Gianni Alemanno (Pdl) vuole armare i vigili urbani.
Non è questione neppure di quantità delle forze dell' ordine: fra poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili e guardie forestali, l' Italia è di gran lunga il Paese più presidiato d' Europa. Per lo meno in teoria. Nella realtà, sono troppi gli agenti e i militari che non scendono per strada. Il capo della Polizia Antonio Manganelli chiede: "Dateci personale civile per sbrigare le pratiche burocratiche". Ma bisognerebbe anche snellirle, queste pratiche. Non è possibile, per esempio, che sia ancora in vigore la legge d' emergenza promulgata trent' anni fa, subito dopo il sequestro Moro, che obbliga chiunque vende o affitta una casa a denunciarlo subito in commissariato.
Sette anni dopo gli attentati dell' 11 settembre, la residenza privata dell' ambasciatore statunitense a Roma è ancora presidiata giorno e notte da una pantera della polizia, con due agenti sottratti a compiti più utili. Per non parlare di tutte le scorte ai politici. Poi, c' è tutto il capitolo della giustizia che non funziona. Perché le leggi possono anche diventare più severe, e la polizia ancora più efficiente (a Milano, per esempio, l'80 per cento dei violentatori viene arrestato). Ma se anche i recidivi godono di sconti prima di aver espiato metà della pena, e se la permanenza media in cella per un furto è di sette mesi, qualsiasi successo delle forze dell' ordine viene vanificato dall' eccessivo garantismo delle leggi e della loro interpretazione da parte dei giudici.
Per questo, accanto al ministro Ronchi (perché ormai l' immigrazione è una questione europea) e a quello dell' Interno Roberto Maroni, anche il nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano ha messo a punto nuove norme. L' articolo 656 del codice di procedura penale, per esempio, dovrebbe ora consentire ai plurirecidivi sconti di pena solo nell' ultimo anno. I reati su donne, anziani e bambini avranno minimi di pena più alti. Ed è stata introdotta anche l' aggravante della rapina in casa.
Più in generale, però, c' è la situazione di un Paese come il nostro dove l' immigrazione, contrariamente ad altri Paesi europei come Francia, Inghilterra e Germania, non è stata graduale e "assorbibile". In Italia gli immigrati erano un milione nel 1997, e oggi sono quattro milioni. Un aumento impressionante, che non può non dare luogo a problemi. "I politici italiani sapevano da anni che con l' entrata della Romania in Europa le frontiere si sarebbero aperte automaticamente. La colpa degli attuali rigurgiti razzisti è loro", accusa il professor Spinelli. Che paragona le bombe molotov contro i rom ai pogrom nazisti: "Siamo sempre noi un ottimo capro espiatorio".
Certo, in un Paese che da Roma in giù è controllato dalle mafie nostrane, sarebbe assurdo imputare tutto ai rom o ai rumeni. La grande criminalità è ben altra. Ma purtroppo è quella spicciola a dare più fastidio alla gente comune. In certi quartieri come l' Esquilino a Roma a volte basta anche lo sguardo un po' pesante di uno straniero a far crescere l' insofferenza fra le donne italiane impossibilitate a uscir di casa col buio. "Ma chiamarci razzisti no, questo non lo accetto", dice De Corato, lui stesso emigrato dalla Puglia: "A Milano vivono e lavorano tranquillamente 200 mila stranieri su un milione e 300 mila abitanti: il 15 per cento, quasi come a New York".
Mauro Suttora
"Colpiremo solo chi viola la legge", assicura il ministro Ronchi, "e per loro non saremo più un Paese disarmato". Ma c' è chi dice: attenzione ai facili capri espiatori
di Mauro Suttora
Roma, 28 maggio 2008
"La nostra priorità è garantire ai cittadini la necessaria protezione. Le azioni previste dal pacchetto puntano a combattere la paura entrata nelle nostre famiglie. La verità è che ormai non ci sentiamo sicuri neanche tra le mura di casa. È ora che gli italiani percepiscano un' inversione di tendenza nella lotta contro l' immigrazione clandestina".
Mentre da molti settori della politica, dell' impegno sociale e della Chiesa si sollevano allarmi sul rischio che la lotta alla criminalità si trasformi in una "criminalizzazione del diverso", Andrea Ronchi, neoministro per le Politiche comunitarie, spiega a Oggi il contenuto del decreto legge sulla sicurezza in approvazione dal Consiglio dei ministri riunito a Napoli mercoledì 21 maggio.
Non avete paura di alimentare razzismo e xenofobia?
"Episodi come quelli avvenuti a Ponticelli, il quartiere di Napoli dove la folla ha assaltato un campo Rom dopo il tentato rapimento di un neonato, non devono più accadere. Ci stiamo muovendo proprio per evitare questo rischio. Il decreto non combatte lo straniero in quanto tale, ma solo quello che non vuole essere identificato per evitare l' espulsione. Vogliamo punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che delinquono sul nostro territorio. Negli ultimi anni siamo diventati il ventre molle del Mediterraneo, la porta d' accesso all' Europa. Adesso questa porta deve essere chiusa e deve cambiare la percezione di lassismo spesso accostata al nostro Paese".
Quali sono le misure previste dal decreto ?
"Il pacchetto è in linea con la legge Bossi Fini sull' immigrazione del 2002, e coniuga solidarietà e legalità. Puntiamo a rendere il meccanismo delle espulsioni più efficace. Deve essere chiaro che chi varca la frontiera può restare soltanto se dimostra di avere un posto di lavoro e quindi un reddito. Gli altri saranno espulsi, con alcune eccezioni come le badanti cui è scaduto il permesso di soggiorno e i rifugiati politici. Inoltre puntiamo a garantire la piena operatività dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt), assicurandone la ricettività ma anche l' umanità del trattamento. In questo senso è importante allungare il limite di permanenza nei Cpt fino a 18 mesi".
C' è il rischio che questo provvedimento possa entrare in contrasto con le leggi europee e gli accordi di Schengen? "Il nostro intento non è certo quello di chiudere le porte ai cittadini europei. D' altra parte il problema non è sentito soltanto dal nostro Paese. Si tratta di una partita delicata, tant' è che le stesse istituzioni europee proprio in questi giorni si avviano a ridiscutere alcune direttive in materia".
Riuscirete a introdurre il reato di immigrazione clandestina ? "Il discorso è aperto, ma punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che commettono reati sul nostro territorio ritengo sia nel pieno diritto di uno Stato sovrano. Inoltre introdurre questo reato avrebbe un effetto deterrente molto forte sui trafficanti di esseri umani: farebbe capire che l' Italia ha davvero cambiato rotta".
Sì, il governo Berlusconi vuole esordire con un segnale di rigore. Dopo l' indulto (votato da partiti di entrambi gli schieramenti) e l' entrata della Romania in Europa, infatti, i reati sono aumentati. Ed è un fatto che i due terzi degli stranieri nelle nostre carceri oggi abbiano passaporto rumeno (semplici cittadini rumeni, o rom, ovvero zingari).
"Ma non si può fare di tutta l' erba un fascio", si accalora con Oggi da Lanciano (Chieti) il professor Santino Spinelli, docente di cultura rom nelle università di Trieste, Torino e Chieti, e artista con il nome di Alexian, "perché soltanto il 20 per cento dei 130 mila rom che vivono in Italia vengono dalla ex Jugoslavia o dalla Romania. Il resto sono cittadini italiani di antico insediamento. E non è neanche vero che siamo nomadi per cultura. I campi nomadi andrebbero smantellati, sono una forma di apartheid. Ma esistono troppe organizzazioni italiane che percepiscono soldi per "assistere gli zingari". Dateci case normali, piuttosto".
"Io le case le devo dare innanzitutto a chi ne ha diritto, e cioé ai 17 mila residenti anche stranieri che sono regolarmente in graduatoria", ribatte Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano. "Il problema è molto semplice: nei nostri campi rom ci sono duemila posti, ma ultimamente dalla Romania sono arrivate parecchie migliaia di persone. Per questi non c' è spazio, devono andarsene. Anche perché la situazione sta diventando insostenibile: solo a maggio, a Milano nove donne sono state violentate". A Milano non è questione di destra o sinistra: il presidente della Provincia Filippo Penati del Partito democratico dice che bisogna mandar via tutti i 23 mila rom accampati alla bell' e meglio. Quanto a Roma, il nuovo sindaco Gianni Alemanno (Pdl) vuole armare i vigili urbani.
Non è questione neppure di quantità delle forze dell' ordine: fra poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili e guardie forestali, l' Italia è di gran lunga il Paese più presidiato d' Europa. Per lo meno in teoria. Nella realtà, sono troppi gli agenti e i militari che non scendono per strada. Il capo della Polizia Antonio Manganelli chiede: "Dateci personale civile per sbrigare le pratiche burocratiche". Ma bisognerebbe anche snellirle, queste pratiche. Non è possibile, per esempio, che sia ancora in vigore la legge d' emergenza promulgata trent' anni fa, subito dopo il sequestro Moro, che obbliga chiunque vende o affitta una casa a denunciarlo subito in commissariato.
Sette anni dopo gli attentati dell' 11 settembre, la residenza privata dell' ambasciatore statunitense a Roma è ancora presidiata giorno e notte da una pantera della polizia, con due agenti sottratti a compiti più utili. Per non parlare di tutte le scorte ai politici. Poi, c' è tutto il capitolo della giustizia che non funziona. Perché le leggi possono anche diventare più severe, e la polizia ancora più efficiente (a Milano, per esempio, l'80 per cento dei violentatori viene arrestato). Ma se anche i recidivi godono di sconti prima di aver espiato metà della pena, e se la permanenza media in cella per un furto è di sette mesi, qualsiasi successo delle forze dell' ordine viene vanificato dall' eccessivo garantismo delle leggi e della loro interpretazione da parte dei giudici.
Per questo, accanto al ministro Ronchi (perché ormai l' immigrazione è una questione europea) e a quello dell' Interno Roberto Maroni, anche il nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano ha messo a punto nuove norme. L' articolo 656 del codice di procedura penale, per esempio, dovrebbe ora consentire ai plurirecidivi sconti di pena solo nell' ultimo anno. I reati su donne, anziani e bambini avranno minimi di pena più alti. Ed è stata introdotta anche l' aggravante della rapina in casa.
Più in generale, però, c' è la situazione di un Paese come il nostro dove l' immigrazione, contrariamente ad altri Paesi europei come Francia, Inghilterra e Germania, non è stata graduale e "assorbibile". In Italia gli immigrati erano un milione nel 1997, e oggi sono quattro milioni. Un aumento impressionante, che non può non dare luogo a problemi. "I politici italiani sapevano da anni che con l' entrata della Romania in Europa le frontiere si sarebbero aperte automaticamente. La colpa degli attuali rigurgiti razzisti è loro", accusa il professor Spinelli. Che paragona le bombe molotov contro i rom ai pogrom nazisti: "Siamo sempre noi un ottimo capro espiatorio".
