Thursday, February 29, 2024

Nobel per la pace 2024 ad un italiano?



















Secondo il Peace research institute Oslo, il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Quanto è attendibile il pronostico?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 29 febbraio 2024

Un italiano vincerà il premio Nobel per la Pace 2024? Secondo il Prio (Peace research institute Oslo) il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Gli altri sono la Corte internazionale di giustizia dell'Aja, Philippe Lazzarini e la sua Unrwa (l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi), la Campaign to Stop Killer Robots con Article 36, e l'Unesco con il Consiglio d'Europa.

Tuttavia le candidature della Corte dell'Aja e dell'Agenzia profughi sono controverse, perché legate alla sanguinosa attualità delle guerre d'Ucraina e Gaza. Invece gli osservatori Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che monitorano le elezioni in 57 Paesi, si situano per definizione al di sopra delle parti. Sono diventati i più autorevoli al mondo in materia di elezioni, nessuno li contesta. Tranne Russia e Bielorussia, che hanno rifiutato di invitarli a controllare le loro votazioni.

"Quest'anno andrà alle urne metà della popolazione mondiale", spiega il direttore del Prio Henrik Urdal, "anche se non solo in stati democratici. Ma è dimostrato che le democrazie godono di maggior pace e stabilità degli altri regimi. E poiché alla base della democrazia ci sono le elezioni, gli osservatori giocano un ruolo fondamentale nel garantire la legittimità dei processi elettorali". 

Quanto è attendibile il pronostico del Prio? La sede dell'istituto di Urdal è a Oslo come il Comitato di cinque saggi eletti dal parlamento norvegese, che ogni anno in ottobre assegnano il Nobel della Pace (gli altri Nobel invece vengono scelti a Stoccolma). Ma il Prio, proprio per essere libero di commentare il premio, rinuncia al diritto di avanzare candidature (quest'anno sono 300) che gli spetterebbe. Quindi le sue previsioni sono un po' le semifinali del Nobel, così come i Golden Globe anticipano e indirizzano i premi Oscar nel cinema. 

Fra i vincitori azzeccati ultimamente spiccano il medico congolese Denis Mukwege nel 2018 e l'iraniana Narges Mohammadi l'anno scorso. Negli anni scorsi il Prio aveva indicato tra i favoriti Alexei Navalny: lo scudo del premio Nobel gli avrebbe probabilmente salvato la vita. Invece il dissidente russo Oleg Orlov, vincitore con il gruppo Memorial nel 2022, proprio ieri non è riuscito a evitare una condanna di due anni e mezzo di carcere comminatagli da Vladimir Putin. 

Prima di approdare a Varsavia negli uffici dell'Osce, Mecacci è stato deputato radicale (impegnandosi nell'Onu a New York per la moratoria alla pena di morte e la Corte penale internazionale) e direttore dell'International campaign for Tibet, la fondazione di Richard Gere. Sarebbe il primo italiano dopo il giornalista garibaldino Ernesto Teodoro Moneta nel 1907 ad aggiudicarsi, direttamente o alla guida di un organismo premiato, il Nobel per la Pace. 

Di recente sono stati candidati Federica Mogherini della Ue per il suo impegno nell'accordo antinucleare con l'Iran, e Filippo Grandi, da otto anni Alto commissario Onu per i rifugiati. L'agenzia di Grandi prenderebbe in carico i profughi palestinesi se l'Unrwa venisse travolta dalle accuse di vicinanza con Hamas. 

Sunday, February 25, 2024

Cancellate piazze o medaglie per Tito, ma non la storia
















La destra italiana vuole togliere al maresciallo Tito l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. La disputa appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 febbraio 2024

A Lubiana la via principale era dedicata al maresciallo Tito. Ma subito dopo l'indipendenza della Slovenia, nel 1991, il nome dell'ex presidente jugoslavo fu cancellato e la strada ribattezzata "via Slovenia". Nella capitale croata Zagabria, invece, la centrale piazza Tito è sopravvissuta fino al 2017. E quando cambiò di nome, con soli 26 voti contro 20, l'ex presidente croato di sinistra Ivo Josipović plaudì la decisione di conservarne le vecchie targhe in un museo: "Così potremo rimetterle dopo che vinceremo le prossime elezioni".

Fortunatamente per gli abitanti della piazza questo non è accaduto. Immaginate il fastidio di dover cambiare il proprio indirizzo a ogni cambio di governo. Notevole comunque il ritardo della Croazia rispetto alla Slovenia nell'applicare la 'cancel culture', nuovo nome à la page per il revisionismo storico. Zagabria infatti riuscì a emanciparsi dalla Jugoslavia serbofasciocomunista di Slobodan Milosevic solo dopo una guerra sanguinosa (100mila morti) e lunga (tre anni, 1992-95); Lubiana invece se la cavò con un conflitto di nove giorni e 62 vittime.

L'ottimo Ugo Magri critica  la destra italiana che vuole togliere a Tito non il nome delle poche vie italiane che gli sono dedicate (in tre capoluoghi di provincia - Parma, Reggio Emilia, Nuoro - e una decina di paesi), ma l'onorificenza della Repubblica che l'Italia gli conferì nel 1967. Tutto il mondo libero anticomunista in realtà rispettò il dittatore comunista fino alla sua morte nel 1980. Al suo funerale partecipò perfino Maggie Thatcher. Ci faceva infatti comodo avere uno stato cuscinetto che ci separasse dal blocco sovietico, cui Tito si era ribellato nel 1948.

Se le damnatio memoriae toponomastiche spiacciono solo a chi deve mutare domicilio, c'è da scommettere invece che il dibattito sul cavalierato a Josip Broz detto Tito scatenerà i nostri nostalgici fascisti e comunisti. Quanti anni devono passare per sottrarre la storia alla polemica politica contingente? Perché la revoca dell'onorificenza al fondatore della Jugoslavia comunista può apparire oziosa o balzana.

Tuttavia il giudizio storico su Tito non può essere assolutorio, in nome di una realpolitik che valeva finché il satrapo ci era utile, ma non deve proseguire nei decenni. Innanzitutto per rispetto verso gli jugoslavi stessi: la guerra civile jugoslava 1941-45 fu, con i suoi due milioni di morti, la più sanguinosa d'Europa. E la responsabilità di tanta ferocia non fu solo degli occupanti tedeschi e italiani, ma anche dei due capi jugoslavi: il fascista croato Ante Pavelić e il comunista Tito. 

Gli italiani lamentano 15mila fra infoibati, fucilati e desaparecidos. Ma le foibe furono arma usuale dei titini, con 100mila sloveni e croati, anche civili, inghiottiti vivi nei burroni carsici.

Sempre in tema di percentuali, è bene precisare che l'occupazione italiana fece 20mila vittime: solo l'1% del totale. Con 16mila morti e dispersi fra i soldati italiani. Perché in guerra le si prende e le si dà. 

Insomma, senza assolvere Mussolini che attaccò la Jugoslavia, non scambiamo Tito per uno statista. Ruppe con Mosca? Anche la Cina di Mao lo fece. Non allineato? Anche Nicolae Ceausescu in politica estera si distingueva per la fronda contro l'Urss. Ma all'interno opprimeva la sua Romania come Stalin la sua Urss e Tito la Jugoslavia. Stesse purghe contro i capi comunisti 'devianti': il maresciallo incarcerò il delfino Milovan Gilas, e sgominò la Primavera croata di Savka Dabcević nel 1971 come quella cecoslovacca.

Si dice infine: gran merito di Tito l'aver mantenuto la Jugoslavia in pace per 40 anni. Morto lui, sono riesplosi i nazionalismi balcanici. Bella forza: tutte le dittature mantengono la pace. Quella dei cimiteri. È vero il contrario: come una pentola a pressione, la repressione titina ha aggravato le tensioni fino allo scoppio della seconda guerra civile degli anni 90. 

Insomma: la disputa sulla medaglia italiana a Tito appartiene al folklore simbolico. Ma una seria e imparziale analisi storica sulle sue imprese non può che essere impietosa. Slovenia e Croazia ci sono già arrivate da tempo.


Tuesday, February 20, 2024

Putin sfregia la mamma di Navalny



Nemmeno la pietà di mostrare il corpo del figlio ucciso

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 febbraio 2024
Il corpo di Alexei Navalny non viene restituito e neppure mostrato a sua madre. Questo oltraggio è grave quanto la sua morte: pone Vladimir Putin fuori dai tremila anni della nostra civiltà. L'Iliade infatti, primo poema della storia, ruota tutto attorno alle vicende di due cadaveri: quello di Patroclo ucciso da Ettore e quello di Ettore poi straziato da Achille. Ma che l'eroe greco restituì al re troiano Priamo, padre dolente, come atto di estrema pietà.

