DOPO L'ATROCE FINE DI GHEDDAFI IL PRINCIPE IDRIS SENUSSI E' OTTIMISTA. MA C'E' CHI VUOLE APPLICARE LA SHARIA
di Mauro Suttora
Tripoli, 23 ottobre 2011
«La morte di Gheddafi non è stata un bello spettacolo. Nessuna morte lo è. Ma non cancella la gioia dei libici per la libertà ritrovata dopo 42 anni di oppressione e otto mesi di guerra eroica».
Il principe Idris al Senussi, nipote ed erede del re deposto da Muammar Gheddafi nel 1969, stava tenendo un discorso in Confindustria a Roma quando è arrivata la notizia della cattura del tiranno: «Non riuscivo a crederci. Ho cominciato a telefonare ai miei parenti a Bengasi, non potete capire la felicità di tutti per la fine della guerra. Poi, certo, sono arrivati i crudi video sulla fine del rais. Ma anche gli italiani festeggiano la fine della dittatura il 25 aprile ‘45 nonostante l’atrocità delle immagini di piazzale Loreto. A Gheddafi abbiamo sempre offerto la via dell’esilio. È stato lui a rifiutarla, a continuare a massacrare il proprio popolo, e a cacciarsi nella trappola di Sirte».
Nessun dittatore aveva mai subìto una fine così ignominiosa. Benito Mussolini venne fucilato, e solo in seguito il suo cadavere fu calpestato dalla folla. L’unico altro tiranno moderno ucciso durante una rivoluzione, il rumeno Nicolae Ceausescu nell’89, fu anch’egli freddato con la moglie. L’irakeno Saddam Hussein è stato impiccato dopo regolare processo. Gheddafi, invece, è stato linciato dai ribelli che lo hanno tirato fuori da un canale di scolo. «Si era nascosto lì come un topo», dicono i libici, ricordando il tremendo discorso di febbraio in cui il colonnello li aveva definiti «ratti, che schiaccerò casa per casa».
Anche Saddam fu scovato dentro a un buco. Ma dagli americani, per sua fortuna. I ragazzotti eccitati che hanno massacrato Gheddafi, invece, nulla sanno delle convenzioni internazionali che vietano di uccidere i prigionieri. Ha 19 anni il miliziano che si fa fotografare orgoglioso brandendo il pistolone d’oro del dittatore. Il quale viene finito alla tempia sinistra dopo mezz’ora di torture, urla, spintoni e sberleffi.
«Cosa fate? Lasciatemi andare, vi posso dare tanto oro, molti soldi», implora il 69enne Gheddafi trascinato sanguinante sul cofano di una camionetta. Gli occhi smarriti di un vitello avviato al macello, non capisce dove siano finite le sue guardie del corpo. Improvvisamente, dopo quattro decenni di dominio assoluto, si trova in mezzo a nemici assetati di sangue. Il suo.
Tutto è successo in pochi secondi. Dopo due mesi d’assedio, Sirte è allo stremo. «Mangiavamo solo pasta e riso, ci nascondevamo elle case abbandonate, avevamo paura della Nato», ha raccontato il capo della scorta di Gheddafi. Che lì, nella sua regione natale, è scappato da agosto, quando Tripoli è caduta. Tutte le favole sul dittatore che scorrazzava qua e là per il deserto erano solo frutto della fantasia impaurita di alcuni suoi sudditi. In realtà i servizi segreti occidentali lo localizzano a Sirte grazie al telefono satellitare Turaya che il colonnello usa per chiamare la tv Rai (!) a Damasco e trasmettere i suoi proclami.
L’ultimo bastione, Bani Walid, è caduto tre giorni prima. Poche centinaia di fedelissimi rimangono asserragliati nel Village 2, sul mare. Mutassim Gheddafi, estremo pretoriano del padre, decide: «Scappiamo verso il deserto». Così, all’alba di giovedì 20 ottobre un convoglio di auto e mezzi militari con mitragliatrici pesanti, antiaeree e lanciarazzi parte sulla strada costiera verso ovest. Nonostante l’assedio, nessun posto di blocco lo intercetta. Ma appena fuori dalla città lo individua un aereo Usa Predator senza pilota, lanciato da Sigonella (Catania) e telecomandato da una base a Las Vegas. Il drone dà le coordinate a due caccia francesi Rafale che si abbassano a mitragliare il convoglio.
Le auto vanno in direzioni differenti. Mutassim viene catturato, filmato mentre fuma tranquillo l’ultima sigaretta in una cella, e poi sgozzato. Suo padre trova riparo sotto il terrapieno della strada, in una di quelle condutture dove l’acqua degli «uadi» defluisce dopo le piogge torrenziali. Presto sopraggiunge una pattuglia di ribelli di Misurata, quelli incattiviti dal lungo assedio subìto in primavera. C’è una violentissima sparatoria. Alla fine Gheddafi viene catturato.
«Cosa vi ho fatto?», biascica il colonnello ormai intontito. «Allahu akbar!», Dio è grande, urlano i ribelli assatanati. Diversi filmano col telefonino, ci sono cinque video in circolazione (per ora). In uno si intravvede un bastone appuntito che viene conficcato nel posteriore di Gheddafi. «Portiamolo a Misurata!», grida qualcuno. E un altro: «Non uccidetelo». Inutile. Arrivano i colpi a bruciapelo, in fronte e allo stomaco.
E adesso, che succederà? La Libia diventerà una tranquilla democrazia come il Sud Africa, o un inferno come la Somalia?
«Io sono ottimista», ci dice il principe Idris, «resteremo uniti e torneremo ai principi democratici della Costituzione del 1951».
Intanto però Mustafa Jalil, ex ministro di Gheddafi e capo del governo provvisorio (il quale esibisce sulla fronte una «zebiba», il callo dei musulmani ferventi che sbattono la testa per terra pregando) dice che verrà applicata la «sharia», la legge islamica.
«In Libia siamo tutti religiosi», tranquillizza il principe, «ma moderati. Non c’è tradizione di fanatismo. Rispetteremo le minoranze e tutte le differenze di genere e di razza. Avremo libertà, tolleranza e democrazia».
«Elezioni per la Costituente entro giugno 2012», promette il premier Mahmud Jibril, «e presidenziali entro giugno 2013».
Intanto, però, non c’è esercito né polizia. Per la Libia scorrazzano varie bande armate: quelli di Misurata e Zlitan, che si considerano città martiri, i berberi orgogliosi di avere liberato Tripoli, i cirenaici che hanno liberato Bengasi, i tripolini che hanno come comandante militare Hakim Belhaj, arrestato in Afghanistan nel 2001… Poco incoraggiante.
I reduci consegneranno le armi e riusciranno a perdonare i 7 mila gheddafiani incarcerati? I giovani esaltati da otto mesi di guerra accetteranno di tornare a una vita normale, noiosa e magari frustrante, o prevarrà la mistica del martire?
Per ora, Tripoli e Bengasi sembrano città tranquille: niente criminalità, e tanto entusiasmo per la ricostruzione. Presto torneranno gli immigrati filippini, egiziani e cingalesi, che lavoravano al posto di molti libici viziati dal petrolio (scuola e sanità gratis, sotto Gheddafi). La speranza di tutti è che i capi della nuova Libia ora non litighino troppo. E, se lo faranno, che almeno dimentichino i mitra.
Mauro Suttora
Wednesday, November 02, 2011
Friday, October 28, 2011
Settimana Incom e casa Petacci
Università di Cagliari
DOTTORATO DI RICERCA STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
L’ITALIA DEL SECONDO DOPOGUERRA ATTRAVERSO I CINEGIORNALI DELLA SETTIMANA INCOM (1946-1948)
Presentata da: Giulia Mazzarelli
Relatore: Prof. Claudio Natoli
Anno Accademico 2009-2010
Il primo numero della Settimana Incom, datato 15 febbraio 1946, propone sei brevi filmati:
- “Cronache vaticane. Giornata eccezionale a S. Pietro”, in cui Pio XII riceve i bambini assistiti dall’Unrra;
- “A colloquio con l’ammiraglio Stone”, in cui il direttore della Settimana Incom pone all’ammiraglio alcune domande sull’andamento delle prime fasi del dopoguerra e
sulla ricostruzione;
- “La firma del trattato tra il governo italiano e l’UNRRA”, con l’impegno del delegato UNNRA per l’assistenza e gli aiuti agli italiani;
- “Piccola posta. Vi parla Vivi Gioia”, breve spazio dedicato alle lettere degli spettatori su temi di attualità;
- “Serie documenti. Riprese inedite sulle sorelle Petacci (prima puntata)”, che mostra alcuni componenti della famiglia Petacci nella villa della Camilluccia;
- “Avvisi utili. Attenti alla vostra bicicletta!” con le immagini della simulazione di un furto di biciclette.
E’ significativo che la prima uscita del nuovo cinegiornale, accanto alle notizie dal Vaticano e a quelle sui rapporti italo-americani, presenti una breve pagina sulla famiglia dell’amante del Duce.
Il filmato mostra in apertura la nuova destinazione della Camilluccia divenuta, dopo la guerra, ricovero per bambini abbandonati assistiti dall’Opera maternità e infanzia, ma che era stata, in precedenza, l’abitazione della famiglia Petacci. Alle immagini sui piccoli orfani succedono le riprese realizzate nel 1942 in occasione dei preparativi per le nozze di Miriam, sorella di Claretta.
“E’ un mattino del 1942” – informa il commentatore Incom – “Dal giardino si avanza Miriam, sorella di Claretta, che LUI volle lanciare nel cinema con il nome di Miria di San Servolo. Mimì questa mattina è allegra, perché è in pieno idillio con l’allora suo fidanzato. Com’è bella la vita! LUI ha già promesso il regalo di nozze. Ed ecco seduta Claretta. Mai nessuno la cinematografò prima d’ora. LUI non permetteva. E laggiù Roma è ai piedi della famiglia Petacci. Tutto merito del papà, il dott. Francesco Saverio, che sta godendo il giusto riposo alle sue fatiche. Ma c’è una novità questa mattina: LUI ha inviato uno dei tanti regalucci, il divano a dondolo. Bisogna provarlo! Così trascorrevano serene e incoscienti le ore alla Camilluccia!”
Alcuni elementi di questo filmato sono degni di nota. In primo luogo il fatto che il nuovo cinegiornale mostri proprio nel primo numero ciò che i cinegiornali Luce non mostravano: i personaggi che componevano la vita privata del Duce. In secondo luogo il fatto che il commentatore Incom non pronunci mai il nome di Mussolini ma utilizzi, con tono allusivo, il pronome personale “lui”. In terzo luogo è da rilevare l’ironia che accompagna il commento verbale, sia nel descrivere la spensieratezza della vita in casa Petacci in pieno conflitto mondiale, sia nell’attribuire al dott. Francesco Saverio, padre di Miriam e Clara, il merito della prosperità della famiglia.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la scelta di inserire tra i vari servizi informativi un filmato sulle sorelle Petacci non è casuale: alla prima uscita del nuovo cinegiornale la Incom mostra di voler marcare la distanza con l’informazione del Ventennio, svelando finalmente il non detto e il non visto del fascismo.
Una dichiarazione d’intenti che resterà senza seguito, poiché una volta esauriti i tre filmati sulle nozze di Miriam, la Incom tenderà ad evitare qualunque approfondimento sui protagonisti del regime. La stessa reticenza nel nominare il Duce, se da una parte si spiega con la volontà di spogliare persino del nome colui che costruì - anche cinematograficamente - il mito di se stesso e impose al popolo i propri appellativi, dall’altra rivela una certa difficoltà e un certo imbarazzo nel riportare alla memoria collettiva eventi dolorosi e ancora troppo recenti della storia nazionale.
“Mussolini” è diventato, per più di una ragione, un nome impronunciabile e l’unico modo accettabile per parlare di lui è attraverso allusioni, giri di parole e con una buona dose di sarcasmo. L’ironia del commentatore sui Petacci rivela, infatti, quanto fosse condivisa nell’immediato dopoguerra l’ostilità verso una famiglia così compromessa con la dittatura e così beneficata nella rovina generale.
Il linguaggio allusivo e ironico caratterizza anche le successive puntate sulle sorelle Petacci: nel numero 2 della Settimana Incom, tra le scene dei preparativi alle nozze, le immagini mostrano la scatola da gioco di Claretta e il taccuino dei punti con le iniziali dei due giocatori: “Accanto alla nota M. c’è la E. di Etta, diminutivo di Claretta”.
Dopo una metaforica allusione all’anticomunismo mussoliniano (“tra i pezzi degli scacchi il re rosso in un momento d’ira è stato decapitato”) la voce fuori campo fa un cenno alle relazioni clientelari che, grazie alla prossimità con Mussolini, interessavano la famiglia di Claretta: “Ecco, qualche giorno prima delle nozze, Mimì nella sua camera da letto, tra i doni piovuti da ogni parte d’Italia. Amici e protetti hanno gareggiato nel tentativo di superarsi.”
