Monday, November 09, 2020

Quello che il virus ci sta insegnando

Costretti dalla necessità, molti si rimboccano le maniche e inventano soluzioni che rimarranno utili anche dopo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 9 novembre 2020


“Il virus ci ha costretti a fare in tre settimane quello che avremmo dovuto comunque fare in tre anni”, ha dichiarato ad HuffPost in luglio Ennio Doris, presidente di Banca Mediolanum. “L’80 per cento dei nostri dipendenti è andato in smart working, ma anche quando la pandemia finirà, il 60 per cento continuerà a lavorare da casa. Eliminati gli sprechi di tempo per spostarsi in auto. Molti di noi hanno scoperto programmi e app per le conversazioni video che neanche sapevamo di avere, sui nostri cellulari. Siamo tutti collegati meglio di prima, distanze annullate”.

Una ventata di ottimismo che ora è messa a dura prova dal secondo lockdown. Perché certo, molti lavori si possono fare da remoto. Ma la maggioranza no. Ci vuole la presenza fisica: esattamente quella che ci tocca di nuovo evitare per abbassare la maledetta curva del contagio, che si nutre di prossimità e assembramenti. Eppure, non tutto il male viene per nuocere. Perché anche nei campi in cui soffriamo di più (scuole, bar, ristoranti, spettacoli, trasporti, città spettrali, socialità azzerata) molti stanno inventando soluzioni che rimarranno utili anche dopo il virus.

DAD: SERVIRÀ ANCHE DOPO IL VIRUS

La famigerata Dad, la didattica a distanza. Che opportunità offre? “La Dad non è un professore che apre Zoom e si mette a parlare su un argomento. Significa utilizzare la tecnologia per coinvolgere gli studenti, farli partecipare, spingerli a creare loro qualcosa”: parola di Marco De Rossi, fondatore di WeSchool, unica piattaforma italiana tra le tre consigliate dal ministero dell’Istruzione per la Dad, e usata ogni giorno da più di un milione di studenti e insegnanti. Basta col prof che parla da remoto e che bisogna star solo ad ascoltare. Bisogna appassionare le classi, ed esistono migliaia di strumenti per riuscirci. 

I docenti ora possono portare i loro studenti online da web o app attraverso Google Drive, YouTube o Dropbox, condividendo materiali, discutendo, collaborando ed effettuando verifiche e test. Ecco le vere lezioni interattive con video, pdf, documenti Word, Excel, slide, pagine web, gallerie di immagini: su un’unica piattaforma, senza dover passare da un sito all’altro né scaricare file. Agli esercizi vero/falso e a scelta multipla si aggiungono cruciverba, videoquiz, abbinamenti di domande. E non si studia solo la rivoluzione francese o Manzoni: “Gli studenti imparano soft skills utilissimi facendo ricerche online”,  dice De Rossi,  “distinguono i siti affidabili dai fake, si esercitano a comunicare in maniera efficace, leggono i giornali”. Il lavoro in squadra sviluppa capacità di leadership, costruzione di progetti e perfino di siti web.

In Italia venti prof su cento erano ‘digitali’ già prima del virus, e non hanno avuto problemi con la Dad. Il 40% sapeva usare abbastanza il computer, mentre il restante 40% era convinto addirittura che il digitale facesse male alla didattica. Oggi 233mila professori della secondaria, più della metà del totale, sono registrati su WeSchool. “Il professore è il regista che utilizza il digitale per interagire con lo studente, il quale non può stare sei ore davanti al pc ad ascoltare le lezioni”, spiega De Rossi. “Dopo una lezione di due ore lavora a un progetto, poi agisce in team con i compagni di classe. Sempre con il prof come guida”. La Dad sarà solo una parentesi? “Non si può tornare indietro”, conclude De Rossi. “Come lo smart working rivoluzionerà il mondo del lavoro, la didattica a distanza segnerà il mondo della scuola. Naturalmente non tutta la didattica deve essere online. Ci vuole integrazione, unendo la presenza fisica al digitale, come accade già sul lavoro”. 

L’ISOLAMENTO NON DISPIACE AI GIOVANI

Ma la pandemia che effetto sta avendo sui giovani? Il 26 per cento dei 16-19enni sostiene di avere riscoperto l’importanza della libertà, e il 35% apprezza il tempo da gestire autonomamente, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente della Link Campus University. Insomma, non la subiscono soltanto. “Altro che generazione con il cellulare sul divano, i teenager si sono reinventati”, spiega Nicola Ferrigni, direttore dell’Osservatorio, “percependo l’assenza di amici e della scuola in presenza, ma apprezzando altre cose che che prima non c’erano”.

Il 36% valuta positivamente la Dad perché serve alla preparazione scolastica (20%), ma anche perché fa capire l’importanza delle tecnologie (15%). Quasi un quarto degli intervistati dice di guardare Rai Scuola e Rai Cultura. Niente concerti, mostre, teatri,  ma uno studente su tre vede in streaming tv o web concerti e session, un altro terzo legge romanzi o poesie, e il 21% assiste a mostre, esposizioni o tour virtuali. “Insomma, i giovani utilizzano ampiamente i media per arricchire il proprio bagaglio culturale e le proprie competenze”, dice Ferrigni. “Non mi fermo, ma mi formo e mi informo: ecco quello che fanno. Dimostrano di saper utilizzare più degli adulti i social e la rete in maniera consapevole, separandola dalla sfera ludica. Usano la parte buona di Internet”.

Liberi dalla routine e da bisogni materiali, i giovani hanno fatto un uso diverso del loro tempo: “Si sono dedicati a loro stessi, ma non in senso egoistico - spiega il sociologo -. Hanno anteposto la dimensione affettiva, emozionale e relazionale a quella che è la solita dimensione materiale. Hanno riscoperto il piacere di stare con genitori, fratelli e anche con se stessi”. Già abituati a essere connessi virtualmente, per molti giovani il lockdown ha un effetto relativo. Anzi, l’isolamento risulta addirittura più confortevole, ad esempio per gli adolescenti timidi, perché le conversazioni si svolgono in maniera più controllabile. La distinzione fra offline e online, fra virtuale e reale, non è applicabile a generazioni che non conoscono altro modo di essere. La comunicazione può non avere luogo di persona, faccia a faccia, ma è pur sempre uno scambio significativo, che produce sorrisi e incrementare il benessere personale. Lo constatiamo ogni giorno, guardando i volti di giovani - e meno giovani - persi negli schermi dei loro smartphone.

RISTORANTI E BAR: MEGLIO IN PERIFERIA

E il disastro dei ristoranti? C’è chi lo dribblato, addirittura aumentando il fatturato. “Il mio l’ho convertito in delivery-friendly e con il lockdown ho incassato tra il 40 e il 50 per cento in più”, dice Gianni Catani del ristorante Dumpling bar di Roma, specializzato in cucina cinese e ravioli. “Durante il confinamento ho messo in atto una strategia a cui lavoravo da tempo: consegnare a casa piatti cotti al 95 per cento, dando la possibilità ai nostri clienti di ultimare la cottura nelle loro cucine”, ha spiega Catani ad HuffPost. “Arrivata la consegna, bastano trenta secondi in acqua bollente o al vapore per rimettere in piedi un pasto da ristorante. Vendiamo anche il cestino di cottura”. Oggi il Dumpling bar consegna tremila ravioli al giorno in tutta Roma, con una squadra interna di fattorini. “Per noi credo che questo sia il futuro in ogni caso, perché permette di tagliare le spese di un ristorante. Ma naturalmente dubito che vada bene per le trattorie tradizionali”.

Sempre a Roma, il ristorante status symbol della movida di Ponte Milvio, ‘Da Brando’, vede scendere in campo Brando Serra, il titolare, che fa un delivery molto particolare: “La cena la porto io di persona a molti miei clienti, ora che non possono più venire da me”. ‘Asporto’ è la parola magica, ma inutile nasconderselo: pochi bar e ristoranti riescono a pareggiare i conti. Il ristorante storico Camillo, in piazza Navona dal 1890, soffre l’azzeramento dei turisti internazionali che volevano ‘spaghetti meatball’ e ‘fettuccine Alfredo’. E allora Filippo e Tommaso De Sanctis hanno cercato una nuova clientela: “Siamo partiti con l’asporto, ai giovani del quartiere abbiamo proposto i primi aperitivi da portar via, il “drinketto”, e stiamo crescendo”. Il drinketto è lo spritz fatto sul momento e imbottigliato per portarlo via o berlo strada facendo. Per molti romani è la prima volta in piazza Navona, considerata finora soltanto una ‘trappola per turisti’, off limits per i ricercatori di qualità. “Ci stiamo impegnando per offrire la nostra idea di prodotto di buon livello su Piazza Navona, anche e soprattutto per i romani”. Tommaso e Filippo vogliono mantenere i nuovi clienti conosciuti durante la primavera del lockdown, e “anche quando tornerà il turismo di massa cercheremo di intercettare quelli che ora ci leggono sul Gambero Rosso”. Il nuovo menù è innovativo e “world food”: coniuga i classici della cucina romana (carbonara e cacio e pepe) a ramen e tortelli alla piastra giapponesi, e hamburger con pane e salse homemade.

A Milano piangono ristoranti e bar del centro, privi non solo di turisti ma anche degli impiegati che scendevano in pausa pranzo. Però in compenso con lo smart working si sono ripopolati i quartieri dormitorio, anche in periferia. Dove gli affitti per gli esercenti sono molto più bassi, quindi la scommessa più abbordabile. E chi lavora in casa ogni tanto ha voglia di scendere a prendere un po’ d’aria. Così il trentenne Alan dopo il primo lockdown ha aperto il bar 23 in piazzale Martini. Suo padre possiede una rinomata pasticceria a Baggio, ma lui ogni mattina attraversa la città per andare a proporre caffè e brioches dietro porta Vittoria. “Certo, la chiusura alle 18 adesso ci ha dato una mazzata quasi definitiva, cancellandoci gli aperitivi. Però io non mi arrendo, e vado avanti di asporto”. Ha piazzato un tavolino fuori dalla vetrina, e ora i passanti si fermano a prelevare i caffè nei bicchierini di cartone, e i cornetti dentro ai sacchetti di carta. “Fino a ottobre avevo installato sotto gli alberi quattro tavolini e due ombrelloni, naturalmente sono passati i vigili e mi hanno multato perché non avevo rispettato per tredici centimetri lo spazio concesso”.

