Tuesday, August 26, 2008

Il Partito entra pure in casa


Libero, 22 agosto 2008

di Mauro Suttora

Caro Direttore,
ieri sono andato a trovare un collega giornalista cinese a casa sua a Pechino. Abita in uno delle migliaia di palazzi costruiti negli ultimi vent'anni per i tre nuovi milioni di abitanti che hanno portato il totale a quindici. Numeri e distanze colossali, e infatti per arrivarci dal centro ci vogliono tre quarti d'ora (se non c'è traffico). Un bel quartiere di periferia, dignitoso, quasi elegante. Ricorda un po' il centro Edilnord di Brugherio (Milano), prima creazione di Berlusconi quarant'anni fa.

Il collega paga 300 euro mensili per due camere, cucina abitabile, sala e un bagno. Ne guadagna 800 al mese, ma lavora anche la moglie. Portineria e posto di guardia sono all'entrata del complesso, poi tanti vialetti e anche verde fra palazzi alti 25 piani. Unico difetto: pochi garages. Quindi auto parcheggiate dappertutto, anche sui marciapiedi. Mi sono sentito in Italia.

Mentre aspettavo l'amico all'entrata, ho visto un cartello bilingue. Ho letto la traduzione in inglese, e ti mando la foto. Spero che si legga. Dice che ci troviamo nel quartiere Wangjinghuanyuan (d'ora in poi W) del sotto-distretto Dong Hu. Il quale contiene 31 palazzi con 4.528 appartamenti per tredicimila abitanti fissi e 1.800 "floating" (che vanno e vengono, o forse in affitto), su una superficie di 1.170.000 metri quadri (117 ettari).

Poi alcune indicazioni stradali, preziose per i visitatori ma anche per gli abitanti stessi, che faticano sempre a spiegare a tassisti e amici dove vivono. Infatti Pechino è cresciuta così tanto e così in fretta che nessuno si raccapezza più. Quand'ero venuto per la strage di Tian an men nell'89 la città finiva alla terza circonvallazione, grande quasi quanto le tangenziali di Milano o il Raccordo anulare di Roma. Ora siamo arrivati alla quinta, ma già proliferano fra i campi nuovi quartieri-satellite come questo.

La parte interessante del cartello è la seconda, che dice testualmente: "La Sezione del Partito del quartiere W è stata fondata nel 2002. L'attuale segretario della sezione del Partito è WANG [tutto maiuscolo, ndr] Lifeng. Ci sono cinque membri di comitato e 114 membri del Partito [unica parola sempre in maiuscolo] che si autogestiscono [in inglese: 'self-managed']. Il comitato dei residenti del quartiere W è stato fondato [anch'esso] nel 2002 [all'inaugurazione delle case, presumo]. L'attuale vicedirettore WANG Lifeng è il responsabile del lavoro. Il comitato ha nove membri".

Segue una lode all'abbondanza di strutture scolastiche e mediche nel quartiere. Ma questo succede in tutti i nostri dépliant pubblicitari immobiliari. Poi l'elenco delle imprese della zona, dove primeggia la Panasonic.
Più interessante il penultimo capoverso, che informa: "C'è un Centro di Attività Culturale con 13 gruppi ricreativi, e 7 gruppi volontari di membri del Partito. Grazie alla particolarità della struttura residenziale, l'attività culturale è molto vivace. I gruppi di massa, come quelli dell'arte del giardinaggio, la squadra di insegnanti di inglese e la classe dei cittadini anziani, giocano un ruolo positivo nel percorso della costruzione di una comunità armoniosa".
Infine l'elenco dei premi ricevuti dal quartiere W, come quello per il 'Distretto Residenziale Modello', quello del Comitato della Pubblica Sicurezza Avanzata Municipale di Pechino, e anche quello per la Sezione del Partito.

Ecco, il mio amico mi spiega che tutta la Cina è organizzata così. C'è il quartiere, c'è il comitato di quartiere, e c'è il Partito. Uno solo, con la maiuscola. Attenzione: ufficialmente a governare il quartiere non è direttamente il Partito, ma il comitato dei residenti. Che però ha come suo vicepresidente il signor Wang. E la maggioranza assoluta del comitato (cinque membri su nove) è in mano al Partito. Che avrà anche solo 114 iscritti su 14.800 abitanti, ma alla fine comanda lui. Nella persona del signor Wang, che infatti è sia capo della sezione del Partito, sia vicepresidente del comitato, e con il proprio nome scritto due volte e in maiuscolo. Il presidente non è neanche citato sul cartello. Si vede che serve quanto il nostro, quello della Repubblica intendo (con rispetto parlando).

Ma come si chiamerà questo Partito? Girando per Pechino, non si capisce. Dicono che un tempo si chiamasse 'comunista'. Ma in giro non ho visto neanche una falce e martello. Ritratti del presidente Mao, solo uno : quello in piazza Tian an men. E di stelle sono rimaste solo le cinque sulla bandiera rossa. Insomma, è come in Italia: i comunisti sono spariti. In compenso trionfano i comitati di quartiere, sogno della nostra sinistra negli anni '70.
Ah, e poi la Pubblica Sicurezza Avanzata... Chissà se per costruire la "comunità armoniosa" qui prendono le impronte digitali. E a chi.

Mauro Suttora

Ma(ur)o

Pechino, piazza Tien an men, venerdì 22 agosto 2008, ore 16:00

Saturday, August 23, 2008

Concupiscenza a New York


Brevi saggi più o meno concupiscenti/19

American beauty farm

A New York il desiderio diventa un peccato di gola divorato dall’ascesi edonistica del consumismo

di Mauro Suttora





















"What’s Sutunqa?”. Maledetta scrittura intelligente. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo. L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla. Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi.
Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche. Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha. 
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase). 
“No, perché?”. 
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”. 
“Non ho niente a che fare con l’Onu”. 
E' già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?”
“No, perché?” Sorride. 
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”.
“Vuole che sia sincera?”. 
“Certo”. 
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo. 
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”. 
“In che senso?”. 
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”. 
“Ah, certo”. Sorride. Chissà se ora ha capito. “Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. 
No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica.
La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter. “Lei è favorevole alla pena di morte?”. “Mah, dipende. Si riceve quel che si dà”. “Ma allora perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”. “La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”. Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. E’ venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo. 
Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.
E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli. Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
 “E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha. 
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”. 
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. 
Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia. Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure. L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari.
Marsha mi ha scelto anche perché la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo. Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il “quadrilatero della morte”, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. 
Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza. Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto.
Anche nella Grande Mela ci sono personcine serie. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida. Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come exchange student. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate! Non si dice “grasso”, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”. Sui computer la parola sex si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi.
La regina Vittoria godrebbe come una pazza. Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli events cui partecipare ogni sera, i gala della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada. 
Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?”. E’ così che lei raggiunge l’acme. Perché poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato accondiscendente ammonendomi con un sorriso: “Mauro, don’t be a pervert”.
Ci sono tante Marsha a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure – quelle più intellettuali – tramite psicanalista. Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le one night stand, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party. 
Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei “Monologhi della Vagina”: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia. “Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?”. E’ questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso.
Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine. Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (il consumo di Prozac si è decuplicato) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” E’ il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su Internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: in fondo è l’ottimismo di Marsha ad avermi conquistato. Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica “Sex and the City” di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento, ma con il titolo “No sex in the city”.
di Mauro Suttora

Tuesday, August 19, 2008

Edoardo Mangiarotti

dall'inviato a Pechino

Oggi, 20 agosto 2009

Il vecchio Edoardo Mangiarotti, 89 anni, leggenda della nostra scherma, è raggiante: «L'oro a Tagliariol per la spada, quello alla Vezzali nel fioretto e le altre quattro medaglie rappresentano l'ennesima conferma che la scherma non tradisce mai lo sport italiano».

Lui di medaglie olimpiche ne ha conquistate in tutto tredici (record italiano): sei d'oro, cinque d'argento e due di bronzo. Nonostante un leggero ictus di pochi me fa, non ha voluto mancare a questi Giochi, e si è sobbarcato dieci ore di volo col nipote Carlo: «Sono le diciassettesime Olimpiadi cui partecipo, tutte quelle estive dal 1936 a oggi. Sarebbero 19 senza la guerra. Cinque, fino a Roma '60, come atleta. le altre come dirigente e commentatore. Sono tuttora presidente della commissione disciplinare della Federazione internazionale di scherma».

Mangiarotti è un Guinness dei primati vivente: qui a Pechino non è presente nessuna medaglia d'oro delle Olimpiadi di Berlino di 72 anni fa, quelle famigerate in cui il nazismo volle stupire il mondo. «Avevo 17 anni e vinsi l'oro con la squadra di spada, Ci misero in tribuna d'onore nelle gare successive, e udii con le mie orecchie Hitler a pochi metri da me gridare "Schwein!" (maiale) quando il nero americano Jesse Owens vinse la gara».

La Cina, nonostante tutto, rimane una dittatura. Non si rischia di ricordare un giorno Pechino 2008 come Berlino 1936? «No, sono ottimista e spero che la Cina si democratizzi. Nell'81 fui proprio io, da dirigente, a organizzare qui le prime gare di scherma internazionali».

Sunday, August 17, 2008

Primi giorni di Olimpiade

dall'inviato Mauro Suttora

Pechino, 11 agosto 2008

Gran festa per le medaglie, molte emozioni, qualche delusione. I primi giorni dell’Italia alle Olimpiadi cinesi hanno portato alla ribalta nuovi personaggi come lo schermidore Matteo Tagliariol, mentre alcuni fra i favoriti della vigilia come il ciclista Paolo Bettini non sono riusciti a salire sul podio.