Pietà di cui sembra sprovvisto Putin, il quale riesce a negare a una madre il diritto primordiale di vegliare il figlio morto. Perfino gli animali rispettano il dolore delle mamme, quando restano vicine ai loro cuccioli esangui. Ignorare questa tregua finale rappresenta quindi uno sfregio immenso, che va oltre la politica. Si tratta di negazione del sacro, di violazione del cardine di ogni religione.

Tutte le ore che passano senza che in Siberia la signora Ludmila Navalnaya possa piangere suo figlio scaraventano Putin indietro negli orrori dell'arcipelago gulag staliniano e delle crudeltà di Ivan il Terribile.
 
Sempre più satrapo asiatico, sempre meno presidente presentabile, il capo del Cremlino fa di tutto per ricordarci che, in fondo, la sua sfortunata Russia ha goduto di soli dieci anni di libertà nella sua storia millenaria. Ma anche gli anni '90 di Boris Eltsin, dopo secoli di impero zarista e 72 anni di dittatura comunista, furono contrassegnati da ubriacature etiliche al vertice e colossali rapine degli oligarchi mafiosi.
 
Una parentesi di libera corruzione presto conclusa dall'ufficiale Kgb con i suoi massacri in Cecenia. Il quale ha fatto ripiombare Mosca negli abituali intrighi: da Rasputin a Prighozin. Putin sognava di finire nei libri di storia come il nuovo Pietro il Grande. Invece il suo nome verrà associato a quello delle sue vittime inermi, trucidate o avvelenate: da Anna Politkovskaya ad Aleksandr Litvinenko, da Boris Nemtsov a Navalny. Un gradino sotto quelle di Stalin: Trotszky, Zinoviev, Kamenev, Bucharin. I quali avevano almeno una dignità di purgati dopo omeriche lotte politiche, seppur sanguinarie.

Putin invece si conferma, dopo i massacri di Aleppo e le fosse comuni di Bucha, criminale semplice. Minuscolo e anche un po' vigliacco: perché Mussolini cent'anni fa si addossò pubblicamente tutta la responsabilità del delitto Matteotti. Mad Vlad invece si limita a umiliare di nascosto la mamma di Navalny.

Friday, February 02, 2024

Confini e coerenza del peccatore Sinner

Trasferire il proprio domicilio fiscale oltre confine è furbo ma lecito. Non intacca minimamente il suo valore e il mio entusiasmo per lui (aumentato dopo il no a Sanremo). È un peccato che i ricchi pagano solo col piccolo dispiacere di sentirselo ricordare, ogni tanto

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 2 febbraio 2024 

Quando Jannik Sinner fa pipì nel suo paese di confine, Sesto Pusteria (Bolzano), neanche una goccia finisce in Italia. Va nel mar Nero, perché quella valle non fa parte del bacino del Po né dell'Adige, ma della Drava e poi del Danubio. Egualmente, dei guadagni di Sinner neanche un cent finisce in Italia, perché il paradiso fiscale che ha scelto, Monte Carlo (al confine opposto), garantisce ai miliardari che vi si rifugiano Irpef zero. Ripeto: zero. 

Sinner è coerente col proprio cognome ("peccatore" in inglese): l'elusione fiscale è un peccato che i ricchi pagano solo col piccolo dispiacere di sentirselo ricordare, ogni tanto. Ovviamente tifo Sinner e come tutti gli italiani rimango estasiato dalle sue imprese. Il mio entusiasmo per lui è aumentato dopo il no a Sanremo. E non accampi scuse: Monte Carlo sta lì accanto, quindi il rifiuto del Festival è mirato e consapevole. Bravo, niente circhi. 

Meno lucide sono apparse le spiegazioni del fantastico ragazzo sul suo trasferimento nel principato di Monaco: "Lì mi sento a casa, ci sono tante palestre per allenarsi, posso andare tranquillo al supermercato". Ma va. L'unico motivo per cui 8mila ricchi italiani sono fuggiti a Monte Carlo è la mancanza di tasse. 

La vera scusa che Jannik può accampare è che quasi tutti i tennisti più forti del mondo fanno come lui. Non tutti: Carlos Alcaraz è rimasto contribuente spagnolo, così come Rafa Nadal ("A Monte Carlo guadagnerei il doppio, ma qui in Spagna sono felice il doppio"); Roger Federer si è limitato a emigrare in un cantone svizzero con aliquota più bassa del suo.

Peccato che Sinner non abbia fatto lo spiritoso: "Sono nato in val Fiscalina, ovvio che scappi dal fisco". Il 31 gennaio il viceministro dell'Economia Maurizio Leo ha detto: "L'evasione fiscale è come il terrorismo". Dichiarazione impegnativa. Gli evasi a Monaco devono preoccuparsi? No, perché la loro elusione è legale se abitano nel principato per almeno 180 giorni all'anno. 

I Beatles nel 1966 scrissero la loro unica canzone di protesta, 'Taxman', quando scoprirono che stavano versando un incredibile 95% di imposta sul reddito: "There's one for you, nineteen for me". Unica via d'uscita: reinvestire i guadagni. Così fondarono la società Apple. Quel nome dieci anni dopo ispirò Steve Jobs, ma per loro si risolse in un bagno di sangue finanziario.

Stessa disavventura per i Rolling Stones, che per sfuggire al fisco britannico scapparono un anno in Francia, in un villone proprio vicino a Monte Carlo. Mick Jagger sposò Bianca a Saint-Tropez nel 1971, poi registrarono un bel disco: "Exile on Main Street", appunto.

Anche nei liberistissimi Stati Uniti fino agli anni '70 l'aliquota massima Irpef era al 90%. Ci vollero Ronald Reagan e Maggie Thatcher per dimezzarle.

Oggi il 43% dell'ultimo scaglione italiano (incredibilmente uguale per tutti i redditi oltre 50mila euro, anche 50 milioni) è reputato insopportabile dai nostri campioni dello sport. Il povero Valentino Rossi fu pizzicato con residenza fittizia a Londra e dovette versare una ventina di milioni all'Agenzia delle Entrate.

Trasferire il proprio domicilio fiscale oltre confine è furbo ma lecito. Non intacca minimamente il valore di Sinner. Perché il confine fra imprese sportive e scelte finanziarie personali è chiaro, penso, anche a Massimo Gramellini e Aldo Cazzullo, insultati dai fan solo per aver accennato al millimetro che gli manca per assurgere al ruolo di eroe nazionale. 

Christopher Hitchens ha potuto scrivere un libro persino contro madre Teresa di Calcutta, e Paolo Sorrentino l'ha presa in giro nella sua Grande Bellezza. Quindi qualche punzecchiatura non al superboy di Sesto Pusteria, ma ai suoi buffi adulatori che lo scambiano per la Madonna, sarà anche permessa.

Friday, January 26, 2024

Il magnifico gioco d’equilibro della Corte dell’Aja

GENOCIDIO A GAZA?

Non possono esultare né filopalestinesi né fan israeliani. Il procedimento va avanti, ma intanto si chiede a Israele di prendere misure che evitino rischi genocidiari. Sentenza in parte votata anche dal giudice nominato da Netanyahu

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 gennaio 2024

È rimasta solo la giudice ugandese Julia Sebutinde a difendere strenuamente Israele al tribunale Onu dell’Aja. La sentenza provvisoria di oggi, che invita lo stato ebraico ad applicare misure per evitare un genocidio a Gaza, è stata infatti approvata perfino dal giudice israeliano Aharon Barak, nelle parti in cui condanna le frasi d’odio pronunciate da alcuni ministri israeliani e auspica maggiore assistenza alla popolazione civile.

La giudice africana Sebutinde è una dei 15 membri permanenti della Corte. A loro si aggiungono come giudici ad hoc solo per questo procedimento i due rappresentanti delle parti in causa: Israele e Sud Africa, il Paese che ha trascinato lo stato ebraico davanti alla giustizia internazionale con la gravissima accusa di genocidio.

“Ignobile, ripugnante”, l’ha bollata il governo di Benjamin Netanyahu. Il quale però oggi ha dovuto incassare la prima decisione del Tribunale: la tesi sudafricana non è priva di fondamento, quindi il processo si farà. Attenzione, però: non per genocidio, ma per “atti” che potrebbero provocarlo.

E in attesa della sentenza, prevista in tempi non brevi, ecco alcune “misure provvisorie” per proteggere i civili di Gaza. Non il cessate il fuoco, come speravano i palestinesi, ma l’impegno da parte israeliana a evitare azioni che colpiscano ulteriormente i civili.