CASE: BOOM DELL’EDILIZIA

E le città, sopravviveranno al covid? O lo smart working le svuoterà, facendo crollare i prezzi delle case? Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il virus le ringiovanirà. Perché gli over 50, quelli che se lo possono permettere, si trasferiranno in piccoli centri di campagna, mare o montagna. Mentre i giovani le ripopoleranno, a cominciare dagli studenti universitari.

Le ricerche di case di campagna, rustici e casali sono aumentate del 29 per cento in primavera ed estate. Sono persone in uscita da Milano, Torino e Roma. Infatti le richieste sono più che triplicate in provincia di Brescia e Alessandria, e i prezzi delle case sono aumentati del 25% nei paesi in provincia di Roma. Il virus sta cambiando anche le caratteristiche delle abitazioni cercate sul mercato. “C’è grande domanda di immobili adeguati all’epoca di convivenza con il virus”, avverte Breglia, “quindi soprattutto case nuove, con più spazi esterni e più funzionali, visto che si vive di più la casa. A Milano a giugno e luglio sono raddoppiate le vendite di immobili di fresca costruzione. L’usato invece soffre e i prezzi scendono. Anche perché spesso bisogna ristrutturarlo”. Ci sarà, quindi, un boom dell’edilizia.

Il secondo lockdown ha provocato una fuga verso le seconde case più ordinata di quella convulsa a marzo. Passare il novembre con vista mare o lago, per chi se lo può permettere grazie allo smart working, è sembrata un’alternativa ragionevole. Ma anche molti non proprietari hanno lasciato le città. “Gli italiani questa volta non si sono fatti trovare impreparati”, dice Marco Celani, presidente di Aigab (Associazione italiana gestori affitti brevi) e ad dell’agenzia Italianway. “Le persone si chiedono: ‘Dove me lo faccio l’isolamento? A Roma, Milano, Torino, dove abito, oppure lontano dal caos cittadino?’. C’è chi si trasferisce nel paesino della nonna dove ha una seconda casa, chi torna al sud, c’è il milanese che decide di affittare un casale in Umbria o in Toscana per tre settimane (‘e se prolungano il lockdown poi vediamo’), c’è chi preferisce non allontanarsi troppo, ma vuole comunque cambiare scenario, memore della clausura di marzo e aprile”.

Italianway stima che sulle 87mila notti vendute da inizio anno, il 20% è all’insegna dell’holiday working: ciò significa che ben 17.400 prenotazioni sono state effettuate da persone che intendevano unire lavoro da remoto e soggiorno in un luogo piacevole. Un fenomeno che mitiga la crisi di agriturismi e b&b. Anche perché i prezzi sono bassi, e vivere fuori dalle grandi città costa meno: “Abbiamo registrato un boom di mete secondarie, dove le tariffe sono convenienti: Abruzzo, Marche, il paesino montano dove nessuno prima d’ora pensava di andare. E ci si organizza insieme ad altre persone: così i costi possono essere divisi”.

SMART WORKING PER SEMPRE?

Ma davvero lo smart working svuoterà per sempre del 60% i nostri uffici, come alla banca Mediolanum? “Conviene a tutti, al datore di lavoro e al dipendente. C’è un risparmio da entrambe le parti. Gli unici che ci perdono sono bar e ristoranti, tutto l’indotto intorno ai luoghi di lavoro”, dice ad HuffPost il manager Pier Luigi Celli, ex presidente Luiss e Rai, consigliere d’amministrazione Illy e Unipol. Il lavoro da remoto taglia gli affitti degli uffici e le spese di servizio mensa, pulizie, illuminazione, riscaldamento e telefoni. Il dipendente risparmia su trasporto, pranzo, e non è costretto a vestirsi ogni giorno in giacca e cravatta, dunque risparmia anche sul turnover del vestiario. 

Celli ha collaborato al libro “Il lavoro da remoto - Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza” a cura dell’ex ministro del Lavoro Michel Martone: “Siamo di fronte a una rivoluzione, che però necessita di essere governata con intelligenza. C’è bisogno di capi illuminati, che smettano di controllare ossessivamente il lavoratore e si fidino finalmente di lui. Solo così il dipendente sarà più sereno, meno stressato, renderà di più anche lontano dall’occhio vigile del capo, e l’azienda ne guadagnerà. Sono sempre le persone che fanno la differenza”. 

L’anno scorso in Italia lavoravano da casa in 570mila. Nel 2021 saranno quasi otto volte di più: quattro milioni, secondo l’osservatorio “The World After Lockdown” di Nomisma e Crif.

Mauro Suttora


Friday, November 06, 2020

Caos lockdown e Conte: soluzione 'alla Moro'

Serve una soluzione “alla Moro” prima del dramma

Mattarella sta già supplendo a Conte, debolissimo e in balia dei suoi errori. Un cambio politico è nelle cose, il più è che non sia tardi

intervista a Mauro Suttora

di Federico Ferraù

Il Sussidiario, 6 novembre 2020 

Entra in vigore il nuovo Dpcm Conte, le regioni “rosse” non ci stanno. Non c’entra il colore politico, ma quello epidemiologico, deciso sulla base di criteri ritenuti arbitrari dalle regioni confinate in fascia rossa: Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Calabria. Qui vigono le restrizioni adottate a livello nazionale (colore giallo) con l’aggiunta di misure più drastiche. Il risultato è un lockdown molto simile a quello di marzo-aprile.

I governatori colpiti criticano i criteri del Cts. “Informazioni vecchie di dieci giorni che non tengono conto dell’attuale situazione epidemiologica”, accusa Fontana (Lombardia); “il governo spieghi la logica di misure diverse per situazioni simili”, ha ribadito Cirio (Piemonte). Ieri la Calabria ha annunciato un ricorso. Intanto i nuovi contagi sono 34.505, i decessi in un giorno 445 (139 in Lombardia), +1.140 (5,2%) i ricoverati con sintomi, +4.961 (1,6%) i dimessi/guariti, +99 (4,3%) le terapie intensive per un totale di 2.391 posti occupati.

Per Mauro Suttora, giornalista, già corrispondente all’estero per varie testate, è Mattarella ad avere salvato Conte e il governo. 

Il presidente del Consiglio è politicamente in terapia intensiva, con il Pd – che manca di coraggio – a controllare il rubinetto dell’ossigeno. Un cambio politico è nelle cose, occorre solo sperare che non sia troppo tardi.

Come mai il governo ha deciso un lockdown basandosi su dati vecchi, risalenti al 25 ottobre? Le regioni protestano.

Si tratta di una montagna di dati che vengono ricondotti a 21 indicatori, dei quali la maggioranza sono stati tenuti segreti fino a due giorni fa. Questa è la prima vera anomalia. Ricolfi chiede da mesi sul Messaggero che siano resi pubblici, non è l’unico, ma il governo ha sempre fatto orecchie da mercante.

Perché?

Non lo sappiamo. Disaggregati, darebbero indicazioni utili, a livello comunale e anche a livello di quartiere per le grandi aree metropolitane.

Ma nessuno protesta.

È una querelle rimasta confinata a livello specialistico. Resta il fatto che in questo modo non sono possibili analisi indipendenti.

I dati, ha detto Conte, sono in possesso delle regioni, che li trasmettono al Cts. Ieri lo ha ripetuto anche Brusaferro in conferenza stampa.

È una presa in giro, perché ogni regione conosce sì i suoi dati, ma non quelli delle altre regioni. Io, lombardo, voglio conoscere tutti i dati che confluiscono nei 21 indicatori ma non posso. Perché? Nessuno finora è riuscito a spiegare sui giornali come si calcola l’Rt. 

Qual è l’Rt ce lo dice il Cts.

Appunto. Dopodiché, sulla base di quei dati, qualcuno chiude l’economia e rovina la vita alla gente.

Oltre alla mancanza di trasparenza, ci sono altri fattori a motivare il ritardo?

Probabilmente sì e sono tutti motivi politici. Se i dati per decidere le zone rosse fossero quelli di oggi, al governo dovrebbero ricominciare il balletto dei tavoli e delle liti, con la Bellanova che vuole tutto aperto e Speranza che invece vuole tutto chiuso.

Come può essere gialla una regione come la Campania?

Dal governo ti risponderebbero che lo è perché De Luca ha già chiuso le scuole, come ha fatto Emiliano in Puglia. Ma allora vuol dire che De Luca, domani, avrebbe, se volesse, la facoltà di riaprirle?

C’è un criterio politico nell’individuazione delle zone rosse?

È evidente che la disparità tra Lombardia e Campania è sconcertante, non tanto nel numero delle infezioni, che sono pur sempre in relazione al numero dei tamponi; ragioniamo piuttosto in termini di ricoveri, terapie intensive e decessi, che sono dati oggettivi.

La tua morale qual è?

Che se dichiari rossa la Lombardia non puoi non dichiarare rossa anche la Campania, che è da un mese in condizioni gravi.

Secondo te nella classificazione possono aver pesato anche le proteste di piazza?

Io credo di sì. Forse è uno dei fattori che non ci dicono… il 22esimo potrebbe essere il fattore C come “camorra”. Il dato politico è che Conte ha fatto il suo tempo. Sta governando Mattarella. È stato lui a fare la riunione con i presidenti delle regioni. 

Come va letto questo passaggio, rimasto per ovvie ragioni ai margini della cronaca politica?

Mattarella è intervenuto a sostenere Conte quando ha capito che da solo non ce l’avrebbe fatta. È stato lui a parlare con Bonaccini e Toti. Oggi (ieri, ndr) ci sono stati 445 morti; dopo l’inchiesta sulla mancata zona rossa di Bergamo, Conte potrebbe dover tornare in procura anche per il secondo lockdown mancato.

Palazzo Chigi è apparso in stato confusionale. Quanto può durare questa situazione?

Conte è in terapia intensiva, ma la manopola dell’ossigeno è nelle mani del Pd. Non hanno il coraggio di trovare l’accordo con Mattarella su un altro nome Pd da mettere come premier.

Chi blocca tutto?

Goffredo Bettini, attraverso Zingaretti. Gli piace sentirsi Richelieu, ha deciso che Conte è un specie di Churchill e che i 5 Stelle sono la nuova anima della sinistra, come fino a qualche mese fa lo erano le sardine. Chi se le ricorda più? Dopo le prossime elezioni diremo: chi si ricorda più del M5s? Per adesso sono ancora il non plus ultra, per Bettini.

Si arriverà ad un governo di unità nazionale?