Grande conferma invece per il fioretto: alle inossidabili e ormai leggendarie marchigiane Valentina Vezzali (oro), 34 anni, e Giovanna Trillini, 38, che dominano il mondo da quindici anni, si aggiunge ora la triestina 28enne Margherita Granbassi (bronzo), eletta Miss Olimpiade da vari giornali stranieri per la sua bellezza.

Un altro trio che ha emozionato l'Italia, conquistando l'argento nel tiro con l'arco a squadre, è quello composto dal veterano triestino Ilario Di Buò, 42 anni, dal padovano Marco Galiazzo, 25, e dal giovane pavese Nespoli, 20. Una garanzia di continuità. E poi la stupenda performance della judoista debuttante alle Olimpiadi Giulia Quintavalle di Livorno, 25 anni, che ha atterrato la campionessa olimpica uscente per poi vincere l'oro.

La prima impresa di questi Giochi l’ha compiuta Davide Rebellin, da San Bonifacio (Verona), che ha conquistato l’argento nel ciclismo su strada proprio nel giorno del suo 37° compleanno. Una prova tanto scenografica quanto massacrante: partita fra i palazzi della Città proibita nel centro di Pechino, la carovana ha percorso 250 chilometri sotto la Grande muraglia. Il problema però non era la distanza, ma la tremenda nebbia calda-umida che attanaglia la città. «Semplicemente non ce l’ho fatta», spiega Bettini, quando gli chiediamo come mai non è scattato alla fine, quand’era a pochi secondi dal gruppetto di testa. In più di cento non sono riusciti neppure a terminare il percorso.

Il miracolo, al posto di Bettini medaglia d’oro ad Atene, lo ha compiuto il veterano degli italiani. Rebellin era ancora un dilettante quando sedici anni corse la sua prima Olimpiade a Barcellona, vinta dallo scomparso Casartelli. «E ora non so bene se gioire per il secondo posto, o rimpiangere i pochi centimetri che mi ha dato lo spagnolo Samuel Sanchez in volata», dice.

Uno che invece si sarebbe volentieri suicidato è il francese di colore Fabrice Jeannet, battuto dal nostro Tagliariol nella finale di spada: ha fatto scena muta e disperata alla conferenza stampa dopo la premiazione. Quella medaglia d’oro che il principe Alberto di Monaco ha piazzato sul collo del nostro splendido 25enne trevigiano era infatti sua, nei pronostici. Ma Matteo lo ha stracciato: «Sono stato più determinato, era la mia giornata», spiega a chi gli ricorda che una volta aveva detto di considerare proprio Jeannet il suo modello.

«Conosci te stesso»: questa frase di saggezza degli antichi greci Tagliariol se l’è tatuata sull’avambraccio. E dopo la vittoria è andato ad abbracciare Edoardo Mangiarotti, l’89enne nostro massimo campione di scherma (vedere il riquadro) che lo seguiva trepidante in prima fila. Prima, però, per caricarsi aveva ascoltato sull’i-pod una delle sue canzoni preferite: Plug In Baby dei Muse.

Gli schermidori gareggiano al coperto, e quindi sono fra i fortunati che non devono combattere contro il tempo tremendo di Pechino, oltre che misurarsi con gli avversari. Perché qui, quando non si è soffocati dall’afa, piove. Se n’è accorto Giovanni Pellielo, che ormai alle medaglie olimpiche è abbonato. Dopo il bronzo di Sydney 2000 e l’argento di Atene, il campione vercellese di tiro al piattello un pensierino all’oro lo aveva fatto. Ma al momento di sparare sembrava di essere in una risaia dalle sue parti, con scrosci di acquazzone che hanno stravolto la gara. Nessuno dei favoriti ha preso l’oro, è stata una roulette. Ma lui, 38enne imperturbabile, ha conquistato comunque il secondo posto. Pellielo è forse il più religioso fra i 347 olimpionici azzurri, e anche questa volta la fede lo ha sostenuto.

Pochi lo sanno, ma Pellielo gareggia con i colori delle Fiamme azzurre. Che è la squadra sportiva della Polizia penitenziaria. E, per un’incredibile coincidenza, un’altra Fiamma azzurra fra le 17 approdate a Pechino è salita sul podio un’ora dopo l’asso del tiro a volo, sotto la stessa pioggia di domenica 10 agosto. Tatiana Guderzo, 24 anni, da Marostica (Vicenza), ha conquistato il bronzo nel ciclismo su strada: gara proibitiva quanto quella maschile del giorno precedente. Anche nel suo caso, come per il corregionale veneto Rebellin, la favorita italiana era un’altra: Noemi Cantele. Ma ancora una volta le Olimpiadi hanno confermato la propria imprevedibilità. Così la simpatica «secondina» bionda vicentina ha rimediato alla giornata no della compagna varesina.

Questa prima settimana di Olimpiadi è orfana dell’atletica leggera, specialità regina dei giochi. Le piste e pedane del grande stadio «Bird Nest» (nido d’uccello), ammirato durante la cerimonia inaugurale, si riempiono solo dopo Ferragosto. Questo vuoto però è positivo, perché dà il tempo di interessarsi anche a sport cosiddetti minori.

Così, la mattina del primo giorno di gare sono andato alla prima gara in programma: quella del sollevamento pesi per donne che pesano fino a 48 chili. La specialità è nobile e antica, presente nelle Olimpiadi greche e poi già nella prima edizione di quelle moderne nel 1896. Fino al 2000 era riservata agli uomini, e sarò maschilista ma forse era giusto così. In ogni caso, i cinesi hanno programmato questa gara proprio all’inizio perché volevano essere sicuri che la prima medaglia d’oro andasse a loro, e non agli statunitensi loro rivali per il medagliere finale (ma la «vecchia» Europa, se gareggiasse unita, distruggerebbe sia Cina sia Usa).

Così è stato: la cinese Chen Xexia ha battuto come sempre le rivali turche e thailandesi, alzando bilancieri mostruosi di oltre cento chili. In più, per la gioia dei cinesi più patriottici che considerano Taiwan cosa loro, una ragazza di Taipei ha conquistato il bronzo. Ma al momento dell’alzabandiera il suo vessillo era assente, sostituito da quello olimpico con i cinque cerchi. I cinesi di Pechino infatti vogliono così bene a Taiwan che ne negano l’esistenza. Uno dei tanti «amori» un po’ soffocanti…

Io però ero andato ad ammirare queste piccole forzute anche perché per la prima volta ha gareggiato un’italiana: Genny Pagliaro, bella 19enne siciliana che ha perfino rinunciato alla sfilata d’apertura per essere in perfetta forma la mattina dopo. Così purtroppo non è stato: Genny, sopraffatta dall’emozione, si è fermata a 82 chili. Come più o meno tutte le atlete occidentali, d’altronde.

Ora, lo so che è impossibile consolare gli olimpionici che arrivano qui dopo quattro anni di sforzi e sacrifici incredibili, e si giocano tutto in una gara di poche ore, minuti o addirittura secondi. Però gli atleti a Pechino sono più di diecimila, mentre le medaglie in palio sono appena 900. L’importante è partecipare, bisogna saper perdere, non sempre si può vincere, blablabla…

Ma soprattutto, osservando Genny e le sue avversarie sottoporsi a quelle prove crudeli, fra «strappi» e «slanci», non ho potuto fare a meno di pensare alle nostre mogli, madri, sorelle e figlie che giustamente si lamentano se i sacchetti della spesa da trasportare superano i tre chili. E mi è venuto quasi spontaneo, da gentiluomo, lanciarmi in pedana per aiutare le malcapitate, cercado di alleviare la loro fatica. Mi ha fermato solo lo sguardo severo dei giovani volontari cinesi che controllano la tribuna stampa.

Mauro Suttora

Saturday, August 16, 2008

Cinque cerchi, mille curiosità

dal nostro inviato a Pechino Mauro Suttora

Oggi, 11 agosto 2008 

Matteo Tagliariol, oro di spada nella scherma e bello come un attore, porta braccialetti con i colori olimpici. «Uno è per la mia fidanzata Annalisa», dice. Ma gli altri? Pare che più di uno gli ricordi qualche ex. Ma Annalisa lo sa?

Valentina Vezzali e Giovanna Trillini. Entrambe di Jesi (Ancona), entrambe alte 1,64, entrambe fiorettiste. Soprattutto, entrambe campionesse. Quindi, inevitabilmente rivali. Si amano, si detestano? Chissà chi lo sa. Ma purtroppo di primo posto ce n'è uno solo. E nel pollaio le galline sono due... 

Unica magrissima consolazione per Federica Pellegrini, solo quinta nei 400 stile libero di nuoto nonostante detenga il record mondiale: Laure Manaudou, sua rivale sia in piscina sia in amore, è arrivata ottava e ultima. E Federica, oltre all'oro del giorno dopo sui 200 metri, si gode il suo fidanzato Luca Marin, anch'egli olimpionico di nuoto, ex della Manaudou. 

Aldo Montano, lo sciabolatore livornese sciupafemmine, ha colpito anche durante la sfilata d'apertura: si è fermato due volte ai lati della pista per attaccare bottone con le belle volontarie cinesi. In mondovisione

I tassisti di Pechino non sanno dove andare senza l'indirizzo scritto in cinese. Così l'Ice (Istituto commercio estero) ha offerto un set di bigliettini con tutte le destinazioni più importanti. Compreso qualche locale notturno. Ma il club Suzie Wong, che abbiamo provato, ha imbarazzato qualcuno: troppe (bellissime) ragazze di vita cinesi. Avvistato Clemente Mimun, direttore del Tg5 

Va bene che «scrivere è sempre meglio che lavorare», come dice la battuta, ma molti giornalisti europei sono distrutti. Causa fuso orario, infatti, cominciano a lavorare al mattino alle sette, perchè alcuni siti olimpici sono lontani. E finiscono alle due di notte, perché fino alle otto di sera dalle redazioni in Europa arrivano richieste di notizie.