Certo, in un Paese che da Roma in giù è controllato dalle mafie nostrane, sarebbe assurdo imputare tutto ai rom o ai rumeni. La grande criminalità è ben altra. Ma purtroppo è quella spicciola a dare più fastidio alla gente comune. In certi quartieri come l' Esquilino a Roma a volte basta anche lo sguardo un po' pesante di uno straniero a far crescere l' insofferenza fra le donne italiane impossibilitate a uscir di casa col buio. "Ma chiamarci razzisti no, questo non lo accetto", dice De Corato, lui stesso emigrato dalla Puglia: "A Milano vivono e lavorano tranquillamente 200 mila stranieri su un milione e 300 mila abitanti: il 15 per cento, quasi come a New York".
Mauro Suttora
Daniela Cardinale e Barbara Mannucci
Per noi la politica è un gioco da ragazze
Parlano le due baby deputate elette nel nuovo Parlamento
Barbara Mannucci (Pdl) e Daniela Cardinale (Pd) hanno solo 26 anni. In questa intervista spiegano di avere idee in comune. E la prima è aiutare i coetanei a non essere più "bamboccioni"
di Mauro Suttora
Roma, 14 maggio 2008
Cos'è la politica ? Barbara Mannucci: "Il mezzo per organizzare la vita pubblica".
Daniela Cardinale: "Lo strumento della democrazia per governare le istituzioni e dare risposte ai problemi dei cittadini".
Cos'è la Casta ? B: "Una classe che si attribuisce privilegi non dovuti".
D: "Una distorsione della democrazia, che permette privilegi ad alcune categorie di cittadini".
Apre il nuovo Parlamento, i volti più freschi sono i loro. E in questa intervista doppia provano a convincerci di essere sì baby onorevoli, ma capaci già di pensare in grande.
La prima legge che proporrai?
B: "Meritocrazia: master postuniversitari gratis per i laureati fra 100 e 110 e lode. Mantenendo i livelli di eccellenza".
D: "Defiscalizzazioni e incentivi per i giovani del Sud che aprono attività artigianali, commerciali o di piccola imprenditoria".
Il tuo incubo ?
B: "Perdere le persone care".
D: "Non riuscire a essere all' altezza di questa nuova e grande responsabilità".
Il tuo sogno ? B: "Sposarmi e avere tre figli". D: "Poter vedere la mia Sicilia nelle stesse condizioni economiche e sociali della Lombardia".
Il giorno migliore della vita ? B: "Quand' è nata mia nipote Francesca, che ha dieci anni". D: "L' elezione a deputata".
Il giorno peggiore ? B: "Quando abbiamo perso le elezioni del 2006 per pochi voti". D: "Da bambina: cadendo da cavallo mi sono procurata una deviazione del setto nasale".
Il politico che ammiri di più ? B: "Berlusconi, ovviamente". D: "Franco Marini: carica umana oltre alle capacità politiche".
Quello che senti più lontano ? B: "Veltroni". D: "Bossi".
Un avversario che ammiri ? B: "Bertinotti, lo stimo molto". D: "Giulia Bongiorno, è seria".
Sei fidanzata ? B: "Sì, da due anni". D: "Sì, da tre e mezzo".
Vuoi fare carriera politica ? B: "Sì". D: "Sì, ma senza sconti".
L' ultimo libro letto ? B: "Me l' ha regalato Tito Boeri: Contro i giovani. Lo ha scritto lui, con Vincenzo Galasso". D: "I Viceré di De Roberto".
Lo scrittore preferito ? B: "Isabel Allende". D: "Leonardo Sciascia".
Il cantante ? B: "Eros e Vasco". D: "Nannini e Antonacci".
L' attore ? B: "Raoul Bova". D: "Michael Douglas".
Il politico straniero preferito ? B&D: "Barack Obama".
Il personaggio storico ? B: "L' imperatrice Sissi". D: "Giulio Cesare".
Se avessi la bacchetta magica... B: "Ridurrei la disoccupazione". D: "Darei lavoro ai tanti giovani che me l' hanno chiesto".
Hai comprato un vestito per il debutto alla Camera ? B: "Sì, un tailleur da 180 euro". D: "No, lo avevo già".
Lo Stato risparmia se... D&B: "Chiude enti inutili".
Lo spreco che aboliresti ? B: "Costose consulenze". D: "Auto blu".
Il privilegio da deputata cui rinunceresti ? B: "Treni e autostrade gratis". D: "Tutti quelli che ci mettono in cattiva luce".
Quello a cui non rinunceresti ? B: "Il permesso per l' auto in centro. Per me è una svolta". D: "L' immunità per i reati d' opinione".
Il film più bello ? B: "Arancia meccanica". D: "Nuovo Cinema Paradiso".
La canzone preferita ? B: "Albachiara, Vasco Rossi". D: "Donna cannone, De Gregori".
Il tuo hobby ? B: "Romanzi sudamericani". D: "Il nuoto".
La tua passione ? B: "La pastasciutta". D: "Il mare".
Sei religiosa ? B&D: "Praticante".
Il personaggio più antipatico ? B: "Michele Santoro". D: "Tremonti. Troppo freddo".
Il più simpatico ? B: "Ezio Greggio". D: "Berlusconi".
Il primo giorno alla Camera com' è stato ? B: "Emozionante". D: "Esaltante, preoccupante".
Il politico italiano più bello ? B: "Giorgio Jannone del Pdl". D: "Casini".
Ti senti raccomandata ? B: "No, faccio politica da 12 anni". D: "Non più di tanti altri".
Fortunata ? B&D: "Sì, senza dubbio".
Che farai con i 14 mila euro di stipendio da deputata ? B: "Così tanti ? Davvero ? Non lo sapevo, giuro...". D: "Tolte le spese, i contributi al partito e per l' assistente, ne rimarranno cinquemila: potrò avere una vera indipendenza dalla famiglia".
Il tuo primo bacio? B: "A ricreazione, 14 anni". D: "Fatemi fare la siciliana...".
Lo slogan che preferisci ? B: "Carpe diem". D: "Si può fare, e si farà prima o poi".
Il politico più elegante ? B: "Barbareschi". D: "D' Alema".
Uno sfizio che ora ti toglierai ? B&D: "Mi compro l' auto nuova".
Il momento peggiore della campagna elettorale ? B: "I primi exit poll, sbagliati". D: "Una mia finta intervista nell' inserto satirico dell' Unità".
Quello migliore ? B: "In Puglia con Gabriella Carlucci, lei mi ha insegnato tanto". D: "Il comizio conclusivo nel mio paese, Mussomeli".
Vivi in famiglia ? B&D: "Sì".
Ti senti "bambocciona" ? B: "No, ho sempre studiato e lavorato. Uscirò di casa solo per sposarmi". D: "No, sono sempre stata impegnata con studio e lavoro".
Che lavoro hai fatto ? B: "Call center, commessa, animatrice nei villaggi turistici". D: "Collaboratrice di un parlamentare regionale".
I tuoi amici sono invidiosi ? B: "Un po' ". D: "No".
Il viaggio dei tuoi sogni ? B&D: "Stati Uniti, in auto".
Una donna politica modello ? B: "Condi Rice". D: "Finocchiaro".
Programma tv imperdibile ? B: "Striscia". D: "Ballarò".
Amore, arte, politica, religione: in ordine di importanza... B&D: "Amore, religione, politica, arte".
Cosa rispondi a chi dice che la politica è sempre sporca ? B: "Sarà mio compito ribaltare questo giudizio". D: "Sporchi sono alcuni politici, ma non la politica".
Beppe Grillo è... B&D: "Un bravissimo comico".
La sorpesa più grande entrando a Montecitorio ? B: "L' aula è più piccola di quel che sembra in televisione". D: "Il palazzo invece è enorme, è una piccola città".
Volete aggiungere qualcosa ? B: "Sono entrati in Parlamento molti giovani. Speriamo di fare politica in modo serio e pulito". D: "A chi pensa che mio padre mi condizionerà, rispondo che gli chiederò consigli. Ma alla fine deciderò da sola".
Mauro Suttora
Parlano le due baby deputate elette nel nuovo Parlamento
Barbara Mannucci (Pdl) e Daniela Cardinale (Pd) hanno solo 26 anni. In questa intervista spiegano di avere idee in comune. E la prima è aiutare i coetanei a non essere più "bamboccioni"
di Mauro Suttora
Roma, 14 maggio 2008
Cos'è la politica ? Barbara Mannucci: "Il mezzo per organizzare la vita pubblica".
Daniela Cardinale: "Lo strumento della democrazia per governare le istituzioni e dare risposte ai problemi dei cittadini".
Cos'è la Casta ? B: "Una classe che si attribuisce privilegi non dovuti".
D: "Una distorsione della democrazia, che permette privilegi ad alcune categorie di cittadini".
Apre il nuovo Parlamento, i volti più freschi sono i loro. E in questa intervista doppia provano a convincerci di essere sì baby onorevoli, ma capaci già di pensare in grande.
La prima legge che proporrai?
B: "Meritocrazia: master postuniversitari gratis per i laureati fra 100 e 110 e lode. Mantenendo i livelli di eccellenza".
D: "Defiscalizzazioni e incentivi per i giovani del Sud che aprono attività artigianali, commerciali o di piccola imprenditoria".
Il tuo incubo ?
B: "Perdere le persone care".
D: "Non riuscire a essere all' altezza di questa nuova e grande responsabilità".
Il tuo sogno ? B: "Sposarmi e avere tre figli". D: "Poter vedere la mia Sicilia nelle stesse condizioni economiche e sociali della Lombardia".
Il giorno migliore della vita ? B: "Quand' è nata mia nipote Francesca, che ha dieci anni". D: "L' elezione a deputata".
Il giorno peggiore ? B: "Quando abbiamo perso le elezioni del 2006 per pochi voti". D: "Da bambina: cadendo da cavallo mi sono procurata una deviazione del setto nasale".
Il politico che ammiri di più ? B: "Berlusconi, ovviamente". D: "Franco Marini: carica umana oltre alle capacità politiche".
Quello che senti più lontano ? B: "Veltroni". D: "Bossi".
Un avversario che ammiri ? B: "Bertinotti, lo stimo molto". D: "Giulia Bongiorno, è seria".
Sei fidanzata ? B: "Sì, da due anni". D: "Sì, da tre e mezzo".
Vuoi fare carriera politica ? B: "Sì". D: "Sì, ma senza sconti".
L' ultimo libro letto ? B: "Me l' ha regalato Tito Boeri: Contro i giovani. Lo ha scritto lui, con Vincenzo Galasso". D: "I Viceré di De Roberto".
Lo scrittore preferito ? B: "Isabel Allende". D: "Leonardo Sciascia".
Il cantante ? B: "Eros e Vasco". D: "Nannini e Antonacci".
L' attore ? B: "Raoul Bova". D: "Michael Douglas".
Il politico straniero preferito ? B&D: "Barack Obama".
Il personaggio storico ? B: "L' imperatrice Sissi". D: "Giulio Cesare".
Se avessi la bacchetta magica... B: "Ridurrei la disoccupazione". D: "Darei lavoro ai tanti giovani che me l' hanno chiesto".
Hai comprato un vestito per il debutto alla Camera ? B: "Sì, un tailleur da 180 euro". D: "No, lo avevo già".
Lo Stato risparmia se... D&B: "Chiude enti inutili".
