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Sunday, October 25, 2020

Conad socia di Mincione (Vaticanogate)

COSA CI FA IL FINANZIERE D'ASSALTO NELLA SOCIETA' CHE HA RILEVATO I SUPERMERCATI AUCHAN?

di Mauro Suttora

23 ottobre 2020

"Conad, la comunità. Un supermercato non è un’isola. Persone oltre le cose”. Questi sono i rassicuranti slogan con cui la più grande catena italiana di supermercati si presenta ai suoi clienti. 

Ma dopo l'arresto di Cecilia Marogna, la cosiddetta "dama del cardinale Becciu" accusata di aver speso anche in negozi di lusso mezzo milione dal fondo per la carità del Vaticano, cresce l'imbarazzo fra i soci della cooperativa della grande distribuzione. Da un anno infatti Raffaele Mincione, finanziere di Pomezia, è diventato socio della Conad al 49% nella società che ha rilevato gli ex supermercati Auchan. E anche Mincione è indagato per corruzione nel Vaticano-gate. Nel 2012 acquistò con 25 milioni di fondi di terzi un lussuoso palazzo di Sloane Avenue a Londra, rivenduto due anni dopo alla Santa Sede al triplo del prezzo. Nel 2013 il vicepresidente Enasarco (l'ente previdenziale degli agenti di commercio) si dimise denunciando la gestione dei fondi affidati dall'ente a Mincione. Che si lanciava in operazioni spericolate che pare siano costate una ventina di milioni sulla banca Montepaschi, e poi fallendo scalate da centinaia di milioni a Bpm (Banca popolare di Milano) e Carige (Cassa di risparmio Genova).

In luglio a Mincione la procura antimafia di Roma ha sequestrato telefonino e ipad. Peggio è andata al faccendiere molisano Gianluigi Torzi, arrestato per estorsione: nel 2018 era riuscito a farsi dare dalla segreteria di stato vaticana di cui il cardinale Becciu era sostituto (vice del segretario Parolin) altri 15 milioni per farla uscire dalla sfortunata speculazione londinese.

Ma come si sono incrociate le strade di Conad e Mincione? Nel 2019 la famiglia miliardaria Mulliez, la terza più ricca di Francia, si disfa della sua catena italiana Auchan (78 iper, 168 super, i negozi Simply), in perdita da anni per 700 milioni dopo averla rilevata da Sma. E Conad, in nome dell'italianità, è fiera di subentrare. Anche perché, a conti fatti, pur di andarsene i Mulliez quasi regalano i supermercati Auchan a Conad.

C'è però il problema dei 18mila dipendenti: troppi, da ridurre drasticamente. Almeno tremila esuberi. E i Mulliez non vogliono accollarsi il lavoro sporco. Hanno un'immagine da difendere, perché in Italia controllano ancora le catene Decathlon, Leroy Merlin, Castorama, Brico.

Neanche Conad intende intaccare la propria reputazione di 'responsabilità sociale', e allora crea una società apposita con Mincione al 49%: al finanziere d'assalto interessano gli immobili che ospitano gli ex iper e supermercati Auchan, valutabili in circa 700 milioni. 

Con l'aiuto di virus, cassa integrazione e incentivi, l'operazione viene conclusa in pochi mesi: vengono fatti fuori centinaia di lavoratori, spesso donne con famiglia a carico. Convinti alle dimissioni con buonuscite misere, anche di sole tre mensilità. In particolare fra i 900 dipendenti degli uffici centrali Auchan di Rozzano (Milano) è una strage.

Ma com'è possibile che manager accorti e sperimentati come quelli Conad si siano portati in casa un personaggio chiacchierato come Mincione? 

"L'amministratore delegato Pugliese ha compiuto un ottimo lavoro in questi anni, dando a Conad un'immagine unitaria", dice a HuffPost Luigi Rubinelli, direttore del sito specializzato Retailwatch. "Probabilmente non ha verificato bene le credenziali di Mincione". Il quale, peraltro, prima dello scandalo vantava proprio le sue entrature in Vaticano come biglietto da visita per farsi strada.