Lo sapevate che le Olimpiadi antiche sono durate ben 1169 anni? I greci cominciarono a gareggiare a Olimpia nel 776 avanti Cristo. Continuarono fino al 393 d.C., quando l'imperatore romano Teodosio, dopo avere imposto il cristianesimo come religione di stato, le proibì considerandole "rito pagano". 

All'inizio della cerimonia d'apertura il segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon è apparso sugli schermi con un messaggio registrato, ricordando la tregua olimpica che gli antichi greci osservavano scrupolosamente, sospendendo ogni guerra durante i Giochi. Invece solo poche ore prima di queste Olimpiadi Russia e Georgia ne hanno iniziata una nuova, di guerra

Friday, August 15, 2008

Giusy Ferreri ama l'Esselunga

Il Foglio, 14 agosto 2008

di Mauro Suttora

Giusy Ferreri, trionfatrice dell'estate 2008 con la canzone ‘Non ti scordar mai di me’ (di Tiziano Ferro), è in testa anche nella classifica Google dei video su Youtube. Ma questa volta la sua non è una performance musicale. La ex cassiera del supermercato Esselunga di Corbetta (Milano) è tornata sul luogo di lavoro a salutare le ex colleghe. E, sorpresa, si lancia in complimenti per l’azienda fondata e guidata da Bernardo Caprotti, che molti considerano poco meno di un fascistone: “Ho lavorato lì undici anni, sempre part time. Poi ad aprile, improvvisamente, la trasmissione X Factor mi ha preso. Così non mi sono presentata più al lavoro da un giorno all’altro. Mi rendo conto di quanto possa essere difficile per un supermercato la gestione dei ritmi di lavoro di ogni dipendente. Però i capi sono stati gentili con me.”

Ma come? Esselunga non era l’inferno dei lavoratori, con Caprotti che li sfrutta e tortura fino a costringere una cassiera del super milanese di viale Papiniano a farsi la pipì addosso lo scorso febbraio, perché le fu vietato di andare in bagno troppo spesso durante un turno massacrante?

Macché. Non solo Giusy è felice per il suo eterno ‘precariato’ (“Mi andava benissimo, 24 ore di part-time settimanale per mantenermi, e il resto del tempo libero per la musica”, ha detto al settimanale Oggi), ma addirittura ringrazia Esselunga per averle quasi salvato la vita: “Ho iniziato a lavorare lì a 19 anni. Ero una disperata in tutto e per tutto, non sapevo quanto sarei stata capace di adattarmi alle regole di un’azienda molto seria. Invece lavorare nel supermercato mi ha cambiata positivamente: mi ha dato il senso della responsabilità, del rispetto e di tante cose. Mi ha fatto maturare tantissimo.”

Responsabilità, regole, rispetto, serietà? Da quanto tempo parole così non uscivano dalla bocca di un artista, nella nostra Italia parastatale e assistita in tutto, ma eternamente ribelloide a parole? Eppure Giuseppa Gaetana Ferreri da Abbiategrasso, 29 anni, uno e 53 di altezza, figlia di immigrati siciliani, quindici anni di gavetta musicale prima del miracolo X Factor (il programma Raidue che l’ha lanciata) non è una perbenista. Guardate per esempio, sempre su Youtube, il video della canzone che era riuscita a incidere tre anni fa: ‘Il Party’. Lì Giusy, che allora in arte si faceva chiamare Gaetana, faceva la sexissima con tanto di serpente (vivo) al collo, e orgiasticamente sospirava: “Il sesso si fa in tre, e anche in più di tre…”

La sua cantante-mito, fin da quando la vide in tv a nove anni, è Guesch Patti. Ricordate? Quella che simulando un coito urlò a Sanremo: “Etienne, tiens-le bien!” (“Tienilo ben stretto, Stefano”). I suoi scrittori preferiti? Ovviamente il maledetto Charles Bukovski, come per ogni punk che si rispetti, oltre a un inaspettato Erich Fromm con ‘Avere o Essere’.

Certo, per agguantare il successo di ‘Non ti scordar mai di me’ Giusy ha dovuto darsi un’aggiustata. Ora si esibisce in tailleur anni Sessanta, i suoi video sembrano girati da un nostalgico Almodovar. Anche il singhiozzo sincopato, principale caratteristica del suo nuovo modo di cantare, fa molto Shirley Bassey. Ma il realtà gli esperti di X Factor l’hanno modellata su quanto di più trasgressivo esista oggi sul mercato: la tossica inglese Amy Winehouse, drogata, alcolizzata e maleducata.

Invece nella vita vera Giusy cinguetta con il suo ex padrone. Per la verità ha cominciato Caprotti, che invece di licenziarla per assenteismo si è comportato da gentleman: “Dopo averla ammirata in tv le ho fatto recapitare una cassa di champagne”, ha dichiarato in una rara intervista, con impeccabile stile cumenda lombardo.
A 82 anni l’inventore del primo supermercato italiano (nel ’57, Esselunga di viale Regina Giovanna a Milano) sta assaporando pure lui un successo di pubblico: quello del suo libro ‘Falce e Carrello, le mani sulla spesa degli italiani’ (ed. Marsilio, 2007), querelato dalle Coop per diffamazione, spionaggio industriale e diffusione di notizie false.

La Giusy invece è la colonna sonora d’agosto col suo tormentone. Perfetta lombarda d’adozione e parsimoniosa, racconta nel suo accento val d’Olona: “Grazie ai soldini dell’Esselunga, risparmiando per anni, ero appena riuscita a comprarmi, oltre alla Citroen C4 per andare al lavoro ogni venerdì, sabato e domenica, anche una casetta col mutuo.”

Ora il mutuo può estinguerlo subito con i soldi del successo. Ma dalla Esselunga non si è ancora licenziata: “Sono in aspettativa per sei mesi. Non si sa mai.”

Saturday, August 09, 2008

Inaugurazione olimpica in Cina

QUATTRO ORE DI NOIA A COLORI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2008

Pechino. Non ha piovuto. Ma è stato il caldo a rendere insopportabile l’inaugurazione interminabile (oltre quattro ore) delle Olimpiadi ieri sera. Gli ospiti anche illustri – per esempio l’89enne Edoardo Mangiarotti, unico plurimedagliato reduce dai Giochi di Berlino 1936 – sono stati costretti ad arrivare allo stadio con ore di anticipo.

La solita scusa: i controlli di sicurezza. Ma in realtà gli organizzatori hanno bloccato l’arrivo delle navette alle 18, due ore prima dell’inizio, perché volevano strade completamente libere per i supervip: gli 80 capi di stato e di governo che hanno affollato la tribuna d’onore solo a pochi minuti dall’inizio.

Un successo per il presidente cinese Hu Jintao, capelli laccati come sempre, che ha inaugurato i Giochi dopo il presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale) Jacques Rogge. Accanto a lui, sotto a Bush e Sarkozy, l’intera gerontocrazia impettita del regime.

A tutto il pubblico sono stati distribuiti tamburini, torce, bastoni illuminati di ogni colore, un foulard rosso e bandierine cinesi da sventolare (ai giornalisti quelle bianche con i cinque cerchi olimpici). Il regista del grandioso spettacolo, il cinese Zhang Yimou subentrato a Steven Spielberg ritiratosi in febbraio per il Darfur, ha voluto coinvolgere tutti gli spettatori.
Ma nella notevole porzione di tribune riservata ai media la parte più apprezzata dello stadio sono state le toilettes, perché dotate di aria condizionata. Più che la prostata poté il sudore, e le permanenze in gabinetto con l’unico scopo di rinfrescarsi si sono moltiplicate.

Per gli amanti del genere, il megakitsch olimpico quest’anno è stato ancora più mega delle edizioni passate. E gli annunciatori ufficiali hanno puntualizzato il numero dei fuochi d’artificio, di danzatori dei balletti, di spettatori sperati nel mondo (“Quattro miliardi, mai prima d’ora”), e perfino del numero di abitanti della Cina (“Uno su cinque nel pianeta”). Elegantissime e coloratissime tutte le delegazioni degli atleti.

Da oggi per fortuna cominciano le gare, cosicché si spera che il patriottismo profuso a piene mani dalla nomenklatura si stemperi nella quotidianità dei risultati.

Commovente l’impegno delle decine di migliaia di ragazzi cinesi volontari, il quintuplo del necessario. Ce li ritroviamo appresso dappertutto, con le loro magliette azzurre: appena arrivati in aeroporto per vidimarci gli accrediti, nelle hall di tutti gli alberghi per scriverci in cinese gli indirizzi da fornire ai tassisti che non sanno mai dove andare, sui marciapiedi vicino a tutti i siti olimpici per incanalarci ai controlli, e perfino a Casa Italia, la struttura messa in piedi da ambasciata italiana a Pechino e Coni, dove alcune bellissime ragazze presidiano impalate gli angoli, e altre sono utilizzate per servire i caffè e a distribuire pezzi di parmigiano reggiano.
Il loro sorriso contagioso è la migliore arma del regime, anche se non parlano una parola d’italiano, poche parole d’inglese, e quelle poche con pronuncia incomprensibile. Ma la buona volontà è tanta, e va bene così.