Forse. È da mesi che ci stupiamo di come il Conte 2 sia ancora in piedi. Più prevediamo scenari alternativi, più rimane al suo posto. L’occasione, strettamente parlando, potrebbe essere accidentale, un incidente d’aula.

Non è anche e soprattutto Mattarella a sostenere Conte?

Certo. È ovvio che non si può andare al voto adesso. La strada maestra sarebbe coinvolgere l’opposizione: Mattarella lo ha invitato più volte a farlo. Conte, però, non lo ha preso sul serio.

Sarà la pandemia a imporre un cambio politico?

Dobbiamo augurarci che non ci si arrivi quando i numeri saranno ancora più drammatici, o quando il disastro economico si abbatterà sul paese.

Il come non è un dettaglio.

Una strada, volendo, si trova sempre. Nel 1978, durante il sequestro Moro, il governo venne esautorato. Ogni sera si riunivano Andreotti, presidente del Consiglio, Galloni per la Dc, Pecchioli per il Pci e pochi altri a decidere tutto quello che c’era da decidere.

Federico Ferraù

Wednesday, November 04, 2020

Gli istinti primordiali dell'America di Trump

La pancia degli Usa stanotte ha di nuovo premiato The Donald, che vinca o perda per un pelo. New York e la California sono ancora un altro mondo

di Mauro Suttora

Huffington Post, 4 novembre 2020


La moglie del miliardario di Manhattan, per dimostrare che anche lei è alla mano, per una volta lascia tranquillo lo chauffeur della sua limousine personale e sale su un ‘crosstown’ bus, quelli che che attraverso Central Park collegano l’Upper East all’Upper West Side. Entra dalla porta anteriore, versa le monetine del biglietto sotto gli occhi dell’autista sudamericano e gli cinguetta democratica: “How are you today?”. Non paga, all’uscita gli sorride di nuovo augurandogli “Have a nice day”.

Ho assistito a questa scena agghiacciante nel 2002, all’inizio dei miei quattro anni di lavoro a New York, e ho capito due cose: l’ipocrisia del politicamente corretto, e la presidenza Trump. Allora c’era Bush junior, ma è lo stesso: la riccona aveva votato a sinistra, e l’autista del bus per il fascistone.

Può darsi che l’azienda di trasporti newyorkese paghi un’indennità ai conducenti per le molestie verbali finto-cordiali che subiscono, però poi quelli si vendicano nel segreto dell’urna. E lo hanno fatto anche ieri premiando di nuovo Trump, che o vince o perde per un pelo.

Ormai lo abbiamo stracapito. Esiste un confine invalicabile fra gli Stati Uniti dei soldi e dei cervelli, della California e di New York, di Silicon Valley, Hollywood e Wall Street, e tutto il resto: contadini dell’Iowa, simpatici burini texani, anticastristi in Florida, operai licenziati a Detroit, patrioti del New Jersey che esibiscono la bandiera a stelle e strisce sulla porta di casa.

Ma non solo. Ho conosciuto bene una trumpiana: la mia ex fidanzata americana. Colta (laurea su Derrida all’università Vanderbilt), cosmopolita (vacanze fra lago di Como e campi di golf inglesi), elegante (villa accanto a quella della famiglia di Grace Kelly, nei quartieri residenziali di Filadelfia).

Se Trump si è impossessato di nuovo della progredita Pennsylvania, deve ringraziare anche lei.

Nonostante il fisico etereo e l’aspetto angelico, era favorevole alla pena di morte: “You get what you give, ricevi quel che dai”, sentenziava biblica. Contraria alla sanità gratis: “Lavori e ti paghi l’assicurazione”. Pro guerra in Iraq: “Vendichiamo le torri gemelle”. Sussidi di disoccupazione? “Solo per qualche mese, poi muovi il culo”. Reddito di cittadinanza: “Are you kidding me, stai scherzando?”. I cinesi? “Bastardi, ci rubano il lavoro”.

L’amore rende ciechi, ma confesso che in fondo ero un po’ affascinato da questi sentimenti primordiali. Gli stessi che hanno conquistato di nuovo metà America stanotte.

Mauro Suttora

Friday, October 30, 2020

La frontiera di Lampedusa è europea, non italiana

Brahim è sbarcato lì prima di colpire a Nizza. Ma Salvini dovrebbe chiedere le dimissioni del direttore di Frontex, non di Lamorgese

di Mauro Suttora


HuffPost, 30 ottobre 2020
 

La Samsung tower di Varsavia è bellissima. Dal sesto al tredicesimo piano ospita Frontex, l’Agenzia europea delle frontiere: mille dipendenti, diecimila previsti fra pochi anni. È nata nel 2005, ora ci costa 420 milioni annui. Coordina, o dovrebbe farlo, tutte le guardie di frontiera e costiere dello spazio Schengen.

Aboliti i confini interni, l’unica frontiera da sorvegliare rimane quella esterna, comune all’intera Europa. Marittima e terrestre: da Lampedusa a Gibilterra, dall’isola di Lesbo al polo nord. Brahim Aoussaoui, l’assassino tunisino di Nizza, avrebbe quindi dovuto essere bloccato dall’Europa, non dall’Italia. Matteo Salvini dovrebbe chiedere le dimissioni di Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, e non della nostra ministra degli Interni Luciana Lamorgese.

Se. Se l’Unione europea esistesse. Se gli stati membri non conservassero gelosamente gran parte dei loro poteri, delle loro leggi e delle loro burocrazie. In tanti campi, e anche sulle frontiere.

È assurdo che la Francia sorvegli i propri confini a Modane o Ventimiglia, probabili punti di passaggio di Brahim verso Nizza. Sarebbe come se California e Texas avessero leggi differenti per l’immigrazione dal Messico, e che poi ciascun altro stato Usa cercasse di bloccare i clandestini alle proprie frontiere.

Ma i principali avversari di Frontex e di una gestione unica dei confini europei sono proprio i neonazionalisti che ora protestano contro l’Italia per aver lasciato passare Brahim: i lepenisti francesi, e anche i nostri leghisti e fratelli d’Italia. Tutti gli antieuropeisti che non vogliono delegare a Bruxelles la gestione dei problemi comuni. Compresi i polacchi, che fecero fuoco e fiamme per ospitare l’agenzia Frontex.

La prossima felpa che Salvini indosserà non dovrà quindi essere quella della Guardia costiera italiana, ma quella di Frontex. Perché se si invoca giustamente il superamento del regolamento di Dublino sui migranti, per non addossare tutta la responsabilità sui Paesi mediterranei, occorre anche affidarsi alla Ue per la sorveglianza dei confini. Non si può essere europeisti nei giorni pari e sovranisti in quelli dispari.

Dopodiché, il dibattito fra ‘aperturisti’ e ‘inflessibili’ sull’immigrazione continuerà, ma a livello europeo. È chiara l’assurdità di aver espulso Brahim senza metterlo sul primo traghetto Trapani-Tunisi, ma chiedendogli di tornarsene a casa da solo. Tuttavia, le leggi devono essere uguali ovunque. Altrimenti ogni angolo d’Europa sarà sempre in balia delle politiche cangianti dei governi dei singoli Paesi di frontiera, buoniste o cattiviste a seconda delle convenienze elettorali. E butteremo il mezzo miliardo che spendiamo ogni anno per Frontex, inutile duplicato delle nostre guardie costiere e di confine.

Mauro Suttora

 

Monday, October 26, 2020

Anche stavolta Milano e Venezia restano senza cardinale

NEL SUO SESTO CONCISTORO PAPA FRANCESCO NON DÀ LA PORPORA ALL'ARCIVESCOVO DI MILANO E AL PATRIARCA DI VENEZIA 

di Mauro Suttora

 Huffington Post, 26 ottobre 2020



Non ce l’hanno fatta neanche questa volta. Fra i tredici nuovi cardinali nominati da papa Francesco nel suo sesto concistoro annuale mancano l’arcivescovo di Milano e il patriarca di Venezia.

Da anni ormai Milano, la diocesi più grande del mondo, e Venezia non hanno un cardinale, com’era tradizione da secoli. Eppure tutti gli ultimi papi italiani tranne il romano Pacelli sono venuti da Milano e Venezia: Roncalli, Montini, Luciani, Ratti, Sarto (San Pio X), nonché Martini, papabilissimo se non si fosse ammalato.

È un piccolo sgarbo alla chiesa italiana, che si somma all’assenza di cardinali in altre sedi normalmente cardinalizie, come Torino o Palermo.

L’unica ragione plausibile è che Bergoglio attenda gli 80 anni del cardinale Scola, ex di Milano e Venezia, che ancora per un anno è nel collegio degli elettori in caso di conclave.

Papa Francesco ha effettuato scelte singolari nei suoi sette anni di pontificato: ha dato la porpora a figure di secondo piano, o addirittura imbarazzanti come Becciu nel 2018. Sono così diventati cardinali vescovi di Tonga (15mila cattolici su centomila abitanti), Mauritius, Papua Nuova Guinea, Laos.

Il Brasile invece, con 41 milioni di fedeli su 164 milioni di abitanti, può contare su soli quattro cardinali: gli altri cinque sono ultraottantenni, quindi in pensione. Anche il Venezuela ha un solo porporato. Per non parlare di interi Paesi senza cardinali, nonostante abbiano milioni di fedeli: 12 in Ecuador, 11 in Uganda, 8 in Angola.

Naturalmente il Collegio cardinalizio non funziona come un Parlamento mondiale della Chiesa cattolica. Oltre ai criteri di rappresentanza numerica, il papa tiene conto di altri fattori. Per esempio la valorizzazione delle periferie, o singoli vescovi premiati per la loro opera pastorale, o apporto intellettuale e di devozione.

Papa Francesco sembra avere un debole per l’Asia. Possono contare su un cardinale la Birmania, nonostante abbia solo mezzo milione di cattolici su 50 milioni di abitanti (l’1 per cento), la Thailandia, con 300mila fedeli su 60 milioni, e il Vietnam, con otto milioni di cattolici su 80. Invece l’arcidiocesi di Milano, nonostante i suoi quasi sei milioni di pecorelle, può aspettare.

Mauro Suttora

Sunday, October 25, 2020

La Francia vuole il monte Bianco? De Gaulle rivendicava tutta la val d'Aosta

PARTIGIANI E FASCISTI ALLEATI NEL 1945 CONTRO I FRANCESI

di Mauro Suttora 

HuffPost, 24 ottobre 2020

I francesi vogliono prendersi il monte Bianco? In realtà se ne impossessò già nel 1796 il 26enne Napoleone, dopo aver sconfitto i piemontesi. Impose loro di cedere Nizza e Savoia alla Francia repubblicana, e si tenne la vetta più alta del massiccio. Al regno di Sardegna rimase la cresta minore del monte Bianco di Courmayeur, trecento metri a sudest, più bassa di 45 metri. La restaurazione del 1815 restaurò anche il confine geografico naturale dello spartiacque: il confine interno che separava da sempre i ducati di Savoia e d’Aosta.