Sentenza pilatesca? L’unica possibile. Il “non luogo a procedere” o il “difetto di competenza” erano infatti irrealistiche speranze israeliane. Certo, finire sotto processo per genocidio è un duro colpo per il popolo che un genocidio lo ha subìto (come armeni, ruandesi, cambogiani), e per lo stato che dal genocidio è nato. Anche la coincidenza dei tempi è uno sfregio: proprio domani si celebra il Giorno della Memoria per ricordare la Shoa.

Tuttavia essere accusati non vuol dire essere condannati, e oggi Israele incassa a proprio favore l’unica decisione precisa del tribunale Onu: l’intimazione ai terroristi di Hamas di liberare gli ostaggi israeliani, senza condizioni.

Più imbarazzante, semmai, è che durante la lunga lettura della pre-sentenza la presidente statunitense della Corte, Joan Donoghue, abbia citato parola per parola alcune frasi particolarmente dure pronunciate non da estremisti di destra come il ministro israeliano Bezalel Smotrich, ma dal presidente d’Israele Isaac Herzog, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e da quello degli Esteri Israel Katz. 

Sull’onda dell’emozione per le stragi del 7 ottobre non furono pochi, infatti, i politici israeliani che si lasciarono andare a comprensibili auspici di “eliminazione totale” di Hamas. Che però gli avversari d’Israele, con in prima linea inopinatamente il Sud Africa, hanno avuto buon gioco a equivocare come punizione collettiva verso tutti i civili di Gaza.

Intelligente invece il voto “diviso” dell’87enne giudice israeliano Barak: no alle parti della sentenza che sanzionano direttamente Israele, sì alle altre meno impegnative. Barak, sopravvissuto all’Olocausto nella sua Lituania e rifugiatosi con la famiglia a Roma per due anni prima di emigrare in Israele nel 1947, è un ex presidente della Corte costituzionale israeliana, grande avversario di Netanyahu. Ciononostante il premier lo ha nominato all’Aja.

Male fanno i tifosi palestinesi a esultare per la sentenza odierna, così come sbagliano i fan(atici) proisraeliani a rifiutare ogni giudizio dell’Onu. Nella Corte infatti siedono giudici provenienti da Paesi filoisraeliani come Germania, Giappone, Belgio, Francia, Australia, Usa. E il comportamento della giudice ugandese Sebutinde dimostra che molti di loro, se non tutti, sono dotati di indipendenza intellettuale. Semplicemente, a Israele non conviene autocollocarsi al di sopra delle leggi che regolano la comunità internazionale. Perché evocare il genocidio è oltraggioso, ma contenersi limitando la vendetta può rivelarsi saggio. 

Wednesday, January 17, 2024

Pedretti, Lucarelli e l'eterogenesi dei fini dei giudici di Lodi

La procura di Lodi prima ha indagato per incitamento all'odio e il risultato è stato un suicidio (di Giovanna Pedretti). Ora indaga per istigazione al suicidio, e il risultato è incitamento all'odio (verso Selvaggia Lucarelli)

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 17 gennaio 2024

La procura di Lodi prima ha indagato per incitamento all'odio e il risultato è stato un suicidio (di Giovanna Pedretti). Ora indaga per istigazione al suicidio, e il risultato è incitamento all'odio (verso Selvaggia Lucarelli). In entrambi i casi, la procura di Lodi è fortunata: non ha altri reati più gravi di cui occuparsi. 

Ma adesso, se volesse indagare scrupolosamente fino all'autolesionismo, potrebbe farlo anche nei confronti di se stessa. Ovviamente il risultato sarebbe l'archiviazione, perché - per dirla difficile - l'eterogenesi dei fini impedisce di individuare un unico nesso eziologico, nell'una come nell'altra fattispecie. 

Il suicidio della Pedretti infatti non può essere stato provocato esclusivamente né dai dubbi del fidanzato della Lucarelli, né dalla susseguente tempesta di m scatenatasi online, né dall'interrogatorio di polizia predisposto dalla procura. Anche perché la procura indagava sul post omofobo e 'abilista', non sull'eventuale falso commesso dalla Pedretti nell'inventarlo. 

Quanto all'attuale oggetto delle indagini (istigazione al suicidio), esso non sembra essere l'unica causa dell'effetto nuovamente non voluto: l'odio verso la Lucarelli. Il quale è in parte pre-esistente ai fatti di Lodi, e comunque si allarga e annacqua in un'avversione più generale contro i giornalisti e i mezzi di comunicazione. 

E qui si innesta il secondo, immenso paradosso della vicenda. Se infatti la Pedretti si è spaventata quando è stata convocata per l'interrogatorio in questura, ciò è avvenuto perché ormai, nel giro di poche ore, la questione si era capovolta. In ballo non c'era più l'odiosità del post, ma la sua veridicità. Tuttavia, se falso c'è stato, è difficile ipotizzare che sia stata la Pedretti in persona a confezionarlo: non possedeva le competenze tecniche per farlo. Magari gliel'avrà combinato qualcuno, ma è tutto da dimostrare.

Intanto la macchina mediatica si mette in moto e il risultato è il risalto nazionale con quarto d'ora di notorietà per la ristoratrice. Almeno fino all'intervento del cuoco e della Lucarelli. I quali però giornalisti non sono. Non sappiamo se lei abbia mai affrontato l'esame per diventarlo, ma sicuramente non l'ha mai superato. E comunque in questo caso non ha utilizzato i media giornalistici (i giornali e le tv dove pur si esprime), ma i social. I quali sono il contrario del giornalismo. 

Quindi la figlia della Pedretti e i tanti che ora incitano all'odio contro i giornalisti sbagliano bersaglio. Perché i media erano anzi l'agognata meta cui approdare in ogni caso, sia che il post fosse vero, sia che fosse falso. Obiettivo mancato, questo sì per colpa di Lucarelli & fidanzato, autonominatisi giustizieri dell'esibizionismo buonista.

Chiara Ferragni è stato il bersaglio grosso, la Pedretti quello piccolo. Infatti le truffe della beneficenza online valgono milioni, mentre la vanteria della povera signora Pedretti, vera o falsa che fosse, le avrebbe fruttato pochi coperti in più nella sua pizzeria. Anche per questo mi risulta incomprensibile la continua mobilitazione dei magistrati lodigiani.

Ma consoliamoci: questa loro seconda indagine almeno sarà indolore. Perché Lucarelli (in questo così simile alla sua vittima Ferragni) non sembra incline ad atti di autolesionismo, nonostante gli auspici della fogna social in cui lei magistralmente sguazza.

Tuesday, January 16, 2024

L'Etna a pagamento? Allora mettiamo anche un ticket per guardare le Alpi. Consigli fantasmagorici per Santanchè









di Mauro Suttora

Come un vulcano, la ministra del Turismo erutta idee fantastiche. E allora qualcun'altra gliela diamo noi, ancora più spettacolare

Huffingtonpost.it, 16 gennaio 2024

Come un vulcano, la ministra del Turismo Daniela Santanché erutta idee fantastiche. Oggi, intervistata da Milano Finanza, ha detto che vuole far pagare di più i turisti che vengono in Italia: "Dobbiamo sfruttare al meglio il nostro patrimonio storico, artistico e culturale. Non può più essere gratis tutto per tutti. Bene ha fatto il ministro Sangiuliano con il Pantheon dove, dopo l’introduzione dell’ingresso a pagamento, i visitatori sono cresciuti. In Spagna si paga per entrare nelle chiese, in Francia o in Grecia si paga anche l’aria che si respira. È giusto allinearci al modus operandi dei nostri competitor e mettere a reddito le nostre bellezze".

Fin qui tutto abbastanza ragionevole, a parte l'ossigeno francese e greco per i quali non risultano ticket. Purtroppo però poi l'intervistatore ha voluto approfondire: "Un esempio?" E lei: "Abbiamo un vulcano vivo, l’Etna. Gli americani fanno pagare per vedere vulcani finti, e noi non riusciamo a mettere a reddito l’Etna".

Poiché le eruzioni dell'Etna, come quelle di Daniela, sono uno spettacolo della natura, ci chiediamo in che modo ricavare in concreto soldi dal vulcanone. Predisporremo caselli nelle strade che gli passano attorno, da Acireale a Bronte, da Troina a Nicolosi? Le viste più belle poi sono quelle aeree: imporremo un sovrapprezzo ai velivoli in arrivo e partenza dall'aeroporto di Catania? 

L'arrembante ministra illustra così il suo programma: "Fino ad oggi abbiamo subìto il turismo, il passo in avanti è quello di organizzarlo". Qualche mese fa aveva lanciato un indizio: il "glamping". Premessa briatoregna: "La ricchezza non dev'essere una bestemmia, non va criminalizzata. Perché in economia è l'alto che fa crescere il basso. Non è mai avvenuto il contrario". Ed ecco l'illuminazione: "La tendenza oggi è sui glamping".