Ora, superato lo scoglio antitrust con la vendita di vari supermercati ad altri marchi, Conad ha superato le Coop ed è diventata la prima catena in Italia, con una quota del 18% e ben 17 miliardi di fatturato. Sperando di superare anche lo scoglio Mincione.

Mauro Suttora

Friday, June 12, 2015

Ipermercati o piccoli negozi?

LA SFIDA CONTINUA. BOTTEGHE ALLA RISCOSSA CONTRO I SUPERMERCATI IN CRISI

I grandi centri commerciali in periferia non funzionano più: i loro prezzi bassi non bastano ad attirare clienti che preferiscono la comodità di comprare sotto casa. Anche per evitare il deserto nei centri storici, e ridar vita alle nostre vie 

Oggi, 3 giugno 2015

di Mauro Suttora

Le nostre tasche sono più vuote, e si svuotano anche le nostre vie. Negozi che chiudono per la crisi, incassi che non bastano a tenere aperte le vetrine. Così spariscono i commercianti che allietavano i marciapiedi dei centri storici. Colpiti dalla concorrenza dei centri commerciali in periferia: ne sono stati costruiti 5 mila in dieci anni, dopo il Duemila.

Ora, però, perdono colpi anche gli ipermercati. Le grandi catene francesi Auchan  e Carrefour sono in difficoltà, annunciano centinaia di licenziamenti in tutta Italia. 

Ricetta: specializzarsi e offerta di qualità

E infatti il numero di supermercati, discount e outlet, è sceso dai 29 mila del picco nel 2011 ai 27 mila di oggi. 
Viceversa, i piccoli negozi sono alla riscossa. Specializzandosi e offrendo prodotti di qualità attirano clienti che non hanno voglia di sobbarcarsi lunghi viaggi in auto in periferie intasate per fare la spesa.

Lo confermano i dati controcorrente della Cgia (Confederazione generale italiana dell’artigianato) di Mestre: «Negli ultimi sei anni hanno chiuso 115 mila negozi di vicinato», spiega il segretario Giuseppe Bortolussi, «ma i più colpiti sono stati artigiani ed esercenti di bar. I commercianti al dettaglio, invece, sono diminuiti soltanto dello 0,7 per cento: da 801 mila a 795 mila».

Insomma, la guerra fra supermercati e piccoli negozi è tutt’altro che vinta dai primi. In realtà c’è ancora spazio per chi inventa cose nuove. 

Un esempio concreto è quello di Damiano Giannatempo, che probabilmente detiene il Guinness dei primati per il tempo che passa nella sua bottega di via Anfossi a Milano, sul parco di largo Marinai d’Italia: 70 ore a settimana. La tiene aperta ogni giorno, domeniche comprese, dalle dieci del mattino alle otto di sera. Da solo.

Foggiano, a Milano da 45 anni, Giannatempo vende prodotti tipici meridionali. Dalla mozzarella di bufala al pane casereccio, da primizie di frutta e verdura a bottiglie doc di oli e vini. 
E sua moglie? Non la vede mai. «A lei va bene così», sorride Giannatempo. Che copia i negozi familiari coreani di Manhattan aperti 24 ore su 24: apertura garantita per chi lavora e quindi preferisce far compere con calma nei weekend. Piante fiorite e una panchina allietano il marciapiede davanti al negozio, e così Giannatempo contribuisce anche alla vita sociale della strada.

«È proprio questa la soluzione per i piccoli negozi», dice a Oggi Luigi Rubinelli, direttore di RetailWatch, «non la concorrenza sui prezzi nella quale iper e Internet sono imbattibili. O la velleità di offrire prodotti uguali a quelli dei supermercati. Certo, affitti e tasse colpiscono duro i piccoli esercizi. In Germania e Olanda gli enti locali, quando recuperano i centri storici, offrono spazi a prezzo calmierato per commercianti e artigiani».