La seconda cessione della Savoia alla Francia, questa volta volontaria, è com’è noto quella del 1860. E le cartine parlavano chiaro: la frontiera passava sulla vetta più alta. Ma adesso i francesi, un po’ comicamente, affermano di non essere più in possesso di quella cartografia, che sarebbe stata loro sottratta addirittura dai nazisti durante l’occupazione di Parigi.

Quel che pochi oggi ricordano, è che il generale De Gaulle avrebbe volentieri ingoiato l’intera Val d’Aosta. Con il consenso di molti valdostani, che avevano subìto l’italianizzazione forzata del ventennio fascista: lingua francese proibita, toponimi stravolti, La Thuile che diventa Porta Littoria. Giustamente offeso per la ‘pugnalata alle spalle’ mussoliniana del 10 giugno 1940, con l’attacco alla Francia moribonda, De Gaulle voleva vendicarsi. Così il 25 aprile 1945 ordina ai suoi soldati di “liberare” Aosta. Gli alleati angloamericani danno ai francesi il permesso di sconfinare in Italia per non più di venti chilometri. Invece loro scendono dal Piccolo San Bernardo e dilagano nella val di Rhêmes.

A quel punto, però, l’invasione francese provoca una reazione incredibile: l’unico caso al mondo di alleanza fra partigiani e fascisti. Il comandante della resistenza valdostana Augusto Adam ordina ai suoi di opporsi ai francesi, e contemporaneamente di non sparare più agli alpini di Salò contro i quali fino al giorno prima hanno combattuto fino alla morte, ma che continuano a difendere il confine. Una volta bloccato il nuovo comune nemico, chiede ai repubblichini di ritirarsi “il più lentamente possibile” verso Aosta, per dare tempo agli angloamericani di intervenire posizionandosi a Pré Saint Didier.

Durante il mese e mezzo di occupazione, fino al 10 giugno 1945, i francesi commettono un grave errore. Nelle zone che amministrano si comportano come i fascisti: lingua italiana vietata, angherie, ostacoli al rientro a casa degli ex combattenti. Così gli annessionisti filofrancesi valdostani, pur avendo raccolto ventimila firme per un referendum, perdono forza. E prevalgono i partigiani filoitaliani guidati dall’illustre storico Federico Chabod: la Val d’Aosta rimane italiana in cambio di bilinguismo e forte autonomia, innaffiata da generosi finanziamenti come in Trentino-Alto Adige.

Sulla costa ligure i soldati francesi occupano Ventimiglia, Camporosso e Vallecrosia, arrivando fino a Bordighera. Un plotone di coloniali senegalesi si spinge fino a Imperia per qualche giorno. Ma i francesi si ritirano dopo quasi tre mesi, il 18 luglio 1945, in seguito a un ultimatum del presidente Usa Truman verso il troppo esuberante De Gaulle. Il quale aveva anche vagheggiato di rivendicare in Piemonte metà val Susa, val Chisone e val Varaita, francesi fino al trattato di Utrecht del 1713. Ma alla fine si deve accontentare di Briga, Tenda, e dei passi Monginevro e Moncenisio.

Mauro Suttora 

Conad socia di Mincione (Vaticanogate)

COSA CI FA IL FINANZIERE D'ASSALTO NELLA SOCIETA' CHE HA RILEVATO I SUPERMERCATI AUCHAN?

di Mauro Suttora

23 ottobre 2020

"Conad, la comunità. Un supermercato non è un’isola. Persone oltre le cose”. Questi sono i rassicuranti slogan con cui la più grande catena italiana di supermercati si presenta ai suoi clienti. 

Ma dopo l'arresto di Cecilia Marogna, la cosiddetta "dama del cardinale Becciu" accusata di aver speso anche in negozi di lusso mezzo milione dal fondo per la carità del Vaticano, cresce l'imbarazzo fra i soci della cooperativa della grande distribuzione. Da un anno infatti Raffaele Mincione, finanziere di Pomezia, è diventato socio della Conad al 49% nella società che ha rilevato gli ex supermercati Auchan. E anche Mincione è indagato per corruzione nel Vaticano-gate. Nel 2012 acquistò con 25 milioni di fondi di terzi un lussuoso palazzo di Sloane Avenue a Londra, rivenduto due anni dopo alla Santa Sede al triplo del prezzo. Nel 2013 il vicepresidente Enasarco (l'ente previdenziale degli agenti di commercio) si dimise denunciando la gestione dei fondi affidati dall'ente a Mincione. Che si lanciava in operazioni spericolate che pare siano costate una ventina di milioni sulla banca Montepaschi, e poi fallendo scalate da centinaia di milioni a Bpm (Banca popolare di Milano) e Carige (Cassa di risparmio Genova).

In luglio a Mincione la procura antimafia di Roma ha sequestrato telefonino e ipad. Peggio è andata al faccendiere molisano Gianluigi Torzi, arrestato per estorsione: nel 2018 era riuscito a farsi dare dalla segreteria di stato vaticana di cui il cardinale Becciu era sostituto (vice del segretario Parolin) altri 15 milioni per farla uscire dalla sfortunata speculazione londinese.

Ma come si sono incrociate le strade di Conad e Mincione? Nel 2019 la famiglia miliardaria Mulliez, la terza più ricca di Francia, si disfa della sua catena italiana Auchan (78 iper, 168 super, i negozi Simply), in perdita da anni per 700 milioni dopo averla rilevata da Sma. E Conad, in nome dell'italianità, è fiera di subentrare. Anche perché, a conti fatti, pur di andarsene i Mulliez quasi regalano i supermercati Auchan a Conad.

C'è però il problema dei 18mila dipendenti: troppi, da ridurre drasticamente. Almeno tremila esuberi. E i Mulliez non vogliono accollarsi il lavoro sporco. Hanno un'immagine da difendere, perché in Italia controllano ancora le catene Decathlon, Leroy Merlin, Castorama, Brico.

Neanche Conad intende intaccare la propria reputazione di 'responsabilità sociale', e allora crea una società apposita con Mincione al 49%: al finanziere d'assalto interessano gli immobili che ospitano gli ex iper e supermercati Auchan, valutabili in circa 700 milioni. 

Con l'aiuto di virus, cassa integrazione e incentivi, l'operazione viene conclusa in pochi mesi: vengono fatti fuori centinaia di lavoratori, spesso donne con famiglia a carico. Convinti alle dimissioni con buonuscite misere, anche di sole tre mensilità. In particolare fra i 900 dipendenti degli uffici centrali Auchan di Rozzano (Milano) è una strage.

Ma com'è possibile che manager accorti e sperimentati come quelli Conad si siano portati in casa un personaggio chiacchierato come Mincione? 

"L'amministratore delegato Pugliese ha compiuto un ottimo lavoro in questi anni, dando a Conad un'immagine unitaria", dice a HuffPost Luigi Rubinelli, direttore del sito specializzato Retailwatch. "Probabilmente non ha verificato bene le credenziali di Mincione". Il quale, peraltro, prima dello scandalo vantava proprio le sue entrature in Vaticano come biglietto da visita per farsi strada.


Ora, superato lo scoglio antitrust con la vendita di vari supermercati ad altri marchi, Conad ha superato le Coop ed è diventata la prima catena in Italia, con una quota del 18% e ben 17 miliardi di fatturato. Sperando di superare anche lo scoglio Mincione.

Mauro Suttora

Sunday, October 11, 2020

La battaglia sui vitalizi continua

 Il Senato fa ricorso contro la restituzione agli ex senatori. In ballo 33 milioni

di Mauro Suttora


Huffington Post, 11 ottobre 2020

È stata velocissima Elisabetta Serafin, segretario generale del Senato. Appena tre giorni dopo l’esecutività della sentenza che abolisce il taglio ai vitalizi degli ex senatori, l′8 ottobre ha proposto appello per bloccare l’esborso dei 33 milioni che ora il Senato dovrebbe restituire. A tanto ammontano infatti gli arretrati che i circa 700 ‘pensionati’ hanno accumulato nei quasi due anni dopo il taglio dell’ottobre 2018.

La Serafin contesta le motivazioni del ripristino. Afferma, citando il presidente grillino della Camera Roberto Fico, che i tagli sono stati effettuati per rispondere alla “domanda sempre più forte di equità sociale” proveniente da una “collettività angosciata dal sistema previdenziale”. I 33 milioni comunque sono già stati accantonati nel bilancio del Senato, segnale dell’insicurezza degli stessi uffici rispetto ai tagli. 

La Serafin addossa all’ex presidente Inps Tito Boeri la responsabilità del calcolo delle decurtazioni, che in alcuni casi raggiungono l′80% e per questo sono state considerate inaccettabili dalla Commissione contenziosa di primo grado.

Intanto, il 20 ottobre la Corte costituzionale si pronuncerà sui tagli a tutte le pensioni d’oro della finanziaria 2018. Sono tagli provvisori (quinquennali) dopo che la Corte aveva bocciato quelli del governo Monti nel 2011: 5% sulle pensioni oltre i 90mila euro annui lordi, 10% oltre i 150mila e 15% oltre i 250mila. Il problema è sempre lo stesso: per rispettare la certezza del diritto, le misure non possono essere retroattive. Al massimo, dice la Corte, possono essere praticati tagli temporanei e “ragionevoli” per motivi di solidarietà in situazioni eccezionali. E senza discriminazioni. 

Monti nel 2012 aveva anche abolito i vitalizi dei parlamentari per il futuro, parificandone l’ammontare alle pensioni normali, calcolate con il metodo contributivo. Ma resta il nodo dei vitalizi del passato, considerati diritti acquisiti. E delle discriminazioni. Se gli stessi tagli imposti ai parlamentari pensionati fossero stati praticati anche agli stipendi dei parlamentari in carica, probabilmente la sentenza sarebbe stata diversa.

Mauro Suttora 

Thursday, October 08, 2020

Ripristinati i vitalizi, staffilata ai demagoghi

PUBBLICATE LE MOTIVAZIONI, DIVENTA ESECUTIVA LA SENTENZA CHE ANNULLA I TAGLI AI PARLAMENTARI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 ottobre 2020

Gli ex senatori ai quali erano stati tagliati i vitalizi li riavranno tutti indietro, e con gli arretrati. Con il deposito delle motivazioni il 5 ottobre è diventata infatti esecutiva la sentenza di giugno che ha annullato il taglio del 60% dell'ottobre 2018. 