Il filmato si chiude con le riprese del lungo e splendido abito da sposa. Nell’indugiare su queste immagini il cinegiornale rivela, seppur abbozzato, quel gusto per le vite da favola e per il lusso ostentato che caratterizzeranno di lì a poco i servizi sui personaggi famosi del mondo del cinema, della politica e delle case regnanti. La Incom rivela dunque già dai primi numeri - e persino in relazione ad argomenti che riportano alla memoria recenti eventi drammatici - una malcelata tendenza ad accattivarsi l’interesse del pubblico e alla banalizzazione.
A questo proposito è significativo che si parli del fascismo per mezzo dei lustrini delle sorelle Petacci: attraverso la «spettacolarizzazione del privato» si stuzzicava la curiosità degli italiani su aspetti rimasti sempre in ombra, si mostrava il lato quotidiano e quindi umano dei protagonisti del regime, col risultato di produrre, più o meno intenzionalmente, una sospensione del giudizio sul ruolo politico e storico di quelle figure.
La terza e ultima puntata sul matrimonio di Miriam fu inserita nel numero 6 della Settimana Incom del 20 marzo, a quasi un mese di distanza dalla precedente. La ragione di questa attesa è esplicitata dallo stesso commentatore: “Oh, chi cerca il pelo nell’uovo in queste nozze dirà che manca lo sposo: beh, abbiamo dovuto farlo scomparire per evitare un nuovo sequestro che avrebbe ritardato di qualche altra settimana quest’ultima puntata”.
Queste parole lasciano intendere che il marito di Miriam, in seguito alla proiezione della seconda puntata, in cui appare per qualche istante accanto alla fidanzata e al futuro suocero, abbia provveduto a mezzo legale a far tagliare dalle scene del matrimonio le immagini nelle quali fosse visibile e riconoscibile.
E’, questo, un altro segnale del clima teso che caratterizzava la ripresa della vita democratica e l’inevitabile resa dei conti con i protagonisti del fascismo. Emblematico, a questo proposito, il monito con il quale la voce fuori campo accompagna la conclusione del matrimonio e che chiude “il romanzo petacciano” a puntate: “Le automobili s’avviano. Autisti, attenzione! Troverete una curva pericolosa: si chiama 25 luglio!”
Luigi Freddi, a proposito dell’attività artistica di Miriam, dichiarò:
«Miria di San Servolo, la nuova diva, non era che il prodotto di un ambiente piccolo-borghese, piena di vezzi incorreggibili, di una vivacità artificiosa e di una insipida gaiezza, priva di quella congenita classe che può fare anche d’una ciociara una grande interprete».
Nel corso di una conversazione tra Freddi e Claretta, a proposito delle critiche mosse all’interpretazione della sorella in L’amico delle donne, l’amante del Duce disse: «Eppure quella bambina è la nostra sola gioia. […] S’è innamorata di questo mestiere. Come facciamo ora a distoglierla? È la sola che riesca a far sorridere anche lui. Ma perché il mondo deve essere così cattivo? Non c’è un figlio di Roosevelt che si occupa di cinematografo? Sarah Churchill non lavora in una rivista di Cochrane? […] E chi c’è in Francia dietro Marie Bell, o in Germania dietro Lida Baarova? E il mondo, per questo, non siscandalizza…!»
Luigi Freddi in, F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 18.
DOTTORATO DI RICERCA STORIA MODERNA E CONTEMPORANEA
L’ITALIA DEL SECONDO DOPOGUERRA ATTRAVERSO I CINEGIORNALI DELLA SETTIMANA INCOM (1946-1948)
Presentata da: Giulia Mazzarelli
Relatore: Prof. Claudio Natoli
Anno Accademico 2009-2010
Il primo numero della Settimana Incom, datato 15 febbraio 1946, propone sei brevi filmati:
- “Cronache vaticane. Giornata eccezionale a S. Pietro”, in cui Pio XII riceve i bambini assistiti dall’Unrra;
- “A colloquio con l’ammiraglio Stone”, in cui il direttore della Settimana Incom pone all’ammiraglio alcune domande sull’andamento delle prime fasi del dopoguerra e
sulla ricostruzione;
- “La firma del trattato tra il governo italiano e l’UNRRA”, con l’impegno del delegato UNNRA per l’assistenza e gli aiuti agli italiani;
- “Piccola posta. Vi parla Vivi Gioia”, breve spazio dedicato alle lettere degli spettatori su temi di attualità;
- “Serie documenti. Riprese inedite sulle sorelle Petacci (prima puntata)”, che mostra alcuni componenti della famiglia Petacci nella villa della Camilluccia;
- “Avvisi utili. Attenti alla vostra bicicletta!” con le immagini della simulazione di un furto di biciclette.
E’ significativo che la prima uscita del nuovo cinegiornale, accanto alle notizie dal Vaticano e a quelle sui rapporti italo-americani, presenti una breve pagina sulla famiglia dell’amante del Duce.
Il filmato mostra in apertura la nuova destinazione della Camilluccia divenuta, dopo la guerra, ricovero per bambini abbandonati assistiti dall’Opera maternità e infanzia, ma che era stata, in precedenza, l’abitazione della famiglia Petacci. Alle immagini sui piccoli orfani succedono le riprese realizzate nel 1942 in occasione dei preparativi per le nozze di Miriam, sorella di Claretta.
“E’ un mattino del 1942” – informa il commentatore Incom – “Dal giardino si avanza Miriam, sorella di Claretta, che LUI volle lanciare nel cinema con il nome di Miria di San Servolo. Mimì questa mattina è allegra, perché è in pieno idillio con l’allora suo fidanzato. Com’è bella la vita! LUI ha già promesso il regalo di nozze. Ed ecco seduta Claretta. Mai nessuno la cinematografò prima d’ora. LUI non permetteva. E laggiù Roma è ai piedi della famiglia Petacci. Tutto merito del papà, il dott. Francesco Saverio, che sta godendo il giusto riposo alle sue fatiche. Ma c’è una novità questa mattina: LUI ha inviato uno dei tanti regalucci, il divano a dondolo. Bisogna provarlo! Così trascorrevano serene e incoscienti le ore alla Camilluccia!”
Alcuni elementi di questo filmato sono degni di nota. In primo luogo il fatto che il nuovo cinegiornale mostri proprio nel primo numero ciò che i cinegiornali Luce non mostravano: i personaggi che componevano la vita privata del Duce. In secondo luogo il fatto che il commentatore Incom non pronunci mai il nome di Mussolini ma utilizzi, con tono allusivo, il pronome personale “lui”. In terzo luogo è da rilevare l’ironia che accompagna il commento verbale, sia nel descrivere la spensieratezza della vita in casa Petacci in pieno conflitto mondiale, sia nell’attribuire al dott. Francesco Saverio, padre di Miriam e Clara, il merito della prosperità della famiglia.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la scelta di inserire tra i vari servizi informativi un filmato sulle sorelle Petacci non è casuale: alla prima uscita del nuovo cinegiornale la Incom mostra di voler marcare la distanza con l’informazione del Ventennio, svelando finalmente il non detto e il non visto del fascismo.
Una dichiarazione d’intenti che resterà senza seguito, poiché una volta esauriti i tre filmati sulle nozze di Miriam, la Incom tenderà ad evitare qualunque approfondimento sui protagonisti del regime. La stessa reticenza nel nominare il Duce, se da una parte si spiega con la volontà di spogliare persino del nome colui che costruì - anche cinematograficamente - il mito di se stesso e impose al popolo i propri appellativi, dall’altra rivela una certa difficoltà e un certo imbarazzo nel riportare alla memoria collettiva eventi dolorosi e ancora troppo recenti della storia nazionale.
“Mussolini” è diventato, per più di una ragione, un nome impronunciabile e l’unico modo accettabile per parlare di lui è attraverso allusioni, giri di parole e con una buona dose di sarcasmo. L’ironia del commentatore sui Petacci rivela, infatti, quanto fosse condivisa nell’immediato dopoguerra l’ostilità verso una famiglia così compromessa con la dittatura e così beneficata nella rovina generale.
Il linguaggio allusivo e ironico caratterizza anche le successive puntate sulle sorelle Petacci: nel numero 2 della Settimana Incom, tra le scene dei preparativi alle nozze, le immagini mostrano la scatola da gioco di Claretta e il taccuino dei punti con le iniziali dei due giocatori: “Accanto alla nota M. c’è la E. di Etta, diminutivo di Claretta”.
Dopo una metaforica allusione all’anticomunismo mussoliniano (“tra i pezzi degli scacchi il re rosso in un momento d’ira è stato decapitato”) la voce fuori campo fa un cenno alle relazioni clientelari che, grazie alla prossimità con Mussolini, interessavano la famiglia di Claretta: “Ecco, qualche giorno prima delle nozze, Mimì nella sua camera da letto, tra i doni piovuti da ogni parte d’Italia. Amici e protetti hanno gareggiato nel tentativo di superarsi.”
Il filmato si chiude con le riprese del lungo e splendido abito da sposa. Nell’indugiare su queste immagini il cinegiornale rivela, seppur abbozzato, quel gusto per le vite da favola e per il lusso ostentato che caratterizzeranno di lì a poco i servizi sui personaggi famosi del mondo del cinema, della politica e delle case regnanti. La Incom rivela dunque già dai primi numeri - e persino in relazione ad argomenti che riportano alla memoria recenti eventi drammatici - una malcelata tendenza ad accattivarsi l’interesse del pubblico e alla banalizzazione.
A questo proposito è significativo che si parli del fascismo per mezzo dei lustrini delle sorelle Petacci: attraverso la «spettacolarizzazione del privato» si stuzzicava la curiosità degli italiani su aspetti rimasti sempre in ombra, si mostrava il lato quotidiano e quindi umano dei protagonisti del regime, col risultato di produrre, più o meno intenzionalmente, una sospensione del giudizio sul ruolo politico e storico di quelle figure.
La terza e ultima puntata sul matrimonio di Miriam fu inserita nel numero 6 della Settimana Incom del 20 marzo, a quasi un mese di distanza dalla precedente. La ragione di questa attesa è esplicitata dallo stesso commentatore: “Oh, chi cerca il pelo nell’uovo in queste nozze dirà che manca lo sposo: beh, abbiamo dovuto farlo scomparire per evitare un nuovo sequestro che avrebbe ritardato di qualche altra settimana quest’ultima puntata”.
Queste parole lasciano intendere che il marito di Miriam, in seguito alla proiezione della seconda puntata, in cui appare per qualche istante accanto alla fidanzata e al futuro suocero, abbia provveduto a mezzo legale a far tagliare dalle scene del matrimonio le immagini nelle quali fosse visibile e riconoscibile.
E’, questo, un altro segnale del clima teso che caratterizzava la ripresa della vita democratica e l’inevitabile resa dei conti con i protagonisti del fascismo. Emblematico, a questo proposito, il monito con il quale la voce fuori campo accompagna la conclusione del matrimonio e che chiude “il romanzo petacciano” a puntate: “Le automobili s’avviano. Autisti, attenzione! Troverete una curva pericolosa: si chiama 25 luglio!”
Luigi Freddi, a proposito dell’attività artistica di Miriam, dichiarò:
«Miria di San Servolo, la nuova diva, non era che il prodotto di un ambiente piccolo-borghese, piena di vezzi incorreggibili, di una vivacità artificiosa e di una insipida gaiezza, priva di quella congenita classe che può fare anche d’una ciociara una grande interprete».
Nel corso di una conversazione tra Freddi e Claretta, a proposito delle critiche mosse all’interpretazione della sorella in L’amico delle donne, l’amante del Duce disse: «Eppure quella bambina è la nostra sola gioia. […] S’è innamorata di questo mestiere. Come facciamo ora a distoglierla? È la sola che riesca a far sorridere anche lui. Ma perché il mondo deve essere così cattivo? Non c’è un figlio di Roosevelt che si occupa di cinematografo? Sarah Churchill non lavora in una rivista di Cochrane? […] E chi c’è in Francia dietro Marie Bell, o in Germania dietro Lida Baarova? E il mondo, per questo, non siscandalizza…!»
Luigi Freddi in, F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 18.
Wednesday, October 26, 2011
parla Giovanni Castellaneta
L'EX AMBASCIATORE IN USA, IRAN E AUSTRALIA FA IL PUNTO SULLA PRIMAVERA ARABA E SUGLI ALTRI PROBLEMI INTERNAZIONALI PIU' RILEVANTI
di Mauro Suttora
Oggi, 19 ottobre 2011
Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».
E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».
A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».
La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».
In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».
Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».
E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».
La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».
Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».
Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».
Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».
Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».
Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».
Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».
Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».
La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 19 ottobre 2011
Domenica 23 ottobre la Tunisia vota. Il Paese che ha iniziato la «primavera araba» sceglie i suoi nuovi capi. Chiediamo a Giovanni Castellaneta, già ambasciatore in Iran, Australia, Stati Uniti e oggi presidente della Sace (Servizi assicurativi commercio estero), di commentare questo avvenimento e gli altri fatti internazionali più rilevanti.