Che poi sarebbe la fusione fra glamour e camping. Concetto nato una ventina d'anni fa in Gran Bretagna, significa "campeggi di lusso". Quindi sì, tende o casette in legno, roulottes e bungalow. Ma a 5 stelle, e con prezzi da Twiga. Per quelli da realizzare alle pendici dell'Etna, particolarmente consigliabili le "bubble room": stanze trasparenti progettate con materiali adatti a resistere alle alte temperature. Per chi volesse provare un brivido supplementare, vanno installate ai bordi dei crateri e lungo i percorsi della lava incandescente.

Ma non solo Etna. Per strizzare ulteriormente le tasche dei turisti, come se non bastassero i prezzi di alberghi e ristoranti (pardon: "fudenbeveregg", copyright Flavio) schizzati alle stelle dopo la pandemia, va reso a pagamento il percorso di tutte quelle strade, dette "panoramiche", che negli atlanti dei nostri genitori erano orlate di verde. Cosicché dalla val Ferret al Salento, dalla val d'Orcia alla costiera amalfitana, sarà un fiorire di numeri chiusi, app di prenotazione, giovanotti assunti per distribuire scontrini e controllare targhe.

Hanno già cominciato sulle Dolomiti, dove dalla prossima estate è annunciata la chiusura di alcune strade attorno a Cortina per i malcapitati che non si doteranno di pass giornalieri od orari con largo anticipo. I nuovi padroni delle nostre vacanze saranno i sensori online che scandiranno la durata dei minuti da dedicare alla contemplazione dei principali panorami. E come unica, estrema difesa contro questa strategia Santanché a noi piccoloborghesi frustrati non resterà che una sega fantozziana: quella con cui il misterioso vendicatore veneto sta facendo giustizia degli autovelox.

Sopra di noi, intanto, volteggeranno indisturbati e impuniti gli elicotteri dei vip: perché "è sempre l'alto che fa crescere il basso", come ci insegna Danielona. 

Sunday, January 14, 2024

Come 200 anni fa, tocca sempre agli angloamericani liberarci dai pirati

di Mauro Suttora

Stessi protagonisti, stessi motivi di conflitto. È cambiato solo il luogo: mar Rosso invece del Mediterraneo occidentale. E speriamo che le analogie si fermino qui

Huffingtonpost.it, 14 gennaio 2024

È una replica identica a quella di 200 anni fa. Stessi protagonisti, stessi motivi di conflitto: Stati Uniti e Regno Unito contro pirati arabi che colpiscono navi mercantili. È cambiato solo il luogo: mar Rosso invece del Mediterraneo occidentale.

All'inizio dell'800 americani e inglesi si stufano dei corsari barbareschi che partono da Algeri, Tunisi e Tripoli per assaltare i loro bastimenti. Muovono loro una guerra che dura anni, subiscono la cattura della fregata Philadelphia con 300 ostaggi, invadono la libica Derna con i loro primi marines; alla fine, nel 1816, l'ammiraglio statunitense Stephen Decatur proclama la vittoria. 

Per anni gli Usa avevano preferito l'appeasement alla guerra: dalla fine del '700 pagavano l'astronomica cifra di un milione di dollari annui ai bey e dey locali in cambio della tranquillità di navigazione. Ma il presidente Thomas Jefferson nel 1801 passa alla linea dura perché i barbareschi pretendono ancora più soldi. 

Nel frattempo americani e inglesi trovano il tempo di farsi guerra fra loro oltre che a Napoleone: i soldati britannici arrivano perfino a Washington, incendiando Casa Bianca e Campidoglio. Ma subito dopo ritrovano l'unità contro il nemico comune, che taglieggia una fra le loro principali fonti di ricchezza, allora come oggi: il commercio internazionale. E ripristinano, dopo secoli, la libertà di navigazione nel Mediterraneo.

Le coste italiane sono tuttora punteggiate da centinaia di 'torri saracene': dal Medioevo servivano ad avvistare i pirati, prima arabi e poi turchi, che per quasi un millennio hanno razziato le nostre città di mare. L'unica zona indenne era l'alto Adriatico, grazie alla protezione di Venezia. Ma dalla Liguria alla Sardegna, dalla Toscana alla Puglia, il principale terrore delle popolazioni costiere fino al '700 sono stati i pirati. Che da Finale Ligure all'Elba, da Ischia a Otranto, non si limitavano a devastare, rubare, violentare e massacrare: i prigionieri portati via venivano ridotti in schiavitù e venduti nei mercati ottomani.

Così, nel loro ultimo assalto ad Algeri del 1816, gli inglesi liberarono un migliaio di schiavi cristiani. Ma i pirati barbareschi continuarono i loro abbordaggi, e allora fu la Francia a intervenire. Inflissero loro duri colpi, e nel 1830 per eliminarli definitivamente invasero l'Algeria. Un'occupazione coloniale che durerà fino al 1962. Si spera che le similitudini con due secoli fa finiscano qui: che per far cessare gli attacchi houthi alle navi del mar Rosso non sia necessario sbarcare nello Yemen.

Sunday, December 31, 2023

Per Bob Dylan Israele è il "bullo del quartiere"














di Mauro Suttora

Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi

31 dicembre 2023

"Il bullo del quartiere è solo contro un milione. I suoi nemici dicono che occupa la loro terra, lo sovrastano di numero, lui non ha alcun posto dove scappare". 

Una delle migliori descrizioni di Israele è quella cantata dall'ebreo americano Bob Dylan 40 anni fa, nel 1983. Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi. 

È la prima volta che Dylan torna alla canzone politica dopo 'Hurricane' del 1975. Ma l'autore dei principali inni antimilitaristi e nonviolenti degli anni '60 ora è schierato completamente dalla parte di Israele.

"Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere, viene condannato perché è ancora in vita.

Dicono che non dovrebbe rispondere agli attacchi, che con la sua pelle dura dovrebbe lasciarsi uccidere quando gli sfondano la porta.

È stato cacciato da ogni terra, ha vagato in esilio per il mondo.

Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e fatta a pezzi, ma è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.

Ha eliminato la folla che voleva linciarlo, ma dicono che deve scusarsi.

Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, le bombe erano per lui, ma avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

La sorte gli è avversa, le probabilità che viva secondo le regole che il mondo crea per lui sono minime, perché ha un cappio al collo, un fucile alla schiena, e a qualsiasi fanatico viene concessa licenza di ucciderlo.

Non ha veri alleati, deve pagare per tutto, non gli danno niente per amore.

Gli permettono di comprare armi obsolete, ma nessuno combatte anima e corpo al suo fianco.

È circondato da pacifisti, tutti vogliono la pace.

Pregano che cessi lo spargimento di sangue, non farebbero male a una mosca, piangerebbero nel farlo.

Aspettano seduti che il bullo si addormenti.

Ogni impero che l'ha fatto schiavo è scomparso: Egitto, Roma, anche Babilonia.

Ha trasformato la sabbia del deserto in un giardino paradisiaco.

Non va a letto con nessuno, nessuno lo comanda.

I suoi libri più sacri sono calpestati, nessun contratto che ha firmato vale la carta su cui è scritto.

Ha preso le briciole del mondo e le ha tramutate in ricchezza, le malattie in salute.

Qualcuno è in debito con lui? Nessuno, dicono.

Gli piace causare guerre, orgoglio, pregiudizi, superstizioni.

Aspettano il bullo come un cane aspetta il cibo.

Cos'ha fatto per avere così tante cicatrici?

Cambia il corso dei fiumi, inquina la luna e le stelle?

Il bullo del quartiere sta sulla collina, l'orologio si esaurisce.

Il tempo è immobile". 

Saturday, December 23, 2023

Harakiri civile. Gesù, Cucù e presepi: inclusività è aggiungere, non togliere
















Eliminare il nome di Gesù da una filastrocca natalizia per questioni di sensibilità religiosa non è un arricchimento culturale. Anzi, significa rinunciare alle proprie tradizioni in nome del politicamente corretto e della tolleranza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 dicembre 2023

Per essere davvero "inclusivi" bisogna includere. Dall'etimo latino "chiudere dentro", quindi riempire. Aggiungere, non togliere. Perché includere è l'esatto contrario di escludere, chiudere fuori, eliminare. Perciò le povere ignoranti maestrine che hanno cancellato il nome di Gesù dalla filastrocca natalizia sostituendolo con Cucù hanno ottenuto il risultato opposto a quello che si prefiggevano. Hanno impoverito i loro bimbi - tutti, cattolici e non, invece di arricchirli o di (rischiare di) offenderli.