Il tribunale interno del senato, la cosiddetta 'commissione contenziosa' formata dal presidente Giacomo Caliendo (Forza Italia), Simone Pillon (Lega), Alessandra Riccardi (ex M5s, ora Lega) e da due giuristi, fra cui il relatore Giuseppe Dalla Torre, ha dovuto ammettere che il taglio voluto dai grillini (ma festeggiato ufficialmente da quasi tutti i partiti) "si discosta sensibilmente dai paradigmi costituzionali in materia di certezza del diritto, legalità, eguaglianza, solidarietà, laddove tocca retroattivamente i criteri di calcolo in base ai quali fu a suo tempo determinato, per ciascun parlamentare, il quantum della prestazione dovuta. Il provvedimento infatti incide sull’atto genetico costitutivo del diritto al vitalizio e non sul rapporto in essere, perché non interviene per giustificate esigenze a limitarne l’importo, ma modifica gli atti con cui furono predisposti i provvedimenti di liquidazione per i singoli parlamentari".

Una bella staffilata per i demagoghi che s'illudevano di poter toccare impunemente dei diritti acquisiti. La deliberazione cancellata, infatti, disponeva "con effetti retroattivi una nuova determinazione dell’importo dovuto a ciascun ex parlamentare, incidendo su un diritto soggettivo perfetto qual è quello derivante dal provvedimento di liquidazione a suo tempo prodotto". 

Il punto critico riguarda "la revisione dei coefficienti di trasformazione che hanno un effetto distorcente, laddove determinano sensibili riduzioni dei vitalizi negli importi di minore entità, mentre rimangono senza effetto per quelli di importo massimo. In questo modo si incide, talora accentuatamente, sulla qualità della vita dei percettori di vitalizi di minore consistenza, con l’effetto sul piano giuridico di intaccare principi costituzionali posti a garanzia della dignità della persona umana, della eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, e della solidarietà”.

La sentenza, insomma, stabilisce che la tesi degli "ex parlamentari ladri" è falsa e diffamatoria. E che il taglio dei vitalizi viola la Costituzione e l'abc dello stato di diritto. Intanto, però, in questi due anni un centinaio di ex parlamentari che attendevano il giudizio della corte sono defunti. Rossana Rossanda, per esempio, che aveva perso il 72% dei suoi 2.120 euro netti. La sua amica Luciana Castellina, 91 anni, altro volto storico della sinistra, ha subìto un taglio ancor più doloroso: l'84%, passando da 3.140 euro a 500.

Ora anche la Camera dovrà adeguarsi alla sberla del senato contro il provvedimento abborracciato di riduzione. Quindi l’ex ministro socialista Claudio Martelli, eletto per quattro legislature, tornerà a percepire 8.455 euro lordi rispetto agli attuali 3.400. Veltroni riavrà i suoi novemila euro mensili tagliati a seimila, Vendola risalirà da cinque a ottomila, Prodi ne recupererà mille. Felici anche Gino Paoli e Cicciolina, il cui vitalizio di 3.100 euro lordi per una sola legislatura era stato ridotto a mille.

Mauro Suttora


Wednesday, October 07, 2020

Ecco perché i liberali non sono né conservatori né populisti

Huffingtonpost, 7 ottobre 2020

Caro direttore,

al tuo articolo del 23 settembre sull’“indifferibile necessità di una destra liberale” in Italia, in alternativa a quella populista antieuro(pea) di Salvini e Meloni, ha risposto Friedrich von Hayek 60 anni fa nel suo saggio ‘Perché non sono un conservatore’. Il Nobel dell’economia 1974 avverte che in alternativa alla sinistra socialista (o statalista), non ci sono solo i conservatori di destra, ma anche i liberali/liberisti come lui. Insomma, i poli sono tre e non due.

Nel 1960 Von Hayek ha la fortuna di vivere in un’epoca in cui il populismo quasi non esiste: Peron è stato sconfitto in Argentina, Poujade in Francia e il qualunquista Giannini in Italia. Quanto al sovranismo, lo si chiama col suo vero nome: nazionalismo. Ed è confinato ai rimasugli fascisti sopravvissuti dopo il 1945. 

Ma sostituisci la parola ‘conservatore’ con ‘populista’, e il ragionamento di Von Hayek vale ancor oggi: “Le posizioni dei partiti sono rappresentate su una linea in cui i socialisti sono a sinistra, i conservatori a destra e i liberali in qualche punto al centro. Niente di più ingannevole. È più appropriato disporli in triangolo, mettendo i conservatori in uno, i socialisti che tirano verso il secondo e i liberali verso il terzo”.

Per i liberali, spiega Hayek, “il problema essenziale non è chi governa, ma cosa il governo è autorizzato a fare. Mentre il conservatore (oggi il populista, ndr) si sente sicuro e soddisfatto solo se qualche autorità ha il compito di mantenere ordine e disciplina”. In economia “i conservatori avversano le misure dirigiste, e qui il liberale troverà spesso alleati fra loro. Ma i conservatori sono anche protezionisti. Perché ovviamente i conservatori vogliono conservare, mentre i liberali vogliono cambiare”.

E infatti quale cambiamento maggiore è avvenuto in Occidente negli ultimi 75 anni, se non le rivoluzioni liberiste di Thatcher e Reagan? Oggi il maggiore fossato che separa i liberali alla Bonino/Calenda dai populisti, oltre al neostatalismo e al neonazionalismo sia di destra che di sinistra (M5s), è quello dei diritti civili. Su fine vita, antiproibizionismo e garantismo sono agli antipodi. Perché i liberali, liberisti e libertari non amano lo stato né quando s’intromette nella vita privata, né quando mette le mani nelle nostre tasche, con le tasse. Insomma, cuore a sinistra, portafogli a destra.

Ps: il libretto ‘Perché non sono un conservatore’ di Hayek fu ripubblicato nel 1997 da Ideazione, la rivista degli ex Msi Mennitti e Tatarella. Allora, dopo Fiuggi, in An c’erano fermenti culturali e si scopriva il liberalismo. Dov’è oggi il dibattito in Fratelli d’Italia? Tutto appaltato alla subcultura complottista del fasciocomunista Fusaro? 

Mauro Suttora

Friday, October 02, 2020

I grillini non esistono più, al nord hanno preso il 3%

CAOS M5S/ “Grillo resta il leader, il Pd pensa a Fico, il mistero è Di Maio”

intervista a Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net

2 ottobre 2020 

Movimento 5 Stelle sempre più spaccato dopo la batosta elettorale: è rivolta contro Casaleggio. A contendersi la leadership saranno Di Maio, Di Battista, Fico o Taverna

Mentre il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha incontrato a Roma Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, il Movimento 5 Stelle dopo la batosta elettorale appare sempre più disorientato e spaccato. Ne abbiamo parlato con Mauro Suttora, giornalista e scrittore, attento al fenomeno-M5s fin dalla sua nascita, che ci ha confermato come il M5s di fatto non esista più: “Alle ultime elezioni ha preso il 7% a livello nazionale, il 3% al Nord. Contando gli astenuti, significa che hanno preso l’1,5%, in pratica non esiste più, anche se resta questo cadavere ambulante che è il gruppo parlamentare, che in Parlamento vale comunque sempre il 32%”. E aggiunge: sono quattro i big che possono aspirare a prendere la leadership di quello che resta: Di Maio, Di Battista, Taverna e Fico. 

Facciamo il punto sul M5s. Il Movimento è spaccato; chi ha in mano il pallino in questo momento? Grillo? Casaleggio? Di Maio attraverso Crimi?

Grillo è sempre quello che conta di più.

In che senso?

Nessuno oserà mai mettersi contro di lui, neanche Di Battista.

In realtà Grillo sembra piuttosto fuori dalla scena politica. In che modo è la figura più importante?

Basta pensare che un anno fa ha benedetto l’alleanza con il Pd e che ha detto di andare avanti così anche l’anno prossimo quando si voterà nelle quattro più importanti città italiane, Torino, Milano, Roma e Napoli. Al massimo si possono presentare separati al primo turno e allearsi al secondo.

Casaleggio invece?

Lo vedo male. Ha sbagliato a mandare il messaggio a tutti gli iscritti, si fa per dire, sarebbe meglio dire i registrati a Rousseau. Una mail tremenda in cui accusa decine di parlamentari di non pagare i 300 euro al mese alla Casaleggio e di essere indietro con le restituzioni dello stipendio, che poi su 12mila euro netti ne versano 1.700 al mese. E anche su quello molti sono indietro. In sostanza ha contro tutti i parlamentari.

Di Maio e Crimi?

Non vanno molto d’accordo. Crimi non esiste più, è scaduto il suo tempo.

Però è sempre in tv.

Perché formalmente è ancora il capo, doveva restare fino agli Stati generali, è stato miracolato dal coronavirus.

Quindi tra i due non c’è alcun legame?

No. E poi Crimi è irrilevante. Il problema sono Di Maio, Fico, Taverna e Di Battista, i quattro big.

Che non vanno d’accordo, giusto?

Giusto, però ci sono aspetti trasversali. Di Battista è movimentista, per cui è contro l’alleanza con il Pd; anche la Taverna è movimentista amata dalla base. In teoria sarebbe contraria al Pd, però sta buona perché fedelissima di Grillo. In sostanza è alleata con i governisti di Di Maio.

Ecco, Di Maio: è solo soletto?

No, ha tutti i governisti e i parlamentari, non si sa quanti, non si sa neanche quanta base ha. Non è mai stata fatta una votazione in cui ci fosse il gradimento per Di Maio da quella volta che fu votato capo politico. E poi c’è tutta la classe intermedia che è importante.

Sarebbe?

Tutti i consiglieri e assessori comunali e regionali, che saranno almeno un migliaio. Se i parlamentari si stanno emancipando da Casaleggio, questa fascia intermedia ha protestato perché i parlamentari hanno fatto la riunione congiunta una settimana fa per prendere in mano il Movimento. Giustamente hanno imposto a Crimi di dire ai giornali che faranno una riunione anche loro. Essendo il M5s un movimento che non ha mai avuto un concetto democratico di dialogo e discussione interna, è difficile  riuscire a trovare un accordo; sono abituati da dieci anni a prendere ordini da Casaleggio padre e figlio.