«La Tunisia è il Paese arabo a noi più vicino, geograficamente quasi un prolungamento dell'Italia. Sono ottimista, speriamo che dall'ottantina di partiti che si presentano alle elezioni nasca un governo moderato per consolidare il benessere di una società già fra le più avanzate della regione».
E l’Egitto?
«È un caso totalmente diverso. Per questo è difficile parlare di “primavera araba”: ogni Paese fa storia a sé. L’Egitto ha ben 77 milioni di abitanti, una minoranza cristiana copta del 10 per cento, diversi movimenti islamici più o meno moderati e un potentissimo esercito che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi 60 anni: Nasser, Sadat, Mubarak. Il suo modello può essere la Turchia, dove l’Islam moderato garantisce un boom economico e rispetta le minoranze».
A proposito di Turchia: facciamo bene a tenerla fuori dall’Europa?
«No, è un grave errore. L’Italia è favorevole al suo ingresso, Germania e Francia resistono. Ma è un segnale negativo verso tutto il mondo islamico. Ormai Istanbul è come San Paolo o Shangai, a forza di snobbarla sarà lei a non volere più entrare. Certo, dipende da che tipo d’Europa vogliamo, ma se ci preoccupano gli immigrati o la concorrenza dell’industria tessile turca, sappiamo anche che non ci proteggeremo erigendo barriere doganali».
La Libia.
«Dobbiamo evitare che si disgreghi in conflitti tribali. Abbiamo una lunga tradizione di amicizia con Tripoli, chiunque sia al governo. Perciò smettiamola di temere una competizione francese o inglese: nessuno può togliere all’Italia il posto che le spetta».
In Siria invece Assad resiste.
«E siamo tutti preoccupati: sta crollando un regime che bene o male aveva assicurato stabilità, senza che si profili un’alternativa credibile. La Siria è la polveriera del mondo».
Insomma, altro che «primavera araba».
«Affinché quella primavera diventi estate e non inverno, l’Italia ha una grande opportunità. Abbiamo ritrovato una centralità, non tanto come “portaerei”, quanto come ponte e mano protesa verso il Mediterraneo Dobbiamo sfruttarla, perché siamo benvoluti, apprezzati e amati da tutti».
E quindi?
«Non dimentichiamo che dietro il Nordafrica c’è la spinta positiva di un intero continente. L’Africa non è più solo percettrice di aiuti. Diversi suoi Paesi – Ghana, Ruanda, Angola - hanno tassi di sviluppo tali che possiamo cominciare a immaginarli come i nuovi Brics (Brasile, India, Cina, Sudafrica), cioè come mercati emergenti».
La Cina, appunto. Da 30 anni si spera che lo sviluppo economico porti democrazia, invece resta una dittatura.
«Un modello accettato dall’Occidente: libertà economica, ma non politica e sindacale. Con una ricerca del merito individuale, però, che noi italiani rischiamo di dover invidiare… Non sono più una società statalizzata».
Ma la mancanza di sindacati e di leggi di tutela ecologica non permettono alla Cina di praticare una concorrenza sleale contro di noi?
«Il loro vantaggio dei prezzi bassi si va erodendo. La Cina ha problemi demografici, di surriscaldamento dell'economia, di inflazione e valuta che potrebbero diventare costosi e dolorosi per loro».
Ormai facciamo fare tutto lì.
«La Cina ha già raggiunto il livello del Giappone degli anni Ottanta. Ci copia, ma poi si trasforma in concorrente. Anche in settori di punta come l’aeronautica o le telecomunicazioni è diventata un partner competitivo, ormai ci confrontiamo quasi alla pari. Non si tratta più di produrre bambolette a cinque euro invece che a venti. E se loro fanno prodotti buoni, noi dobbiamo farli ottimi. Il problema è che il nostro è un tessuto di imprese medie e piccole, che da sole non riescono ad affrontare mercati così vasti».
Quando riusciremo ad andarcene dall’Afghanistan?
«Il calendario del ritiro è già fissato, anche gli Stati Uniti lo hanno annunciato. Al massimo è questione di un mese in più o in meno. Ma spero che rimarremo con una presenza economica».
Che senso ha mantenere costose spedizioni militari in Kosovo da dodici anni, o in Libano dove non si sa bene a che servano?
«Le missioni si possono ridurre e calibrare meglio, ma calcoliamo anche che ciò che spendiamo non rimane tutto all’estero: c’è un ritorno, non solo sotto forma di stipendi dei nostri soldati. E poi l’Italia è una media potenza: senza bilanci militari più alti di altri Paesi, in trent’anni, dalla prima missione di pace in Libano, abbiamo costruito un patrimonio di grandissime eccellenze, con professionisti del mantenimento della pace che ci vengono invidiati in tutto il mondo».
Nell’Unione europea ormai comandano Francia e Germania?
«Il concetto di “direttorio” è inaccettabile. Ma spesso loro fanno vertici a due perché in realtà hanno più problemi di noi. Le loro banche, per esempio, sono le più esposte con la Grecia».
Non si potrebbe far fallire la Grecia, e buonanotte? Così svaluta e si riprende, come l’Italia nel ’92 o l’Argentina dieci anni fa.
«Recuperare competitività svalutando non è più automatico come una volta. E poi escludere Atene dall’Euro sarebbe, in termini di ricchezza, come se l’America perdesse il Connecticut. No, meglio restare uniti e solidali, trovando soluzioni economiche e soprattutto politiche tutti insieme».
Con gli Stati Uniti abbiamo rapporti sempre ottimi.
«Certo. Ma dobbiamo renderci conto che d’ora in poi molte cose dovremmo farle da soli. Lo abbiamo visto in Libia. L’America è più concentrata su se stessa, e sul Pacifico».
La Russia, infine: Putin in eterno?
«Diamole tempo, 60 anni di soviet non si superano in un attimo. Comunque c’è stabilità, e le nostre società lavorano bene con Mosca. Abbiamo relazioni commerciali eccellenti».
Mauro Suttora
Chi sono i black bloc
ORGANIZZAZIONE PARAMILITARE
I GIOVANI TEPPISTI AGISCONO IN GRUPPI DA 15, E SONO RAPIDISSIMI: CHI PROCURA LE ARMI, CHI TIRA PIETRE, CHI LANCIA LE BOMBE CARTA. A ROMA ERANO 800, DIVISI IN DUE «FALANGI». VANNO IN GRECIA A SCUOLA DI GUERRA E IN VAL SUSA PER ALLENARSI
di Mauro Suttora
Oggi, 26 ottobre 2011
Sono 800, e si considerano soldati in «guerra»: «Non l' abbiamo dichiarata noi. È il capitalismo che ammazza gli operai sfruttati dalla globalizzazione, da Barletta al Terzo mondo». Molti sono giovanissimi: sette dei 21 arrestati e fermati dopo i disordini non hanno 18 anni. Ne avevano solo sette ai tempi del G8 di Genova. Ma questa volta non ci sono la morte del «martire» Carlo Giuliani e le violenze dei poliziotti alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto a distrarre l'attenzione dai loro misfatti.
Molte donne. Come Federica, 31 anni, che sulla 600 trasportava col compagno e due amiche un piccolo arsenale nascosto in cinque zaini: dieci maschere antigas, 500 biglie e una fionda professionale per tirarle, quattro «mefisti» (enormi petardi), quattro parastinchi, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Bloccata dai Carabinieri a Pomezia.
Molti laureati o studenti universitari. Come Valerio, 21 anni, di Lecce, terzo anno di Legge a Bologna, preso col casco in testa. Già denunciato due volte, per lancio di fumogeni a un corteo e tifo violento. Frequenta il centro sociale leccese Caos (Collettivo autonomo organizzato studentesco). Ed è negli ambienti dei centri sociali più duri che lunedì all' alba si è scatenata la caccia ai black bloc in molte città d' Italia. Perquisite dozzine di case di reduci da Roma. Quelli del centro Askatasuna (Torino), Bottiglieria (Milano, sgomberato un anno fa), Gramigna (Padova), Vittorio Arrigoni (Palermo), Fuori luogo, Cua e Crash (Bologna), Guernica (Modena). Risultati scarsi: nessun arrestato, solo qualche denuncia per armi improprie. Ma sarà dura ottenere condanne, visto che avere passamontagna, abiti scuri, ginocchiere (la divisa dei guerriglieri) o anche martelli non è reato.
Più promettente la «pista video»: in questi giorni c'è uno scambio frenetico di filmati girati a Roma fra le questure di tutta Italia. Nonostante le mascherature, qualche viso è riconoscibile. Ma ci vorrà tempo. E indagini accuratissime. Perché una cosa è certa: i black bloc sono furbi e organizzatissimi. Altro che «rivolta spontanea». I loro attacchi a Roma hanno obbedito a una regia definita nei minimi dettagli. Negli ultimi mesi sono andati a lezione di guerriglia urbana in Grecia. In piccoli gruppi e attenti a non lasciar tracce, hanno preso anonimi «passaggi ponte» e non biglietti nominativi sui traghetti da Brindisi. Hanno fatto le prove generali in Val Susa, agli attacchi contro la Tav.
A Roma si sono divisi in due falangi. I primi 500 si sono armati a inizio corteo e hanno cominciato a devastare via Cavour. Gli altri 300 li proteggevano alle spalle per non farli isolare dal corteo. Non erano vestiti di nero, anche per non far scoprire alla polizia i loro veri numeri. Poi, dopo la svolta in via Labicana, anche la seconda falange si è messa al «lavoro», bruciando auto, sfasciando vetrine e attaccando i blindati dei Carabinieri. I quali avevano l'ordine preciso di non attaccare per non rischiare di nuovo il morto, come nel 2001.
Ma la vera arma segreta dei terroristi urbani è l'elasticità. Sono divisi in plotoncini da 15, e all'interno di ogni plotone ci sono tre specializzazioni. In cinque recuperano in strada sassi (sampietrini), bastoni, spranghe fioriere. Oppure li pigliano da borse e sacchetti nascosti lungo il percorso in androni e cassonetti poche ore prima. Non li portano addosso, per non rischiare la fine di Federica. Altri cinque sono i «tiratori». E gli ultimi cinque sono gli «artiglieri»: gli specialisti in petardi e bombe carta.
Tutti i gruppi sono rapidi e mobilissimi. Impossibile, per le forze dell' ordine, individuarli e bloccarli in tempo. Soprattutto con i blindati, troppo lenti. Sabato però, per la prima volta, i principali avversari dei teppisti non sono stati i poliziotti. Ma gli altri manifestanti, gli «indignati» pacifici, con cui sono venuti anche alle mani.
Mauro Suttora
I GIOVANI TEPPISTI AGISCONO IN GRUPPI DA 15, E SONO RAPIDISSIMI: CHI PROCURA LE ARMI, CHI TIRA PIETRE, CHI LANCIA LE BOMBE CARTA. A ROMA ERANO 800, DIVISI IN DUE «FALANGI». VANNO IN GRECIA A SCUOLA DI GUERRA E IN VAL SUSA PER ALLENARSI
di Mauro Suttora
Oggi, 26 ottobre 2011
Sono 800, e si considerano soldati in «guerra»: «Non l' abbiamo dichiarata noi. È il capitalismo che ammazza gli operai sfruttati dalla globalizzazione, da Barletta al Terzo mondo». Molti sono giovanissimi: sette dei 21 arrestati e fermati dopo i disordini non hanno 18 anni. Ne avevano solo sette ai tempi del G8 di Genova. Ma questa volta non ci sono la morte del «martire» Carlo Giuliani e le violenze dei poliziotti alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto a distrarre l'attenzione dai loro misfatti.
Molte donne. Come Federica, 31 anni, che sulla 600 trasportava col compagno e due amiche un piccolo arsenale nascosto in cinque zaini: dieci maschere antigas, 500 biglie e una fionda professionale per tirarle, quattro «mefisti» (enormi petardi), quattro parastinchi, un piede di porco e quattro bottiglie con liquido. Bloccata dai Carabinieri a Pomezia.
Molti laureati o studenti universitari. Come Valerio, 21 anni, di Lecce, terzo anno di Legge a Bologna, preso col casco in testa. Già denunciato due volte, per lancio di fumogeni a un corteo e tifo violento. Frequenta il centro sociale leccese Caos (Collettivo autonomo organizzato studentesco). Ed è negli ambienti dei centri sociali più duri che lunedì all' alba si è scatenata la caccia ai black bloc in molte città d' Italia. Perquisite dozzine di case di reduci da Roma. Quelli del centro Askatasuna (Torino), Bottiglieria (Milano, sgomberato un anno fa), Gramigna (Padova), Vittorio Arrigoni (Palermo), Fuori luogo, Cua e Crash (Bologna), Guernica (Modena). Risultati scarsi: nessun arrestato, solo qualche denuncia per armi improprie. Ma sarà dura ottenere condanne, visto che avere passamontagna, abiti scuri, ginocchiere (la divisa dei guerriglieri) o anche martelli non è reato.