Gli artigiani. Sono loro a soffrire di più, anche per la concorrenza degli immigrati, soprattutto i cinesi a basso costo: «Oltre la metà delle 115 mila imprese che hanno chiuso sono legate al comparto casa», calcola Bortolussi. «Edili, lattonieri, posatori, elettricisti, idraulici e manutentori di caldaie stanno vivendo momenti difficili. Ma soffrono anche professioni storiche dell’artigianato. Pochi giovani si avvicinano a mestieri come barbieri, calzolai, fotografi, rilegatori, ricamatrici; artigiani che con le loro botteghe hanno caratterizzato la vita quotidiana di tanti paesi e città, e che stanno scomparendo. Senza dimenticare i norcini e i casari che hanno contribuito a sviluppare una cultura agroalimentare che, in loro assenza, rischiamo di perdere definitivamente».
            
Oltre al danno economico, poi, c’è un aspetto sociale da non trascurare: «Quando chiude la saracinesca un piccolo negozio o una bottega artigiana, la qualità della vita di quel quartiere peggiora. C’è meno sicurezza, più degrado, un impoverimento del tessuto sociale», sottolinea Bortolussi.
Ormai, in molti casi, la vita sociale si è spostata nei centri commerciali. Che ruotano attorno a immensi ipermercati.

«Ma questi soffrono perché le industrie di marca non garantiscono più sconti sui prezzi, a fronte di acquisti all’ingrosso di grandi quantità», spiega Rubinelli. «Anche la benzina non ha più prezzi così bassi. E ormai si trovano prodotti di marca anche in discount come Lidl».

Quindi c’è un ritorno a negozi e supermercati «di prossimità». Si salvano catene italiane come Esselunga, Coop, Conad e Crai che hanno pochi ipermercati. I francesi di Auchan hanno appena trovato un accordo con i sindacati per i loro 9 mila dipendenti di 217 supermercati in Italia: meno soldi e turni più flessibili. Insomma, lavorare di più (senza arrivare agli orari stakanovisti di Giannatempo) e guadagnare di meno.

Inutile fare i romantici, è la legge del mercato

Inutile fare i romantici: «Anche i negozi obbediscono alla legge del mercato, chi non è efficiente chiude», dice Rubinelli. «Per esempio, fra i centri commerciali vanno meglio quelli che offrono dieci-dodici sale di cinema. E sapete quali sono i ristoranti che riscuotono maggiore successo? Quelli dell’Ikea. Perché lì si mangia con 9-10 euro, ma anche perché si può lasciare l’auto all’ombra nei parcheggi coperti, e perché i bimbi sono accuditi. Ormai c’è gente che va all’Ikea non per comprare mobili, ma per mangiare».

Nella grande distribuzione si esercitano strategie di marketing raffinatissime. Anche perché i margini sono assai risicati: su 100 euro di prodotti venduti, le catene riescono a guadagnarne appena 2-3. Ma essendo le quantità notevoli (il valore complessivo della spesa degli italiani è sui 40 miliardi annui), se si imbrocca la strada giusta i profitti arrivano a palate.

Così, non è un mistero che i prodotti con il miglior rapporto qualità/prezzo sono quelli più difficili da raggiungere, in basso negli scaffali. 
Oltre alla fatica di chinarsi per vederli, noi clienti dovremmo farne un’altra: quella di non guardare mai i prezzi scritti in grande, ma quelli veri. Che sono il costo al chilo, o all’etto.
Mauro Suttora



Monday, November 30, 2009

Supermercati, la seconda volta di Caprotti jr

GIUSEPPE, FIGLIO DI BERNARDO, TORNA NEL SETTORE CON COIN E DESPAR

Corriere della Sera, 30 novembre 2009

di Mauro Suttora

«No, non ho rimpianti e non devo prendermi rivincite. Ma sono felice che l’esperienza in Esselunga, dal 1986 al 2004, mi sia servita per le mie attuali iniziative».

Giuseppe Caprotti, 48 anni, venne mandato via cinque anni fa da amministratore delegato dell’azienda famigliare dal padre Bernardo. Uno scontro che fece rumore. Ma oggi torna alla ribalta nel mondo della grande distribuzione con due consulenze di peso. E che, in concorrenza con Esselunga, rappresentano quasi una sfida al padre.