Articolisti e retroscenisti scrivono di una intesa crescente tra Zingaretti e Di Maio. Ti risulta? Con quali prospettive? 

Fico, che comanda l’ala di sinistra, è felicissimo di questa intesa, il Pd lo porta in braccio per candidarlo a sindaco di Napoli.

Di Maio riprenderà il controllo politico di M5s?

Potrebbe anche darsi: in nome delle poltrone e degli stipendi. Se fossi un eletto grillino starei con lui per rimanere appiccicato allo stipendio. Ma la cosa più importante è che dopo le elezioni regionali il bluff si è svelato.

Cioè?

Non esistono più, hanno preso il 7% a livello nazionale, il 3% al Nord, contando gli astenuti hanno preso l’1,5%. In pratica non esistono più, resta questo cadavere ambulante che è il gruppo parlamentare, che vale sempre il 32% dei seggi.

Conte oggi come viene percepito dai grillini?

In privato lo insultano, lo chiamano un democristiano arrivista che non c’entra niente con il Movimento, però sono costretti a difenderlo in pubblico per difendere il governo e quindi per difendere loro stessi.

I 5 Stelle diranno sì al Mes così come hanno aperto a modifiche al reddito di cittadinanza?

Diranno di sì a tutto, già si sapeva, chiedevano solo di aspettare le regionali per non perdere altri voti.

Conte e Di Maio come possono dare rassicurazioni a Pompeo sul 5G e simpatizzare con la Cina? Come stanno le cose?

Intanto Di Maio e Conte devono aspettare chi vince in America alle presidenziali, poi troveranno un modo. Come galleggiano loro non glielo insegna nessuno, sono come la vecchia Democrazia Cristiana. Peccato che il Recovery Fund non arriverà fino a chissà quando e che nel frattempo l’economia vada a rotoli.

Paolo Vites

 

Monday, September 28, 2020

Donald Trump, uomo di successo sempre sull'orlo del baratro

Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto. Idem nella sua incredibile carriera politica, al bivio del 3 novembre

di Mauro Suttora

Huffington Post, 28 settembre 2020
 

Nel 2017 un lavoratore single senza figli negli Usa con salario di 18mila dollari ne ha pagati 760 in imposte federali sul reddito. Più del suo presidente miliardario, Donald Trump, che in quell’anno ne ha versati 750. E che, stando ai documenti pubblicati dal New York Times, ha evaso o eluso ben 400 milioni di dollari negli ultimi vent’anni.

A stabilire se Trump abbia commesso reati e scorrettezze sanzionabili (con 200 milioni, stima il NYTimes) sarà il temibile Irs (Internal revenue service), l’Equitalia statunitense. Famoso per la sua velocità: negli Usa si dichiarano i redditi entro il 15 aprile, e dopo soli due mesi arriva a casa l’assegno se si risulta a credito, o la cifra da pagare se i controlli decidono che si è in debito. In Italia occorre un tempo trenta volte superiore: cinque anni. 

L’Irs è anche severo: gli evasori negli Usa finiscono in carcere, con condanne medie di 3-5 anni. Ogni anno sono circa 1.500 gli incriminati. Ma la via preferita è il patteggiamento (con multa). Su 3.500 miliardi di entrate, infatti, 14 milioni di furbetti ne evadono 130, un terzo rispetto all’Italia. Però quasi tutti preferiscono comporre amichevolmente.  

Trump invece, come al solito, preferisce la guerra. Il suo ‘audit’ (contenzioso) col fisco Usa dura da anni. Strano, data la rapidità che abbiamo illustrato. Un occhio di riguardo per il presidente? Il risultato dei favori fiscali repubblicani ai ricchi nell’era Bush junior?  

In ogni caso, è incredibile che il presidente abbia finora usato come scusa l’ispezione in corso per non rendere pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi. È la prima volta in mezzo secolo (dai tempi del gentiluomo Richard Nixon) che un presidente Usa si sottrae a questo elementare obbligo di trasparenza.

 “Ora si capisce perché”, è stato il commento quasi unanime ieri negli Usa, dopo le rivelazioni del NYTimes: per ben dieci anni su quindici prima di essere eletto, infatti, Trump non avrebbe pagato neanche un cent di imposte. E se lo si fosse saputo, non sarebbe stato eletto.

Può anche darsi che sia permesso spacciare 75mila dollari di parrucchiere per spese detraibili, perché Donald doveva apparire nel suo show tv “The Apprentice”. Ma come farà sua figlia Ivanka a giustificare i 747.622 dollari incassati da una società del padre, quando esattamente la stessa cifra risulta pagata a un consulente anonimo per il progetto di hotel a Vancouver e nelle Hawaii?

La verità è che per tutta la vita Trump è sempre stato in bilico fra successo e fallimento. Come un equilibrista, ha dichiarato più volte bancarotta quando i suoi palazzi e casinò rimanevano invenduti, e le banche rifiutavano di rifinanziare i fidi. Ma poi è sempre risorto, anche perché fallire negli Usa non è così grave come in Europa. 

Idem nella sua incredibile carriera politica, cominciata cinque anni fa. Sembra sempre sull’orlo del baratro, dell’impeachment, dello sputtanamento irreversibile. Invece poi rimbalza, e ce la fa a liquidare qualsiasi accusa come “fake news”. Anche perché non è escluso che quell’operaio o commessa single che paga più tasse di Trump nonostante guadagni in un anno 18mila dollari, ovvero quanto lui consuma in una sola settimana per il carburante del suo jet privato, fra un mese non voti di nuovo per lui.

Mauro Suttora

Saturday, September 19, 2020

Il comizio di Dibba in Puglia

 “Non saranno le regionali a far cadere Conte, ma lo spread. Se però cade la Toscana, tutto cambia”

intervista a Mauro Suttora

 Il Sussidiario, 19 settembre 2020

di Federico Ferraù

Di Battista e i dissidenti M5s faranno perdere Emiliano ma non faranno cadere Conte. Se però il Pd perde la Toscana, tutto cambia.

Ora Dibba sostiene Laricchia, la candidata grillina alla presidenza della Puglia che ha detto no a qualsiasi tipo di accordo con Emiliano. Quando Alessandro Di Battista, anima inquieta di un M5s sempre più diviso, ha detto che sarebbe sceso in piazza per la chiusura della campagna elettorale, ci è voluto poco a tirare le somme e a dire che era un’operazione contro il governo. Cioè contro Conte. 

Cosa accadrebbe se il governatore uscente, Michele Emiliano, piddino di tessera ma pentastellato su molti temi di lotta e di governo, fosse sconfitto, regalando la regione del premier Conte a Raffaele Fitto (FdI)? 

In un colpo solo, Di Battista prova così a sfilare al Pd i voti che gli servono per vincere, e a prenotare – se si faranno gli stati generali – la leadership del Movimento agonizzante. Poco importa se i “governisti”, nel frattempo, saranno finiti da un’altra parte, magari nel futuribile partito di Conte. 

Mauro Suttora, giornalista prima all’Europeo poi a Oggi, già corrispondente dall’estero per varie testate, è da sempre attento osservatore dei 5 Stelle. 

“Alessandro Di Battista si dimostra molto furbo, ma non gli basterà” dice al Sussidiario

Quanto all’esito del voto e alle sorti del governo, “è meglio aspettare lunedì. Dopo, chissà. Potremmo scoprire improvvisamente che la realtà abita da un’altra parte”.

Alessandro Di Battista potrebbe davvero mettere a rischio Emiliano e la sopravvivenza del governo?

Di Battista ha scritto su Facebook, presentando il comizio di ieri sera: 'Non chiedetemi di chinare la testa, abbiate il coraggio di tagliarmela'. Ecco, un politico che dice una cosa così, la testa l’ha già persa. Se questo è tutto quello che riescono a dire i movimentisti M5s contro i governisti, siamo a posto.

Ma la Puglia?

Emiliano sulla carta poteva anche vincere, soltanto che con i grillini che fanno una lista per proprio conto (quella di Antonella Laricchia, ndr) e i renziani che fanno lo stesso con Scalfarotto, perderà. Ringrazi entrambi.

Le ripercussioni di una sconfitta in Puglia potrebbero essere così drammatiche per il governo?

Secondo me nel Pd stanno già metabolizzando la perdita della Puglia. Potremmo assistere a un 4-2 per il centrodestra. In questo caso al governo non succederà nulla e Zingaretti potrà sempre dire di avere mantenuto la Toscana e la Campania. Se invece il Pd perdesse in Toscana, il disastro sarebbe totale e tutti gli scenari sarebbero aperti.

I Cinquestelle al governo temono o no un’iniziativa come quella di Di Battista?

Certo che la temono. Siamo al redde rationem. È evidente che nello stesso partito non può esserci un “Che Guevara” come Di Battista e due perfetti democristiani come Di Maio e Conte. Diciamo che Di Battista è stato molto furbo a fare questa uscita prima della botta che prevedibilmente arriverà lunedì.

Perché?

Perché così non può essere accusato di speculare sul disastro. E nemmeno di non aver fatto campagna elettorale. Con una sola uscita, la più importante, avrà dato l’impressione di aver messo in moto un po’ di cose. 

Con quali prospettive?

Che Emiliano vinca o perda, a lui non importa nulla: continuerà con la Lezzi e la Laricchia a fare i duri e puri, quelli che “Emiliano e Fitto sono la stessa cosa”. Però, nel complesso Di Battista e chi la pensa come lui si è molto indebolito.

Grazie a Di Maio? 

Anche. Di Maio ha sfilato loro la Taverna, stella femminile del Movimento barricadiero che poteva contrapporsi a Chiara Appendino. Fino a 5-6 mesi fa, se non fosse arrivato il Covid e se avessero fatto gli stati generali, Di Battista si sarebbe candidato come capo unico e avrebbe stravinto. 

Nonostante Casaleggio muova a suo piacimento i voti di Rousseau?

Casaleggio oggi è molto più debole. Dopo la lettera che ha mandato ai morosi, è quella la vera frattura: tutti i parlamentari, sia movimentisti che governisti, contro l’esoso Casaleggio.

Quale sarà il programma di Di Battista e di chi la pensa come lui?

No euro, no Tav, no Mes, no tutto.

E come tener buona quella base ormai scontenta di chi si è insediato nel palazzo?

Di Maio vanterà lo storico risultato del taglio dei parlamentari: abbiamo vinto il referendum, abbiamo ridotto i costi della politica, avanti, miei prodi… Così finiscono tutti i movimenti, a cominciare da quello di Mussolini, no? Faranno con Di Battista come hanno fatto con Fico e Taverna, imbalsamandoli in cariche istituzionali.