Più promettente la «pista video»: in questi giorni c'è uno scambio frenetico di filmati girati a Roma fra le questure di tutta Italia. Nonostante le mascherature, qualche viso è riconoscibile. Ma ci vorrà tempo. E indagini accuratissime. Perché una cosa è certa: i black bloc sono furbi e organizzatissimi. Altro che «rivolta spontanea». I loro attacchi a Roma hanno obbedito a una regia definita nei minimi dettagli. Negli ultimi mesi sono andati a lezione di guerriglia urbana in Grecia. In piccoli gruppi e attenti a non lasciar tracce, hanno preso anonimi «passaggi ponte» e non biglietti nominativi sui traghetti da Brindisi. Hanno fatto le prove generali in Val Susa, agli attacchi contro la Tav.
A Roma si sono divisi in due falangi. I primi 500 si sono armati a inizio corteo e hanno cominciato a devastare via Cavour. Gli altri 300 li proteggevano alle spalle per non farli isolare dal corteo. Non erano vestiti di nero, anche per non far scoprire alla polizia i loro veri numeri. Poi, dopo la svolta in via Labicana, anche la seconda falange si è messa al «lavoro», bruciando auto, sfasciando vetrine e attaccando i blindati dei Carabinieri. I quali avevano l'ordine preciso di non attaccare per non rischiare di nuovo il morto, come nel 2001.
Ma la vera arma segreta dei terroristi urbani è l'elasticità. Sono divisi in plotoncini da 15, e all'interno di ogni plotone ci sono tre specializzazioni. In cinque recuperano in strada sassi (sampietrini), bastoni, spranghe fioriere. Oppure li pigliano da borse e sacchetti nascosti lungo il percorso in androni e cassonetti poche ore prima. Non li portano addosso, per non rischiare la fine di Federica. Altri cinque sono i «tiratori». E gli ultimi cinque sono gli «artiglieri»: gli specialisti in petardi e bombe carta.
Tutti i gruppi sono rapidi e mobilissimi. Impossibile, per le forze dell' ordine, individuarli e bloccarli in tempo. Soprattutto con i blindati, troppo lenti. Sabato però, per la prima volta, i principali avversari dei teppisti non sono stati i poliziotti. Ma gli altri manifestanti, gli «indignati» pacifici, con cui sono venuti anche alle mani.
Mauro Suttora
Wednesday, October 19, 2011
Incontrai Steve Jobs licenziato...
UN CORDIALISSIMO INVASATO: PARLANTINA SEDUCENTE, MAGNETISMO IRRESISTIBILE, ENTUSIASMO IRREFRENABILE
Oggi, 6 ottobre 2011
di Mauro Suttora
Ho capito cos’è il carisma nel giugno 1985, quando incontrai Steve Jobs a tu per tu. Due settimane prima il fondatore della Apple era stato cacciato dalla propria società per mano dell’amministratore delegato John Sculley che lui stesso aveva assunto. Ma nessuno ancora lo sapeva. E Jobs, per niente depresso, arrivò a Lund in Svezia per lanciare l’European University Consortium, un modo per far comprare i suoi computer Macintosh a studenti e docenti.
Un po’ Gesù, un po’ Berlusconi
Nel quarto d’ora di conversazione privata che avemmo sul prato del campus (niente addetti stampa, clima informale) mi sembrò un cordialissimo invasato, a metà fra Gesù Cristo e Berlusconi: un po’ capo religioso, un po’ supremo venditore. Parlantina seducente, magnetismo irresistibile, entusiasmo irrefrenabile. Finse perfino di interessarsi al mio buon inglese, imparato durante l’anno negli Usa da liceale.
Nessuna meraviglia, quindi, che centinaia di milioni di adepti (più che clienti) del culto mondiale Apple ora lo ricordino come un guru. Qualcuno ha detto: «È il Leonardo da Vinci del nostro secolo». Sbagliando: anche l’ultimo quarto del secolo scorso è stato allietato dalle invenzioni di questo figlio di genitori sbadati (un’americana, un siriano: una specie di Obama arabo) adottato dalla famiglia Jobs.
Successo anche nel cinema
Il primo personal computer è del 1976. Il primo mouse lo abbiamo maneggiato otto anni dopo. E poi tante altre cose che hanno allietato la nostra vita quotidiana: i cartoni animati come Toy Story della sua Pixar (fondata nell’86, oggi venduta alla Walt Disney), il cassone ingombrante del computer che finalmente scompare, incorporato nel monitor dell’iMac nel ’98, i leggeri ma potenti portatili iBook, e allo scoccare del millennio quell’iTunes che ha distrutto l’industria discografica...
Noi giornalisti non dovremmo lodare troppo quello che rischia di essere il carnefice anche del giornale che state leggendo, e dei libri e delle biblioteche: tutti resi obsoleti dalla sua ultima trovata, il sottilissimo iPad. Il terzo oggetto magico sfornato negli ultimi anni, dopo l’iPod e l’iPhone.
E pensare che di tutte queste diavolerie Steve già fantasticava 26 anni fa, parlandomi di «interconnessione planetaria» dieci anni prima delle e-mail, e di quegli «schermi intercambiabili» oggi diventati realtà grazie alla convergenza fra tv, pc, notebook, tablet, smartphone, lettore mp3, cinepresa e macchina fotografica: tutto si può vedere dappertutto e subito.
E adesso, dove finirà la fortuna di otto miliardi di dollari accumulata da Steve Jobs? Una cifra solo apparentemente alta, per una società il cui valore in Borsa è esploso dai cinque miliardi del 2000 ai 350 attuali. Infatti Jobs era soltanto il 39° uomo più ricco degli Stati Uniti, e il 110° al mondo. Otto volte meno dei 60 miliardi del suo rivale e coetaneo Bill Gates di Microsoft.
La vedova è Laurene Powell, 47enne sposata da Steve 20 anni fa con rito buddhista nel parco californiano Yosemite delle sequoie giganti, dopo che rimase incinta del suo maschio primogenito Reed Paul. Reed come l’università dell’Oregon che Jobs abbandonò dopo appena sei mesi.
È incredibile come nessuno dei più ricchi imprenditori del computer si sia mai laureato: Jobs, Gates, Mark Zuckerberg di Facebook, Lawrence Ellison di Oracle, Michael Dell.
Steve conobbe la moglie quando andò a tenere un discorso all’università di Stanford (attaccata alla Apple di Cupertino e alla sua casa di Palo Alto): Laurene stava prendendo un dottorato. Poi ha lavorato in finanza, ora si dedica alla filantropia e alla New America Foundation, un think tank politico di sinistra sui diritti civili, ma di destra in economia.
Dopo Reed Paul, che oggi ha 20 anni e assomiglia straordinariamente al padre, sono arrivate Erin Sienna (ora 16enne) ed Eve, 13.
Ma Steve Jobs ha anche un’altra figlia, di 33 anni: Lisa Brennan, nata da una gravidanza non desiderata dell’allora sua fidanzata Chris-Ann. La quale dovette penare non poco per fargliela riconoscere. Nonostante stessero assieme dai tempi del liceo, occorse una causa e un test del sangue che appurò la paternità al 94 per cento. Alla fine il mascanzoncello fu obbligato a versare 5 mila dollari, più 385 al mese e l’assistenza sanitaria. Briciole, perché ormai Jobs era già diventato milionario.
Lisa come la prima figlia
Si favoleggia che Steve abbia chiamato Lisa uno dei primi computer Apple in onore di questa figlia non voluta (esattamente come lui). La versione ufficiale è che Lisa stesse per Local integrated software architecture. In ogni caso, Lisa crescendo ha avuto buoni rapporti col padre, e dovrà partecipare in qualche modo alla divisione dell’eredità.
Un’altra donna importante nella vita di Steve Jobs è Mona Simpson, oggi 54enne: la sua sorella naturale. Quella che i genitori non rifiutarono. Si ritrovarono nell’86 e lei scrisse addirittura un libro sulla loro vicenda. Docente di inglese al Bard College (New York) e romanziera affermata, da un suo libro è stato tratto nel 1999 il film La mia adorabile nemica con Susan Sarandon e una giovanissima Natalie Portman.
Mauro Suttora
Oggi, 6 ottobre 2011
di Mauro Suttora
Ho capito cos’è il carisma nel giugno 1985, quando incontrai Steve Jobs a tu per tu. Due settimane prima il fondatore della Apple era stato cacciato dalla propria società per mano dell’amministratore delegato John Sculley che lui stesso aveva assunto. Ma nessuno ancora lo sapeva. E Jobs, per niente depresso, arrivò a Lund in Svezia per lanciare l’European University Consortium, un modo per far comprare i suoi computer Macintosh a studenti e docenti.
Un po’ Gesù, un po’ Berlusconi
Nel quarto d’ora di conversazione privata che avemmo sul prato del campus (niente addetti stampa, clima informale) mi sembrò un cordialissimo invasato, a metà fra Gesù Cristo e Berlusconi: un po’ capo religioso, un po’ supremo venditore. Parlantina seducente, magnetismo irresistibile, entusiasmo irrefrenabile. Finse perfino di interessarsi al mio buon inglese, imparato durante l’anno negli Usa da liceale.
Nessuna meraviglia, quindi, che centinaia di milioni di adepti (più che clienti) del culto mondiale Apple ora lo ricordino come un guru. Qualcuno ha detto: «È il Leonardo da Vinci del nostro secolo». Sbagliando: anche l’ultimo quarto del secolo scorso è stato allietato dalle invenzioni di questo figlio di genitori sbadati (un’americana, un siriano: una specie di Obama arabo) adottato dalla famiglia Jobs.
Successo anche nel cinema
Il primo personal computer è del 1976. Il primo mouse lo abbiamo maneggiato otto anni dopo. E poi tante altre cose che hanno allietato la nostra vita quotidiana: i cartoni animati come Toy Story della sua Pixar (fondata nell’86, oggi venduta alla Walt Disney), il cassone ingombrante del computer che finalmente scompare, incorporato nel monitor dell’iMac nel ’98, i leggeri ma potenti portatili iBook, e allo scoccare del millennio quell’iTunes che ha distrutto l’industria discografica...
Noi giornalisti non dovremmo lodare troppo quello che rischia di essere il carnefice anche del giornale che state leggendo, e dei libri e delle biblioteche: tutti resi obsoleti dalla sua ultima trovata, il sottilissimo iPad. Il terzo oggetto magico sfornato negli ultimi anni, dopo l’iPod e l’iPhone.
E pensare che di tutte queste diavolerie Steve già fantasticava 26 anni fa, parlandomi di «interconnessione planetaria» dieci anni prima delle e-mail, e di quegli «schermi intercambiabili» oggi diventati realtà grazie alla convergenza fra tv, pc, notebook, tablet, smartphone, lettore mp3, cinepresa e macchina fotografica: tutto si può vedere dappertutto e subito.
E adesso, dove finirà la fortuna di otto miliardi di dollari accumulata da Steve Jobs? Una cifra solo apparentemente alta, per una società il cui valore in Borsa è esploso dai cinque miliardi del 2000 ai 350 attuali. Infatti Jobs era soltanto il 39° uomo più ricco degli Stati Uniti, e il 110° al mondo. Otto volte meno dei 60 miliardi del suo rivale e coetaneo Bill Gates di Microsoft.
La vedova è Laurene Powell, 47enne sposata da Steve 20 anni fa con rito buddhista nel parco californiano Yosemite delle sequoie giganti, dopo che rimase incinta del suo maschio primogenito Reed Paul. Reed come l’università dell’Oregon che Jobs abbandonò dopo appena sei mesi.
È incredibile come nessuno dei più ricchi imprenditori del computer si sia mai laureato: Jobs, Gates, Mark Zuckerberg di Facebook, Lawrence Ellison di Oracle, Michael Dell.
Steve conobbe la moglie quando andò a tenere un discorso all’università di Stanford (attaccata alla Apple di Cupertino e alla sua casa di Palo Alto): Laurene stava prendendo un dottorato. Poi ha lavorato in finanza, ora si dedica alla filantropia e alla New America Foundation, un think tank politico di sinistra sui diritti civili, ma di destra in economia.
Dopo Reed Paul, che oggi ha 20 anni e assomiglia straordinariamente al padre, sono arrivate Erin Sienna (ora 16enne) ed Eve, 13.
Ma Steve Jobs ha anche un’altra figlia, di 33 anni: Lisa Brennan, nata da una gravidanza non desiderata dell’allora sua fidanzata Chris-Ann. La quale dovette penare non poco per fargliela riconoscere. Nonostante stessero assieme dai tempi del liceo, occorse una causa e un test del sangue che appurò la paternità al 94 per cento. Alla fine il mascanzoncello fu obbligato a versare 5 mila dollari, più 385 al mese e l’assistenza sanitaria. Briciole, perché ormai Jobs era già diventato milionario.