Il portinaio albanese (musulmano) del palazzo dove abitavo a New York sotto Natale installava nell'atrio il presepe cristiano sotto un pino, collocandoci maliziosamente sopra una scintillante mezzaluna islamica vicino alla stella. E accanto piazzava pure una menorah, il candelabro ebraico a sette bracci. Completava questo festoso miracolo sincretico la scritta conglobatrice "Happy Christmas & Hanukkah!". Non per nulla gli intelligenti custodi negli Usa si chiamano "super"(intendent). 

Ma se il furbo e tollerante portiere avesse individuato fra i numerosi affittuari del suo condominio di Manhattan qualche induista o buddista, c'è da scommettere che avrebbe moltiplicato i simboli religiosi nella hall. Per aumentare le mance, e per prolungare le vacanze. D'altronde, il posto con i weekend più lunghi del mondo è Gerusalemme: da venerdì a domenica, grazie alle tre religioni monoteiste che rendono sacra la città.

E qui in Italia? È passato un quarto di secolo da quando, nel 1999, assistetti esterrefatto all'abolizione del presepe in un asilo di Milano. Eravamo già diventati così politicamente e religiosamente 'corretti' (o corrotti?) che cominciammo a vergognarci perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra. Ecco la cronaca che scrissi. Non è bello autocitarsi, ma già allora 40 mamme sviscerarono ogni possibile aspetto della questione. Nessuna virgola da aggiungere o cambiare: la stupidità è inossidabile. Anche quando ora qualche politica di destra vorrebbe difenderli tramite legge, i presepi.

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. In una scuola materna dell'evoluta Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona piccolomedioborghese) maestre e direttrice rifiutano di farlo per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi".

Dopo le proteste di diverse mamme viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, diversamente da altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa nulla del nostro buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no.  Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" . Una terza: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiede". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti".  Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti".  

Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..." [Romano Prodi, Francesco Rutelli e Antonio Di Pietro presentarono un partito con questo simbolo alle europee 1999, ndr]

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di una civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, sembra un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...) 

Saturday, December 16, 2023

La vera storia della rapina del 1974 che Toni Negri pagò con una condanna a 12 anni








Ma davvero un intellettuale stimato in tutto il mondo fu il mandante di un omicidio? No, la sentenza dei giudici di Roma nel 1987 parla di "concorso morale"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 16 dicembre 2023

"L'azione di autofinanziamento è andata male. Siamo stati così sfortunati che è rimasto per terra in vita un testimone, perché la pistola si è inceppata». Sono queste le parole costate a Toni Negri la condanna a dodici anni per la tentata rapina di Argelato (Bologna) del 5 dicembre 1974, in cui venne ucciso il carabiniere Andrea Lombardini, e ferito un suo collega. Il filosofo scomparso 90enne a Parigi fu inchiodato dalla testimonianza del pentito Carlo Fioroni, compagno di Toni Negri in Potere Operaio e poi in Autonomia Operaia. In seguito Fioroni fu condannato per il sequestro e l'assassinio di Carlo Saronio, però le sue parole furono ritenute veritiere dagli inquirenti.

Ma davvero un intellettuale stimato in tutto il mondo fu il mandante di un omicidio? No, la sentenza dei giudici di Roma nel 1987 parla di "concorso morale". E il 'teorema' del pm padovano Pietro Calogero, che lo aveva accusato di essere addirittura il 'grande vecchio' capo delle Brigate Rosse, si sgonfiò nelle aule dei tribunali. Tuttavia, la pesante pena ha segnato la vita di Negri. Quattro anni di carcere preventivo dal 7 aprile 1979 al 1983, quando i radicali lo liberarono facendolo eleggere deputato. Poi la perdita dell'immunità parlamentare, la fuga in Francia sulla barca a vela di Emma Bonino, la rottura con Marco Pannella. 

Il ritorno in Italia nel 1997 per scontare il resto della condanna, i domiciliari tre anni dopo, e solo nel 2003 la liberazione, a 70 anni. Quando era diventato il mâitre-à-penser di un'ulteriore generazione di giovani antagonisti, i noglobal di Seattle e Genova (e in seguito gli Occupy Wall Street).

"L'idea della rapina come metodo di finanziamento [nel 1974] era diventata non solo accettabile, ma qualcosa da rivendicare. Fino ad allora gli espropri proletari erano sconosciuti ai gruppi della sinistra extraparlamentare". A parlare è un altro pentito, Mario Ferrandi: "Dopo Argelato l'organizzazione si fece carico di gestire in qualche maniera questo processo, perché buona parte dei ragazzi arrestati erano passati alle Br, sentendosi scaricati da noi. [...] Conobbi Negri, che si sapeva essere al vertice dell'organizzazione, con compiti di grossa responsabilità: un ruolo di direzione teorica". 

"Negri comparve a fare un giro di tutte le strutture dell'organizzazione", continua Ferrandi, "perché c'era da prendere una decisione importante, tale da richiedere che fossero sentiti tutti. I compagni svizzeri avevano raccolto una trentina di milioni che dovevano essere impiegati in una cosa sconcertante per un'organizzazione come la nostra: bisognava, rimborsare la parte civile del carabiniere ucciso". "Arrivò Negri, personalmente, perché la cosa era importante e la decisione delicata, e spiegò che questo poteva servire a far evitare l'ergastolo ai ragazzi, e a a ricucire i rapporti con loro. Tutti si dichiararono d'accordo sulla proposta".

Altro testimone di quegli anni sanguinosanente velleitari, Rocco Ricciardi: "Due compagni ci dissero che la rapina di Argelato fu decisa a Milano dal Negri, in particolare, che allora era il dirigente politico massimo [dell'Autonomia] che c'era in città, e fu fatta in collaborazione tra milanesi, varesini e bolognesi. Ci descrissero come andò, dall'arrivo della pattuglia dei carabinieri al conflitto a fuoco, all'uccisione del sottufficiale, al ferimento dell'altro carabiniere Gennaro Sciarretta col calcio dell'arma, all'inceppamento della pistola, all'arresto del varesino Bruno Valli e al suo suicidio in carcere pochi giorni dopo. Altri compagni del commando furono portati in Svizzera attraverso un valico in montagna clandestinamente, ma furono arrestati dalla polizia svizzera".

I più critici contro gli "avventuristi spontanei" dell'Autonomia operaia di Toni Negri erano proprio i brigatisti rossi. Ecco il drastico giudizio di Alfredo Bonavita, fondatore delle Br: "C'erano questi vecchi leader che mandavano ragazzini a fare le rapine, facendo creder loro che operavano in collegamento con le Brigate Rosse. Quelli che sono stati arrestati dopo Argelato sono davvero divenuti brigatisti: Vicinelli, Bonora, Gavina, Rinaldi, Franciosi e Bartolini. Quando sono arrivati nel carcere di Palmi abbiamo dovuto togliergli Negri dalle mani per evitare che si facessero giustizia dell'inganno subìto. Gli imputavano la responsabilità politica e morale di averli mandati allo sbaraglio. L'iniziativa era stata elaborata come una collaborazione nel reperire soldi per le Brigate Rosse, perché il problema era impiantare la lotta armata e creare una serie di rapporti privilegiati per entrare nelle Br. Ma questi giovani furono bellamente mandati a fare soltanto rapine. C'è stato il morto e sono stati praticamente sconfessati, cioè nessuno li ha coperti. Quindi loro si sono sentiti traditi".

Anche la moglie dello scrittore Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga, venne coinvolta nel tentativo di far espatriare i reduci della rapina. Racconta l'autonomo Mauro Borromeo: "Ci dissero che c'erano dei ragazzi nei guai, e che era necessario portarli in Svizzera. In piazza San Marco a Milano incontrammo un ragazzo in piedi fuori da una macchina, la Renault rossa delia Pilenga, che era al posto di guida. Era il ragazzo che dovevo portare a Luino. Non dovevo fargli domande. Si partì verso il lago Maggiore, il ragazzo mi disse che era molto stanco. Arrivati a Luino, di fronte a un bar del lungolago trovai le due donne che erano già arrivate con la loro macchina. Il ragazzo che era con me scese e si unì a loro. Appresi poi dai giornali che in Svizzera, al momento del valico, erano stati arrestati dei giovani coinvolti con i fatti di Argelato». 

Pilenga, dipendente Rai, confessò che la sera del 6 dicembre 1974 ricevette in ufficio una telefonata di Borromeo: "Ci siamo incontrati subito in un bar di piazzale Cadorna, alla stazione Nord di Milano. Mi ha detto che, per ordine del capo, e per capo noi si intendeva Negri, c'erano due ragazzi da aiutare a scappare da Milano e andare in un paese vicino al confine. Dopo un giorno o due mi ha telefonato e mi ha detto che Negri mi aspettava. Sono andata a incontrare Negri in casa di Borromeo, ma  Borromeo non c'era. Mi ha aperto la  porta sua suocera. Sono entrata e Negri mi ha detto che c'era da aiutare questi ragazzi, che dovevo prenderli in via San Marco e portarli a Maccagno".