Lo spreco che aboliresti ? B: "Costose consulenze". D: "Auto blu".
Il privilegio da deputata cui rinunceresti ? B: "Treni e autostrade gratis". D: "Tutti quelli che ci mettono in cattiva luce".
Quello a cui non rinunceresti ? B: "Il permesso per l' auto in centro. Per me è una svolta". D: "L' immunità per i reati d' opinione".
Il film più bello ? B: "Arancia meccanica". D: "Nuovo Cinema Paradiso".
La canzone preferita ? B: "Albachiara, Vasco Rossi". D: "Donna cannone, De Gregori".
Il tuo hobby ? B: "Romanzi sudamericani". D: "Il nuoto".
La tua passione ? B: "La pastasciutta". D: "Il mare".
Sei religiosa ? B&D: "Praticante".
Il personaggio più antipatico ? B: "Michele Santoro". D: "Tremonti. Troppo freddo".
Il più simpatico ? B: "Ezio Greggio". D: "Berlusconi".
Il primo giorno alla Camera com' è stato ? B: "Emozionante". D: "Esaltante, preoccupante".
Il politico italiano più bello ? B: "Giorgio Jannone del Pdl". D: "Casini".
Ti senti raccomandata ? B: "No, faccio politica da 12 anni". D: "Non più di tanti altri".
Fortunata ? B&D: "Sì, senza dubbio".
Che farai con i 14 mila euro di stipendio da deputata ? B: "Così tanti ? Davvero ? Non lo sapevo, giuro...". D: "Tolte le spese, i contributi al partito e per l' assistente, ne rimarranno cinquemila: potrò avere una vera indipendenza dalla famiglia".
Il tuo primo bacio? B: "A ricreazione, 14 anni". D: "Fatemi fare la siciliana...".
Lo slogan che preferisci ? B: "Carpe diem". D: "Si può fare, e si farà prima o poi".
Il politico più elegante ? B: "Barbareschi". D: "D' Alema".
Uno sfizio che ora ti toglierai ? B&D: "Mi compro l' auto nuova".
Il momento peggiore della campagna elettorale ? B: "I primi exit poll, sbagliati". D: "Una mia finta intervista nell' inserto satirico dell' Unità".
Quello migliore ? B: "In Puglia con Gabriella Carlucci, lei mi ha insegnato tanto". D: "Il comizio conclusivo nel mio paese, Mussomeli".
Vivi in famiglia ? B&D: "Sì".
Ti senti "bambocciona" ? B: "No, ho sempre studiato e lavorato. Uscirò di casa solo per sposarmi". D: "No, sono sempre stata impegnata con studio e lavoro".
Che lavoro hai fatto ? B: "Call center, commessa, animatrice nei villaggi turistici". D: "Collaboratrice di un parlamentare regionale".
I tuoi amici sono invidiosi ? B: "Un po' ". D: "No".
Il viaggio dei tuoi sogni ? B&D: "Stati Uniti, in auto".
Una donna politica modello ? B: "Condi Rice". D: "Finocchiaro".
Programma tv imperdibile ? B: "Striscia". D: "Ballarò".
Amore, arte, politica, religione: in ordine di importanza... B&D: "Amore, religione, politica, arte".
Cosa rispondi a chi dice che la politica è sempre sporca ? B: "Sarà mio compito ribaltare questo giudizio". D: "Sporchi sono alcuni politici, ma non la politica".
Beppe Grillo è... B&D: "Un bravissimo comico".
La sorpesa più grande entrando a Montecitorio ? B: "L' aula è più piccola di quel che sembra in televisione". D: "Il palazzo invece è enorme, è una piccola città".
Volete aggiungere qualcosa ? B: "Sono entrati in Parlamento molti giovani. Speriamo di fare politica in modo serio e pulito". D: "A chi pensa che mio padre mi condizionerà, rispondo che gli chiederò consigli. Ma alla fine deciderò da sola".
Mauro Suttora
L'Ici va via (ma poi torna)
Lo Stato rimborsa ai sindaci la tassa sulla casa
Scompare l' imposta più odiata d' Italia. I Comuni, però, non possono rinunciare a quei soldi. Quindi continueremo a pagare in altri modi. E addio federalismo...
di Mauro Suttora
Roma, 14 maggio 2008
Sindaci di estrema sinistra che vogliono abolire l'Ici, d' accordo con Silvio Berlusconi. Sindaci di centrodestra i quali, invece, vorrebbero mantenerla. La promessa del nuovo premier di cancellare l'Imposta comunale sugli immobili scompagina gli schieramenti. "Chi è tornato al Paese dopo quarant'anni in miniera all'estero, e si è costruito la casa da solo impastando il cemento col proprio sudore, non dev'essere colpito da una tassa sulla propria abitazione", dice a Oggi Ippazio Stefàno, sindaco di Taranto, Sinistra Arcobaleno.
"Ma senza l' Ici addio federalismo, e non si possono più premiare i comuni che non sprecano", obietta Attilio Fontana, sindaco di Varese, Lega Nord. Su una cosa però tutti gli 8.100 sindaci d' Italia, destra o sinistra, sono d' accordo: quando il governo toglierà l' Ici sulle prime case, dovrà rimborsare ai comuni una cifra equivalente a quella finora incassata.
"Altrimenti non riusciamo ad andare avanti, perché l' Ici rappresenta più della metà delle nostre tasse e il venti per cento delle nostre entrate", ci spiega Graziano Vatri, Udc, sindaco di Varmo (Udine), uno dei 5.800 comuni italiani con meno di cinquemila abitanti. E così sarà. Lo ha promesso il ministro dell' Economia in pectore, Giulio Tremonti, al sindaco di Firenze Leonardo Domenici, Pd, presidente dell' Anci (Associazione nazionale comuni italiani): i due miliardi e 200 milioni annui di euro sulle prime case che i Comuni riscuotevano direttamente da quindici anni verranno sostituiti da trasferimenti statali.
Non cambia nulla, quindi. Quel che pagavamo ai Comuni due volte l' anno, a giugno e a dicembre, ci verrà tolto con l' Ire (Imposta sui redditi, ex Irpef) e con le altre tante tasse, dall' Iva alle accise sulla benzina.
Dal calderone dei soldi finiti a Roma, lo Stato poi aumenterà di due miliardi i trasferimenti ai Comuni. Cambierà soltanto la nostra percezione: non dovremo più mettere direttamente mano al portafogli. E i lavoratori dipendenti, che non pagano di persona l' Ire perché le tasse vengono loro trattenute automaticamente in busta paga, non si accorgeranno dell' aggravio sulla fiscalità generale. A ben pensarci, l' unica categoria che ci perderà è quella di chi non possiede la casa in cui abita. Anche i non proprietari, infatti, saranno costretti indirettamente a colmare il buco causato dalla scomparsa dell' Ici.
Si ritorna, insomma, a prima del 1992. In quell' anno il governo Amato, sull' orlo della bancarotta, oltre a un prelievo diretto sui conti correnti, si inventò l' Isi (Imposta straordinaria immobili) del 3 per mille sul valore di tutti i fabbricati. L' anno dopo la tassa divenne fissa e, per apparire meno odiosa, la riscossione fu delegata ai Comuni, in nome del federalismo. Ogni Comune da allora può decidere quale aliquota applicare, dal 4 al 7 per mille (8 per gli appartamenti sfitti in città ad "alta tensione abitativa").
Ora rimarrà l' Ici soltanto sulle seconde case e su quelle di lusso, che forniscono un introito di 800 milioni di euro circa all' anno.le conferme di tremonti "L' Ici", spiega il sindaco Domenici, "è la prima entrata dei comuni, dal quale dipendono gran parte dei servizi ai cittadini. È quindi necessario, come confermato da Tremonti, che un suo sgravio trovi una compensazione congrua, adeguata e precisa. Per noi il federalismo fiscale è una priorità assoluta".
L' esenzione dall' Ici avverrà con le stesse modalità che il governo Prodi aveva già previsto, allargando l'esonero dal 40 per cento concesso dal governo di centrosinistra al 100 per cento previsto dal nuovo governo per la prima casa a uso abitativo. Uno studio realizzato da Anci Cittalia dimostra che il 56 per cento dei comuni riscuote direttamente l' Ici, mentre il 38 per cento (quelli medio piccoli) utilizza concessionari. Il 60 per cento dei comuni italiani possiede dati aggiornati della banca dati catastale, con picchi maggiori nel Nord Est. Ma c' è anche un 25 per cento di comuni, equamente distribuiti sul territorio nazionale, che opera su dati non aggiornati, e quindi incassa meno del dovuto.
Clamoroso è il caso di alcune case nei centri storici delle grandi città accatastate come "popolari" invece che "di lusso". "Si parla anche di una riforma della fiscalità sugli affitti", dice Domenici, "con la proposta della tassazione con una cedolare secca del 20 per cento: ecco, chi sarebbe il beneficiario di quel gettito? Il rischio è di tornare a un sistema di finanza derivata, togliendoci autonomia fiscale e finanziaria. E questo è assolutamente contrario al federalismo fiscale".
Non è un mistero che il governo Berlusconi voglia tagliare la spesa pubblica. Togliendo l' Ici ai comuni, e riprendendo il controllo del rubinetto dei soldi, il governo può costringere gli enti locali a risparmiare, semplicemente negando loro i finanziamenti. "Ma per noi spendere di meno è impensabile", ci dice il sindaco leghista di Varese, Fontana. E mostra il suo bilancio, tipico di una città di 80 mila abitanti: una settantina di milioni di euro, venti dei quali coperti con l' Ici.
Fra le uscite, notiamo i tre milioni per la cultura. Ma come, sindaco, anche voi a Varese buttate i soldi pubblici nelle effimere "notti bianche" ?
"Soltanto per gli straordinari dei vigili", assicura Fontana, "tutto il resto è coperto da sponsor privati. Che ci hanno finanziato all' 88 per cento anche le tre mostre dell' ultimo anno: costavano un milione, noi abbiamo messo soltanto 120 mila euro. Quella sul Caravaggio ci è costata solo 10 mila euro. Io faccio di tutto per trovare sponsor... Dico a una banca: vengo alla vostra inaugurazione, ma in cambio sponsorizzateci per 50 mila euro...".
Problemi opposti a Taranto, prima città d' Italia a finire in bancarotta due anni fa con un debito di 637 milioni: il più alto al mondo dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Il nuovo sindaco Stefàno, pediatra prestato alla politica, ha rinunciato allo stipendio e ha dimezzato quello di assessori e consiglieri comunali. "Uno dei risparmi più grossi l' ho ottenuto eliminando le spese di "relazioni pubbliche": 200 mila euro...".
Ecco, se tutti i comuni d' Italia seguissero il suo esempio, le spese calerebbero, le tasse pure, e il nostro Paese non avrebbe il macigno di 1.600 miliardi di debito pubblico, che ci costringe a pagare 70 miliardi annui solo di interessi. Rispetto a questa cifra, i due miliardi dell' Ici abolita sono briciole.