Lisa come la prima figlia
Si favoleggia che Steve abbia chiamato Lisa uno dei primi computer Apple in onore di questa figlia non voluta (esattamente come lui). La versione ufficiale è che Lisa stesse per Local integrated software architecture. In ogni caso, Lisa crescendo ha avuto buoni rapporti col padre, e dovrà partecipare in qualche modo alla divisione dell’eredità.
Un’altra donna importante nella vita di Steve Jobs è Mona Simpson, oggi 54enne: la sua sorella naturale. Quella che i genitori non rifiutarono. Si ritrovarono nell’86 e lei scrisse addirittura un libro sulla loro vicenda. Docente di inglese al Bard College (New York) e romanziera affermata, da un suo libro è stato tratto nel 1999 il film La mia adorabile nemica con Susan Sarandon e una giovanissima Natalie Portman.
Mauro Suttora
La nuova 'padrona' di Santoro
PARLA CINZIA MONTEVERDI, PRESIDENTE DI ZEROSTUDIO'S, LA SOCIETA' CHE PRODUCE 'SERVIZIO PUBBLICO'
Parma, 9 ottobre 2011
dal nostro inviato Mauro Suttora
Come si sente a essere la nuova padrona di Michele Santoro? «Figurarsi. Non posso dare ordini a Santoro. Nessuno c’è mai riuscito». Però è lei la presidente e amministratrice delegata della Zerostudio’s, società che dal 3 novembre manderà in onda Servizio pubblico: la nuova trasmissione del conduttore che a giugno ha abbandonato la Rai, ma non ha trovato altre reti che lo ospitino.
«Il mio ruolo principale è di tramite fra Santoro e Il Fatto Quotidiano, giornale che ha investito 350 mila euro, il 17,5 per cento dell’impresa. Lavoreremo in sinergia, anche perché Il Fatto ha un sito web arrivato in pochi mesi a mezzo milione di lettori giornalieri: ormai siamo i terzi, dopo Repubblica e Corriere della Sera. E Servizio pubblico andrà in onda propro su web, oltre che su un circuito di tv locali e su Sky, nel canale 504 del Tg24 Eventi».
Incontriamo Cinzia Monteverdi, 38 anni, nella sua mansarda di Parma. È appena partita la campagna di sottoscrizione di Servizio pubblico, associazione guidata dalla «santorina» di Annozero Giulia Innocenzi che chiede dieci euro agli spettatori di Santoro per rimetterlo in onda. L’azionariato popolare, iniziativa unica al mondo nella storia della tv, coprirà il 24% nella società. Cinzia è entusiasta: «Arrivano dieci sottoscrizioni al minuto, ce la faremo».
Sarà circondato da donne, Santoro. Oltre a lui, che con la moglie Sanja Podgajski ha il 51%, le consigliere d’amministrazione sono la Monteverdi, la Innocenzi e Angelica Canevari, consigliere delegato della Videa di Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia. «Ma questa “valanga rosa” è un puro caso, non l’abbiamo fatto apposta», sorride la Monteverdi.
«Ho cominciato a lavorare con Santoro nel marzo 2010 in Rai per una notte», dice Cinzia, «la trasmissione andata in onda da Bologna sugli schermi delle piazze d’Italia, tv locali, Current di Sky e web, per protesta contro la censura pre-elettorale: 13 per cento di audience. Bis lo scorso giugno con Tutti in piedi per la Fiom. E ora andremo avanti con la “multipiattaforma”: tv in chiaro, satellite e web».
I due milioni di capitale iniziale, però, coprono le spese per sole otto puntate, che costano 250 mila euro l’una. Come mai così tanto? «Per fare tv ci vogliono tanti soldi. Solo per la scenografia, centinaia di migliaia di euro. Affitto la banda web in streaming per tre ore: 50 mila euro. E così via...»
Potreste fare una tv povera, alla Gabanelli. «Michele vuole offrire un programma di qualità pari a quelli che faceva in Rai. E lì c’erano grosse disponibilità. Naturalmente il mio compito, come per tutti gli editori e produttori, sarà anche quello di far quadrare i conti».
E qui entra in gioco la pubblicità. Perché non c’è sottoscrizione popolare che tenga: per andare in onda non artigianalmente, con grandi numeri, ci vogliono gli spot. «Abbiamo una concessionaria, la Publishare di Parenzo e Fiorenza Mursia. Le prospettive sono buone. Il sito web del Fatto, per esempio, chiuderà quest’anno con 800 mila euro di pubblicità contro i 250 mila euro previsti ».
La Monteverdi non lo dice, ma per le venti puntate del 2012 la speranza è che entri in campo la concessionaria di Sky. Il problema è che alle aziende non piace fare pubblicità su media troppo caratterizzati politicamente. E Santoro rischia la stessa penuria che colpisce Il Fatto: grande successo di vendite (80 mila copie, 40 mila abbonamenti), ottimi bilanci (otto milioni di utile annuo su 30 di fatturato), ma introiti pubblicitari non adeguati a questi exploit.
Cinzia però è ottimista. Ha la stessa energia che la spinse tre anni fa, titolare di un’agenzia di eventi, a contattare Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto e colonna di Anno zero, dopo averne letto libri e articoli, e ad «appiccicarglisi come una cozza» per organizzare una sua serata a Carrara. «Poi, due anni fa, ho investito centomila euro, l’eredità dei miei nonni, per diventare socia fondatrice del Fatto. La scommessa è andata bene, e ora con Vincino e Vauro abbiamo resuscitato il famoso giornale satirico Il Male. E ora Santoro... Come ci ha insegnato Steve Jobs: “Siate folli, realizzate i vostri sogni”. Votavo a sinistra, poi Di Pietro, ma adesso nessuno mi convince: né Vendola, né Beppe Grillo, né Bersani. Sono andata a Roma a lavorare nell’amministrazione del Fatto perché ero stufa di lamentarmi, di essere scontenta, ma di non fare niente di concreto».
Sposata, fidanzata? «Già fatico a convivere con me stessa, figuriamoci con un uomo». Intanto, durante l’intervista continuano a telefonarle: prima Santoro, poi Travaglio, poi Antonio Padellaro, il direttore del Fatto. È domenica pomeriggio, e lei adora lavorare.
Parma, 9 ottobre 2011
dal nostro inviato Mauro Suttora
Come si sente a essere la nuova padrona di Michele Santoro? «Figurarsi. Non posso dare ordini a Santoro. Nessuno c’è mai riuscito». Però è lei la presidente e amministratrice delegata della Zerostudio’s, società che dal 3 novembre manderà in onda Servizio pubblico: la nuova trasmissione del conduttore che a giugno ha abbandonato la Rai, ma non ha trovato altre reti che lo ospitino.
«Il mio ruolo principale è di tramite fra Santoro e Il Fatto Quotidiano, giornale che ha investito 350 mila euro, il 17,5 per cento dell’impresa. Lavoreremo in sinergia, anche perché Il Fatto ha un sito web arrivato in pochi mesi a mezzo milione di lettori giornalieri: ormai siamo i terzi, dopo Repubblica e Corriere della Sera. E Servizio pubblico andrà in onda propro su web, oltre che su un circuito di tv locali e su Sky, nel canale 504 del Tg24 Eventi».
Incontriamo Cinzia Monteverdi, 38 anni, nella sua mansarda di Parma. È appena partita la campagna di sottoscrizione di Servizio pubblico, associazione guidata dalla «santorina» di Annozero Giulia Innocenzi che chiede dieci euro agli spettatori di Santoro per rimetterlo in onda. L’azionariato popolare, iniziativa unica al mondo nella storia della tv, coprirà il 24% nella società. Cinzia è entusiasta: «Arrivano dieci sottoscrizioni al minuto, ce la faremo».
Sarà circondato da donne, Santoro. Oltre a lui, che con la moglie Sanja Podgajski ha il 51%, le consigliere d’amministrazione sono la Monteverdi, la Innocenzi e Angelica Canevari, consigliere delegato della Videa di Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia. «Ma questa “valanga rosa” è un puro caso, non l’abbiamo fatto apposta», sorride la Monteverdi.
«Ho cominciato a lavorare con Santoro nel marzo 2010 in Rai per una notte», dice Cinzia, «la trasmissione andata in onda da Bologna sugli schermi delle piazze d’Italia, tv locali, Current di Sky e web, per protesta contro la censura pre-elettorale: 13 per cento di audience. Bis lo scorso giugno con Tutti in piedi per la Fiom. E ora andremo avanti con la “multipiattaforma”: tv in chiaro, satellite e web».
I due milioni di capitale iniziale, però, coprono le spese per sole otto puntate, che costano 250 mila euro l’una. Come mai così tanto? «Per fare tv ci vogliono tanti soldi. Solo per la scenografia, centinaia di migliaia di euro. Affitto la banda web in streaming per tre ore: 50 mila euro. E così via...»
Potreste fare una tv povera, alla Gabanelli. «Michele vuole offrire un programma di qualità pari a quelli che faceva in Rai. E lì c’erano grosse disponibilità. Naturalmente il mio compito, come per tutti gli editori e produttori, sarà anche quello di far quadrare i conti».
E qui entra in gioco la pubblicità. Perché non c’è sottoscrizione popolare che tenga: per andare in onda non artigianalmente, con grandi numeri, ci vogliono gli spot. «Abbiamo una concessionaria, la Publishare di Parenzo e Fiorenza Mursia. Le prospettive sono buone. Il sito web del Fatto, per esempio, chiuderà quest’anno con 800 mila euro di pubblicità contro i 250 mila euro previsti ».
La Monteverdi non lo dice, ma per le venti puntate del 2012 la speranza è che entri in campo la concessionaria di Sky. Il problema è che alle aziende non piace fare pubblicità su media troppo caratterizzati politicamente. E Santoro rischia la stessa penuria che colpisce Il Fatto: grande successo di vendite (80 mila copie, 40 mila abbonamenti), ottimi bilanci (otto milioni di utile annuo su 30 di fatturato), ma introiti pubblicitari non adeguati a questi exploit.
Cinzia però è ottimista. Ha la stessa energia che la spinse tre anni fa, titolare di un’agenzia di eventi, a contattare Marco Travaglio, vicedirettore del Fatto e colonna di Anno zero, dopo averne letto libri e articoli, e ad «appiccicarglisi come una cozza» per organizzare una sua serata a Carrara. «Poi, due anni fa, ho investito centomila euro, l’eredità dei miei nonni, per diventare socia fondatrice del Fatto. La scommessa è andata bene, e ora con Vincino e Vauro abbiamo resuscitato il famoso giornale satirico Il Male. E ora Santoro... Come ci ha insegnato Steve Jobs: “Siate folli, realizzate i vostri sogni”. Votavo a sinistra, poi Di Pietro, ma adesso nessuno mi convince: né Vendola, né Beppe Grillo, né Bersani. Sono andata a Roma a lavorare nell’amministrazione del Fatto perché ero stufa di lamentarmi, di essere scontenta, ma di non fare niente di concreto».
Sposata, fidanzata? «Già fatico a convivere con me stessa, figuriamoci con un uomo». Intanto, durante l’intervista continuano a telefonarle: prima Santoro, poi Travaglio, poi Antonio Padellaro, il direttore del Fatto. È domenica pomeriggio, e lei adora lavorare.
Monday, October 10, 2011
La più bella miss d'Italia
DA ESCLUSA A REGISTA: IL FILM DI MIRCA VIOLA
di Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2011
«Mirca Viola è in assoluto la più bella Miss Italia delle edizioni recenti». E se lo dice Michela Rocco di Torrepadula, che nel 1987 vinse lo scettro proprio grazie alla squalifica di Mirca, c'è da crederle. Successe il finimondo il giorno dopo l'incoronazione, quando si scoprì che la 19enne forlivese Viola era sposata e pure mamma, in barba al regolamento.
In questi giorni Mirca debutta come regista, soggettista e sceneggiatrice: il 7 ottobre esce il suo primo film, L'amore fa male, con Stefania Rocca e Nicole Grimaudo.
«È una storia ambientata fra Catania e Roma che mi sta molto a cuore», dice lei, che dopo 21 anni (e un'altra figlia) si è separata dal marito Enzo Gallo. Col quale però è rimasta in ottimi rapporti, visto che è lui a produrre il film. Come attrice la Viola in questi anni ha recitato sia sul grande schermo (Banditi con Ben Gazzara, Una vacanza all'inferno con Giancarlo Giannini), sia in tv: Incantesimo, Centovetrine, Lo scandalo della Banca Romana. E ora, dopo vari cortometraggi e due aiuto-regie, un film tutto suo.
di Mauro Suttora
Oggi, 3 ottobre 2011
«Mirca Viola è in assoluto la più bella Miss Italia delle edizioni recenti». E se lo dice Michela Rocco di Torrepadula, che nel 1987 vinse lo scettro proprio grazie alla squalifica di Mirca, c'è da crederle. Successe il finimondo il giorno dopo l'incoronazione, quando si scoprì che la 19enne forlivese Viola era sposata e pure mamma, in barba al regolamento.