Efficientissimi invece i poliziotti in borghese che a piazza Tian an men bloccano in pochi secondi chiunque tenti una piazzata per il Tibet o qualsiasi delle numerose cause di protesta oggi in Cina. Hanno sviluppato una nuova tattica per non farsi inquadrare dalle telecamere: coprono gli spiacevoli trascinamenti per terra dei manifestanti con gli ombrelli usati per mascherarsi da turisti in cerca di riparo dal sole. Uno degli energumeni che l’altro giorno ha neutralizzato due cristiani evangelici americani indossava una maglietta azzurra con la scritta Italia, cosicché a prima vista in mondovisione è sembrata una zuffa fra connazionali.

Ieri i giornali cinesi hanno risposto furiosamente al ben calibrato appello di Bush per la liberazione dei dissidenti politici. Ma gli argomenti sono apparsi ammuffiti: l’editoriale di Op Rana sul China Daily, per esempio, ha riesumato citazioni di Mao Zedong e Marx.

In realtà sono passati trent’anni dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, e tutte le speranze di un traino economico che porti libertà politiche sono totalmente deluse. Oggi il modello di Pechino, anche architettonicamente e urbanisticamente, sembra il tecnofascismo di Singapore. Con un po' di grandiosità olimpica mussoliniana e hitleriana. Così forse a qualche spettatore occidentale stremato ieri sera è venuto il sospetto, sotto il sudore, di essere il solito utile idiota.

Mauro Suttora

Sotto il cielo di Pechino gran casino

di Mauro Suttora

Libero, 9 agosto 2008

Caro direttore,
sono a Pechino da due giorni, ma ho visto soltanto dieci minuti di sole. E non per colpa delle nuvole. Il cielo è oscurato da una nebbia costante, che le autorità locali chiamano “foschia” e il resto del mondo smog. Cos’è in realtà questo grigio opprimente e deprimente? «Umidità», giura il capo del Bocog, sigla inquietante che però significa solo “Beijing Organizing Committee Olympic Games”. Ma un reporter guastafeste della Cnn ieri ha mostrato un suo misuratore delle polveri sottili, che dava più di 200 mentre il limite massimo è 50.

Nebbia, governo ladro? Per carità, non possiamo incolpare i gerarchi comunisti perfino per il brutto tempo e l’inquinamento. La lista delle loro colpe è già abbastanza sterminata, dati gli stermini di tibetani, uiguri, birmani, seguaci Falun Gong e pure darfuriani nel lontano Sudan. Il problema è che loro si offendono anche per questo: se qualcuno osa mettere in dubbio – o, come ha fatto la Cnn, ridicolizzare – le verità ufficiali, il presidente Hu Jintao, più suscettibile di un pugliese, lo piglia come un attacco personale. E a tutti i cinesi. Il furbone.

A questo pensavo ieri mattina, dopo che la cameriera del mio albergo ha infilato una copia di China Daily sotto la porta della camera. Il quotidiano ufficiale della Cina in lingua inglese (ma qui tutti i giornali e tv sono del governo) era pieno di attacchi al bel discorso che il presidente Usa George Bush aveva pronunciato a Bangkok prima di atterrare con la famiglia intera (moglie, figlia, padre, fratello, sorella) a Pechino per l’inaugurazione delle Olimpiadi.
«La Cina deve permettere libertà di associazione, stampa e sindacato e deve smettere di incarcerare i dissidenti politici», ha chiesto Bush, aggiungendo però intelligentemente: «Lo dico non per attaccare la Cina, ma perché questo è l’unico modo che ha per dispiegare appieno il suo potenziale».
Insomma, per evitare di essere così paranoici da negare perfino l’evidenza della cappa di bruma velenosa che avvolge in permanenza la capitale.

Invece agli agitprop del regime la lingua batte dove il dente duole: il commentatore di China Daily Op Rana accusa a sua volta di «paranoia» i media occidentali che attaccherebbero la Cina perché hanno paura di chissà che cosa.

Questa è la debolezza dei regimi totalitari: che vorrebbero controllare la totalità della vita, e quindi si sentono in colpa anche per il brutto tempo.

In questi giorni tutti noi, giornalisti e atleti, stiamo incontrando persone squisite, di una gentilezza quasi commovente. Già all’aeroporto una folla di giovani volontari dietro a un tavolo avrebbe voluto vidimare il mio accredito, se un qualche misterioso inghippo burocratico ai loro computer non glielo avesse impedito. Ci sono rimasti più male loro di me. Ha rimediato uno sciame di ragazzine all’entrata dell’immensa sala stampa, poche ore dopo.

Ma non mi sogno di accreditare al presidente Hu Jintao la cordialità spontanea dei cinesi, così come non gli imputo l’ignoranza dei tassisti di Pechino che la metà delle volte non sanno dove andare, nonostante gli si mostri l’indirizzo scritto in cinese (sto rivalutando perfino la corrusca categoria dei tassisti romani, in questi giorni).

Né è colpa dei dittatori comunisti se ieri sera nello stadio dell’inaugurazione c’erano 38 gradi con 95 per cento di umidità. Ci hanno fatto arrivare con due ore di anticipo, sottoponendoci a un infinito zigzag di controlli, file, raggi x, navette obbligatorie per percorrere 200 metri, eccetera. Ma questo è probabilmente il prezzo che bisogna pagare ai terroristi per assicurarsi sicurezza, magari aggravato da qualche stupidità burocratica.
In fondo anche noi italiani abbiamo militarizzato mezza città sette anni fa per il G8 a Genova. O forse le Olimpiadi sono avvenimenti così elefantiaci che è impossibile organizzarli senza rompere molto le balle sia ai partecipanti che agli abitanti locali.

Anche qui, però, se osi dire qualcosa i politici lo prendono come un attacco politico. Ma basta parlare in confidenza con qualche cinese – come ho fatto con un collega giornalista – per sentire tutte le normali lamentele di tutti i normali cittadini di questo mondo: “Non hanno permesso alla gente neppure di avvicinarsi allo stadio per vedere i fuochi d’artificio dell’inaugurazione, hanno bloccato l’accesso a chilometri di distanza… E da anni a Pechino non ci sono più concerti di gruppi rock e star straniere, perché tutti gli stadi e i palasport esistenti erano in restauro…»

Il mio interlocutore che non nomino non per paranoia, ma perché i giornalisti cinesi che sgarrano finiscono in carcere, aggiunge che la cantante islandese Bjork ultimamente ha inneggiato al Tibet durante un suo concerto in Cina, e che quindi le popstar non sono amate dal regime.

Caro direttore, ho sudato come un suino durante l’interminabile e per me noiosissima cerimonia di ieri era. Ma non incolpo il dittatore Hu, perché il kitsch è una disgrazia mondiale. Però ho il sospetto che i migliori amici dei cinesi – oltre che dei tibetani – ieri non fossero a Pechino, ma ad Assisi, alla marcia dei radicali. E lì splendeva il sole.

Mauro Suttora

Friday, August 08, 2008

Olimpiadi Pechino

dall' inviato Mauro Suttora

Pechino, (Cina), 6 agosto 2008

Ci siamo. È arrivato il 08.08.08, data simbolica che i cinesi hanno scelto per l’inizio della 29esima Olimpiade moderna. L’otto qui è considerato un numero fortunato, quindi anche la cerimonia d’inaugurazione comincia alle otto di sera. Per sedici giorni Pechino è sotto gli occhi del mondo, e come tutti i regimi autoritari la Cina ha trasformato questo avvenimento in una grande occasione di orgoglio patriottico.

I cinesi possono in effetti essere fieri dei successi economici ottenuti negli ultimi decenni, che hanno trasformato il vecchio Paese comunista in una superpotenza industriale. Ma il boom è avvenuto a spese dell’ambiente: oggi Pechino è avvelenata dall’inquinamento. E la liberalizzazione economica non ha portato democrazia: le libertà elementari (di parola, stampa, riunione, manifestazione, voto) sono ancora sconosciute in Cina.

Detto questo, che la festa dello sport cominci. E aspettiamoci due settimane di spettacoli avvincenti, con i migliori campioni del pianeta che si sfidano allo spasimo. Non c’è record del mondo, infatti, che valga quanto una medaglia d’oro olimpica.

Quali atleti passeranno alla storia grazie a questi giochi? Chi saranno i Mennea e i Mark Spitz di Pechino? Negli ultimi due mesi vi abbiamo presentato i nostri campioni, probabili candidati italiani al podio olimpico: dalle ragazze della ginnastica ritmica alla pingponghista italocinese Wen-ling, dalla canoista Josefa Idem ai nuotatori Magnini e Pellegrini, da Valentina Vezzali e Aldo Montano (scherma) ai ginnasti Igor Cassina e Vanessa Ferrari, fino ai judoisti Ylenia Scapin e Roberto Meloni. Oltre, naturalmente, alle celebrità Antonio Rossi (il canoista portabandiera), il ciclista Paolo Bettini, Tania Cagnotto (tuffi), le veliste Conti e Micol, il saltatore in lungo Andrew Howe, Matteo Tagliariol (spada), lo sciabolatore Luigi Tarantino, il pugile Roberto Cammarelle. E le squadre femminili di pallanuoto e pallavolo.

Queste sono le superstelle italiane. E quelle internazionali? L’atletica leggera resta la regina delle Olimpiadi. Le sue gare iniziano solo nella seconda settimana, a Ferragosto. Nei 100 metri maschili ci sarà un duello a tre: i giamaicani Usain Bolt, 22 anni (che due mesi fa ha stabilito il nuovo record mondiale con 9”72) e Asafa Powell, 25 (record precedente, ottenuto a Rieti lo scorso settembre), contro lo statunitense Tyson Gay, 25. Tre impressionanti macchine da corsa, fasci di muscoli allo stato puro, che però dovranno stare attenti anche al lato psicologico. Alle Olimpiadi di Atene nel 2004, infatti, Powell arrivò solo quinto nonostante fosse superfavorito.