Mauro Suttora
Scompare l' imposta più odiata d' Italia. I Comuni, però, non possono rinunciare a quei soldi. Quindi continueremo a pagare in altri modi. E addio federalismo...
di Mauro Suttora
Roma, 14 maggio 2008
Sindaci di estrema sinistra che vogliono abolire l'Ici, d' accordo con Silvio Berlusconi. Sindaci di centrodestra i quali, invece, vorrebbero mantenerla. La promessa del nuovo premier di cancellare l'Imposta comunale sugli immobili scompagina gli schieramenti. "Chi è tornato al Paese dopo quarant'anni in miniera all'estero, e si è costruito la casa da solo impastando il cemento col proprio sudore, non dev'essere colpito da una tassa sulla propria abitazione", dice a Oggi Ippazio Stefàno, sindaco di Taranto, Sinistra Arcobaleno.
"Ma senza l' Ici addio federalismo, e non si possono più premiare i comuni che non sprecano", obietta Attilio Fontana, sindaco di Varese, Lega Nord. Su una cosa però tutti gli 8.100 sindaci d' Italia, destra o sinistra, sono d' accordo: quando il governo toglierà l' Ici sulle prime case, dovrà rimborsare ai comuni una cifra equivalente a quella finora incassata.
"Altrimenti non riusciamo ad andare avanti, perché l' Ici rappresenta più della metà delle nostre tasse e il venti per cento delle nostre entrate", ci spiega Graziano Vatri, Udc, sindaco di Varmo (Udine), uno dei 5.800 comuni italiani con meno di cinquemila abitanti. E così sarà. Lo ha promesso il ministro dell' Economia in pectore, Giulio Tremonti, al sindaco di Firenze Leonardo Domenici, Pd, presidente dell' Anci (Associazione nazionale comuni italiani): i due miliardi e 200 milioni annui di euro sulle prime case che i Comuni riscuotevano direttamente da quindici anni verranno sostituiti da trasferimenti statali.
Non cambia nulla, quindi. Quel che pagavamo ai Comuni due volte l' anno, a giugno e a dicembre, ci verrà tolto con l' Ire (Imposta sui redditi, ex Irpef) e con le altre tante tasse, dall' Iva alle accise sulla benzina.
Dal calderone dei soldi finiti a Roma, lo Stato poi aumenterà di due miliardi i trasferimenti ai Comuni. Cambierà soltanto la nostra percezione: non dovremo più mettere direttamente mano al portafogli. E i lavoratori dipendenti, che non pagano di persona l' Ire perché le tasse vengono loro trattenute automaticamente in busta paga, non si accorgeranno dell' aggravio sulla fiscalità generale. A ben pensarci, l' unica categoria che ci perderà è quella di chi non possiede la casa in cui abita. Anche i non proprietari, infatti, saranno costretti indirettamente a colmare il buco causato dalla scomparsa dell' Ici.
Si ritorna, insomma, a prima del 1992. In quell' anno il governo Amato, sull' orlo della bancarotta, oltre a un prelievo diretto sui conti correnti, si inventò l' Isi (Imposta straordinaria immobili) del 3 per mille sul valore di tutti i fabbricati. L' anno dopo la tassa divenne fissa e, per apparire meno odiosa, la riscossione fu delegata ai Comuni, in nome del federalismo. Ogni Comune da allora può decidere quale aliquota applicare, dal 4 al 7 per mille (8 per gli appartamenti sfitti in città ad "alta tensione abitativa").
Ora rimarrà l' Ici soltanto sulle seconde case e su quelle di lusso, che forniscono un introito di 800 milioni di euro circa all' anno.le conferme di tremonti "L' Ici", spiega il sindaco Domenici, "è la prima entrata dei comuni, dal quale dipendono gran parte dei servizi ai cittadini. È quindi necessario, come confermato da Tremonti, che un suo sgravio trovi una compensazione congrua, adeguata e precisa. Per noi il federalismo fiscale è una priorità assoluta".
L' esenzione dall' Ici avverrà con le stesse modalità che il governo Prodi aveva già previsto, allargando l'esonero dal 40 per cento concesso dal governo di centrosinistra al 100 per cento previsto dal nuovo governo per la prima casa a uso abitativo. Uno studio realizzato da Anci Cittalia dimostra che il 56 per cento dei comuni riscuote direttamente l' Ici, mentre il 38 per cento (quelli medio piccoli) utilizza concessionari. Il 60 per cento dei comuni italiani possiede dati aggiornati della banca dati catastale, con picchi maggiori nel Nord Est. Ma c' è anche un 25 per cento di comuni, equamente distribuiti sul territorio nazionale, che opera su dati non aggiornati, e quindi incassa meno del dovuto.
Clamoroso è il caso di alcune case nei centri storici delle grandi città accatastate come "popolari" invece che "di lusso". "Si parla anche di una riforma della fiscalità sugli affitti", dice Domenici, "con la proposta della tassazione con una cedolare secca del 20 per cento: ecco, chi sarebbe il beneficiario di quel gettito? Il rischio è di tornare a un sistema di finanza derivata, togliendoci autonomia fiscale e finanziaria. E questo è assolutamente contrario al federalismo fiscale".
Non è un mistero che il governo Berlusconi voglia tagliare la spesa pubblica. Togliendo l' Ici ai comuni, e riprendendo il controllo del rubinetto dei soldi, il governo può costringere gli enti locali a risparmiare, semplicemente negando loro i finanziamenti. "Ma per noi spendere di meno è impensabile", ci dice il sindaco leghista di Varese, Fontana. E mostra il suo bilancio, tipico di una città di 80 mila abitanti: una settantina di milioni di euro, venti dei quali coperti con l' Ici.
Fra le uscite, notiamo i tre milioni per la cultura. Ma come, sindaco, anche voi a Varese buttate i soldi pubblici nelle effimere "notti bianche" ?
"Soltanto per gli straordinari dei vigili", assicura Fontana, "tutto il resto è coperto da sponsor privati. Che ci hanno finanziato all' 88 per cento anche le tre mostre dell' ultimo anno: costavano un milione, noi abbiamo messo soltanto 120 mila euro. Quella sul Caravaggio ci è costata solo 10 mila euro. Io faccio di tutto per trovare sponsor... Dico a una banca: vengo alla vostra inaugurazione, ma in cambio sponsorizzateci per 50 mila euro...".
Problemi opposti a Taranto, prima città d' Italia a finire in bancarotta due anni fa con un debito di 637 milioni: il più alto al mondo dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Il nuovo sindaco Stefàno, pediatra prestato alla politica, ha rinunciato allo stipendio e ha dimezzato quello di assessori e consiglieri comunali. "Uno dei risparmi più grossi l' ho ottenuto eliminando le spese di "relazioni pubbliche": 200 mila euro...".
Ecco, se tutti i comuni d' Italia seguissero il suo esempio, le spese calerebbero, le tasse pure, e il nostro Paese non avrebbe il macigno di 1.600 miliardi di debito pubblico, che ci costringe a pagare 70 miliardi annui solo di interessi. Rispetto a questa cifra, i due miliardi dell' Ici abolita sono briciole.
Mauro Suttora
Il terzo genitore
E se il patrigno diventasse un PAPÀ BIS ?
Fa discutere una proposta francese sui diritti dei nuovi compagni di mamma e papà
"Ormai un bimbo su tre ha madre e padre divisi, ma estendere i doveri di paternità ai fidanzati mariti delle donne separate (e viceversa) alimenterebbe le tensioni", dicono gli esperti. Spiega la divorziata Nancy Brilli: "Niente legge, serve il buon senso"
di Mauro Suttora
Roma, 30 aprile 2008
Aiuto, un' altra legge. Non bastavano le polemiche sull' affido condiviso. Ora dalla Francia arriva la balzana idea di permettere allo Stato di intrufolarsi nelle nostre faccende private anche per quanto riguarda la figura del cosiddetto "terzo genitore". Che sarebbero poi gli antichi "patrigni" o "matrigne": personaggi detestabili in certi libri o film, ma inevitabili quando il coniuge di un matrimonio si porta appresso i figli di un legame precedente.
Statisticamente, i figli di genitori divorziati e risposati sono ormai quasi un terzo del totale. Una questione che riguarda tutti, quindi, o per esperienza personale o per le vicende di parenti stretti e amici.Ma cosa prevede, in concreto, la legge sul "terzo genitore" ? Il suo diritto a entrare in scena in casi particolari, come andare a parlare con maestri e insegnanti, accompagnare il minore a una visita medica, poter fargli fare la carta d' identità o un altro documento, portarlo in vacanza all' estero.
"Tutti problemi che si possono risolvere col buonsenso", dice a Oggi Nancy Brilli, madre di Francesco, 7 anni, frutto del suo secondo matrimonio con Luca Manfredi. Ora l' attrice convive con il chirurgo plastico Roy De Vita. "Non c' è bisogno di una nuova legge per fare l' unica cosa che i genitori separati e quelli acquisiti devono fare: mettersi nei panni dei figli, e capire che cosa li fa stare bene e cosa male".
Precisiamo subito che nelle situazioni di conflittualità fra ex lo "statuto del terzo genitore", secondo il progetto in salsa francese, non verrebbe applicato: è necessario infatti il consenso di tutte le parti in causa. "Purtroppo, però", constata Nancy Brilli, "quando i rapporti personali sono deteriorati sorgono questioni di principio di ogni tipo, con avvocati e litigi. In questi casi ottenere il consenso dell' ex è impossibile. Poi però, una volta appianati i problemi di gelosia e, diciamolo, soprattutto quelli di soldi, tutto il resto si risolve".
Anche questioni pratiche come le visite mediche ? "Ma accompagnare il bimbo dal medico non è un diritto: è un dovere di tutti i genitori, naturali o acquisiti ! Vogliamo litigare anche su questo ? Mi pare il minimo della vita", si infervora Nancy Brilli.
E invece non è tutto così semplice. Almeno per i burocrati francesi, che sembrano così ansiosi di regolamentare ogni aspetto anche minimo della nostra vita. Forse non è un caso che questa "mania normativa" si scateni proprio ora che al potere a Parigi è arrivato un presidente, Nicolas Sarkozy, la cui ex moglie Cécilia ha allevato i suoi due figli precedenti. Da un' esperienza personale, quindi, si vorrebbe arrivare a una legge valida per tutti. La scusa ufficiale è sempre la stessa: "Tutelare i diritti". Ma quali ? E di chi ?
Le famiglie allargate come quella dipinta nel serial tv I Cesaroni ci dimostrano che i problemi e le parti in causa sono innumerevoli. I padri separati e divorziati, per esempio. Che già protestano: "Concedere ulteriori diritti d' intervento ai nuovi compagni delle nostre ex ? Ma neanche per sogno", tuonano le loro associazioni, sia in Francia sia in Italia. "Noi siamo già distrutti economicamente dagli assegni di mantenimento a figli ed ex moglie, spesso ricattati da quest' ultima che ci concede i diritti di visita solo in cambio di soldi, soldi che poi vanno a mantenere in parte e certe volte perfino totalmente il suo nuovo compagno, e ora dovremmo permettergli di sostituirsi a noi anche in compiti essenziali come il rapporto con gli insegnanti e con i medici dei nostri figli ? O consentirgli di scorrazzare da solo con loro in vacanza all' estero?"