In questi giorni Mirca debutta come regista, soggettista e sceneggiatrice: il 7 ottobre esce il suo primo film, L'amore fa male, con Stefania Rocca e Nicole Grimaudo.
«È una storia ambientata fra Catania e Roma che mi sta molto a cuore», dice lei, che dopo 21 anni (e un'altra figlia) si è separata dal marito Enzo Gallo. Col quale però è rimasta in ottimi rapporti, visto che è lui a produrre il film. Come attrice la Viola in questi anni ha recitato sia sul grande schermo (Banditi con Ben Gazzara, Una vacanza all'inferno con Giancarlo Giannini), sia in tv: Incantesimo, Centovetrine, Lo scandalo della Banca Romana. E ora, dopo vari cortometraggi e due aiuto-regie, un film tutto suo.
Monday, October 03, 2011
Parti lese e illese
Milano, 3 ottobre, processo Berlusconi-Fede-Ruby-Mora-Minetti. In aula arriva la marocchina Imane Fadil [una delle 32 'olgettine', ndr]: "Sono parte lesa"
E se si chiamasse Imene, sarebbe illesa?
E se si chiamasse Imene, sarebbe illesa?
Wednesday, September 28, 2011
Cosa pensano i tedeschi dell'Italia
I TEDESCHI SI SONO STUFATI DI PAGARE.
NASCERANNO UN EURO1 NORDICO E UN EURO2 MEDITERRANEO?
Oggi, 21 settembre 2011
di Mauro Suttora
Il 93 per cento dei tedeschi rifiuta gli Eurobond, cioè i titoli di stato europei che metterebbero in sicurezza le finanze pubbliche degli Stati Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, in inglese «maiali») che rischiano la bancarotta. L’Europa si spacca: da una parte il Nord, con i bilanci in ordine, dall’altra i deficit cronici e astronomici del Mediterraneo.
Ma davvero la Germania della cancelliera Angela Merkel non è più disposta ad aiutare l’Italia, il cui debito di 1.900 miliardi supera da solo quello di Grecia, Portogallo e Spagna messe assieme?
In un periodo in cui economisti ed «esperti» sembrano non essere più capaci di imbroccare una previsione, abbiamo chiesto un parere a quattro persone «qualunque», ma qualificate: tedesche che da decenni vivono in Italia, e un’italiana che si è stabilita in Germania. Per sapere a che punto è un rapporto di amore/odio che da più di mille anni (da Carlomagno a Schumacher, passando per Barbarossa, Federico II, Beethoven e Hitler) ci lega nel bene e nel male.
Babette Riefenstahl, 44 anni, architetto (da Berlino a Milano):
«I tedeschi sono disposti ad aiutare finanziariamente l’Italia, però ora hanno l’impressione che siano soldi buttati in un pozzo senza fondo. Non vedono miglioramenti: solo tanta disorganizzazione e dispersione di risorse. Non voglio fare l’elogio dell’efficienza tedesca, a volte quadrata fino all’ottusità. Va bene anche una gestione fantasiosa, all’italiana. Ma i risultati devono esserci. Anche perché l’Italia ha risorse enormi ed è una nazione fondatrice dell’Unione europea.
«I tedeschi hanno una vera e propria passione per l’Italia, per questo il dispiacere di vedervi ridotti così è grandissimo. Io vivo qui da 25 anni, sento di appartenere all’Italia. Ma proprio per questo soffro ancora di più. Ci si arrabbia con quelli a cui si vuole bene, non con gli estranei. E mi stupisce la mancanza di proteste da parte degli italiani. Forse perché il frigo è ancora pieno, quindi si tira avanti rassegnati.
«Fra i più grandi sprechi vedo la burocrazia della pubblica amministrazione. In Germania tante cose possono essere gestite via internet, mentre in Italia per chiedere un semplice documento bisogna ancora andare di persona negli uffici a fare code e perdere tempo. Tutto questo ha un costo anche economico».
Antje Stehn, 48 anni, pittrice (da Amburgo a Milano):
«La Germania ha già prestato parecchi soldi alla Grecia, che però resta nei guai. E questo aumenta il nervosismo a Berlino: nel dibattito al Parlamento sui nuovi aiuti i deputati si sono quasi picchiati. Ora anche l’Italia sta andando fuori controllo, e i tedeschi vedono un governo italiano debole, senza credibilità. Berlusconi non viene preso sul serio. Ci vuole un governo unico europeo, per non essere governati da banchieri che non agiscono nell’interesse comune.
«Tedeschi formiche e italiani cicale? Attenzione ai luoghi comuni: tre anni fa è stata proprio la Germania a sforare il 3 per cento del deficit, limite che pareva sacro. E poi tutti dietro. Adesso la nostra economia si è ripresa, anche perché investiamo molto nelle energie alternative, addirittura nel solare.
«Vivo in Italia da trent’anni, in questo periodo ho visto allargarsi il divario fra ricchi e poveri. Ora subite l’attacco degli speculatori, che colpiscono sempre chi è debole. Ma è l’Italia a essere diventata vulnerabile».
Adriane Selle Barbera, 37 anni, ex modella (da Amburgo a Biella):
«Chiedono sempre ai tedeschi di aiutare tutti, ci siamo un po’ stufati. La Germania ha i suoi problemi, non può dare sempre soldi agli altri. Anche perché alla Grecia ha già dato, e non è servito a granché. Comunque i tedeschi si lamentano e brontolano, però alla fine aprono il portafogli. E il loro rappresentante nella Banca europea ha dovuto dimettersi.
«Gli italiani hanno ricominciato a emigrare verso la Germania. Fino a trent’anni fa erano operai o gelatai, ora sono giovani laureati senza lavoro in Italia che fuggono dagli affitti assurdi di Roma o Milano. Non so se l’euro sia stato un affare per l’Italia. Prima del 2001 la vita qui costava meno, lo ricordo bene perché arrivai a Milano come modella e per laurearmi allo Iulm. Ora invece molti prezzi sono più alti. Ho una bimba di un anno, il suo latte in polvere in Germania costa la metà. E così per medicine omeopatiche, prodotti naturali, collirio, vitamine... Come fanno a chiedere mille euro a notte in certi alberghi sardi?
«L’attrazione fra tedeschi e italiani è proverbiale: siamo così diversi che ci completiamo, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Io non potrei più vivere in Germania, quando torno ad Amburgo non riesco neppure a parcheggiare che qualcuno mi critica perché ho superato una certa striscia, sono disordinata... I tedeschi chic abbandonano la birra per il vino, mentre i giovani italiani fanno il contrario. Ma poi, di quale Germania e Italia stiamo parlando? Amburgo e Monaco di Baviera sono differenti quanto Milano e Napoli».
Marianna Del Prà, 49 anni, professoressa alla scuola Montessori di Friburgo (Germania):
«Ormai qui in Germania si leggono e si sentono frasi tipo “Stati vergogna” o “Club Med”, in riferimento a Italia, Grecia, Spagna e Portogallo. Non c’è più rispetto per i politici di questi Paesi. Perfino lo Zeit, giornale liberale progressista e politicamente corretto, si domanda: “Perché dobbiamo mantenerli? Perché rischiare di polverizzare i nostri risparmi?”
«Quelli che invocano tagli drastici negli aiuti ai Paesi mediterranei, però, non vogliono meno Europa. Anzi, propongono un’autorità comune per far rispettare le leggi e far pagare le tasse dappertutto. Come negli Stati Uniti. Dicono: «Lasciamo che la Grecia dichiari bancarotta», ma non mi sembra che vogliano separare l’euro in due: da una parte un euro forte, nordico, dall’altra un euro mediterraneo che si possa svalutare.
«Alcuni stereotipi, come quello dei tedeschi formiche risparmiatrici e degli italiani o greci cicale pigre, resistono. Ma altri non reggono: per esempio quello dei tedeschi ordinati e puntuali. Friburgo, la città dove vivo da 17 anni, non e´ più pulita di Udine, da dove provengo. E anche qui i treni sono spesso in ritardo.
«Si dice: gli italiani stimano i tedeschi ma non li amano, i tedeschi amano gli italiani ma non li stimano. Io però mi farei governare volentieri dalla Merkel, se vivessi in Italia. Qui la sanità pubblica funziona benissimo: fino a qualche anno fa era tutto gratis, perfino il dentista. Ora hanno messo i ticket, ci si sente tutti un po’ più in pericolo, c’è chi ha perso il lavoro. Ma si sta meglio che in Italia. A parte il clima, che è uno dei motivi per cui i tedeschi continuano ad amare l’Italia».
Mauro Suttora
NASCERANNO UN EURO1 NORDICO E UN EURO2 MEDITERRANEO?
Oggi, 21 settembre 2011
di Mauro Suttora
Il 93 per cento dei tedeschi rifiuta gli Eurobond, cioè i titoli di stato europei che metterebbero in sicurezza le finanze pubbliche degli Stati Pigs (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, in inglese «maiali») che rischiano la bancarotta. L’Europa si spacca: da una parte il Nord, con i bilanci in ordine, dall’altra i deficit cronici e astronomici del Mediterraneo.
Ma davvero la Germania della cancelliera Angela Merkel non è più disposta ad aiutare l’Italia, il cui debito di 1.900 miliardi supera da solo quello di Grecia, Portogallo e Spagna messe assieme?
In un periodo in cui economisti ed «esperti» sembrano non essere più capaci di imbroccare una previsione, abbiamo chiesto un parere a quattro persone «qualunque», ma qualificate: tedesche che da decenni vivono in Italia, e un’italiana che si è stabilita in Germania. Per sapere a che punto è un rapporto di amore/odio che da più di mille anni (da Carlomagno a Schumacher, passando per Barbarossa, Federico II, Beethoven e Hitler) ci lega nel bene e nel male.
Babette Riefenstahl, 44 anni, architetto (da Berlino a Milano):
«I tedeschi sono disposti ad aiutare finanziariamente l’Italia, però ora hanno l’impressione che siano soldi buttati in un pozzo senza fondo. Non vedono miglioramenti: solo tanta disorganizzazione e dispersione di risorse. Non voglio fare l’elogio dell’efficienza tedesca, a volte quadrata fino all’ottusità. Va bene anche una gestione fantasiosa, all’italiana. Ma i risultati devono esserci. Anche perché l’Italia ha risorse enormi ed è una nazione fondatrice dell’Unione europea.
«I tedeschi hanno una vera e propria passione per l’Italia, per questo il dispiacere di vedervi ridotti così è grandissimo. Io vivo qui da 25 anni, sento di appartenere all’Italia. Ma proprio per questo soffro ancora di più. Ci si arrabbia con quelli a cui si vuole bene, non con gli estranei. E mi stupisce la mancanza di proteste da parte degli italiani. Forse perché il frigo è ancora pieno, quindi si tira avanti rassegnati.
«Fra i più grandi sprechi vedo la burocrazia della pubblica amministrazione. In Germania tante cose possono essere gestite via internet, mentre in Italia per chiedere un semplice documento bisogna ancora andare di persona negli uffici a fare code e perdere tempo. Tutto questo ha un costo anche economico».
Antje Stehn, 48 anni, pittrice (da Amburgo a Milano):
«La Germania ha già prestato parecchi soldi alla Grecia, che però resta nei guai. E questo aumenta il nervosismo a Berlino: nel dibattito al Parlamento sui nuovi aiuti i deputati si sono quasi picchiati. Ora anche l’Italia sta andando fuori controllo, e i tedeschi vedono un governo italiano debole, senza credibilità. Berlusconi non viene preso sul serio. Ci vuole un governo unico europeo, per non essere governati da banchieri che non agiscono nell’interesse comune.
«Tedeschi formiche e italiani cicale? Attenzione ai luoghi comuni: tre anni fa è stata proprio la Germania a sforare il 3 per cento del deficit, limite che pareva sacro. E poi tutti dietro. Adesso la nostra economia si è ripresa, anche perché investiamo molto nelle energie alternative, addirittura nel solare.
«Vivo in Italia da trent’anni, in questo periodo ho visto allargarsi il divario fra ricchi e poveri. Ora subite l’attacco degli speculatori, che colpiscono sempre chi è debole. Ma è l’Italia a essere diventata vulnerabile».
Adriane Selle Barbera, 37 anni, ex modella (da Amburgo a Biella):
«Chiedono sempre ai tedeschi di aiutare tutti, ci siamo un po’ stufati. La Germania ha i suoi problemi, non può dare sempre soldi agli altri. Anche perché alla Grecia ha già dato, e non è servito a granché. Comunque i tedeschi si lamentano e brontolano, però alla fine aprono il portafogli. E il loro rappresentante nella Banca europea ha dovuto dimettersi.