Basterà il Sì al referendum per salvare M5s?

No. Lo spartiacque, lunedì sera, sarà il 10%. Al Nord i 5 Stelle non ci arriveranno. A quel punto bisognerà vedere come vanno in Campania e Puglia, dove vengono dal 40% delle politiche e dal 30% delle europee. Ora sono al 20%. La media potrebbe compensare le perdite al Nord, consentendo loro di restare a due cifre e dire che hanno tenuto, eccetera.

Non potrebbe essere Conte a salvarli? Dopotutto i 5 Stelle sono il suo partito.

Conte si è dimostrato campione mondiale di trasformismo, passando in due giorni da Salvini a Zingaretti. Bisognerà vedere se il M5s gli serve ancora oppure no. In quest'ultimo caso, non sarà mai stato grillino. Anche il Pd vota sì al taglio dei parlamentari…

Le tue previsioni per lunedì sera? 

Non non sono in grado di farne, è il bello della politica. È come andare al casinò. Per il Pd lo spartiacque è il 20%. Però se ottiene il 21% e perde la Toscana, va male lo stesso. La Toscana è decisiva.

Secondo te è realmente contendibile?

Sì, perché la Ceccardi è più sveglia della Borgonzoni e soprattutto il candidato Pd (Giani, ndr) è solo un’ombra di Bonaccini.

Quali sono le sorti del governo Conte 2?

Dipende dal mondo reale, che non è quello di cui abbiamo parlato finora. Basta che lo spread salga di 100 punti e per Conte tutto si complica. A quel punto c’è solo Draghi.

Federico Ferraù 

Friday, September 11, 2020

11 settembre: 19 anni dopo, il mondo non è mai stato così pacifico

di Mauro Suttora

Huffington Post, 11 settembre 2020

Avremmo tutti firmato perché finisse così. L′11 settembre 2001 eravamo convinti che fosse iniziata la terza guerra mondiale, occidente contro islamisti. Dopo l’attacco alle Torri ci preparavamo a lustri di attentati, conflitti, infiniti e immensi lutti. Invece, 19 anni dopo, il mondo non è mai stato così pacifico. Perfino in Medio oriente non combatte più nessuno. In Yemen gli houthi filoiraniani al massimo sparacchiano droni verso l’Arabia Saudita.

Certo, mezza Africa è infestata da Boko Haram, Shebab e altre bande di Allah. A Bagdad e Kabul ci sono gli endemici attacchi kamikaze. Ma andate a Bassora: non è mai stata così ricca e fiorente, così come i due terzi dell’Iraq (il curdo e lo sciita). Nessuno lo sa, perché solo le brutte notizie fanno notizia. E in Afghanistan chi sono i peggiori nemici dei talebani? L’Isis. “Finché i se copin fra de lori”, dicevano crudelmente a Trieste commentando la guerra jugoslava.

Insomma, “mission accomplished”, missione compiuta, come avventatamente proclamò Bush junior nel 2003? No, i soldati Usa sono ancora tremila in Iraq e ottomila in Afghanistan, dove anche l’Italia ha 800 militari. Ma sono residui, e proseguono le trattative con gli eredi del mullah Omar.

Da noi in Europa sono passati quattro anni dagli ultimi grossi attacchi a Nizza, Bruxelles e Parigi. Abbiamo imparato a difenderci con i jersey dai camion assassini, sappiamo che contro i pazzi isolati che brandiscono coltelli c’è poco da fare se non schedare i sospetti.

Sicuramente ci sono ancora centinaia di madrasse nel mondo che predicano la guerra santa, e in qualche nostro garage imam fanatici incitano alla violenza. Ma l’ultimo islamista bloccato e ucciso in Italia, a Sesto San Giovanni, risale al 2016 (il killer di Berlino in fuga).

Fra un anno ricorderemo l’anniversario pieno delle Torri gemelle, ma anche il decennale dell’eliminazione di Osama (che i nostri figli ormai confondono con Obama). Come tutti i virus, anche l’estremismo islamico ha avuto la sua seconda ondata, l’Isis. Che gli Usa questa volta hanno avuto l’intelligenza di combattere senza “boots on the ground”, niente stivali sul terreno. Il lavoro sporco lo abbiamo fatto fare a dei mascalzoni relativi: Assad, Putin, Erdogan. E ai curdi siriani, che poi abbiamo tradito vergognosamente, e questo è stato inescusabile.

Ricordate quanta paura avevamo nel 2015, durante i sei mesi dell’Expo milanese? Sembra un’altra era. Tocchiamo ferro. Congratuliamoci con i nostri servizi segreti e investigatori che hanno annullato la bestia jihadista. Quanti attentati hanno sventato in Italia, Europa, Usa? Impossibile saperlo. Le buone notizie non fanno notizia. Come diciamo per il Covid: non abbassiamo la guardia. Ma pare proprio che dall′11 settembre 2001 fra i musulmani abbia prevalso la stragrande, pacifica maggioranza silenziosa.

Mauro Suttora

Thursday, September 10, 2020

De Laurentis e i vip del virus

di Mauro Suttora

10 settembre 2020

Ci mancano, in fondo, i cinepanettoni che Aurelio De Laurentiis non produce più da anni. In compenso ora c'è il virus. E dopo la surreale visita letale di Briatore a Berlusconi a Ferragosto, i vip continuano a regalarci buonumore. 

Naturalmente auguriamo a tutti il miglior lieto fine: di farsi il covid in forma blanda, come sembra stia succedendo a Mr. Billionaire chez Santanché ("Non ne posso più di averlo in casa", confessa però la pitonessa a Vanity Fair); di lasciare presto il San Raffaele scampando anche al medico personale Zangrillo, nel caso del Trilionario vero da Arcore; e che al presidente del Napoli la polmonite non sfiori neppure un interstizio.

Nel frattempo, però, la città dell'isola di Creta sinonimo di casino totale (Canea) si sta inevitabilmente scatenando in queste ore contro De Laurentis sui social.
Statisticamente c'è poco da fare: nove italiani su dieci non tifano Napoli, quindi il sarcasmo è d'obbligo fra i tifosi avversari. Imbufaliti perché Aurelione, come il cavallo di Troia, ha portato il virus proprio dentro la città delle massime meraviglie italiane: le venti squadre di serie A, i cui presidenti ieri sono stati per ore assieme a lui in una riunione della Lega Calcio a Milano.

Li ha infettati in blocco, visto che era senza mascherina? "Abbiamo rispettato la distanza sociale", giurano tutti. Il problema è che De Laurentis pare sia entrato nel consesso dell'Hilton barcollando. Ma che abbia attribuito a una fantastica indigestione di ostriche i propri sintomi già evidenti.

Lo sventurato non può neanche farsi scudo con gli affetti familiari, come la figlia di Berlusconi. Barbara si è salvata in corner dal ruolo di untrice perché alla fine perfino la sorellastra Marina è risultata impestata. E quindi diventa irrilevante che lei sia stata a pazziare mask-free per un'intera notte all'Anema e Core di Capri, mentre la prudente primogenita si era eclissata per mesi nella sua villa francese, obbligando pure il papi all'esilio terapeutico.

Pure la moglie di De Laurentis risulta infetta. Ma ai tifosi del Napoli sta a cuore la rosa dei giocatori. E quelli sono rimasti in ritiro col presidente fino a giovedì scorso. Con quanto uso di mascherine, lo si può solo immaginare. 

D'altra parte, altro che negazionisti: il colpo letale contro le fastidiose copribocca (alzarle sul naso è sempre più optional) lo ha appena sferrato la virologa Ilaria Capua: "Sono come i preservativi", ha sentenziato martedì sera. Verità da oltreoceano fuggita: il maschio italiano medio, da sempre allergico ai rapporti protetti, le schifa uguale.

Ora la parola magica è "periodo di latenza": ai presidenti delle squadre di calcio e ai giocatori del Napoli non resta che aggrapparsi alla speranza che nei prossimi giorni, se risulteranno negativi ai tamponi, lo siano veramente, e non solo perché il virus delaurentisiano tarda a palesarsi. Altrimenti, o presidente avrà mandato in vacca il campionato. E pure i diritti tv.

Perché, diciamolo con onestà: ormai nessuno ci capisce più niente. I nostri bimbi non possono andare in asilo se osano fare uno starnuto, mentre nel massimo luogo del potere italiano (che non è il consiglio dei ministri, ma la Lega calcio di serie A) sono liberi di scatarrarsi addosso.

Fra i vip dell'era virus comunque il posto d'onore se l'è conquistato il capolista pd alla regione Veneto. Il suo video in cui stramazza ben due volte al suolo durante un dibattito streaming è ormai un crudelissimo cult. Meglio di De Laurentis. Ma guai ad ammetterlo: sarebbe antipolitica.
Mauro Suttora

Incubo covid per giornalista spagnola a Milano

Lunedì 7 settembre arriva in aereo a Milano un'importante giornalista spagnola. Non aspetta l'esito del tampone fatto in patria prima di partire. Scende al Grand Hotel et de Milan, 5 stelle in via Manzoni. Fa compere nei negozi dell'albergo. Nel mattino di martedì 8 riceve il risultato dell'esame. Positiva. 

Invece di essere scortata in camera a trascorrere la triste quarantena, viene presa in carico dall'Ats, prelevata e portata subito al centro della Croce Rossa a Linate, nella zona militare dell'aeroporto. È la palazzina riservata ai contagiati che non hanno alcun posto dove passare gli almeno 15 giorni di isolamento. Dopo la chiusura dell'hotel Michelangelo accanto alla stazione, prende in carico extracomunitari, persone senza fissa dimora, soggetti disagiati o in difficoltà. Attualmente ha una ventina di ospiti, la metà della capienza massima.

Lì, con la sua maxivaligia e i sacchetti dello shopping, la signora si accascia sulla sedia, si guarda intorno, e con un filo di voce protesta che non è il suo posto, che nessuno le ha chiesto dove vivere l'isolamento. Dice che non è giusto che si premi così la sua onestà, l'aver dichiarato spontaneamente il risultato del tampone.

Non ci sono spettatori per questa sua tragedia. Sale in una camera doppia: le assegnano la migliore, quella in cui abitavano gli ufficiali dell'aeronautica. Le danno il cestino per i rifiuti, le lenzuola, coperta e cuscino. Scende dopo mezz'ora, e cosa vede davanti a sé? L'aereo privato di Felipe, il re di Spagna, incredibilmente parcheggiato nella piazzola che lo scalo militare condivide con quello vip. 