"Be' , forse in alcuni casi estremi una legge potrebbe tutelare i diritti di alcuni genitori", ci dice Simona Izzo, moglie di Ricky Tognazzi, madre di Francesco Venditti e "terza genitrice" di Sara, la figlia avuta da Ricky con la moglie precedente. "Per esempio, se un giorno la mia storia d' amore con Ricky dovesse finire, vorrei comunque poter continuare a telefonare a Sara ovunque lei sia, così come ho fatto per vent' anni...".
Ma è evidente che qui sono in gioco i diritti (e soprattutto i sentimenti) dei minori. Nel caso di un genitore biologico che vive in un' altra città, se non addirittura all' estero o in un altro continente, va da sé che gli spazi del genitore "sociale" (questa è la definizione politicamente corretta di "patrigno" oggi in Francia) aumentano.
Ancora una volta, però, tutto dipende dai rapporti fra gli ex. Se sono buoni, basterà una procura privata per permettere al nuovo marito di intervenire con insegnanti o medici, soprattutto in caso di emergenza o impossibilità della madre.
Viceversa, se i rapporti fra ex sono burrascosi, non ci sarà legge o statuto che tenga: qualsiasi intromissione del nuovo genitore verrà vista come un' invasione indebita, e anzi verrà addebitata andando a ingrossare i faldoni degli avvocati. Insomma, inutile aggrapparsi alle "praticità" della vita per far risolvere alle leggi problemi che non sappiamo dipanare fra noi.
"Di figura paterna ce n' è una sola"
La psicologa Oliverio Ferraris spiega il "no" al "terzo genitore"
"Oggi si va sempre di più verso l' affido condiviso, per responsabilizzare il genitore biologico. Quindi ampliare per legge gli spazi del "terzo genitore" rischia di aumentare i problemi, invece di risolverli". Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia all' università di Roma, è autrice del libro Il terzo genitore (Cortina, 1997). E commenta così con Oggi il progetto di una nuova legge sul tema: "Spesso i genitori biologici si attaccano molto ad aspetti concreti della vita dei figli con i quali non possono più convivere, comei rapporti con i loro insegnanti o medici, proprio per avere l' impressione di svolgere un proprio ruolo. Difficile, quindi, che ci rinuncino spontaneamente".
E qual è invece il ruolo del "terzo genitore" ? Come può trovare un' identità questa nuova figura familiare, senza usurpare quella del genitore separato ? È possibile superare i conflitti, le gelosie, le reciproche diffidenze ? "Non esistono regole universali, ma solo errori che si possono evitare", risponde la professoressa Oliverio Ferraris.
Mauro Suttora
Fa discutere una proposta francese sui diritti dei nuovi compagni di mamma e papà
"Ormai un bimbo su tre ha madre e padre divisi, ma estendere i doveri di paternità ai fidanzati mariti delle donne separate (e viceversa) alimenterebbe le tensioni", dicono gli esperti. Spiega la divorziata Nancy Brilli: "Niente legge, serve il buon senso"
di Mauro Suttora
Roma, 30 aprile 2008
Aiuto, un' altra legge. Non bastavano le polemiche sull' affido condiviso. Ora dalla Francia arriva la balzana idea di permettere allo Stato di intrufolarsi nelle nostre faccende private anche per quanto riguarda la figura del cosiddetto "terzo genitore". Che sarebbero poi gli antichi "patrigni" o "matrigne": personaggi detestabili in certi libri o film, ma inevitabili quando il coniuge di un matrimonio si porta appresso i figli di un legame precedente.
Statisticamente, i figli di genitori divorziati e risposati sono ormai quasi un terzo del totale. Una questione che riguarda tutti, quindi, o per esperienza personale o per le vicende di parenti stretti e amici.Ma cosa prevede, in concreto, la legge sul "terzo genitore" ? Il suo diritto a entrare in scena in casi particolari, come andare a parlare con maestri e insegnanti, accompagnare il minore a una visita medica, poter fargli fare la carta d' identità o un altro documento, portarlo in vacanza all' estero.
"Tutti problemi che si possono risolvere col buonsenso", dice a Oggi Nancy Brilli, madre di Francesco, 7 anni, frutto del suo secondo matrimonio con Luca Manfredi. Ora l' attrice convive con il chirurgo plastico Roy De Vita. "Non c' è bisogno di una nuova legge per fare l' unica cosa che i genitori separati e quelli acquisiti devono fare: mettersi nei panni dei figli, e capire che cosa li fa stare bene e cosa male".
Precisiamo subito che nelle situazioni di conflittualità fra ex lo "statuto del terzo genitore", secondo il progetto in salsa francese, non verrebbe applicato: è necessario infatti il consenso di tutte le parti in causa. "Purtroppo, però", constata Nancy Brilli, "quando i rapporti personali sono deteriorati sorgono questioni di principio di ogni tipo, con avvocati e litigi. In questi casi ottenere il consenso dell' ex è impossibile. Poi però, una volta appianati i problemi di gelosia e, diciamolo, soprattutto quelli di soldi, tutto il resto si risolve".
Anche questioni pratiche come le visite mediche ? "Ma accompagnare il bimbo dal medico non è un diritto: è un dovere di tutti i genitori, naturali o acquisiti ! Vogliamo litigare anche su questo ? Mi pare il minimo della vita", si infervora Nancy Brilli.
E invece non è tutto così semplice. Almeno per i burocrati francesi, che sembrano così ansiosi di regolamentare ogni aspetto anche minimo della nostra vita. Forse non è un caso che questa "mania normativa" si scateni proprio ora che al potere a Parigi è arrivato un presidente, Nicolas Sarkozy, la cui ex moglie Cécilia ha allevato i suoi due figli precedenti. Da un' esperienza personale, quindi, si vorrebbe arrivare a una legge valida per tutti. La scusa ufficiale è sempre la stessa: "Tutelare i diritti". Ma quali ? E di chi ?
Le famiglie allargate come quella dipinta nel serial tv I Cesaroni ci dimostrano che i problemi e le parti in causa sono innumerevoli. I padri separati e divorziati, per esempio. Che già protestano: "Concedere ulteriori diritti d' intervento ai nuovi compagni delle nostre ex ? Ma neanche per sogno", tuonano le loro associazioni, sia in Francia sia in Italia. "Noi siamo già distrutti economicamente dagli assegni di mantenimento a figli ed ex moglie, spesso ricattati da quest' ultima che ci concede i diritti di visita solo in cambio di soldi, soldi che poi vanno a mantenere in parte e certe volte perfino totalmente il suo nuovo compagno, e ora dovremmo permettergli di sostituirsi a noi anche in compiti essenziali come il rapporto con gli insegnanti e con i medici dei nostri figli ? O consentirgli di scorrazzare da solo con loro in vacanza all' estero?"
"Be' , forse in alcuni casi estremi una legge potrebbe tutelare i diritti di alcuni genitori", ci dice Simona Izzo, moglie di Ricky Tognazzi, madre di Francesco Venditti e "terza genitrice" di Sara, la figlia avuta da Ricky con la moglie precedente. "Per esempio, se un giorno la mia storia d' amore con Ricky dovesse finire, vorrei comunque poter continuare a telefonare a Sara ovunque lei sia, così come ho fatto per vent' anni...".
Ma è evidente che qui sono in gioco i diritti (e soprattutto i sentimenti) dei minori. Nel caso di un genitore biologico che vive in un' altra città, se non addirittura all' estero o in un altro continente, va da sé che gli spazi del genitore "sociale" (questa è la definizione politicamente corretta di "patrigno" oggi in Francia) aumentano.
Ancora una volta, però, tutto dipende dai rapporti fra gli ex. Se sono buoni, basterà una procura privata per permettere al nuovo marito di intervenire con insegnanti o medici, soprattutto in caso di emergenza o impossibilità della madre.
Viceversa, se i rapporti fra ex sono burrascosi, non ci sarà legge o statuto che tenga: qualsiasi intromissione del nuovo genitore verrà vista come un' invasione indebita, e anzi verrà addebitata andando a ingrossare i faldoni degli avvocati. Insomma, inutile aggrapparsi alle "praticità" della vita per far risolvere alle leggi problemi che non sappiamo dipanare fra noi.
"Di figura paterna ce n' è una sola"
La psicologa Oliverio Ferraris spiega il "no" al "terzo genitore"
"Oggi si va sempre di più verso l' affido condiviso, per responsabilizzare il genitore biologico. Quindi ampliare per legge gli spazi del "terzo genitore" rischia di aumentare i problemi, invece di risolverli". Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia all' università di Roma, è autrice del libro Il terzo genitore (Cortina, 1997). E commenta così con Oggi il progetto di una nuova legge sul tema: "Spesso i genitori biologici si attaccano molto ad aspetti concreti della vita dei figli con i quali non possono più convivere, comei rapporti con i loro insegnanti o medici, proprio per avere l' impressione di svolgere un proprio ruolo. Difficile, quindi, che ci rinuncino spontaneamente".
E qual è invece il ruolo del "terzo genitore" ? Come può trovare un' identità questa nuova figura familiare, senza usurpare quella del genitore separato ? È possibile superare i conflitti, le gelosie, le reciproche diffidenze ? "Non esistono regole universali, ma solo errori che si possono evitare", risponde la professoressa Oliverio Ferraris.
Mauro Suttora
Wednesday, May 14, 2008
Carmen Lasorella
Libro-intervista ad Aung San Suu Kyi
Roma, 14 maggio
L’immagine che le ritrae assieme risale ormai a dieci anni fa. Ma il tempo sembra essersi fermato per la povera Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace, che è ancora prigioniera dei generali birmani. Come nel 1998, quando Carmen Lasorella andò a intervistarla a Rangoon. In quel periodo la leader dell’opposizione birmana (e presidente della Birmania, se la giunta avesse rispettato il risultato delle elezioni del 1990) si trovava in uno dei suoi rari momenti di semilibertà. I dittatori infatti per qualche tempo le permisero di uscire una volta al mese dalla sua casa, anche se sotto un costante e soffocante controllo. Così Lasorella potè così incontrarla nella sede di un’ambasciata occidentale, della quale però ancora oggi non vuole rivelare il nome: «Promisi discrezione allora, e la mantengo adesso».
Il testo di quella lunga e bella intervista è stato pubblicato adesso da Bompiani, nel libro Verde e zafferano. A voce alta per la Birmania (euro 16,50). Lasorella lo ha scritto sull’onda dell’emozione che ha percorso il mondo intero lo scorso settembre, quando migliaia di monaci buddisti sono scesi in piazza reclamando libertà. E sono stati massacrati dai militari. Così com’è capitato questo inverno ad altri monaci, quelli tibetani, anch’essi picchiati, incarcerati e torturati dai militari cinesi.
Cos’è che non va, in quelle parti del pianeta? Perché i dittatori e le soldataglie cinesi e birmane, in mancanza di nemici armati, se la prendono con le persone più pacifiche della Terra? La signora Aung San e il Dalai Lama sono i simboli viventi della nonviolenza, eppure vengono trattati crudelmente dai loro avversari. Sembra quasi che i gerarchi comunisti di Pechino (senza l’appoggio dei quali anche quelli di Rangoon cadrebbero) vogliano spingere il Tibet e la Birmania alla rivolta violenta e armata, magari terrorista, visti i risultati nulli di decenni di lotte gandhiane.