«Gli italiani hanno ricominciato a emigrare verso la Germania. Fino a trent’anni fa erano operai o gelatai, ora sono giovani laureati senza lavoro in Italia che fuggono dagli affitti assurdi di Roma o Milano. Non so se l’euro sia stato un affare per l’Italia. Prima del 2001 la vita qui costava meno, lo ricordo bene perché arrivai a Milano come modella e per laurearmi allo Iulm. Ora invece molti prezzi sono più alti. Ho una bimba di un anno, il suo latte in polvere in Germania costa la metà. E così per medicine omeopatiche, prodotti naturali, collirio, vitamine... Come fanno a chiedere mille euro a notte in certi alberghi sardi?
«L’attrazione fra tedeschi e italiani è proverbiale: siamo così diversi che ci completiamo, abbiamo bisogno gli uni degli altri. Io non potrei più vivere in Germania, quando torno ad Amburgo non riesco neppure a parcheggiare che qualcuno mi critica perché ho superato una certa striscia, sono disordinata... I tedeschi chic abbandonano la birra per il vino, mentre i giovani italiani fanno il contrario. Ma poi, di quale Germania e Italia stiamo parlando? Amburgo e Monaco di Baviera sono differenti quanto Milano e Napoli».
Marianna Del Prà, 49 anni, professoressa alla scuola Montessori di Friburgo (Germania):
«Ormai qui in Germania si leggono e si sentono frasi tipo “Stati vergogna” o “Club Med”, in riferimento a Italia, Grecia, Spagna e Portogallo. Non c’è più rispetto per i politici di questi Paesi. Perfino lo Zeit, giornale liberale progressista e politicamente corretto, si domanda: “Perché dobbiamo mantenerli? Perché rischiare di polverizzare i nostri risparmi?”
«Quelli che invocano tagli drastici negli aiuti ai Paesi mediterranei, però, non vogliono meno Europa. Anzi, propongono un’autorità comune per far rispettare le leggi e far pagare le tasse dappertutto. Come negli Stati Uniti. Dicono: «Lasciamo che la Grecia dichiari bancarotta», ma non mi sembra che vogliano separare l’euro in due: da una parte un euro forte, nordico, dall’altra un euro mediterraneo che si possa svalutare.
«Alcuni stereotipi, come quello dei tedeschi formiche risparmiatrici e degli italiani o greci cicale pigre, resistono. Ma altri non reggono: per esempio quello dei tedeschi ordinati e puntuali. Friburgo, la città dove vivo da 17 anni, non e´ più pulita di Udine, da dove provengo. E anche qui i treni sono spesso in ritardo.
«Si dice: gli italiani stimano i tedeschi ma non li amano, i tedeschi amano gli italiani ma non li stimano. Io però mi farei governare volentieri dalla Merkel, se vivessi in Italia. Qui la sanità pubblica funziona benissimo: fino a qualche anno fa era tutto gratis, perfino il dentista. Ora hanno messo i ticket, ci si sente tutti un po’ più in pericolo, c’è chi ha perso il lavoro. Ma si sta meglio che in Italia. A parte il clima, che è uno dei motivi per cui i tedeschi continuano ad amare l’Italia».
Mauro Suttora
Tuesday, September 20, 2011
Mussolini e Maria José
LE POLEMICHE DOPO LA RIVELAZIONE DEL FLIRT
di Roberto Alessi e Mauro Suttora
Oggi, 13 settembre 2011
La lettera pubblicata da Oggi due settimane fa in cui Romano Mussolini scrive che tra suo padre Benito e la principessa Maria Josè di Savoia (poi regina) ci fu «una relazione sentimentale intima» ha fatto il giro del mondo.
Prima di realizzare il servizio avevamo contattato le parti più interessate ai due personaggi coinvolti: Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Maria Josè e ultimo discendente dell’ex regina, e Maria Scicolone, moglie separata di Romano.
Il principe, molto legato alla nonna, ci ha detto: «Non ho mai sentito una cosa del genere». La Scicolone, sorella di Sophia Loren, in una prima telefonata ha escluso che Romano, scomparso nel 2006, potesse aver scritto quelle parole. Vista la lettera, però, non solo ne ha confermato l’autenticità, ma ha rivelato che di quella relazione lei aveva spesso parlato con la vedova di Benito Mussolini, Rachele, con la quale aveva vissuto per anni.
Nonostante la conferma dello scoop, sono iniziate le proteste. Ecco associazioni monarchiche («Nulla di più falso»), nostalgici del ventennio («Indegno, Mussolini è stato il più grande statista d’Italia»), e anche la principessa Maria Gabriella di Savoia, figlia di Maria Josè. La quale ha definito la lettera di Romano «vecchia poltiglia». Paolo Granzotto su Il Giornale ha aggiunto: «È solo una vecchia patacca servita come ghiottoneria storica».
Peccato che nello scorso numero di Oggi Vittorio Emanuele, altro figlio di Maria Josè, ci abbia onestamente dichiarato: «Non posso escludere il presunto flirt, ma gli unici che potevano sapere la verità non sono più vivi. Quindi non la sapremo mai».
Romano Mussolini scrisse la lettera nel 1971 al direttore del settimanale Gente Antonio Terzi (poi vicedirettore del Corriere della Sera) dopo che l’autista del duce Ercole Boratto rivelò che tra il dittatore e la principessa c’era stata una liaison.
«Caro Terzi», si legge nella missiva di Romano, «posso in perfetta buona fede confermarLe… spesso in casa nostra si è parlato dei rapporti sia politici sia sentimentali tra Maria José e mio padre, e Le posso dire con sincerità che mia madre a tale proposito è stata sempre (anche se con logico riserbo) assai esplicita: tra mio padre e l’allora Principessa di Piemonte c’è stato un breve periodo di relazione sentimentale intima, poi credo sicuramente interrotta per volontà di mio padre».
«Ho trovato solo ora la lettera nell’archivio di mio padre scomparso nel 2001», ci dice Giovanni Terzi, figlio di Antonio, «e l’ho consegnata a Oggi». Probabilmente Terzi e Mussolini non hanno divulgato la lettera per rispetto verso Maria Josè, morta anche lei nel 2001.
E gli storici, cosa pensano dello scoop di Oggi? «Certo, è difficile pensare, col senno di poi, che ci potesse essere un coinvolgimento così diretto fra qualcuno dei Savoia e Benito Mussolini», ci dice Pasquale Chessa, autore tv (Raistoria) e di molti libri sul fascismo (il più recente: L’ultima lettera di Benito).
«Ma Maria Josè, anticonformista e spregiudicata, non era una Savoia tipica. Difficile capire cosa sia davvero successo. Rimane il dato storico della lettera di Romano Mussolini: tramanda una vulgata famigliare che bene si incrocia con la testimonianza di Clara Petacci, la quale delle parole di Benito si è rivelata essere lo specchio fedele [«La principessa di Piemonte si offrì a me, ma io la rifiutai»]. Naturalmente non si può escludere che si tratti di una vanteria di Mussolini. Oppure che ci abbia provato e sia stato lui rifiutato. Certo sarebbe bello se i Savoia aprissero per davvero i loro archivi consentendo agli studiosi di uscire dal pettegolezzo per entrare nella storia».
«Che i Savoia aprano gli archivi»
Su questo tasto preme anche Christopher Duggan, docente di Storia italiana all’università inglese di Reading e autore di La forza del destino: «La prova definitiva della relazione con Mussolini non ci può essere perché la famiglia reale si è portata via gli archivi. Non sappiamo neppure dove siano, forse a Losanna. Probabilmente molto materiale compromettente sul periodo fascista è stato distrutto».
Roberto Alessi e Mauro Suttora
di Roberto Alessi e Mauro Suttora
Oggi, 13 settembre 2011
La lettera pubblicata da Oggi due settimane fa in cui Romano Mussolini scrive che tra suo padre Benito e la principessa Maria Josè di Savoia (poi regina) ci fu «una relazione sentimentale intima» ha fatto il giro del mondo.
Prima di realizzare il servizio avevamo contattato le parti più interessate ai due personaggi coinvolti: Emanuele Filiberto di Savoia, nipote di Maria Josè e ultimo discendente dell’ex regina, e Maria Scicolone, moglie separata di Romano.
Il principe, molto legato alla nonna, ci ha detto: «Non ho mai sentito una cosa del genere». La Scicolone, sorella di Sophia Loren, in una prima telefonata ha escluso che Romano, scomparso nel 2006, potesse aver scritto quelle parole. Vista la lettera, però, non solo ne ha confermato l’autenticità, ma ha rivelato che di quella relazione lei aveva spesso parlato con la vedova di Benito Mussolini, Rachele, con la quale aveva vissuto per anni.
Nonostante la conferma dello scoop, sono iniziate le proteste. Ecco associazioni monarchiche («Nulla di più falso»), nostalgici del ventennio («Indegno, Mussolini è stato il più grande statista d’Italia»), e anche la principessa Maria Gabriella di Savoia, figlia di Maria Josè. La quale ha definito la lettera di Romano «vecchia poltiglia». Paolo Granzotto su Il Giornale ha aggiunto: «È solo una vecchia patacca servita come ghiottoneria storica».
Peccato che nello scorso numero di Oggi Vittorio Emanuele, altro figlio di Maria Josè, ci abbia onestamente dichiarato: «Non posso escludere il presunto flirt, ma gli unici che potevano sapere la verità non sono più vivi. Quindi non la sapremo mai».
Romano Mussolini scrisse la lettera nel 1971 al direttore del settimanale Gente Antonio Terzi (poi vicedirettore del Corriere della Sera) dopo che l’autista del duce Ercole Boratto rivelò che tra il dittatore e la principessa c’era stata una liaison.
«Caro Terzi», si legge nella missiva di Romano, «posso in perfetta buona fede confermarLe… spesso in casa nostra si è parlato dei rapporti sia politici sia sentimentali tra Maria José e mio padre, e Le posso dire con sincerità che mia madre a tale proposito è stata sempre (anche se con logico riserbo) assai esplicita: tra mio padre e l’allora Principessa di Piemonte c’è stato un breve periodo di relazione sentimentale intima, poi credo sicuramente interrotta per volontà di mio padre».
«Ho trovato solo ora la lettera nell’archivio di mio padre scomparso nel 2001», ci dice Giovanni Terzi, figlio di Antonio, «e l’ho consegnata a Oggi». Probabilmente Terzi e Mussolini non hanno divulgato la lettera per rispetto verso Maria Josè, morta anche lei nel 2001.
E gli storici, cosa pensano dello scoop di Oggi? «Certo, è difficile pensare, col senno di poi, che ci potesse essere un coinvolgimento così diretto fra qualcuno dei Savoia e Benito Mussolini», ci dice Pasquale Chessa, autore tv (Raistoria) e di molti libri sul fascismo (il più recente: L’ultima lettera di Benito).
«Ma Maria Josè, anticonformista e spregiudicata, non era una Savoia tipica. Difficile capire cosa sia davvero successo. Rimane il dato storico della lettera di Romano Mussolini: tramanda una vulgata famigliare che bene si incrocia con la testimonianza di Clara Petacci, la quale delle parole di Benito si è rivelata essere lo specchio fedele [«La principessa di Piemonte si offrì a me, ma io la rifiutai»]. Naturalmente non si può escludere che si tratti di una vanteria di Mussolini. Oppure che ci abbia provato e sia stato lui rifiutato. Certo sarebbe bello se i Savoia aprissero per davvero i loro archivi consentendo agli studiosi di uscire dal pettegolezzo per entrare nella storia».
«Che i Savoia aprano gli archivi»
Su questo tasto preme anche Christopher Duggan, docente di Storia italiana all’università inglese di Reading e autore di La forza del destino: «La prova definitiva della relazione con Mussolini non ci può essere perché la famiglia reale si è portata via gli archivi. Non sappiamo neppure dove siano, forse a Losanna. Probabilmente molto materiale compromettente sul periodo fascista è stato distrutto».
Roberto Alessi e Mauro Suttora
Friday, September 09, 2011
11 settembre, no tower
PERCHÉ LA RICOSTRUZIONE DI GROUND ZERO RITARDA?
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
New York, settembre 2011
Hanno fatto prima ad andare sulla Luna che a ricostruire le Twin Towers, gli americani. Passarono otto anni, da quando il presidente John Kennedy lo promise, fino all'allunaggio del 1969. Ci saranno voluti invece dodici anni quando, nel 2013, verrà inaugurata la Freedom Tower, alta più di mezzo chilometro (1.776 piedi, come l'anno di nascita degli Stati Uniti).
Ma non sarà il grattacielo più alto del mondo, superato da quelli a Dubai e La Mecca (primato islamico, per lo sconforto dei conservatori). E non si chiamerà più Torre della Libertà, bensì burocraticamente One World Trade Center, per non diventare bersaglio di altri fanatici.