La giornalista riesce a individuare l'ambasciatore spagnolo, si sbraccia, vorrebbe superare le transenne per raggiungerlo. Riesce ad attirare l'attenzione del diplomatico, che si avvicina cautamente con la scorta. La signora è una giornalista di peso, l'ambasciatore si ferma ad ascoltarla, annuisce, telefona, le passa il suo cellulare. Viene chiamato il direttore del giornale, bisogna fare qualcosa, ci sono dei ragni in stanza, non c'è wifi. Evidentemente le autorità sanitarie milanesi non hanno capito la situazione, visto che dal grand hotel la sventurata signora è stata catapultata in una sistemazione per gente indigente. 

L'ambasciatore scompare. La signora risale in camera per organizzare l'affitto di una casa per la quarantena. E l'aereo reale spagnolo? Parte, e nessuno nel centro della Croce Rossa capisce se trasportava il re di Spagna o qualche suo familiare. Il giorno dopo la giornalista, con l'interessamento del viceprefetto di Milano, si trasferisce in un miniappartamento in affitto.
Mauro Suttora

Wednesday, September 02, 2020

Un Kennedy novax e uno trombato

di Mauro Suttora 

Huffington Post, 2 settembre 2020

Questo è il milionesimo articolo sulla fine del mito dei Kennedy. I primi furono scritti nel 1968 quando Jacqueline, vedova del presidente John (secondo alcuni doppiamente vedova dopo l’assassinio del cognato Robert in giugno), sposò l’ineffabile miliardario greco Aristotele Onassis. Ora per la prima volta un Kennedy, il 39enne Joe III figlio di Joe II e nipote di Robert, ha perso un’elezione nel Massachusetts, lo stato feudo di famiglia. Non è neanche arrivato al voto di novembre per il Senato: il senatore democratico ultrasettuagenario uscente lo ha superato alle primarie. 

Per capire l’umiliazione, basti dire che Joe III la metà delle quattro volte che è stato eletto deputato, dal 2012 a oggi, non ha avuto rivali. Nel senso che nessuno aveva osato candidarsi contro di lui, né alle primarie democratiche né al voto contro i repubblicani, e lui vinceva col 97%. I Kennedy in Massachusetts erano semplicemente imbattibili, inutile opporsi.

Lontano da Boston, invece, i Kennedy hanno già assaggiato la sconfitta. Il secondo crollo del mito accadde nel 1969, quando il senatore Ted, fratello di John e Bob, non fece nulla per salvare la sua segretaria e amante Mary Jo Kopechne finita assieme a lui in acqua con l’auto a Chappaquiddick, nell’isola maledetta di Martha’s Vineyard. Era troppo ubriaco, e ci mise dieci ore per avvertire la polizia che nell’auto c’era pure la ragazza 28enne, sopravvissuta per tre ore in una bolla d’aria e quindi salvabile. Condannato a soli due mesi con sospensione della pena.

Ma noi kennedyani (ovvero tutti i +60 del mondo vagamente di sinistra non comunista) abbiamo subito assolto il senatore che portava la fiaccola del mito. Lo abbiamo incitato a candidarsi nel 1972 contro Nixon, nel 1976 contro Carter, finché nel 1980 è stato sconfitto da Carter alle primarie. Fine delle ambizioni presidenziali.

Fra i Kennedy della seconda generazione (anzi terza, calcolando il patriarca Joe ambasciatore Usa filonazista a Londra) la più promettente sembrava Kathleen, figlia di Robert, vicegovernatrice del Maryland. Ma nel 2002, quando tentò il salto a governatrice, fallì. Sua figlia Maeve è morta cinque mesi fa col nipote Gideon di 9 anni mentre andavano in canoa.

La maledizione dei Kennedy, che è diventato un sottogenere letterario ha conosciuto due picchi nel 1997, quando Michael figlio di Robert è morto sbattendo contro un albero mentre sciava ad Aspen, e nel 1999, quando John John figlio di John è caduto col suo aereo volando da New York all’isola maledetta di Martha’s Vineyard. I cospirazionisti considerarono non una coincidenza che qualche giorno dopo la morte di Michael un altro politico democratico morisse sciando contro un albero: Sonny Bono, ex cantante e partner di Cher, autore di Bang Bang. Per loro anche i tronchi complottano.

Quando i Kennedy non sono sfortunati, (si) fanno del male da soli. William Kennedy Smith, nipote di Ted, è stato accusato due volte di stupro. Sempre assolto, ma si è dovuto dimettere dalle cariche quando è emerso che aveva tacitato con soldi altre ragazze pronte a denunciarlo.

Innumerevoli le vicende di Kennedy dipendenti da droga e alcol. Ma il mito resiste. E non verrà scalfito neanche dall’ultima versione del battagliero Robert Kennedy junior, fino al 2017 uno degli ecologisti più in vista degli Usa. Da allora la svolta: è diventato antivaccinista. È convinto che i vaccini provochino l’autismo nei bambini. E dà la colpa a Bill Gates, finanziatore di campagne di vaccinazione dell’Oms nel terzo mondo. 

I complottisti d’America e d’Europa esultano: finalmente hanno un nome altisonante da esibire. Naturalmente il Covid è per loro come il cacio sui maccheroni. Robert Kennedy jr ha partecipato domenica al corteo negazionista di Berlino contro mascherine e distanziamenti, comiziando contro il “grande imbroglio”: Gates, Soros, Fauci, Big Pharma e i poteri forti “mondialisti” approfittano del virus, magari lo hanno inventato e sicuramente ne esagerano i pericoli, solo per obbligarci al vaccino: “I governi adorano le pandemie, perché ci costringono all’obbedienza”.

Forse questo Kennedy, molto junior nonostante i 66 anni, si è sentito un po’ come lo zio John che nel 1962 tenne a Berlino uno dei suoi discorsi più famosi, anch’esso sul tema della libertà.

Chissà che gli elettori del Massachusetts non abbiano voluto punire il no-Covid più illustre del mondo bocciando suo nipote Joe III alle primarie ieri.

Tuesday, August 25, 2020

I paradisi opposti di Ventimiglia

I GIARDINI DI HANBURY E BENNET 150 ANNI FA. OGGI, SULLE STESSE ROCCE, GLI IMMIGRANTI CHE SOGNANO LA FRANCIA

di Mauro Suttora

huffington post, 25 agosto 2020

“Il Paradiso d’altra parte non è che un giardino”, scrisse Alberto Savinio. E i Giardini Hanbury, fra Ventimiglia e la frontiera francese, hanno qualcosa di paradisiaco: sono forse i più belli dell’intero Mediterraneo. Pochi sanno, però, che quando sir Thomas Hanbury li fondò nel 1867 rivaleggiavano con un parco inventato da un altro ricco inglese ancor più vicino al confine: il giardino di acclimatazione di Grimaldi, dal nome dall’ultima frazione di Ventimiglia prima della Francia.

Qui era arrivato da Londra il medico reale James Henry Bennet per realizzare un giardino botanico di piante esotiche. Fu amore a prima vista quello di Bennet con la torre saracena che si può ancora ammirare, e affittare con la sua piscina, all’ultimo tornante della vecchia Aurelia prima del valico di Ponte San Luigi. 
Era il 1859, e non esistevano ancora né l’Italia né la frontiera: il regno di Sardegna si estendeva fino a Nizza, che solo l’anno seguente fu ceduta alla Francia per far venire Napoleone III a combattere la nostra Seconda guerra d’indipendenza.

Bennet acquistò, sistemò, terrazzò, irrigò i terreni attorno alla torre per l’avvistamento dei pirati saraceni, allora piantati solo a limoni e olivi. Trascorreva ogni inverno in Riviera per curare la sua tubercolosi, e in effetti il miracoloso sole mediterraneo lo preservò fino al 1891, quando scomparve 75enne. Accanto, intanto, si sviluppava il giardino di Hanbury.

Nel giro di pochi anni quei due parchi divennero così famosi che li visitò la regina Vittoria: contenevano piante fatte arrivare da India, Australia, Sud Africa e Sud America. L’imperatrice britannica soggiornò per settimane con la sua corte a Mentone nel marzo 1882, ma spesso andava a visitare i suoi amici Bennet e Hanbury appena al di là del confine. E per decenni, fino alle sanzioni contro Mussolini negli anni 30, migliaia di benestanti nordeuropei la imitarono, arrivando in Liguria e Provenza per le loro lunghe vacanze invernali.

Si era insomma realizzato il ‘sogno babilonese’ dei due milionari: “La creazione di giardini a strapiombo sul mare che, facendo pensare a quelli pensili realizzati dalla leggendaria regina Semiramide, arricchiranno le coste mediterranee nel corso della Belle Époque”, scrive Enzo Barnabà, autore del libro ‘Il sogno babilonese: lo Château Grimaldi, la Belle Époque, la Riviera’ appena pubblicato dalle edizioni Infinito di Formigine (Modena).

In quelle stesse decine di metri con rocce e ripidi boschi oggi si svolge, più che un sogno, un dramma: quello dei migranti che cercano di entrare in Francia. I poliziotti francesi hanno ripristinato da cinque anni i controlli di frontiera aboliti dal trattato di Schengen un quarto di secolo fa. 
E qui subentra pure la commedia, perché i clandestini che loro catturano e ci rispediscono a centinaia in Italia provano e riprovano a varcare il confine di notte attraverso percorsi impervi, finché prima o poi ci riescono.

Da Grimaldi ci sono due sentieri vicini per arrivare in Francia. Incredibilmente, uno si chiama passo della Morte, l’altro del Paradiso. Il primo porta a un burrone, il secondo all’estero. ‘Il passo della morte’ è un altro libro che lo stesso Barnabà, storico e scrittore residente proprio a Grimaldi, ha scritto l’anno scorso sulle vicissitudini degli emigranti.

Così, a distanza di 150 anni, s’incrociano due tipi opposti di paradiso nelle stesse terrazze a picco sul mar Ligure: quello verso il sud dei ricchi inglesi che venivano a svernare coltivando piante e fiori in Riviera e Costa Azzurra, da Saint Tropez a Cannes, da Bordighera ad Alassio; e quello attuale verso il nord di africani o bengalesi alla ricerca di un passaggio verso il loro eden nordeuropeo, da Parigi a Stoccolma, da Londra ad Amsterdam.
Mauro Suttora