Una beniamina del pubblico italiano è diventata la saltatrice con l’asta russa Elena Isinbaeva, 26 anni. Prima donna nella storia a volare oltre i cinque metri, lo scorso 11 luglio ha incantato gli spettatori dello stadio Olimpico a Roma superando se stessa. Ha infatti portato il nuovo record mondiale a 5,03. È la ventesima volta che migliora il suo primato: nel 2003 era ancora a 4,82. Prima di ogni salto compie strani riti per concentrarsi: si sdraia, si copre il viso con una salvietta. Poi, quando ha già in mano l’asta, mormora parecchie parole che nessuno è finora riuscito a decifrare. «Non ve le dirò mai, è il mio segreto», dice.

Un’altra leggenda del salto (in alto) è la dalmata Blanka Vlasic, nata a Spalato 24 anni fa. Praticamente un mostro: ha vinto tutte le ultime trenta gare cui ha partecipato. Alta 1 e 93, è allenata dal padre. Purtroppo se l’è trovata sulla sua strada la nostra Antonietta Di Martino, che nonostante sia alta 1 e 69, cioè ben 24 centimetri meno della gigantesca croata, l’anno scorso ai mondiali di Osaka è finita seconda dietro di lei saltando due metri e tre. La Di Martino è nata nel ‘78: esattamente quando Sara Simeoni stabilì il record italiano di 2,01 che ha resistito fino all’anno scorso, per quasi trent’anni, fino ad Antonietta. La quale però negli ultimi tempi è apparsa un po’ appannata rispetto alla scorsa fantastica stagione.

I record del salto in alto femminile sono tutti assai duraturi. Forse siamo arrivati quasi al massimo delle capacità umane. Chissà se a Pechino Blanka riuscirà a battere quello mondiale di 2,09, che resiste da ben ventun anni: lo stabilì la bulgara Stefka Kostadinova a Roma nei mondiali dell’87.

Sempre in tema di record, sarà interessante seguire le imprese del cavaliere giapponese Hiroshi Hoketsu. Non a Pechino, perché tutte le gare di equitazione si svolgono a Hong Kong. Hoketsu è il «nonno» delle Olimpiadi: ha 67 anni, non c’è atleta più vecchio di lui. Partecipò ai giochi di Tokio del ‘64, senza per la verità brillare: finì quarantesimo nel salto a ostacoli. Ora è passato al più tranquillo dressage.
Non è comunque il concorrente più anziano nella storia delle Olimpiadi: il tiratore svedese Oscar Swahn aveva ben 72 anni quando vinse l’argento ad Anversa nel 1920.

Tom Daley è invece la superstar più giovane di questi Giochi. Ha compiuto 14 anni a maggio, e ciononostante potrebbe salire sul podio nei tuffi dalla piattaforma. Nel 2006 fu escluso dai Giochi del Commonwealth perché era troppo piccolo. Ancora cinque anni fa scoppiava a piangere dalla paura quando doveva tuffarsi all’indietro dai dieci metri. Ora invece gareggia con disinvoltura, e dedica le sue vittorie al papà, un elettricista che ha dovuto smettere di lavorare due anni fa per un tumore al cervello.

Il re delle piscine mondiali è indiscutibilmente Michael Phelps. Il fenomeno statunitense vuole battere il record di Spitz a Monaco ‘72, conquistando una medaglia d’oro in più delle sue sette. Per questo gareggia nei 200 e 400 misti, nei 100 e 200 farfalla, nei 200 stile libero e in tre staffette.
Questo 23enne di Baltimora conquistò il suo primo record mondiale nei 200 farfalla nel 2000, ad appena 15 anni. Ad Atene vinse sei ori e due bronzi. Il suo tallone d’Achille è lo stile libero, e nella staffetta mista qualche suo concorente ha protestato perché preferiscono lui ad altri più bravi, solo per permettergli di gareggiare in otto specialità. Otto medaglie in una sola Olimpiade comunque le aveva vinte solo un ginnasta russo nel 1980, quando però i Giochi di Mosca furono boicottati da Stati Uniti, Germania Ovest e altri 58 Paesi occidentali e musulmani per protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Quest’anno la Cina mira a superare gli Stati Uniti nel medagliere. L’atleta cinese più famoso nel mondo è Yao Ming, gigante 27enne alto 2,29 per 134 chili di peso, che gioca nella squadra di basket americana di Houston. Guiderà i cestisti cinesi contro lo squadrone statunitense, superfavorito e soprattutto spinto dalla voglia di cancellare la figuraccia rimediata ad Atene quattro anni fa (bronzo dietro ad Argentina e Italia).

Anche nella squadra di pallacanestro Usa spiccano personaggi celebri in tutto il pianeta, come Kobe Bryant. Ormai trentenne, il campione dei Los Angeles Lakers è da anni il miglior cestista mondiale. Parla perfettamente l’italiano perché è cresciuto in Italia, quando suo padre giocava nel nostro campionato. Nel 2003 fu accusato di stupro da una 19enne, ma alla fine è stato assolto perché lei era consenziente.

Sempre nel campo degli atleti professionisti pagati milioni di euro (in barba alla regola olimpica del dilettantismo), spiccano i nomi dei tennisti. Nel maschile sarà una questione fra lo svizzero Roger Federer, lo spagnolo Rafael Nadal e il serbo Novak Djokovic. E anche le favorite donne ricalcano le classifiche internazionali, come se fossimo a Wimbledon: le serbe Ana Ivanovic e Jelena Jancovic, e le sorelle Williams che gareggeranno anche nel doppio per gli Usa.

Il calcio, infine. Lo sport più popolare del mondo non può mancare dalle Olimpiadi, il torneo è cominciato due giorni prima della cerimonia d’apertura, si svolge in varie città della Cina (anche Shangai) ed è quello che dura di più: per la finale occorre attendere il 23 agosto. Ma anche qui c’è un grosso equivoco. Alcune squadre sono zeppe di professionisti, mentre altre (come l’italiana Under 23) mandano compagini minori. Ci saranno i milanisti Ronaldinho e Pato per il Brasile, ci sarà la superstar del Barcellona Lionel Messi per l’Argentina. L’Italia punta egualmente in alto. Ma finora abbiamo vinto solo nel 1936, a Berlino. Peggio di noi solo il Brasile: i cinque volte campioni del mondo non hanno mai conquistato un oro olimpico.

Mauro Suttora

Monday, August 04, 2008

Olimpiadi: ginnastica ritmica

LE FARFALLE DELLA GINNASTICA SIAMO NOI

La squadra vola in Cina a inseguire una medaglia

di Mauro Suttora

Roma, 30 luglio 2008

Siccome Desio sta in provincia di Monza, la battuta viene fuori spontanea anche se scontata: «Siete un po’ come delle monache...» Nel qual caso la badessa sarebbe Emanuela Maccarani, 41 anni, da dodici allenatrice della squadra nazionale di ginnastica ritmica. Che dal 2003 ha vinto tutto il vincibile: «Quarantun medaglie fra olimpiadi, campionati mondiali ed europei, coppe del mondo».

Dieci ragazze dai 16 ai 23 anni vivono assieme tutto l’anno nell’hotel Selide di Desio e si allenano ogni giorno nel palasport per otto ore. «Quattro al mattino e quattro al pomeriggio», dice l’allenatrice. E se qualche mattino volteggiano solo per tre ore, al pomeriggio si recupera: cinque ore. Ma perché proprio Desio? «Perché ha un palasport bellissimo che ci dà la possibilità di allenarci tutto il giorno».

Disciplina ferrea dal 2001, quando iniziò la residenza permanente in Brianza. Sotto la guida della Maccarani, delle sue assistenti (la chietina Eva D’Amore, la bergamasca Valentina Rovetta), della coreografa Nathalie Van Cauwenberghe e della direttrice nazionale Marina Piazza. D’estate il gineceo si trasferisce a Follonica (Grosseto), ma i ritmi restano gli stessi.
Anche le ragazze sono le stesse da molti anni. Le veterane sono «le due Elise», come le chiama l’allenatrice: la capitana Santoni di Roma e la Blanchi da Velletri (Roma), entrambe ventenni. Anche Marinella Falca, 22, da Giovinazzo (Bari) è in ritiro permanente a Desio da sette anni. Completano la squadra titolare Fabrizia D’Ottavio (Chieti) e Daniela Masseroni da Trescore Balneario (Bergamo), entrambe 23enni. Infine la new entry Angelica Savrayuk, 18, da Arezzo.

Alle olimpiadi di Atene, quattro anni fa, hanno entusiasmato l’Italia vincendo l’argento. A Pechino la squadra da battere sarà sempre la Russia. «Ma temiamo anche Bielorussia, Bulgaria, e le cinesi che gareggiano in casa», dice la Maccarani.
Partono per la Cina il 12 agosto, dopo la cerimonia d’apertura, perché le loro gare iniziano solo il 21 agosto (esibizione con le funi), per poi proseguire con i cerchi e infine il 23 le finali con le migliori otto squadre (su solo dodici ammesse).

La ginnastica ritmica è stata introdotta da poco nelle Olimpiadi: le prime gare individuali a Los Angeles nel 1984, le squadre ad Atlanta nel ’96. Ma la popolarità è in crescita, perché le esibizioni sono spettacolari: un misto fra ginnastica, danza e pattinaggio su ghiaccio. Ogni esercizio dura due minuti e mezzo, e lì dentro finiscono gli sforzi di una vita.

Ai campionati europei di Torino, in giugno, è andata molto bene. Era la prima volta dopo 22 anni che un evento internazionale si svolgeva in Italia, e il palasport era pieno: ottomila spettatori che si sono messi a fare la ola quando le nostre «farfalle azzurre» hanno vinto l’oro alle cinque funi e l’argento, dietro alla solita Russia, ai cerchi e clavette.