In seguito anche Fioroni, inquisito a Torino, ebbe bisogno di soldi per espatriare in Svizzera. Ma, fissato un appuntamento con Toni Negri vicino a Santa Maria delle Grazie, nella zona di via Boccaccio dove il filosofo abitava, Fioroni si sentì dire che "per il momento si doveva arrangiare da solo, perché l’azione di autofinanziamento era andata male".

Nel 1975 Franco Franciosi, in attesa dell'estradizione nel carcere di Lugano, confermò a Fioroni che «alla riunione in cui era stata decisa la rapina avevano partecipato, tra gli altri, lui, Negri, Roberto Serafini e il varesino che si era impiccato in carcere; che effettivamente un testimone e precisamente un carabiniere fu stordito con il calcio del mitra perché il caricatore si era esaurito; che si tentò allora di ucciderlo senza però riuscirci, dato che la pistola si era inceppata; che dopo il crimine alcuni dei ragazzi arrestati in Svizzera passarono da Milano, rifugiandosi a casa della Pilenga".

In un incontro dell'Autonomia a Padova nel febbraio 1975, sempre secondo Fioroni, si accennò a errori tecnici gravi commessi "in occasione della rapina, essendo stati mandati allo sbaraglio elementi molto giovani e avendo gestito malamente il modo con cui erano stati fatti espatriare. Le critiche sulla gestione di Argelato investivano principalmente Toni Negri".
Insomma, meglio per tutti che i filosofi non passino mai dalla teoria all'azione. 

Thursday, December 07, 2023

L'altro Alfredo dell'anarchia. Vita e prigioni di Bonanno, padre politico di Cospito
















È morto a Trieste il filosofo degli anarco-insurrezionalisti che ha ispirato generazioni di ribelli. Finì in galera per i suoi scritti e querelato da Sartre per una magnifica beffa. In fondo fu il più fedele a Bakunin

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 7 dicembre 2023

È morto Alfredo Maria Bonanno, papà politico di Alfredo Cospito. Gli ha tramandato il nome, invece del cognome. Il filosofo degli anarco-insurrezionalisti italiani si è spento a Trieste a 86 anni, dopo aver ispirato generazioni di ribelli che hanno seguito i suoi fiammeggianti scritti e discorsi. Il più famoso è appunto Cospito, che dopo nove anni in carcere ne sta scontando altri 23 al 41bis per una bomba che non ha provocato un graffio a nessuno.

Anche Bonanno spesso passava dal pensiero all’azione. Basta il titolo del suo libro più famoso, La gioia armata (1977), che gli costò un anno e mezzo di carcere. Due anni se li era già presi nel 1972 per istigazione all’insurrezione sulla rivista Sinistra libertaria. Nel 1997 fu condannato a sei anni come ideologo dell’Orai (Organizzazione rivoluzionaria anarchica italiana), in un maxiprocesso con 68 imputati e sole sei condanne.

Indomito, nel 2009 venne arrestato in Grecia e scarcerato dopo un anno perché over 70. E nel 2013 rieccolo all’università La Sapienza di Roma per dire ai Punx anarchici che “bisogna agire, non chiacchierare”, perché “abbiamo il diritto alla ribellione”.

Ho conosciuto Bonanno, che prima di votarsi alla lotta fu bancario e dirigente industriale, nel 1983 nella sua Catania. In quegli anni tutti gli antimilitaristi d’Europa scendevano a Comiso (Ragusa) per protestare contro gli euromissili atomici Usa Cruise, installati in quello che ora è un aeroporto civile.

“Ecco, arriva il rompiballe”, dicevamo noi nonviolenti e radicali quando alle assemblee si presentavano lui e gli autonomi. Che invariabilmente proponevano di assaltare la base. Anche noi eravamo per l’azione diretta, ma pacifica. E se arrivava la polizia con i manganelli ci sedevamo per terra senza reagire.

Così, per non dar adito a provocazioni e tafferugli, quando davanti ai cancelli della base giungevano Bonanno e i suoi, a noi toccava andarcene. Tante manifestazioni furono sconvocate per colpa sua (il che non impediva ai poliziotti di menare pure noi, quante botte prese Luciana Castellina).

A me Bonanno però stava simpatico. Era un rodomonte velleitario che ci accusava di essere moderati, vigliacchi, piccoloborghesi, ma nel 1978 aveva architettato una beffa sopraffina contro gli intellettuali di sinistra. Compilò un opuscolo raccogliendo le frasi più dure di Jean-Paul Sartre contro il capitalismo e il sistema, ne aggiunse di sue imitandone lo stile, e lo pubblicò a firma del maître à penser francese. Tutti ci cascarono, Sartre dovette denunciarlo.

Perfino gli anarchici detestavano Bonanno. Quelli perbene a Milano si incontravano nella libreria Utopia in largo La Foppa, all’angolo Moscova-Garibaldi, dove ora c’è la pasticceria Panarello. Lo accusavano di estremismo velleitario, e nei loro giornali (A-Rivista anarchica, Senzapatria, Umanità Nova) non c’era spazio per gli antagonisti come lui. Il discrimine era la violenza, l’illegalità che poi sfociava in una controproducente criminalità. Anche se, leggendo Bakunin, Kropotkin o Malatesta, bisogna riconoscere che il più coerente con i proclami dei padri dell’anarchia era proprio Bonanno.

Alla fine, dopo cinque anni di proteste contro gli euromissili di Comiso (e quelli di Mosca), nel 1985 arrivò Michail Gorbaciov e in poche settimane si mise d’accordo con Ronald Reagan per smantellarli. Ma il colpo più perfido a noi pacifisti lo diede il premier Bettino Craxi, pro-missili, quando dopo un nostro corteo oceanico di un milione di persone disse: “Bene, vuol dire che gli altri 59 milioni di italiani sono d’accordo con me”. E seppellì sia noi, abbastanza utili idioti dell’Urss a pensarci bene, sia gli anarco-insurrezionalisti di Alfredo Bonanno.

Wednesday, December 06, 2023

In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una





















Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023

Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.

Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”. 

Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.

Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.

Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.

Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?

Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?

La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.

Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.

Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.

Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?

Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”. 

Thursday, November 30, 2023

La rivincita di Fantozzi. Il governo dà un'arma formidabile ai dipendenti pubblici

Nuova direttiva del ministro Zangrillo: i sottoposti potranno giudicare anonimamente i propri capi. Dal leccapiedi al culodipietra, breve fenomenologia dei travet che ne usufruiranno

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 novembre 2023
 
Fantozzi, è arrivato il tuo momento. Il ministro Paolo Zangrillo annuncia che verrà introdotta la valutazione per i pubblici dipendenti. Non solo quella dall'alto al basso, dei dirigenti sui loro sottoposti. Anche i dipendenti potranno giudicare i propri capi. Fantastico. I voti saranno anonimi, quindi in ogni reparto scattaranno lamentele, vendette e accuse senza timore di rappresaglia.

Sulla valutazione dei dipendenti sono stati scritti libri interi. Ci sono cattedre universitarie e corsi appositi per i direttori del personale. Oggi si dice hr, human resources, risorse umane. "Com'è umano lei", biascicava il ragionier Fantozzi davanti al suo tremendo capufficio Gianni Agus. In realtà erano disumane le vessazioni cui era sottoposto il personaggio impersonato da Paolo Villaggio. E tutti, prima o poi, ci siamo identificati in lui quando abbiamo dovuto subire le angherie di un capo crudele.

Non è la prima volta che la burocrazia pubblica annuncia pagelle, nella speranza di migliorare le proprie mediocri performances. L'unica cosa sicura, però, rimane lo stipendio misero che arriva a fine mese. Per il resto, asini e geni, pigri e volenterosi rimangono appiattiti in un sistema che garantisce tutti e valorizza pochi. Perché dopo i giudizi, dovrebbero arrivare anche sanzioni per i lavativi e premi per i meritevoli. Ma i soldi sono quello che sono, e oggi un insegnante in Italia guadagna meno di un operaio specializzato. Quindi ci sono poche leve a disposizione dei manager statali per far funzionare la meritocrazia.

Anche nel settore privato, comunque, vigono gli stessi meccanismi psicologici nel rapporto con i dirigenti. Come misurare l'efficienza di un lavoratore? Il leccapiedi fedele spesso è preferito all'eccellente ma critico. E i capi vulnerabili all'adulazione sono manna per i furbi.

I trucchi per apparire bravi sono innumerevoli. Il principale di cui mi sono avvalso, in 40 anni di carriera, è stato quello di arrivare sempre al lavoro un minuto prima del mio capo, e di andarmene un minuto dopo. Col rischio di essere soprannominato 'culo di pietra', riuscivo a infondergli un'impressione di onnipresenza, guadagnandomi fantozzianamente la sua fiducia totale. E qualche aumento.