Per discuterne siamo andati in via Teulada, nella sede della Rai dove anche Lasorella sta subendo nel suo piccolo, da quattro anni, i suoi «arresti domiciliari» personali, un po’ come Aung San Suu Kyi. «Non scherziamo», si schermisce lei, «paragonare la mia situazione alla sua sarebbe insultante per tutti». Fatto sta che il mobbing patito dall’ex corrispondente dei Tg Rai da Berlino (fino al 2003) e poi conduttrice del programma 'Visite a domicilio' le ha lasciato tutto il tempo necessario per scrivere il libro.
La «pena» che i vertici Rai infliggono ai propri giornalisti in disgrazia per mancanza di padrini politici, infatti, è quella di non farli lavorare. Pena dolcissima, perché lo stipendio viene percepito egualmente (tanto è a carico dei contribuenti), ma allo stesso tempo crudele per una come Lasorella abituata a girare il mondo come inviata di guerra. Tutti ricordano l’imboscata che patì nel ‘95 in Somalia, e che costò la vita all’operatore che l’accompagnava, Marcello Palmisano.
Scalpita impaziente, quindi, la signora 53enne nella sua stanza-prigione dorata della Rai, proprio sopra gli studi dove ogni giorno arrivano gli ospiti per registrare il Porta a porta di Bruno Vespa. E s’immalinconiva ancor di più lo scorso settembre, quando di fronte alle notizie che arrivavano di ora in ora sul suo computer dalla rivolta birmana, lei non poteva prendere e partire.
«Ma partire per dove, poi?», ragiona adesso a voce alta. Perché quando i dittatori massacrano, chiudono immediatamente le frontiere. Nessun giornalista può testimoniare le stragi. Tuttora quella cinese di piazza Tian an men, a quasi vent’anni di distanza, non ha un numero preciso di morti: centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Nessuna immagine, nessun resoconto.
E allora ben venga questa testimonianza della signora più dolce della Terra, quella Aung San Suu Kyi ormai 62enne che vent’anni fa tornò da Londra nella sua Birmania, e da allora si batte eroicamente per la libertà. Il 10 maggio i generali birmani hanno organizzato un referendum su una nuova costituzione, ma sembra solo l’ennesimo trucco di una giunta sanguinaria per mantenere il potere.
«La solidarietà dei popoli per la Birmania è diventata una ciclopica onda anomala», commenta Lasorella nel libro, «ha attraversato tutti i continenti. Ma la reazione politica rimane arenata nelle secche della retorica. Nei palazzi di vetro, a Washington come a Bruxelles, il cinismo degli interessi costruisce gli alibi all’impotenza. Anche di fronte ai bagni di sangue». E fa notare come tutti gli embarghi economici decretati dall’Onu contro la Birmania non riguardino gas e petrolio. Infatti la francese Total in Birmania è di casa. Ma la vera chiave per la liberazione della Birmania è la Cina: finché a Pechino comanderanno i dittatori, i militari di Rangoon saranno protetti.
«Li rivedo, i generali impettiti nelle parate che a Rangoon la tv trasmetteva con sussiego», racconta Lasorella. «Vietato filmare le loro caserme e i loro palazzi perfino dall’esterno, perfino i tassisti sono terrorizzati quando vedono la cinepresa di una turista, come io avevo finto di essere per potere entrare in Birmania».
La giornalista italiana e il suo operatore arrivano a Rangoon su due aerei diversi e in due giorni diversi. Durante l’intervista Aung San si dimostra ispirata, carismatica, convincente, paziente, ma anche pragmatica e a volte perfino sbrigativa. Ha studiato e insegnato nelle università inglesi, quindi inorridisce davanti alla retorica. Lasorella ha avuto il permesso di parlarle un’ora, ma poi pranza con lei, conversa in privato a telecamere spente, e va via dopo un intero pomeriggio dall’ambasciata.
«Com’è giovane!», la descrive la giornalista: «Magra e minuta, vestita con studiata semplicità: un corpetto grigio stile coreano a quadretti, gonna lunga color zafferano, una fascia ricamata larga sui fianchi, i sandali scuri, come la borsa di panno a sacchetto».
La Rai ha trasmesso solo parte dell’intervista, nel programma Prima donna dieci anni fa. Nel libro c’è invece il testo completo, emozionante. Anche perché da anni ormai intervistare la Signora della Birmania è impossibile, e questa rimane una delle rare interviste concesse ai giornalisti del mondo intero. Un documento quasi storico, quindi.
La domanda forse più importante che Lasorella rivolge ad Aung San Suu Kyi è: «Lei, come Gandhi e Martin Luther King, ha scelto la via della nonviolenza. Ma ha di fronte un regime dittatoriale, feroce. Come pensa di rovesciarlo?»
E la signora, pacata: «Come ho detto più volte, da sola non posso ottenere alcun risultato. È necessario l’aiuto di tutti. Abbiamo scelto la nonviolenza perché riteniamo che, diversamente, non renderemmo un buon servizio al nostro Paese. Non vogliamo cambiare regime con la violenza».
Tempi lunghi, quindi. Come Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, rimasto in carcere per 28 anni prima di essere liberato nel 1990 (in curiosa staffetta con Aung San, che quell’anno venne arrestata), e di diventare infine presidente di un Sud Africa libero dall’apartheid.
Non resta che sperare che la Birmania non debba aspettare così tanto.
Mauro Suttora
Roma, 14 maggio
L’immagine che le ritrae assieme risale ormai a dieci anni fa. Ma il tempo sembra essersi fermato per la povera Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace, che è ancora prigioniera dei generali birmani. Come nel 1998, quando Carmen Lasorella andò a intervistarla a Rangoon. In quel periodo la leader dell’opposizione birmana (e presidente della Birmania, se la giunta avesse rispettato il risultato delle elezioni del 1990) si trovava in uno dei suoi rari momenti di semilibertà. I dittatori infatti per qualche tempo le permisero di uscire una volta al mese dalla sua casa, anche se sotto un costante e soffocante controllo. Così Lasorella potè così incontrarla nella sede di un’ambasciata occidentale, della quale però ancora oggi non vuole rivelare il nome: «Promisi discrezione allora, e la mantengo adesso».
Il testo di quella lunga e bella intervista è stato pubblicato adesso da Bompiani, nel libro Verde e zafferano. A voce alta per la Birmania (euro 16,50). Lasorella lo ha scritto sull’onda dell’emozione che ha percorso il mondo intero lo scorso settembre, quando migliaia di monaci buddisti sono scesi in piazza reclamando libertà. E sono stati massacrati dai militari. Così com’è capitato questo inverno ad altri monaci, quelli tibetani, anch’essi picchiati, incarcerati e torturati dai militari cinesi.
Cos’è che non va, in quelle parti del pianeta? Perché i dittatori e le soldataglie cinesi e birmane, in mancanza di nemici armati, se la prendono con le persone più pacifiche della Terra? La signora Aung San e il Dalai Lama sono i simboli viventi della nonviolenza, eppure vengono trattati crudelmente dai loro avversari. Sembra quasi che i gerarchi comunisti di Pechino (senza l’appoggio dei quali anche quelli di Rangoon cadrebbero) vogliano spingere il Tibet e la Birmania alla rivolta violenta e armata, magari terrorista, visti i risultati nulli di decenni di lotte gandhiane.
Per discuterne siamo andati in via Teulada, nella sede della Rai dove anche Lasorella sta subendo nel suo piccolo, da quattro anni, i suoi «arresti domiciliari» personali, un po’ come Aung San Suu Kyi. «Non scherziamo», si schermisce lei, «paragonare la mia situazione alla sua sarebbe insultante per tutti». Fatto sta che il mobbing patito dall’ex corrispondente dei Tg Rai da Berlino (fino al 2003) e poi conduttrice del programma 'Visite a domicilio' le ha lasciato tutto il tempo necessario per scrivere il libro.
La «pena» che i vertici Rai infliggono ai propri giornalisti in disgrazia per mancanza di padrini politici, infatti, è quella di non farli lavorare. Pena dolcissima, perché lo stipendio viene percepito egualmente (tanto è a carico dei contribuenti), ma allo stesso tempo crudele per una come Lasorella abituata a girare il mondo come inviata di guerra. Tutti ricordano l’imboscata che patì nel ‘95 in Somalia, e che costò la vita all’operatore che l’accompagnava, Marcello Palmisano.
Scalpita impaziente, quindi, la signora 53enne nella sua stanza-prigione dorata della Rai, proprio sopra gli studi dove ogni giorno arrivano gli ospiti per registrare il Porta a porta di Bruno Vespa. E s’immalinconiva ancor di più lo scorso settembre, quando di fronte alle notizie che arrivavano di ora in ora sul suo computer dalla rivolta birmana, lei non poteva prendere e partire.
«Ma partire per dove, poi?», ragiona adesso a voce alta. Perché quando i dittatori massacrano, chiudono immediatamente le frontiere. Nessun giornalista può testimoniare le stragi. Tuttora quella cinese di piazza Tian an men, a quasi vent’anni di distanza, non ha un numero preciso di morti: centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Nessuna immagine, nessun resoconto.
E allora ben venga questa testimonianza della signora più dolce della Terra, quella Aung San Suu Kyi ormai 62enne che vent’anni fa tornò da Londra nella sua Birmania, e da allora si batte eroicamente per la libertà. Il 10 maggio i generali birmani hanno organizzato un referendum su una nuova costituzione, ma sembra solo l’ennesimo trucco di una giunta sanguinaria per mantenere il potere.
«La solidarietà dei popoli per la Birmania è diventata una ciclopica onda anomala», commenta Lasorella nel libro, «ha attraversato tutti i continenti. Ma la reazione politica rimane arenata nelle secche della retorica. Nei palazzi di vetro, a Washington come a Bruxelles, il cinismo degli interessi costruisce gli alibi all’impotenza. Anche di fronte ai bagni di sangue». E fa notare come tutti gli embarghi economici decretati dall’Onu contro la Birmania non riguardino gas e petrolio. Infatti la francese Total in Birmania è di casa. Ma la vera chiave per la liberazione della Birmania è la Cina: finché a Pechino comanderanno i dittatori, i militari di Rangoon saranno protetti.
«Li rivedo, i generali impettiti nelle parate che a Rangoon la tv trasmetteva con sussiego», racconta Lasorella. «Vietato filmare le loro caserme e i loro palazzi perfino dall’esterno, perfino i tassisti sono terrorizzati quando vedono la cinepresa di una turista, come io avevo finto di essere per potere entrare in Birmania».
La giornalista italiana e il suo operatore arrivano a Rangoon su due aerei diversi e in due giorni diversi. Durante l’intervista Aung San si dimostra ispirata, carismatica, convincente, paziente, ma anche pragmatica e a volte perfino sbrigativa. Ha studiato e insegnato nelle università inglesi, quindi inorridisce davanti alla retorica. Lasorella ha avuto il permesso di parlarle un’ora, ma poi pranza con lei, conversa in privato a telecamere spente, e va via dopo un intero pomeriggio dall’ambasciata.