Un successo di pubblico che ha avuto una ripercussione anche sul piccolo schermo: il campionato trasmesso di pomeriggio su Raitre ha avuto un milione e 300 mila spettatori con il 14 per cento di share. Il doppio di altri sport e perfino più di certe gare di ciclismo, il tutto per la felicità del presidente di Federginnastica Riccardo Agabio.
Ma chi sono le nostre sei campionesse, che a Pechino volteggeranno accompagnate dalla musica di due colonne sonore (Blood Diamonds, il film con Leonardo DiCaprio, e Il Gladiatore)?

La popolarità della romana Elisa Santoni l’abbiamo saggiata in un afoso pomeriggio domenicale di giugno nel palasport della sua città, quello costruito al Flaminio per le olimpiadi del 1960 dall’architetto Pierluigi Nervi. La squadra nazionale si esibiva alla festa di fine anno della squadra di ginnastica Polimnia, e centinaia di ragazzine urlanti applaudivano dagli spalti.

Elisa, cosa fai nel convento... pardon, nel collegio di Desio, durante il tempo libero? «Ascolto le canzoni di James Blunt, leggo i libri di Dan Brown e Coelho. E studio: sono iscritta al primo anno di Scienza delle comunicazioni all’università di Bergamo, anche se finora sono riuscita a dare solo un esame».

Tutte le ginnaste maggiorenni dall’anno scorso sono state arruolate nell’Aeronautica militare, con il grado di «aviere scelto». Il che, in concreto, significa due cose: ricevere uno stipendio di mille euro mensili, e contare su un lavoro quando finisce la carriera. Il che avviene crudelmente presto: a 23 anni le ginnaste sono già vecchie.
«Sì, l’idea di lavorare in aeronautica mi piace: anche mio nonno era aviere», dice l’altra Elisa, la Blanchi. La quale rivela che tanto «suore» queste belle ragazze non sono, anche se soltanto una risulta fidanzata: «Al sabato sera prendiamo la macchina e ce ne andiamo tutte assieme a Milano, in zona corso Como, dove ci sono i locali. Il mio preferito è il Tocqueville».

Alla barese Marinella piace ballare l’hip hop, mentre l’aretina Angelica confessa la sua passione segreta: leggere I love shopping e gli altri libri della Kinsella. Angelica è l’unica delle titolari a dover fare ancora la maturità: nel ritiro di Desio è possibile studiare da privatiste, e tutte hanno superato l’esame.

Queste ragazze ovviamente hanno una motivazione fortissima, quindi spesso per loro è stato importante l’esempio di una ginnasta già famosa della loro città: «Da piccola guardavo Valentina Rovetta e sognavo di diventare brava come lei», ci dice la bergamasca Daniela. Altre piccole città-vivaio con società di ginnastica capaci di esprimere una campionessa ad ogni generazione sono Chieti, Arezzo, Prato.

La teatina Fabrizia, per esempio, che ha cominciato a far ginnastica a cinque anni, ha avuto come faro Eva D’Amore, che adesso la allena: «Nel tempo libero mi piace ascoltare i Pink Floyd. I miei attori del cuore sono Raoul Bova, Ben Affleck e Brad Pitt. In tv guardo sempre Zelig».
Ora in tv vi ammireremo noi, dal 21 al 23 agosto. Volate, farfalle azzurre.

Mauro Suttora

Friday, August 01, 2008

Karadzic: parla Francesco Tullio

LA DIFESA SPREZZANTE DI KARADZIC LETTA DA UN COLLEGA PSICHIATRA

Il dottor Tullio ci spiega la strategia del "macellaio di Srebrenica". Il "patto" con Holbrooke e le ripercussioni americane

Il Foglio, 1 agosto 2008

Radovan Karadzic si è presentato davanti al Tribunale dell'Aia, sbarbato e ripulito, e ha deciso di difendersi orgogliosamente da solo dalle accuse di genocidio e crimini di guerra. Ha iniziato, durante l'udienza preliminare, sostenendo di avere un accordo con gli Stati Uniti che gli garantiva la libertà in cambio della sua uscita di scena. Un accordo siglato con Madeleine Albright, allora al dipartimento di stato, e con Richard Holbrooke, la mente degli accordi di pace di Dayton del 1995.

Il diplomatico americano ha seccamente smentito, aggiungendo di essere pronto ad andare a testimoniare all'Aia. Ma già nel pomeriggio di ieri alcuni analisti sottolineavano che la vicenda potrebbe diventare sensibile per la campagna elettorale statunitense: sia Albright sia Holbrooke infatti sono consulenti del candidato democratico Barack Obama, anche se non direttamente coinvolti nella campagna elettorale (fanno parte di quei 300 advisor che aiutano Obama a definire la sua strategia di politica estera, fra cui molti ex clintoniani).

Karadzic persegue un unico obiettivo: la destabilizzazione, per cui getta ombre sul suo arresto. considerato un successo dalla comunità internazionale.

“Nell’ex Jugoslavia oggi circolano altri diecimila assassini che hanno torturato e ucciso a sangue freddo, a Srebrenica e altrove. Ottima quindi la cattura di Radovan Karadzic, a meno che non se ne faccia il solito capro espiatorio, e liberatorio per tutti gli altri. Compresi noi occidentali che a Srebrenica non siamo intervenuti, e quindi siamo stati suoi complici passivi”.

Il dottor Francesco Tullio è uno psichiatra, ma impegnato da trent’anni sul fronte opposto a quello di Karadzic.
Parlando con il Foglio spiega quel che è successo e la psicologia di Karadzic, la sua difesa, il "patto col diavolo" denunciato per destabilizzare la comunità internazionale.
“Nel ’94 ero il responsabile medico della marcia di Sarajevo, 500 pacifisti italiani guidati dal vescovo di Molfetta Tonino Bello. Andammo dal generale serbo Velibor Veselinovic, che comandava gli assedianti. Quello promise di non spararci, e mantenne la parola”.

Così cominciò la carriera di peacekeeper del dottor Tullio: “Ganic, vicepresidente dei bosniaci musulmani assediati, ci mandò dai serbi per chiedere di riaprire i tubi dell’acqua. Quelli di Karadzic ci risposero: ‘Ok, ma per farlo abbiamo bisogno dell’elettricità, che invece hanno loro’. Tornammo da Ganic per proporre questo scambio. Ma non ci fu risposta”.

Tullio, militante pacifista, ha pubblicato studi studi per il Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa italiano, è stato visiting professor all’università di Belgrado e ha collaborato con l’ufficio Onu della Farnesina. Il suo ultimo libro, ‘Il brivido della sicurezza - Psicopolitica del terrorismo’ (ed. Franco Angeli), è stato recensito un mese fa dall’Osservatore Romano. “Partendo dal conflitto dell’ex Jugoslavia ho descritto la relazione fra capo e massa nelle situazioni di polarizzazione bellica. E il rapporto fra crisi politico-economica, crisi psichica e attivazione distruttiva quando gli impulsi collettivi prevalgono sull razionalità”.

Niente di nuovo: la spirale perversa di Karadzic è simile a quella di Hitler ampiamente analizzata da Erich Fromm e tanti altri. Ma i ‘volenterosi esecutori’ del capo serbo sono ancora in Bosnia,e con gli estremisti delle altre fazioni rendono impossibile la partenza del contingente militare internazionale. Il generale genocida Ratko Mladic è latitante.

“La Serbia”, aggiunge Tullio, “è tuttora spaccata fra i nazionalisti e gli europeisti del presidente Tadic, che sperano di superare i revanscismi con l’entrata nell’Unione. Ma il complicato rapporto capo/massa rimane. I nazionalisti di Seselj cavalcano la tigre dei risentimenti esattamente come fece Karadzic, alimentando il circolo vizioso vittimismo-frustrazione-aggressività. Lo fanno tutti i politici del mondo, d’altronde. Ma in un contesto di crisi economica, come quello della Bosnia negli anni ’90, infiammare gli odi era un gioco da ragazzi. I serbi vedevano che l’intero ricco Occidente inondava di soldi Slovenia e Croazia, e siccome nessuno li ascoltava reagivano col fucile”.

Perché, i serbi avevano qualche ragione? “Non avevano ragione, ma noi occidentali dovevamo ascoltarli. Tutti i conflitti, anche i peggiori, si disinnescano con l’ascolto attivo. Altrimenti resta solo la violenza, che chiama altra violenza”.

Mauro Suttora

Wednesday, July 30, 2008

Ferrovie del Gargano

IL TRENO DEL MARE

dall'inviato Mauro Suttora

Peschici (Foggia), 30 luglio 2008

L'Alfa si chiama Romeo perché dal 1915 al '28 fu di proprietà dell'ingegnere Nicola Romeo. E questo geniale napoletano è stato anche l'inventore della Ferrovia garganica. La quale, inaugurata nel '31, conquistò subito due record. Il primo: è una delle rare opere pubbliche italiane a essere stata completata in anticipo, tre anni invece dei quattro previsti. Secondo primato: i 79 chilometri a scartamento normale (non ridotto come le altre ferrovie locali) furono fin dall'inizio a trazione elettrica a corrente continua. Un sistema all'avanguardia per l'epoca, in anticipo di ben trent'anni rispetto all'elettrificazione della Ancona-Pescara-Bari.

Il Gargano si trovò quindi improvvisamente catapultato nella modernità, dopo secoli di arretratezza feudale.
Oggi si parte da San Severo (Foggia) con undici corse al giorno. Quelle delle 8.40 e delle 9.20 sono ad aria condizionata e con trasporto bici (prenotarsi al 0884.561020), così come le corse di ritorno in partenza da Peschici alle 16.03 e alle 17.22. Il viaggio intero dura un'ora e 40 minuti, ma la maggior parte dei turisti si ferma alle stazioni intermedie. Le carrozze sono moderne: «Le abbiamo appena revampizzate, cioè rinnovate totalmente», ci dice Franco Settimo, il funzionario delle Ferrovie del Gargano che ci accompagna.