La prima sono i food corner Qb (Quanto basta) nei grandi magazzini Coin. Quello di Genova ha debuttato un mese fa. Il secondo verrà inaugurato a Brescia l’11 dicembre. Seguiranno a maggio due dei quattro Coin milanesi: piazzale Cantore e corso Vercelli. Il clou sarà il multipiano che il gruppo veneziano aprirà nel 2011 in centro a Milano, nel palazzo dell’ex cinema Excelsior, a due passi dalla Rinascente. Che all’ultimo piano ha un’offerta food di alta qualità, con la quale Qb si misurerà direttamente.

L’altra collaborazione di Caprotti junior è con Aspiag, cioè la Despar del Triveneto: «Nei loro supermercati li consiglierò sulla gestione degli spazi e l’eventuale razionalizzazione dell’assortimento food e non food. Cose di cui mi ero occupato in Esselunga: il non food decuplicò in tredici anni, arrivando al 17% del fatturato e al 30 per cento dell’Ebit. Era il secondo reparto per redditività, dopo i latticini».

Incontriamo Caprotti vicino allo storico ex Esselunga di viale Regina Giovanna a Milano, primo supermercato d'Italia nel ‘57. Suo padre secolo due anni fa lo ha venduto a Standa: «Un simbolo che se ne va, mi fa un po’ malinconia».

Laureato in storia alla Sorbona di Parigi, Caprotti era entrato in Esselunga con un apprendistato dal basso. Ha lavorato due anni nei supermarket di Chicago, di cui uno da operaio tra casse e scaffali. Nel 2000 ha preso le redini del colosso da cinque miliardi di fatturato, trasformandone la cultura aziendale.

Tutti ricordano la campagna pubblicitaria Esselunga inaugurata appena diventato direttore marketing nel ’95, con la sorella Violetta che ispirò l'agenzia Armando Testa: quella con «Delfini o banane?» e «Scienziato o cipolla?», per poi passare al limone dagli occhialini rotondi chiamato John Lemon, ad «Aglio e Olio» e a tanti altri claim surreali.
Da azienda chiusa in se stessa, Esselunga divenne terreno di sperimentazione: e-commerce, biologico, «responsabilità sociale»… Parole che suonavano male alle orecchie dell’anziano padre, il quale con un blitz fece fuori il figlio e tutta la prima linea dirigenziale.

Giuseppe non ama ricordare quell’episodio, né vuole commentare il libro Falce e carrello (ed. Marsilio) scritto nel 2007 dal padre contro le Coop. Però gli è rimasta appiccicata la passione per la grande distribuzione, e da due anni scrive per Mark Up, il mensile specializzato diretto da Luigi Rubinelli: «Usavo lo pseudonimo Lancillotto, da ottobre firmo col mio nome».

Caprotti è anche consigliere d’amministrazione di Messaggerie italiane (distribuzione libri e giornali) e Primafrost di Giulio Lombardini. Ma il suo progetto del cuore è Villa San Valerio, residenza di famiglia del Seicento ad Albiate (Monza). «Come dicono gli americani, è giunto il momento di “restituire qualcosa alla comunità”», dice Giuseppe, «con una Onlus per attività culturali, ambientali e sociali della Brianza. Per esempio quelle della Magica Cleme, per far divertire i bimbi del reparto emato-oncologico dell’ospedale San Gerardo di Monza, e dell’Istituto Maria Letizia Verga».

La villa apre spesso i suoi cancelli e i cinque ettari di parco alla «comunità». Quanto agli altri venti ettari di terreni coltivati circostanti, lì la passione ecologica di Caprotti si scatena: «Ho chiesto che gli agricoltori piantino un mais speciale: quello a otto file, possibilmente bio». Per la disperazione degli amministratori locali, nessuna lottizzazione in vista: ovviamente Caprotti è nemico del cemento.

Ed Esselunga? Caprotti junior ne rimane azionista al 33,3 per cento: quota uguale a quella delle due sorelle. Suo padre nel 2010 compie 85 anni, da dieci si dice che vende. Ma non ha venduto. Caprotti, cosa prevede? «Io ho voltato pagina», sorride.