«Com’è giovane!», la descrive la giornalista: «Magra e minuta, vestita con studiata semplicità: un corpetto grigio stile coreano a quadretti, gonna lunga color zafferano, una fascia ricamata larga sui fianchi, i sandali scuri, come la borsa di panno a sacchetto».
La Rai ha trasmesso solo parte dell’intervista, nel programma Prima donna dieci anni fa. Nel libro c’è invece il testo completo, emozionante. Anche perché da anni ormai intervistare la Signora della Birmania è impossibile, e questa rimane una delle rare interviste concesse ai giornalisti del mondo intero. Un documento quasi storico, quindi.
La domanda forse più importante che Lasorella rivolge ad Aung San Suu Kyi è: «Lei, come Gandhi e Martin Luther King, ha scelto la via della nonviolenza. Ma ha di fronte un regime dittatoriale, feroce. Come pensa di rovesciarlo?»
E la signora, pacata: «Come ho detto più volte, da sola non posso ottenere alcun risultato. È necessario l’aiuto di tutti. Abbiamo scelto la nonviolenza perché riteniamo che, diversamente, non renderemmo un buon servizio al nostro Paese. Non vogliamo cambiare regime con la violenza».
Tempi lunghi, quindi. Come Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, rimasto in carcere per 28 anni prima di essere liberato nel 1990 (in curiosa staffetta con Aung San, che quell’anno venne arrestata), e di diventare infine presidente di un Sud Africa libero dall’apartheid.
Non resta che sperare che la Birmania non debba aspettare così tanto.
Mauro Suttora
Thursday, April 24, 2008
Anne Hathaway
Povera Anne, il diavolo veste Prada e Raffaello
Dopo gli ultimi guai, crolla la reputazione del compagno della Hathaway
Lui, Follieri, il giovane italiano che aveva conquistato New York e il cuore dell' attrice (segretaria di Meryl Streep nel famoso film), è stato arrestato per assegni a vuoto. Dopo la scarcerazione dice: "È un equivoco". Ma convincerà almeno la fidanzata ?
di Mauro Suttora
New York, 23 aprile 2008
Padre Pio lo ha protetto pure questa volta, il 29enne Raffaello Follieri da San Giovanni Rotondo (Foggia). Ha fatto in modo che la sua celebre fidanzata, Anne "occhi di cerbiatto" Hathaway, 25 anni, non fosse vicino a lui quando è stato arrestato a New York per emissione di assegni a vuoto. E che assegno: 250 mila dollari, mentre il conto che avrebbe dovuto coprirlo ne aveva soltanto 37. "Uno spiacevole fraintendimento", ha spiegato il legale di Follieri dopo essere riuscito a farlo liberare, "quell' assegno non doveva andare all' incasso, era una semplice garanzia emessa dal mio assistito".
Anne Hathaway è una delle giovani attrici più in voga d' America. L' avevamo intervistata sei anni fa nell' Essex House di Manhattan, quando uscì il suo film Nicholas Nickleby, tratto da un celebre romanzo di Charles Dickens. Non aveva ancora vent' anni, e ci era sembrata una ragazzina indifesa e abbastanza impreparata per la fama che le era appena cascata addosso grazie all' interpretazione di Mia in 'Pretty Princess', il successone planetario targato Walt Disney del 2001.
Poi l' intervista non uscì, perché Nicholas Nickleby non riuscì neppure ad arrivare nei cinema italiani (fu visto in dvd e alla tv). Comunque la stoffa c' era, e da allora la delicatissima Anne di strada ne ha fatta parecchia: il sequel della principessa (Principe azzurro cercasi) nel 2005, ma soprattutto la segretaria della tremenda Meryl Streep in Il Diavolo veste Prada l' anno seguente, e il premio Oscar 'Brokeback Mountain'.
Nel frattempo, la dolce Anne conosce un intraprendente giovanotto italiano appena sbarcato a New York dalla Puglia, se ne innamora e da allora - sono ormai cinque anni - non lo lascia più. Lui sembra molto ricco, e la riempie di attenzioni: viaggi in jet privato, vacanze da sogno negli alberghi più lussuosi del mondo (l' anno scorso al Cala di Volpe di Porto Cervo e a Capri), un appartamentone a due piani nel grattacielo Olympic di Aristotele Onassis sulla Quinta Avenue.
Insomma, per la giovane attrice tendente alla malinconia sembrava essersi avverata una di quelle favole che aveva interpretato sullo schermo. Il principe azzurro si chiamava Raffaello ed era entrato come un caldo uragano latino nella sua vita algida e compassata. "Mi ha salvato lui dalla depressione", ha confessato Anne in un' intervista.
L' anno scorso, però, sono apparse le prime crepe nella vita apparentemente brillante e sopra le righe di Follieri. Che sosteneva di avere fatto fortuna grazie a intermediazioni immobiliari per conto della ricca Chiesa cattolica statunitense. Il suo socio americano, il potentissimo re californiano dei supermercati Ron Burkle, lo denuncia, accusandolo di "finanziare illecitamente la sua vita da re con soldi aziendali".
E pensare che solo pochi mesi prima aveva conquistato la prima pagina del Wall Street Journal. Gestiva infatti un impero immobiliare di qualche centinaio di milioni e finanziava generosamente le iniziative umanitarie dei Clinton ("Bill e Hillary sono amici", si vantava). Il socio Burkle era addirittura impegnato in un braccio di ferro con Rupert Murdoch per la conquista proprio del Wall Street Journal.
Ma l' enfant prodige di San Giovanni Rotondo questa volta fa notizia sulla prima pagina del più autorevole quotidiano finanziario del mondo come protagonista (in negativo) di una presunta truffa: la Yucaipa, la finanziaria di Burkle, lo ha denunciato per avere "coscientemente e sistematicamente" utilizzato a fini personali almeno 1,3 milioni stornati dalle casse della società.
I soldi sarebbero stati usati tra l' altro per "viaggi in jet privato con la fidanzata, per una suite a New York, per cure mediche per i familiari e persino per quelle del labrador di casa". Follieri nega tutti gli addebiti sostenendo che la joint venture con Burkle controlla "diversi immobili di prestigio" e che l' opposizione del finanziere Usa a diverse operazioni ne ha danneggiato i conti "ben più dei presunti reati segnalati dalla denuncia".
Eppure l' idillio tra il raider a stelle e strisce e l' imprenditore pugliese sembrava essere iniziato sotto i migliori auspici. I due si erano conosciuti a metà 2005. Burkle era rimasto folgorato dai piani di Raffaello: comprare terreni e immobili dalla Chiesa (grazie ai buoni uffici di Andrea Sodano, nipote dell' ex segretario di Stato del Vaticano cardinale Angelo Sodano, definito nella denuncia vicepresidente del Follieri group) e trasformarli in abitazioni per i meno abbienti o centri sociali e comunitari.
Burkle aveva messo a disposizione sull' unghia 150 milioni per il progetto. Non si era preoccupato delle accuse di una parte della stampa cattolica Usa, che da tempo aveva messo nel mirino la straordinaria e improvvisa fortuna messa assieme da Follieri. Anzi, aveva rafforzato l' asse con il socio unendo le forze anche sul fronte della filantropia: nel 2006 i due si erano presentati assieme al galà della Clinton Global initiative, dove l' ex presidente americano aveva chiamato sul palco Raffaello, ringraziandolo per il milione donato per vaccinare bambini in Nicaragua. Poi però le cose si sono messe male. I rappresentanti di Burkle si sono stupiti per le continue richieste di capitale di Follieri. E quando hanno messo il naso nei conti sono saltate fuori "stravaganze personali e spese fuori controllo". Due settimane fa, ecco la seconda tegola per Raffaello.
A questo punto tutta New York si chiede: Anne lo mollerà ? Lei ora è a Boston, dove sta girando un film con Candice Bergen e Kate Hudson. Ma neanche lei è più la santarellina di una volta. Ha fatto scandalo apparendo nuda l' anno scorso nel film 'Havoc Fuori Controllo'. E fuori controllo, oltre ai conti del fidanzato Raffaello, sembrano essere anche alcune sue bevute: è stata infatti sorpresa poche settimane fa dai paparazzi del New York Post mentre se ne tornava a casa con ben cinque bottiglie di assenzio acquistate in un negozio di alcolici di Park Avenue. L' assenzio, la droga dei poeti maledetti come Baudelaire, vietata fino all' anno scorso negli Stati Uniti. Che per Anne adesso il Diavolo vesta Raffaello ?
Mauro Suttora
Dopo gli ultimi guai, crolla la reputazione del compagno della Hathaway
Lui, Follieri, il giovane italiano che aveva conquistato New York e il cuore dell' attrice (segretaria di Meryl Streep nel famoso film), è stato arrestato per assegni a vuoto. Dopo la scarcerazione dice: "È un equivoco". Ma convincerà almeno la fidanzata ?
di Mauro Suttora
New York, 23 aprile 2008
Padre Pio lo ha protetto pure questa volta, il 29enne Raffaello Follieri da San Giovanni Rotondo (Foggia). Ha fatto in modo che la sua celebre fidanzata, Anne "occhi di cerbiatto" Hathaway, 25 anni, non fosse vicino a lui quando è stato arrestato a New York per emissione di assegni a vuoto. E che assegno: 250 mila dollari, mentre il conto che avrebbe dovuto coprirlo ne aveva soltanto 37. "Uno spiacevole fraintendimento", ha spiegato il legale di Follieri dopo essere riuscito a farlo liberare, "quell' assegno non doveva andare all' incasso, era una semplice garanzia emessa dal mio assistito".
Anne Hathaway è una delle giovani attrici più in voga d' America. L' avevamo intervistata sei anni fa nell' Essex House di Manhattan, quando uscì il suo film Nicholas Nickleby, tratto da un celebre romanzo di Charles Dickens. Non aveva ancora vent' anni, e ci era sembrata una ragazzina indifesa e abbastanza impreparata per la fama che le era appena cascata addosso grazie all' interpretazione di Mia in 'Pretty Princess', il successone planetario targato Walt Disney del 2001.
Poi l' intervista non uscì, perché Nicholas Nickleby non riuscì neppure ad arrivare nei cinema italiani (fu visto in dvd e alla tv). Comunque la stoffa c' era, e da allora la delicatissima Anne di strada ne ha fatta parecchia: il sequel della principessa (Principe azzurro cercasi) nel 2005, ma soprattutto la segretaria della tremenda Meryl Streep in Il Diavolo veste Prada l' anno seguente, e il premio Oscar 'Brokeback Mountain'.
Nel frattempo, la dolce Anne conosce un intraprendente giovanotto italiano appena sbarcato a New York dalla Puglia, se ne innamora e da allora - sono ormai cinque anni - non lo lascia più. Lui sembra molto ricco, e la riempie di attenzioni: viaggi in jet privato, vacanze da sogno negli alberghi più lussuosi del mondo (l' anno scorso al Cala di Volpe di Porto Cervo e a Capri), un appartamentone a due piani nel grattacielo Olympic di Aristotele Onassis sulla Quinta Avenue.
Insomma, per la giovane attrice tendente alla malinconia sembrava essersi avverata una di quelle favole che aveva interpretato sullo schermo. Il principe azzurro si chiamava Raffaello ed era entrato come un caldo uragano latino nella sua vita algida e compassata. "Mi ha salvato lui dalla depressione", ha confessato Anne in un' intervista.