Ancora più abietta è la categoria degli "spalatori di merda". Quelli disposti a tutto: obbediscono sempre e subito, non sollevano mai obiezioni. I 'problem solver', come Harvey Keitel nel film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, sembrano indispensabili. Solo quando se ne vanno ci si accorge che non lo erano. Rapidissimi, privilegiano la quantità sulla qualità. Nessuna creatività, tanta disciplina. Io invece ero definito "cacadubbi", perché osavo analizzare pro e contro di ogni questione. Errore imperdonabile: sul lavoro niente filosofia. "Non sei flessibile, devi essere più duttile", mi disse un direttore. Traduzione: "Cala le mutande".

Infine, ci sono i simpaticoni. Le figure più pericolose, che sicuramente mieteranno voti nelle future valutazioni. Popolari sia fra i dirigenti che fra i subalterni. Promettono sempre, mantengono raramente. Ma chiacchierano tanto e si fanno amare. Il loro luogo ideale sono le "riunioni": paradiso esibizionista per gli arrivisti, purgatorio per noialtri dotati di un po' di dignità, inferno per i timidi. Rischiano giudizi negativi solo dai pari grado, per invidia o gelosia.

Insomma, aboliti i voti alle elementari "per non creare traumi", eccoli ricicciare nei confronti di poveri 50-60enni che speravano solo in un po' di tranquillità, viaggiando in folle verso la pensione. I luoghi di lavoro sono già nidi di vipere, perché trasformarli in Cambogie di finta democrazia come nel film Prova d'orchestra di Federico Fellini?

Saturday, November 25, 2023

Care donne, non deleghiamo allo Stato la rivoluzione culturale. Quella tocca a noi, individui

Appello libertario

di Mauro Suttora

Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del Nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia

Huffingtonpost.it, 25 novembre 2023

Naturalmente le donne che amiamo meritano soltanto 'Love, devotion and surrender', come cantava Carlito Santana. Tuttavia, a chi parla di "società patriarcale" come causa dei femminicidi in Italia si può rispondere con queste famosa frase: "Incolpare la società? Non esiste una cosa come la società, alla quale chiedere di risolvere ogni nostro problema". Esistono invece e soprattutto gli individui, i cittadini con le loro innumerevoli, libere e spontanee relazioni. Con i loro personali diritti, doveri e reciproche responsabilità.

Perciò, piuttosto che invocare interventi statali, nuove leggi, aumenti di pena e ore di lezione sull'affettività, preferiremmo che lo stato si intromettesse il meno possibile nelle nostre vite. Giù le mani dai sentimenti e dall'amore, che non possono essere né insegnati a scuola, né controllati da burocrati.

È stato il sogno di ogni regime, nazifascista o comunista, governare le nostre faccende privatissime, sempre con la scusa di 'proteggere' qualche categoria o valore. Ci abbiamo messo decenni per liberarci da politici che ci punivano se divorziavamo, abortivano, o se non volevamo imparare a uccidere (obiezione di coscienza al servizio militare).


Stiamo ancora chiedendo di decidere da soli se fumarci o no una canna così come si fuma una sigaretta o si beve un bicchiere di vino, senza arricchire i mafiosi beneficiati dal proibizionismo (cent'anni fa Al Capone, oggi interi narcostati e narcomafie planetarie). Vorremmo sfuggire all'accanimento terapeutico obbligatorio, che ci fa restare artificialmente 'in vita' per lustri come Michael Schumacher: milioni di tronchi apparentemente umani, da nascondere nelle rsa. Desideriamo invece il diritto a una morte dolce.

Cosa chiedere allora allo Stato contro la violenza sulle donne? Fare meglio il suo lavoro: reprimere, punire, prevenire. Ma alla larga dal delegargli 'rivoluzioni culturali' maoiste. Inutile illudersi: lo stato non potrà mai eliminare completamente gli istinti  e pazzie individuali che provocano femminicidi e stupri. Che l'illusione autoritaria dello stato-Stasi non si faccia forte di verbi dolciastri come "aiutare" ed "educare", per aumentare il suo potere. Che l'erogazione di innumerevoli e strambi bonus non trasformi tutti noi in clienti di uno stato-mamma invadente e sprecone (psicobonus eternizzato, lo vuole Fedez).

 Le rieducazioni di massa restino in Cina e Corea del nord, le repressioni del vizio e le promozioni della virtù lasciamole agli ayatollah e pasdaran dell'Iran assassini di ragazze: lì le Giulie Cecchettin sono centinaia. E certo, la cultura può indirizzare la società italiana verso ulteriore emancipazione femminile, eguaglianza di stipendi, o anche semplice buona educazione per zittire i 'cat callers', dispensatori di appiccicosi complimenti alle passanti. 

Ma i patriarchi erano e restano tre: Abramo, Isacco e Giacobbe. Non resuscitiamoli per colpa di qualche cafone per strada. Non evochiamo inesistenti "società patriarcali": la nostra è una delle meno maschiliste al mondo. E soprattutto non chiediamoci ossessivamente "dove sono le istituzioni?", come quel comico della Gialappa's: siamo noi, le istituzioni.

Ps: la frase famosa e per qualcuno scandalosa citata all'inizio è della donna più potente al mondo negli anni '80: Margaret Thatcher. 

Wednesday, November 22, 2023

Frecciarossa e auto blu. Stavolta ha centoundici volte ragione Lollobrigida
















Incredibile rigurgito anticasta contro il ministro che stava andando dai bambini di Caivano in treno. Che però era in ritardo di centoundici minuti. E per non mancare l’appuntamento, lo ha fatto fermare e ci è andato in macchina. Perché lo Stato non è un pendolare

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 22 novembre 2023

Tutti contro Lollo: Giuseppe Conte, Matteo Renzi, Riccardo Magi. Vogliono che Francesco Lollobrigida si dimetta perché ha fatto fermare un treno. E invece questa volta Lollo ha ragione. Centoundici volte ragione, come i minuti di ritardo del Frecciarossa che ieri aveva preso per andare a inaugurare il nuovo parco di Caivano (Napoli). Perché non si fanno aspettare sotto la pioggia i bambini di una zona martoriata dalla camorra. Né tantomeno gli si dà loro buca.

Francesco Lollobrigida durante quest'anno alla guida del Ministero dell'Agricoltura ha accumulato varie gaffes, dalla "sostituzione etnica" provocata dagli immigrati ai poveri che mangerebbero meglio dei ricchi. Lui stesso è una gaffe vivente, perché ministro-cognato (della premier) non suona bene. Ricorda troppo il ministro-genero Galeazzo Ciano di 80 anni fa.

Ed è imbarazzante anche l'aggiunta decretata al nome del suo dicastero: Agricoltura e Foreste era già abbastanza lungo, ma lui ha voluto appesantirlo con "Sovranità alimentare". Un concetto che suona desolatamente parafascista: non potendo più sfogarsi con i parà (anzi, si sono fatti scippare dai leghisti l'ex capo della Folgore Roberto Vannacci), ai nostalgici non resta che consolarsi con il nazionalismo dei campi. Facendo finta di ignorare che il nostro export enogastronomico vale decine di miliardi, cosicché siamo gli ultimi a cui converrebbe erigere barriere al libero scambio mondiale dei cibi: se gli altri adottassero il chilometro zero nei nostri confronti, sarebbe un disastro.

Ma lasciamo questi problemi planetari e torniamo a Ciampino. Perché è lì che il ministro e il suo segretario si sono accorti del ritardo astronomico accumulato dal loro treno ad alta velocità nella brevissima distanza dopo la partenza da Roma. Friggevano, si sentivano intrappolati. E quindi hanno fatto l'unica cosa intelligente per salvare il loro impegno a Caivano: saltare giù dal treno, acchiappare un'auto blu e proseguire il viaggio con il lampeggiante. 

Gli altri passeggeri non sono stati danneggiati dalla fermata extra. Soltanto con un rigurgito grillino fuori tempo massimo si può accusare Lollobrigida di "arroganza della casta". Intanto perché è lodevole ed ecologico che un ministro abbia provato a spostarsi in treno invece che in auto o aereo di stato.

In realtà il modo più veloce per coprire la distanza breve Roma-Caivano sarebbe il volo in elicottero. Ma immaginiamo gli strilli moralisti, "tracotanza!", se Lollo avesse osato avvalersi di un mezzo di trasporto normalmente utilizzato da un qualsiasi industriale.

Conosciamo bene l'inutile pompa borbonica di cui amano circondarsi i politici quando viaggiano, anche nei centri delle città. La sovrabbondanza dei codazzi con portaborse di certi cortei che bloccano il traffico. Ma ieri non è successo questo. 