Ovviamente nessuno nasconde che, con i quattro euro e 60 cent del costo del biglietto, il servizio è in perdita. È un miracolo che il trenino dello sperone d'Italia sia sopravvissuto ai drastici tagli dei rami secondari negli anni Sessanta, che hanno mietuto tante illustri vittime (dalle ferrovie delle valli Seriana e Brembana a Bergamo, alla sarda Tempio-Palau). Ma la società Ferrovie del Gargano gestisce anche molte linee di corriere, anzi è la maggiore azienda di trasporto pubblico in provincia di Foggia. Può quindi permettersi di ripianare il deficit del delizioso trenino.

Da San Severo a San Nicandro Garganico (da non confondere con l'altro Sannicandro pugliese, vicino a Bari) il panorama è il classico del Tavoliere: immensi campi coltivati a cereali in quello che è da sempre uno dei granai d'Italia. Intanto la ferrovia si alza, e a sinistra si apre una vista spettacolare sul lago di Varano. Purtroppo quasi tutte le stazioni si trovano a una certa distanza dai paesi, ma in coincidenza degli arrivi ci sono dei bus-navetta che portano in centro.

Per arrivare nella deliziosa Vico Garganico, per esempio, bisogna scendere nella stazione costiera di San Menaio, fra Rodi e Peschici. Lo stesso capolinea di Peschici si trova in realtà a quattro chilometri dal paese, nella baia di Calenella. Il tratto più bello della linea è proprio l'ultimo, a picco sul mare blu nel verde della pineta Marzini. Ma è divertente guardare fuori dal finestrino anche nel tratto prima e dopo Rodi, quando i binari costeggiano a lungo le spiagge di sabbia finissima affollate di ombrelloni colorati. Ogni tanto il macchinista scende per azionare manualmente gli scambi. Quest' estate, fino a metà agosto, le Ferrovie del Gargano organizzano otto serate di "Teatro in treno", con spettacoli itineranti in carrozza.

Le coste del Gargano sono un paradiso per i campeggiatori e per le famiglie di mezza Europa, che trovano anche accoglienti alberghi villaggio con la formula dell' all inclusive (pensione completa più intrattenimento). le perle dello sperone Le due perle dello sperone sono Peschici e Vieste. Visitatele quando il sole non è a picco. Di sera si trasformano in presepi bianchi, con la folla brulicante fra vicoli e piazzette. Non hanno nulla da invidiare a Capri.

Nei giorni particolarmente caldi, rifugiatevi nella stupenda Foresta umbra. Fino al ' 700 l' incubo di queste coste erano i pirati turchi, che depredavano e uccidevano. Vieste ebbe settemila sgozzati nel ' 500. Così sulla costa furono costruite le "torri saracene", per avvistare in tempo i predoni. Oggi invece le disgrazie vengono dai piromani, che anche l' anno scorso hanno ridotto in cenere parecchi ettari di bosco.

Il Gargano è sempre stato una terra religiosa, anche prima di Padre Pio (il santuario di San Giovanni Rotondo, come si vede nella cartina in questa pagina, è a poca distanza dal percorso del treno). Di qui passavano i pellegrini e i crociati diretti in Terra Santa. Gran parte del Gargano fa parte dell' omonimo parco, che vicino a ogni monumento e luogo d' interesse turistico ha installato cartelli esplicativi bilingui. Un consiglio: leggeteli, arricchirete la vostra vacanza rendendovi conto di quanta storia siano carichi questi luoghi. A Vico, per esempio, c' è uno dei primi cimiteri monumentali d' Europa (1792). l' icona da bisanzio a rodi A Rodi nel santuario della Libera si venera un' icona della Madonna portata qui dai bizantini quando Costantinopoli cadde nel 1453. Non solo acque cristalline o foreste di pini, ulivi e faggi, quindi, nel magico Gargano.


Riquadro 1
Carpino, capitale dell' olio

La ricchezza del Gargano, oltre al mare che regala pesce e attira i turisti, sta negli estesi uliveti che per centinaia di ettari coprono i contrafforti dell' immenso promontorio. "Da solo il comune di Carpino produce il doppio dell' olio di tutta la Liguria", ci dice Mario Ortore, titolare col padre di un' azienda agricola biologica che oltre all' olio produce le fave già celebrate da Pitagora 2.600 anni fa.

Ortore è anche assessore al turismo e all' agricoltura di Carpino, paese raggiunto dal treno del Gargano. Nel negozio sul viale che porta in centro vende pure cicerchie, piselli secchi, marmellate artigianali, ceci, frutta secca, vincotto di fichi, olive in salamoia, aromi e spezie del Parco nazionale del Gargano. Da Carpino si raggiunge poi San Giovanni Rotondo, passando per la Foresta umbra, tra greggi di pecore e capre.
Azienda Ortore Via Mazzini, 65 71010 Carpino (FG) Tel. 0884.997107 cell.339.7122380 web: www.ortore.com

Riquadro 2:

Si cala la rete, poi si mangia
Tramonti da favola e pesce fresco all' aperto

I trabucchi sono antiche palafitte tipiche del Gargano e del Molise, dalle quali si calano le reti per pescare senza andare in mare, grazie a lunghi bracci di legno e argani. Alcuni sono stati trasformati in ristoranti. Quello di Montepucci, a Peschici sulla strada per Rodi, è ancora in funzione. I proprietari, la stessa famiglia da generazioni, offrono poi il pesce pescato ai clienti, che possono mangiare sui tavoli sia all' interno sia all' esterno, sulle terrazze di legno. I piatti forti sono gli spaghetti alla pescatora e la paranza, ma molto dipende anche da quel che si è tirato su la notte precedente.

Per arrivare al trabucco c' è una stradina in cemento abbastanza impegnativa a picco sul mare, ma il parcheggio è comodo. Poi occorre percorrere ancora qualche decina di gradini. Il proprietario e la figlia sono gentili, e a volte lui si esibisce alla chitarra con gli amici cantando a squarciagola. Prezzi modici (20 30 ), consigliamo il vino negramaro rosé. Si può anche dormire in qualche bungalow.
Tel. 347.8414273, sito internet: www.parcodimontepucci.it

Mauro Suttora

Friday, July 11, 2008

Raffaello Follieri in carcere

Stavolta non lo salva neppure Padre Pio

Arrestato l' ex fidanzato italiano della Hathaway

Raffaello Follieri, faccendiere di San Giovanni Rotondo, aveva conquistato New York (e l' attrice) spacciandosi per "direttore finanziario del Vaticano". L' ha fatta franca per cinque anni. Poi l' Fbi...

Oggi, 9 luglio 2008

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), luglio

Aveva portato l' illustre fidanzatina in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo (Foggia), nel paese dove lui era nato esattamente trent' anni fa. Ma lei, Anne Hathaway, una delle giovani attrici più famose d' America (Il Diavolo veste Prada), confessò onestamente di avere preferito la gita in aliscafo alle vicine isole Tremiti.

La esibiva orgoglioso in tutte le feste che organizzava, a New York e in Italia, per celebrare il proprio status di immigrato "arrivato" in alto che più in alto non si può: Raffaello Follieri da Foggia, non solo conquistatore della Audrey Hepburn del terzo millennio, ma anche amico delle due persone più importanti del mondo (il Papa, il presidente degli Stati Uniti). E ricchissimo.

"Spendeva decine di migliaia di dollari per le spese della sua fidanzata, per pagare il dog runner [quello che porta a passeggio i cani, da non confondere con il dog sitter, che si limita a sorvegliare le bestie in casa, ndr], per l' affitto di due lussuosi appartamenti, uno da 37 mila dollari nella Trump Tower sulla Quinta avenue e un altro a due piani nell' Olympic Tower", ha annotato scrupoloso l' agente speciale dell' Fbi Theodore Cacioppi nelle tredici pagine del dettagliato mandato che ha fatto finire Follieri agli arresti domiciliari.

"Casino totale": solo un film?

La fragile Anne avrebbe dovuto venire in Italia proprio nei prossimi giorni per presentare il suo nuovo film: Agent Smart Casino totale (nelle sale italiane dal 9 luglio). Non si sa se confermerà la sua presenza, ma mai titolo fu più appropriato. Subodorando infatti il casino totale in cui stava precipitando il suo amato Raffaello, la molto smart (furba) Anne ha pensato bene di mollarlo una settimana prima delle manette.

Così lui è rimasto da solo a fronteggiare i poliziotti che sono arrivati a prelevarlo all' alba. All' esame dell' urina, in commissariato, gli hanno trovato tracce di oppiacei. "È una medicina a base di codeina che gli ha prescritto il dottore contro la sinusite", ha cercato di spiegare la sua addetta stampa. Dopodiché, il ragazzo si è fatto ricoverare al Saint Vincent Hospital di Manhattan per un mancamento.

Il giudice ha fissato per lui una cauzione altissima: 21 milioni di dollari. E solo per poter uscire da casa con due mete: il suo medico, o la chiesa. Forse ha voluto fare lo spiritoso, quel giudice, perché proprio grazie agli sbandierati legami con la Chiesa cattolica Follieri è riuscito a fare fortuna.

Si esibiva infatti come "direttore finanziario" del Vaticano, vantava conoscenze, e grazie all' intercessione di un suo amico, semplice commesso del Vaticano, riusciva a procurare posti in prima fila alle udienze papali per i fessi americani che turlupinava.