L' anno scorso, però, sono apparse le prime crepe nella vita apparentemente brillante e sopra le righe di Follieri. Che sosteneva di avere fatto fortuna grazie a intermediazioni immobiliari per conto della ricca Chiesa cattolica statunitense. Il suo socio americano, il potentissimo re californiano dei supermercati Ron Burkle, lo denuncia, accusandolo di "finanziare illecitamente la sua vita da re con soldi aziendali".
E pensare che solo pochi mesi prima aveva conquistato la prima pagina del Wall Street Journal. Gestiva infatti un impero immobiliare di qualche centinaio di milioni e finanziava generosamente le iniziative umanitarie dei Clinton ("Bill e Hillary sono amici", si vantava). Il socio Burkle era addirittura impegnato in un braccio di ferro con Rupert Murdoch per la conquista proprio del Wall Street Journal.
Ma l' enfant prodige di San Giovanni Rotondo questa volta fa notizia sulla prima pagina del più autorevole quotidiano finanziario del mondo come protagonista (in negativo) di una presunta truffa: la Yucaipa, la finanziaria di Burkle, lo ha denunciato per avere "coscientemente e sistematicamente" utilizzato a fini personali almeno 1,3 milioni stornati dalle casse della società.
I soldi sarebbero stati usati tra l' altro per "viaggi in jet privato con la fidanzata, per una suite a New York, per cure mediche per i familiari e persino per quelle del labrador di casa". Follieri nega tutti gli addebiti sostenendo che la joint venture con Burkle controlla "diversi immobili di prestigio" e che l' opposizione del finanziere Usa a diverse operazioni ne ha danneggiato i conti "ben più dei presunti reati segnalati dalla denuncia".
Eppure l' idillio tra il raider a stelle e strisce e l' imprenditore pugliese sembrava essere iniziato sotto i migliori auspici. I due si erano conosciuti a metà 2005. Burkle era rimasto folgorato dai piani di Raffaello: comprare terreni e immobili dalla Chiesa (grazie ai buoni uffici di Andrea Sodano, nipote dell' ex segretario di Stato del Vaticano cardinale Angelo Sodano, definito nella denuncia vicepresidente del Follieri group) e trasformarli in abitazioni per i meno abbienti o centri sociali e comunitari.
Burkle aveva messo a disposizione sull' unghia 150 milioni per il progetto. Non si era preoccupato delle accuse di una parte della stampa cattolica Usa, che da tempo aveva messo nel mirino la straordinaria e improvvisa fortuna messa assieme da Follieri. Anzi, aveva rafforzato l' asse con il socio unendo le forze anche sul fronte della filantropia: nel 2006 i due si erano presentati assieme al galà della Clinton Global initiative, dove l' ex presidente americano aveva chiamato sul palco Raffaello, ringraziandolo per il milione donato per vaccinare bambini in Nicaragua. Poi però le cose si sono messe male. I rappresentanti di Burkle si sono stupiti per le continue richieste di capitale di Follieri. E quando hanno messo il naso nei conti sono saltate fuori "stravaganze personali e spese fuori controllo". Due settimane fa, ecco la seconda tegola per Raffaello.
A questo punto tutta New York si chiede: Anne lo mollerà ? Lei ora è a Boston, dove sta girando un film con Candice Bergen e Kate Hudson. Ma neanche lei è più la santarellina di una volta. Ha fatto scandalo apparendo nuda l' anno scorso nel film 'Havoc Fuori Controllo'. E fuori controllo, oltre ai conti del fidanzato Raffaello, sembrano essere anche alcune sue bevute: è stata infatti sorpresa poche settimane fa dai paparazzi del New York Post mentre se ne tornava a casa con ben cinque bottiglie di assenzio acquistate in un negozio di alcolici di Park Avenue. L' assenzio, la droga dei poeti maledetti come Baudelaire, vietata fino all' anno scorso negli Stati Uniti. Che per Anne adesso il Diavolo vesta Raffaello ?
Mauro Suttora
Il Baratto per Santoro
IL VELTRUSCONI DELL'84 CHE PORTO' SANTORO TRA LE BRACCIA DELLA RAI
Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna
di Mauro Suttora
Libero, 24 aprile 2008
Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.
Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).
In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.
Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".
Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".
Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.
“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.
Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”
Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.
Mauro Suttora
Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna
di Mauro Suttora
Libero, 24 aprile 2008
Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.
Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).
In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.
Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".
Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".
Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.
“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.
Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”
Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.
Mauro Suttora
Thursday, April 10, 2008
Il caso Valter Vecellio
IN RAI IL PRIMO LOTTIZZATO PUBBLICO
di Mauro Suttora
Libero, 10 aprile 2008
Basta con l’ipocrisia. Tutti sappiamo che (quasi) tutti i giornalisti Rai sono lottizzati. Quindi tanto vale che ciascun partito, capocorrente o padrino si batta pubblicamente per i propri protetti. Senza sotterfugi, senza i «bigliettini» di raccomandazione che costarono il posto di direttore del Tg1 a Gad Lerner. Apertamente, anzi clamorosamente. A infrangere riti e finzioni di Bisanzio è Marco Pannella, che ora digiuna per Valter Vecellio. Il quale passerà così alla storia come il primo giornalista raccomandato ufficiale d’Italia.
Mentre tutti nascondono i propri «referenti» politici, 102 militanti e dirigenti radicali addirittura si affamano per fare avere a Valter, 54enne bravo e burbero vicecaporedattore del Tg2, un programma tutto suo. Anzi un «format», come dicono i fichissimi. Naturalmente il tema di questo programma è all’altezza dei radicali: planetario. Si dovrà occupare nientedimenoche della «violazione dei diritti umani nel mondo e delle lotte messe in atto per affermarli», spiega Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani.
Insomma, cose come Tibet, Cina, Birmania, Darfur. Sarà quindi un programma sui radicali stessi, che da decenni si battono per cause come queste, e altre ancora più dimenticate come gli uiguri del Turkestan orientale, o i montagnard del Vietnam. Ma tutta questa benemerita attività umanitaria transnazionale ora si concentra in un obiettivo ‘ad personam’ italianissimo, anzi romanissimo, anzi saxarubrissimo: «Chiediamo che si ponga fine alla conventio ad excludendum nei confronti dei radicali, e per questo indichiamo con chiarezza il nome di chi potrebbe dirigere il settore di riforma: un professionista capace e stimato come Vecellio», specifica la Bernardini.
Evviva la sincerità. Vent’anni fa Pannella scandalizzò il mondo eleggendo Cicciolina, e oggi un altro tabù è rotto: quello del cosiddetto ‘servizio pubblico’. In realtà servizio di fazioni privatissime. E allora anche i radicali dopo mezzo secolo di dolente verginità si adeguano. Reclamando, buoni ultimi, il proprio brandello di Libano.
Il bello è che il povero Vecellio, simbolo di questa surreale lotta nonviolenta, ha una sua dignitosissima storia giornalistica. Profugo dalla Libia, cacciato da Gheddafi, dal ’74 lavora a Notizie radicali, l’organo del partito. Negli anni ’70 inventa le prime rassegne stampa d'Italia su Radio radicale, ma nell’82 tradisce Pannella per Craxi assieme al direttore della Radio Lino Jannuzzi, l’ex segretario Geppi Rippa e Marco Boato. Si rifugia all’Avanti! dove per una decina d’anni verga editoriali di fuoco contro i radicali esibendo l’odio degli ex, finché nel ’91 approda al Tg2 in quota Psi.
Poi, anche grazie al comune amore per Leonardo Sciascia (Vecellio è stato presidente dell’«Associazione degli amici» dello scrittore e deputato radicale), è tornato all’ovile. Pannella, come tutti quelli che si sentono un po’ Gesù, adora i figlioli prodighi. Così gli ha affidato la direzione di Notizie radicali. Che Valter firma italianizzando il proprio nome: Gualtiero.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, 10 aprile 2008
Basta con l’ipocrisia. Tutti sappiamo che (quasi) tutti i giornalisti Rai sono lottizzati. Quindi tanto vale che ciascun partito, capocorrente o padrino si batta pubblicamente per i propri protetti. Senza sotterfugi, senza i «bigliettini» di raccomandazione che costarono il posto di direttore del Tg1 a Gad Lerner. Apertamente, anzi clamorosamente. A infrangere riti e finzioni di Bisanzio è Marco Pannella, che ora digiuna per Valter Vecellio. Il quale passerà così alla storia come il primo giornalista raccomandato ufficiale d’Italia.
Mentre tutti nascondono i propri «referenti» politici, 102 militanti e dirigenti radicali addirittura si affamano per fare avere a Valter, 54enne bravo e burbero vicecaporedattore del Tg2, un programma tutto suo. Anzi un «format», come dicono i fichissimi. Naturalmente il tema di questo programma è all’altezza dei radicali: planetario. Si dovrà occupare nientedimenoche della «violazione dei diritti umani nel mondo e delle lotte messe in atto per affermarli», spiega Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani.
Insomma, cose come Tibet, Cina, Birmania, Darfur. Sarà quindi un programma sui radicali stessi, che da decenni si battono per cause come queste, e altre ancora più dimenticate come gli uiguri del Turkestan orientale, o i montagnard del Vietnam. Ma tutta questa benemerita attività umanitaria transnazionale ora si concentra in un obiettivo ‘ad personam’ italianissimo, anzi romanissimo, anzi saxarubrissimo: «Chiediamo che si ponga fine alla conventio ad excludendum nei confronti dei radicali, e per questo indichiamo con chiarezza il nome di chi potrebbe dirigere il settore di riforma: un professionista capace e stimato come Vecellio», specifica la Bernardini.
Evviva la sincerità. Vent’anni fa Pannella scandalizzò il mondo eleggendo Cicciolina, e oggi un altro tabù è rotto: quello del cosiddetto ‘servizio pubblico’. In realtà servizio di fazioni privatissime. E allora anche i radicali dopo mezzo secolo di dolente verginità si adeguano. Reclamando, buoni ultimi, il proprio brandello di Libano.
Il bello è che il povero Vecellio, simbolo di questa surreale lotta nonviolenta, ha una sua dignitosissima storia giornalistica. Profugo dalla Libia, cacciato da Gheddafi, dal ’74 lavora a Notizie radicali, l’organo del partito. Negli anni ’70 inventa le prime rassegne stampa d'Italia su Radio radicale, ma nell’82 tradisce Pannella per Craxi assieme al direttore della Radio Lino Jannuzzi, l’ex segretario Geppi Rippa e Marco Boato. Si rifugia all’Avanti! dove per una decina d’anni verga editoriali di fuoco contro i radicali esibendo l’odio degli ex, finché nel ’91 approda al Tg2 in quota Psi.
Poi, anche grazie al comune amore per Leonardo Sciascia (Vecellio è stato presidente dell’«Associazione degli amici» dello scrittore e deputato radicale), è tornato all’ovile. Pannella, come tutti quelli che si sentono un po’ Gesù, adora i figlioli prodighi. Così gli ha affidato la direzione di Notizie radicali. Che Valter firma italianizzando il proprio nome: Gualtiero.
Mauro Suttora
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