Il ministro Francesco non è un francescano, tuttavia il suo comune Frecciarossa non ha funzionato. E lui ha trovato la soluzione migliore per evitare una figuraccia nei confronti di chi lo aspettava a un appuntamento preparato da settimane.

Mussolini faceva arrivare i treni in orario, dicono. Aspettiamo che i suoi eredi riescano a imitarlo. Intanto, però, che almeno l'opposizione eviti i riflessi pavloviani di pretendere dimissioni campate in aria.

Monday, November 06, 2023

Fedez e Vincenzo De Luca, la strana coppia. Manca solo la candidatura alle Europee

Il presidente della regione Campania, invitato nel podcast di un'ora del musicista, Muschio selvaggio, lo ha sedotto immediatamente. Cronaca di una improbabile sintonia

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 novembre 2023 

È scoppiato un amore. Vincenzo De Luca e Fedez assieme al prossimo voto europeo (con o senza il Pd)? Il presidente della regione Campania, invitato nel podcast di un'ora del musicista, Muschio selvaggio, lo ha sedotto immediatamente. De Luca il 13 ottobre aveva insultato i personaggi ricoperti di tatuaggi: "Mi fanno schifo, sono imbecilli". Fedez gli ha risposto offrendogli spazio nel proprio programma su YouTube. E l'astuto politico ha trasformato il processo in un podio.

Archivia subito le critiche dermatologiche: "Siete ragazzi e artisti, vabbe'". Ne aggiunge un'altra: "A Sanremo ti sei avvinghiato come un mollusco a quel tipo per slinguazzarlo. Una zozzeria". Fedez obietta: "E allora, quando Benigni si attaccò allo scroto di Pippo Baudo?" "Lì sotto non c'era niente", risponde veloce De Luca. E il rapper scoppia a ridere. Sembra di essere nel programma tv di Crozza. Da lì in poi, tutto in discesa per il politico campano. Fino al gran finale: "Hai dato coraggio agli altri affrontando la prova del tumore. Sei un ùomo". Che è la massima lode deluchiana.

De Luca, con libro in promozione, trova terreno fertile nel giovanilismo: "Per voi sono tempi drammatici. Io ce l'ho con gli adulti che smettono di fare gli adulti. Come diceva quel tale, Jacques... [si dimentica il cognome, ndr], noi insegniamo ai giovani non ciò che diciamo, ma ciò che facciamo". Fedez va in brodo di giuggiole. Aggiunge: "Non sono i tatuati che hanno ridotto il mondo così, ma quelli in giacca e cravatta". De Luca rincara: "E quelli in divisa militare".

Il duetto procede sui superalcolici: "Li beve il 72 per cento dei minorenni", denuncia De Luca. Il musicista annuisce. Le serie e i film come Gomorra spingono i giovani all'emulazione? Piccolo dissidio, Fedez non ne è convinto, poi il governatore arretra: "Accentuano le fragilità in determinati contesti, si perde il principio di autorità". Due sociologi.

Fedez e il suo coconduttore Mister Marra (soprannominato Nosferatu da don Vincenzo in un momento di tenerezza) provano a essere ficcanti chiedendogli conto delle sue traversie giudiziarie. È un invito a nozze: "La signora Rosaria Bindi, quand'era presidente della commissione antimafia, mi definì 'impresentabile' solo perché rinunciai alla prescrizione in un processo di diciannove anni prima", si scalda De Luca, "in realtà avevo difeso gli operai dell'Ideal Standard". 

L'intervista si trasforma presto in un comizio da toni vannacciani. Il trapper milanese Shiva che ha sparato a due ragazzi di una gang rivale? "Dagli Stati Uniti importiamo solo esempi idioti, demenziali", si scatena il presidente campano, "io come pena applicherei il metodo Singapore: lì i poliziotti sono dotati di un frustino di bambù sottile. Una ventina di frustate fra capo e collo".

Tutti d'accordo sulla superiorità di Napoli su Milano, diventata secondo Fedez "insicura". Qui De Luca assume toni crozziani: "La mia Campania è la prima regione in Italia per i tempi di rimborso dei farmaci. Forniamo trasporti gratis a tutti gli studenti fino ai 26 anni. E siamo stati i primi a dare il bonus psicologo che ti sta tanto a cuore, caro Fedez". Un tripudio di stima reciproca. "In Campania c'è la camorra perché manca lo stato", signora mia, mentre la regione di De Luca è presente. Sembra di ascoltare il nuovo tormentone del comico pelato della Gialappa's: "Dove sono le istituzioni?"

Ai due rapper che un po' incongruamente sottolineano l'aggressività con toni da lanciafiamme di De Luca, lui cita papa Paolo VI a Jean Guitton: "La gravità è lo scudo degli sciocchi". E via con gli insulti ai dirigenti pd, "anime morte, non rappresentano più nulla", che non risparmiano neanche l'"amico Bersani, con quella sua puttanata velleitaria di Articolo Uno", e tutti i politici in generale, "che non reggo trenta secondi ad ascoltarli".
 Fedez ammutolito ed estasiato, tre a zero per De Luca. Palla al centro, non resta che celebrare il nuovo idillio e dargli uno sbocco concreto. 

Friday, October 27, 2023

Rampelli a Waterloo. Il meloniano che ha sconfitto Napoleone

Il vicepresidente della Camera ha infine tolto il ritratto di Napoleone dal suo ufficio: “Rivogliamo le opere d’arte che si rubò”. Una strada impervia, e anche molto pericolosa

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 27 ottobre 2023

Visto che i crimini di guerra sono tristemente d’attualità, diciamolo subito: Napoleone fu un criminale di guerra. Le sue invasioni costarono tre milioni di morti militari e un milione e mezzo di civili in soli 17 anni. Ma il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI) è tutt'altro che un woke, come si dice oggi, uno che vuole riscrivere la storia: “Non possiamo giudicare Bonaparte con le nostre categorie contemporanee. Allora tutti gli imperatori si accaparravano territori non loro e le relative ricchezze attraverso bottini di guerra”.

E allora perché ha tolto il ritratto di Napoleone di Andrea Appiani dal suo ufficio in Parlamento, sostituendolo con un dipinto di scarso valore? 

“Uno stato che sia sensibile alla cultura, come l’Italia che di cultura vive, deve porre il problema delle opere d’arte trafugate”.

E furono più di mezzo migliaio, fra quadri e statue, i capolavori italiani che l’imperatore corso trasferì in Francia. Dopo la restaurazione del 1815 il Papa mandò Antonio Canova a Parigi per recuperarli. Lo scultore riuscì a farsene ridare la metà: i più famosi erano il Laocoonte, che tornò in Vaticano, e la quadriga veneziana di San Marco che Napoleone aveva piazzato sul proprio arco di trionfo del Carrousel, davanti al Louvre.

Ma ad oggi rimangono ancora in Francia 250 opere del bottino napoleonico: dalle Stigmate di San Francesco di Giotto alle Nozze di Cana del Veronese, dalla Madonna di Cimabue all’Incoronazione della Vergine di Beato Angelico, più vari Mantegna, Perugino, Tiziano, Ghirlandaio.

Non la Gioconda di Leonardo, che si trovava in Francia da molto prima di Napoleone: una sua copia adorna la sala Aldo Moro di Montecitorio, proprio dove Rampelli ha fatto collocare il Bonaparte sfrattato, a guisa di memento.

Il combattivo vicepresidente vuole iniziare una vertenza con Parigi: “Quando facciamo accordi bilaterali con la Francia, come il trattato del Quirinale, dovremmo cercare di riottenere una parte delle opere trafugate”.

Ma ormai siamo in Europa.

“Appunto. Dentro la Ue ci dovrebbe essere un trasferimento quasi automatico e indolore fra uno stato e l’altro, quando si tratta di furti”.

La soluzione potrebbe essere una politica molto generosa di scambi e prestiti per mostre in Italia. Anche se è difficile pensare a trasferimenti per opere gigantesche come le Nozze di Cana del Veronese.

È pericoloso però avventurarsi in rivendicazioni nazionaliste: il museo Egizio di Torino chiuderebbe se anche Il Cairo imboccasse la strada ipotizzata da Rampelli.

Quanto al giudizio storico su Napoleone, il dibattito è aperto da due secoli, e continua a risultare appassionante: esportatore di democrazia e diritti civili o dittatore sanguinario mai sazio di conquiste? Quel che è sicuro è che nel giro di pochi anni il difensore della République si trasformò in imperatore che piazzava parenti, restauratore dell’autocrazia ben prima della Restaurazione. E soprattutto killer della repubblica più antica, tollerante, ricca, pacifica e raffinata della storia: Venezia. Senza risarcimenti in vista per la Serenissima.