Il nome più prestigioso di cui si serviva per accreditarsi era quello dell' ingegner Andrea Sodano da Asti, nipote del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato fino al 2006. Un vero artista della truffa, insomma. Un misto fra il Totò che vendeva il Colosseo ai turisti e Leonardo DiCaprio, finto pilota che sfuggiva a Tom Hanks nel film Prova a prendermi del 2001. Gli agenti dell' Fbi durante una perquisizione a casa sua gli hanno trovato nell' armadio addirittura due vesti talari da cardinale, da fare indossare ai complici che lo accompagnavano per impressionare i suoi interlocutori.

A una delle sue feste newyorkesi riuscì ad attirare perfino l' allora ministro degli Esteri Massimo D' Alema, in città per l' assemblea dell' Onu. "Proprio il giorno dopo uscì sul Sole 24 Ore il primo articolo che rivelava le accuse contro Follieri di un suo ex socio d' affari, il quale reclamava decine di milioni di dollari. Ma il povero D' Alema era ignaro di tutto, e fu imbarazzato dalla compagnia", rivela a Oggi Gianluca Galletto, finanziere italiano a Manhattan.

Democratici e repubblicani

Come Zelig, Follieri si intrufolava ovunque, dalle feste per Valentino, alle cene in casa Angiolillo a Roma, alle gite in yacht con John McCain, candidato repubblicano alla Casa Bianca.

Ma il pesce più grosso che abboccò fu l' ex presidente Usa Bill Clinton con sua moglie Hillary. L' asserito business di Follieri era farsi vendere proprietà immobiliari dalle diocesi cattoliche americane, in difficoltà finanziarie a causa dei cospicui risarcimenti alle vittime dei preti pedofili, per poi rivenderle a prezzi maggiorati. E ci sono voluti vari anni prima che la bolla di sapone scoppiasse. Ora Raffaello rischia vari anni di carcere per truffa e bancarotta.

Mauro Suttora

I 90 anni di Nelson Mandela

Oggi 9/07/2008

La terza vita di Mandela

i 90 anni del premio nobel per la pace sudafricano

I potenti del mondo applaudono Nelson, eroe della lotta contro il razzismo. Prima guerrigliero, poi in carcere per 27 anni, infine padre della patria saggio e non violento. Un esempio per l' Africa

di Mauro Suttora

Londra.
Di premi Nobel per la pace viventi ce ne sono parecchi: dagli ex presidenti Jimmy Carter e Mikhail Gorbaciov a Lech Walesa e Al Gore, dal Dalai Lama alla birmana Aung San Suu Kyi. Ma lui è l' unico che mette d' accordo tutti, da destra a sinistra, dal Nord al Sud del mondo: Nelson Mandela, leggenda planetaria. E così, fra tante brutte notizie, eccone una bellissima: il "nonno del Pianeta" compie 90 anni.

La data esatta del compleanno è il 18 luglio: pensate che quando lui nacque nel 1918 non era ancora finita la Prima guerra mondiale, e Hitler e Stalin erano degli sconosciuti. Il mondo gli si è stretto attorno la scorsa settimana con il concerto di Hyde Park a Londra, cui hanno assistito 46.664 spettatori. Lo stesso numero di matricola che per 27 lunghissimi anni Mandela ha portato cucito sulla propria uniforme di carcerato.

Sulle orme di Gandhi

Ripercorrere la storia della sua vita dà i brividi. Perché, come Gandhi in India, Nelson è riuscito a dare a 42 milioni di sudafricani di colore la libertà senza spargere una goccia di sangue. Certo, nella lunga lotta contro l' apartheid ci sono stati tanti massacri. Famigerato rimane quello di Soweto nel 1976: centinaia di morti fra i manifestanti neri del ghetto colpiti dai poliziotti bianchi. Ma dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, Mandela riuscì a condurre il proprio popolo in una lotta non violenta esemplare, che, nonostante altri scontri nel ' 92, portò alle prime elezioni libere due anni dopo. E Mandela venne eletto presidente.

La sua parola d' ordine, dopo l' uscita dal carcere, è sempre stata una sola: "Riconciliazione". Gli ex nemici, la stragrande maggioranza nera e indiana e la minoranza bianca dei cinque milioni (12 per cento) di boeri e inglesi, dovevano guardarsi negli occhi, parlarsi e perdonarsi reciprocamente. "Non c' è spazio per le vendette", ha ripetuto Mandela in questi 18 anni.

Purtroppo gli avvenimenti di questi giorni nel vicino Zimbabwe, l'ex Rhodesia del Sud dove un altro patriarca di colore, l' ottuagenario Robert Mugabe, si è trasformato da liberatore in despota, dimostrano che la lezione di Mandela non è scontata.

Anzi, quasi mai nella martoriata Africa i padri della patria hanno il coraggio di Mandela. Il coraggio di abbandonare il potere dopo averlo conquistato, così come Nelson ha fatto nel 1999. Si è ritirato lasciando spazio al nuovo presidente, Thabo Mbeki, e il Sudafrica continua a essere un' isola felice in un continente devastato da dittatori, guerre, povertà, fame e stragi.

Tutto è relativo, naturalmente. Anche il Sudafrica si trascina i suoi problemi, con la miseria perdurante nei ghetti neri, l' Aids che colpisce il venti per cento della popolazione, le stragi etniche contro gli immigrati di colore. Ma in confronto a quasi tutti gli Stati vicini (Zimbabwe, Mozambico, Angola, Congo) oggi in Sudafrica si sta bene.

Non era detto che finisse così. All' inizio, e per molti decenni, la lotta per l' uguaglianza dei neri sudafricani fu non violenta. La iniziò nel 1907 con il primo "satyagraha" ("forza della verità", un misto di digiuni e disobbedienza civile) proprio un giovane avvocato indiano emigrato nella città sudafricana di Durban: Gandhi. E lo stesso Mandela quando venne arrestato per la prima volta nel ' 56 assieme a 150 attivisti dell' African National Congress stava organizzando un boicottaggio uguale a quelli che proprio in quei mesi stava portando avanti Martin Luther King nel Sud degli Stati Uniti.

Poi però, per frustrazione e mancanza di risultati, la nuova generazione dei leader neri (Mandela, Luthuli, Tambo e Sisulu) si diede alla lotta armata. L' esempio era l' Algeria. Nel ' 61, dopo il massacro di Sharpeville (80 vittime di colore), cominciò la guerriglia con i primi attentati, e proprio Mandela era il capo dell' ala militare del movimento di liberazione. Ma fu quasi subito arrestato, e condannato all' ergastolo.

Per 18 anni questo possente erede di una famiglia reale del Transkei subì i lavori forzati in miniera a Robben Island. Poteva ricevere una sola visita e una sola lettera ogni sei mesi. Ma spesso le lettere venivano in gran parte cancellate dai censori. Ciononostante, Mandela riuscì a laurearsi in Legge per corrispondenza all' università di Londra. Nell' 81 fu perfino candidato a cancelliere dell' università, perdendo il voto contro la principessa Anna d' Inghilterra.

Intanto in tutto il mondo le campagne contro la segregazione in Sudafrica si rafforzavano. Il regime dell' apartheid subiva il boicottaggio economico decretato dall' Onu, e la parte più avveduta della minoranza bianca premeva per un' apertura.

Nell' 82 Mandela fu trasferito in un' altra prigione, e tre anni dopo il presidente razzista Botha gli offrì la libertà in cambio della rinuncia alla lotta armata. Mandela rifiutò, ma ormai la trattativa era aperta. E nel ' 90, scomparsa la minaccia comunista, il nuovo presidente bianco De Klerk lo liberò: un gesto coraggioso, che valse anche a lui il premio Nobel con Mandela nel ' 93, nove anni dopo quello al vescovo sudafricano Desmond Tutu.

Winnie, moglie arraffona

La terza vita di Mandela, quella da statista e padre della patria, non è stata esente da scandali e ombre. Innanzitutto quelli provocati dalla seconda moglie Winnie, arraffona e arrivista, da cui Nelson dovette divorziare nel ' 96. Due anni dopo, proprio nel giorno dell' 80° compleanno, si è risposato con l' attuale moglie, Graça Machel, vedova dell' ex presidente mozambicano suo amico.

Poi c' è stata la disputa sull' Aids, che per troppo tempo il governo sudafricano ha sottovalutato, ritenendolo quasi un' invenzione dell' Occidente. Infine, non si può dire che dopo la parità dei diritti politici i neri sudafricani abbiano ottenuto anche la parità economica con i bianchi. Le periferie di Città del Capo, Durban e Johannesburg sono ancora ghetti poveri e violenti. Ma ormai Mandela fa parte della storia.

riquadro:

Il figlio morto di Aids

PURTROPPO C' È VOLUTA LA MORTE DEL FIGLIO DI 54 ANNI, MAKGATHO, NEL 2005 PER FAR CAPIRE A MANDELA E A TUTTO IL SUDAFRICA LA TRAGEDIA DELL' AIDS. FINO AD ALLORA, INCREDIBILMENTE, I GOVERNANTI DI UN PAESE IN CUI UN ABITANTE SU CINQUE È SIEROPOSITIVO, E I MORTI PER LA MALATTIA SONO 600 AL GIORNO, LA MINIMIZZAVANO E CONSIGLIAVANO DI CURARLA CON LE ERBE DELLA SAVANA. MA IL TABÙ È STATO INFRANTO DA MANDELA, CHE COLPITO COSÌ INTIMAMENTE HA AMMESSO L' ERRORE. IN AFRICA 30 MILIONI DI PERSONE HANNO CONTRATTO IL VIRUS DELL' AIDS. IL 60 PER CENTO SONO DONNE.

Mauro Suttora