«Ricostruiremo le torri in tre anni!», avevano proclamato le autorità il 12 settembre 2001. Poi, la triste realtà: nessuno voleva riaprire uffici in quel posto maledetto. E, senza contratti d' affitto, nessuno negli Usa costruisce: impera il dio dollaro. In extremis si sono offerti enti pubblici, i cinesi, l'editore Conde Nast. E i lavori sono partiti.
di Mauro Suttora per il settimanale Oggi
New York, settembre 2011
Hanno fatto prima ad andare sulla Luna che a ricostruire le Twin Towers, gli americani. Passarono otto anni, da quando il presidente John Kennedy lo promise, fino all'allunaggio del 1969. Ci saranno voluti invece dodici anni quando, nel 2013, verrà inaugurata la Freedom Tower, alta più di mezzo chilometro (1.776 piedi, come l'anno di nascita degli Stati Uniti).
Ma non sarà il grattacielo più alto del mondo, superato da quelli a Dubai e La Mecca (primato islamico, per lo sconforto dei conservatori). E non si chiamerà più Torre della Libertà, bensì burocraticamente One World Trade Center, per non diventare bersaglio di altri fanatici.
«Ricostruiremo le torri in tre anni!», avevano proclamato le autorità il 12 settembre 2001. Poi, la triste realtà: nessuno voleva riaprire uffici in quel posto maledetto. E, senza contratti d' affitto, nessuno negli Usa costruisce: impera il dio dollaro. In extremis si sono offerti enti pubblici, i cinesi, l'editore Conde Nast. E i lavori sono partiti.
Thursday, September 08, 2011
Mussolini e Maria José amanti?
Nel suo diario la Petacci scrive che Benito le disse: «La Principessa è venuta in spiaggia, era quasi nuda. ma ho respinto le sue avances»
di Mauro Suttora
Oggi, 7 settembre 2011
«Maria José si sdraiava qui vicino a
me, le [nostre] gambe quasi si
toccavano ed era seminuda. Io
ero così come sto con te... Bastiano [il guardiano
della spiaggia di Castelporziano] mi disse:
“C’è Maria di Savoia che chiede se può venire giù da lei”.
“Ma sì venga pure”.
Stavo seminudo, mi affrettai a coprirmi e
m’infilai quei calzoni lì, di spugna. Lei arriva,
mi dice: “Disturbo forse?”
“Ma no altezza, fate pure...”
Con un gesto fa cadere il vestito e... Era quasi
nuda, un paio di mutandine cortissime e
due piccoli strati sul seno. Rimasi meravigliato.
Naturalmente non lo davo a vedere,
pensai: “Mah, è un po’ nuda”.
Mi tolsi anch’io i pantaloni. [...] Ci siamo
sdraiati sulla sabbia, era l’11 agosto e c’era un
sole tremendo. Lei disse: “Facciamo il bagno,
io so nuotare sapete, sono una nuotatrice dei
mari del nord”. Andammo. Nuotava bene.
Ogni tanto urtava le mie gambe, non so se
lo facesse apposta. Certo io non facevo nulla
per andarle contro. Siamo tornati, e lei si
sdraiò qui vicino amecon gran disinvoltura.
Ogni tanto mi dava lunghe guardate».
È Benito Mussolini a parlare. Racconta questo
incredibile episodio all’amante Claretta
Petacci, che lo trascrive nel proprio diario
dell’11 novembre 1937.Due anni fa i diari di
Claretta (autentici) sono stati desecretati
dall’Archivio di Stato e pubblicati nel libro Mussolini segreto (Rizzoli, 2010).
Mussolini con Claretta afferma di avere ricevuto avances sessuali da parte di Maria José nell’estate ’36, ma di averle resistito. Vista la gelosia della Petacci, non potrebbe dirle altrimenti anche se non fosse vero.
Continua Mussolini: «In me non si mosse
nulla, non ho avuto il minimo impulso fisico.
Eppure qualsiasi donna fosse venuta qui
e si fosse messa in quelle condizioni di nudità,
l’avrei presa. Non è brutta, ha un bel corpo
fatto bene, sottile. È bruttina di viso, e
certe fette: che piedi, vedessi. Poi quei capelli
biondi crespi, un po’ antipatici. Comunque,
fosse stata anche più brutta di lei, che
non è brutta, io l’avrei presa. Lei no. Come
sarà? È legnosa, non attrae. [...] Stava in tale
modo che a volte si vedeva anche il pelo.
«L’indomani era ancora qui nuda, più succinta.
Aveva un fazzoletto verde in testa e gli
occhiali neri, il seno quasi libero. Entrò, si
sdraiò subito lunga...
«Si metteva in tutte le posizioni, così a ventre
sotto, il c... per aria e si muoveva, mi sfiorava
le gambe e mi guardava. Si fosse mosso
nulla in me, ero meravigliato. Avrà pensato:
“Mussolini è impotente, oppure un fesso”.
Era talmente succinta che nessun uomo che
meriti di chiamarsi così sarebbe stato fermo.
Invece nulla: io ero il capo del governo, e lei
la principessa. [...] Si muoveva e si metteva in
certe posizioni mezza nuda che veramente,
sai, ci voleva tutto il mio sangue freddo. No,
non l’avrei mai toccata. È repellente, assolutamente
non fa nessuna impressione».
di Mauro Suttora
Oggi, 7 settembre 2011
«Maria José si sdraiava qui vicino a
me, le [nostre] gambe quasi si
toccavano ed era seminuda. Io
ero così come sto con te... Bastiano [il guardiano
della spiaggia di Castelporziano] mi disse:
“C’è Maria di Savoia che chiede se può venire giù da lei”.
“Ma sì venga pure”.
Stavo seminudo, mi affrettai a coprirmi e
m’infilai quei calzoni lì, di spugna. Lei arriva,
mi dice: “Disturbo forse?”
“Ma no altezza, fate pure...”
Con un gesto fa cadere il vestito e... Era quasi
nuda, un paio di mutandine cortissime e
due piccoli strati sul seno. Rimasi meravigliato.
Naturalmente non lo davo a vedere,
pensai: “Mah, è un po’ nuda”.
Mi tolsi anch’io i pantaloni. [...] Ci siamo
sdraiati sulla sabbia, era l’11 agosto e c’era un
sole tremendo. Lei disse: “Facciamo il bagno,
io so nuotare sapete, sono una nuotatrice dei
mari del nord”. Andammo. Nuotava bene.
Ogni tanto urtava le mie gambe, non so se
lo facesse apposta. Certo io non facevo nulla
per andarle contro. Siamo tornati, e lei si
sdraiò qui vicino amecon gran disinvoltura.
Ogni tanto mi dava lunghe guardate».
È Benito Mussolini a parlare. Racconta questo
incredibile episodio all’amante Claretta
Petacci, che lo trascrive nel proprio diario
dell’11 novembre 1937.Due anni fa i diari di
Claretta (autentici) sono stati desecretati
dall’Archivio di Stato e pubblicati nel libro Mussolini segreto (Rizzoli, 2010).
Mussolini con Claretta afferma di avere ricevuto avances sessuali da parte di Maria José nell’estate ’36, ma di averle resistito. Vista la gelosia della Petacci, non potrebbe dirle altrimenti anche se non fosse vero.
Continua Mussolini: «In me non si mosse
nulla, non ho avuto il minimo impulso fisico.
Eppure qualsiasi donna fosse venuta qui
e si fosse messa in quelle condizioni di nudità,
l’avrei presa. Non è brutta, ha un bel corpo
fatto bene, sottile. È bruttina di viso, e
certe fette: che piedi, vedessi. Poi quei capelli
biondi crespi, un po’ antipatici. Comunque,
fosse stata anche più brutta di lei, che
non è brutta, io l’avrei presa. Lei no. Come
sarà? È legnosa, non attrae. [...] Stava in tale
modo che a volte si vedeva anche il pelo.
«L’indomani era ancora qui nuda, più succinta.
Aveva un fazzoletto verde in testa e gli
occhiali neri, il seno quasi libero. Entrò, si
sdraiò subito lunga...
«Si metteva in tutte le posizioni, così a ventre
sotto, il c... per aria e si muoveva, mi sfiorava
le gambe e mi guardava. Si fosse mosso
nulla in me, ero meravigliato. Avrà pensato:
“Mussolini è impotente, oppure un fesso”.
Era talmente succinta che nessun uomo che
meriti di chiamarsi così sarebbe stato fermo.
Invece nulla: io ero il capo del governo, e lei
la principessa. [...] Si muoveva e si metteva in
certe posizioni mezza nuda che veramente,
sai, ci voleva tutto il mio sangue freddo. No,
non l’avrei mai toccata. È repellente, assolutamente
non fa nessuna impressione».
Wednesday, August 31, 2011
Province taglia e cuci
COSA CAMBIA DOPO LA SFORBICIATA AGLI ENTI LOCALI
SONO PARTITI CON L'IDEA DI ELIMINARNE 37 SU 110. MA POI SONO SCESI A 29. ANZI NO, A 23. MENO DI UN QUARTO DEL TOTALE. E IL NUMERO POTREBBE SCENDERE ANCORA. INTANTO, LE "NOMINATE" CERCANO DI SALVARSI COSÌ
di Mauro Suttora
Oggi, 19 agosto 2011
All'inizio dovevano essere 37 su 110, le Province tagliate dalla manovra. Poche, per chi vorrebbe abolirle tutte, ma comunque un terzo del totale. Erano sparite quelle sotto i 300 mila abitanti. Poi la precisazione: si salvano le otto «grandi», che misurano più di 3.000 kmq. Criterio ragionevole: da Livigno (Sondrio), per esempio, ci sarebbero volute tre ore e mezzo di auto per raggiungere il nuovo capoluogo più vicino (Como o Lecco); e Sappada (Belluno) è lontanissima da Treviso. Si scende così a 29.
Ora, però, scopriamo che in realtà saranno solo 23 le Province eliminate: molto meno di un quarto del totale. In sei casi basta che due mini-Province attigue si uniscano, per superare la soglia-mannaia degli abitanti: Trieste e Gorizia, Vercelli e Biella (come prima del 1995), Ascoli Piceno e Fermo (separate appena sette anni fa), Savona e Imperia, Pistoia e Prato, Enna e Caltanissetta.
Un trucco cui potrebbero ricorrere anche le confinanti Lodi e Piacenza, La Spezia e Massa-Carrara, Terni e Rieti, Campobasso e Benevento, se non appartenessero a regioni diverse. Infine, se le Regioni a statuto speciale (Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia) riescono a salvare le loro Province in nome dell' autonomia da Roma, come già minacciano, si scenderebbe fino a 14. Una miseria.
Ma vediamo, una per una, la situazione delle 23 Province "in nomination".
1) TRIESTE, GORIZIA . Sono condannate dal 1945, quando la guerra le amputò del loro entroterra passato alla Jugoslavia. «Ma cancellarle è inaccettabile, perché priverebbe di rappresentatività tutta l' area giuliana a vantaggio del Friuli», dice Maria Teresa Bassa Poropat, 64 anni, presidente Pd della Provincia di Trieste. La soluzione: una nuova Provincia targata Vg (Venezia Giulia) o Tg (Trieste-Gorizia).
2) ASTI . Piuttosto che cadere sotto Alessandria, lontana solo 37 chilometri ma detestata dagli astigiani, la presidente provinciale Maria Teresa Armosino (con doppio incarico: è anche deputata Pdl), 56 anni, pensa a una nuova «Provincia del vino» che annetta da Cuneo le Langhe e Roero con Alba e Bra, il Monferrato con Casale e magari pure Chieri e Acqui.
3) VERCELLI, BIELLA. Dovrà tornare a casa, la ricca Biella staccata da Vercelli 16 anni fa. Piuttosto andrebbe con Novara, ma non c' è contiguità territoriale.
4) VERBANO CUSIO OSSOLA. Anche questa nuova Provincia del '95 sarà riassorbita da Novara.
5) LODI . Scorporata da Milano, potrebbe anire con Pavia o Cremona se la Provincia milanese si trasformerà in «area metropolitana» dopo aver perso anche Monza (salva perché è la terza città lombarda, supera pure Bergamo e Como).
6) PIACENZA . Rinascerà il «ducato» con Parma, che durò ben tre secoli ano all' unità d' Italia, anche se nessun papa Farnese imporrà il proprio aglio al suo governo, come nel 1545...
7) ROVIGO. Il destino naturale del Polesine è a nord, con Padova, anche se qualcuno medita di chiedere il cambio di Regione per mettersi con Ferrara. Ma il Po è un conane naturale.
8) IMPERIA, SAVONA . La fantasia del presidente della Provincia di Savona Angelo Vaccarezza (Pdl) è fervida: «Uniamoci con Cuneo, e pure con Nizza...» Anche lui vuole tornare al 1859.
9) LA SPEZIA. Le ipotesi sono due: strappare Sestri e il Tigullio a Genova (che a quel punto diventerebbe area metropolitana), oppure espandersi a Est oltre il conane toscano e unirsi alla Lunigiana (Lunezia).
10) MASSA CARRARA. Odi di campanile rendono difacile l'unione con Lucca. Quindi gli apuani guardano a Ovest e vorrebbero strappare alla Spezia la val di Magra.
11) PISTOIA, PRATO. Basterebbero 7 mila abitanti in più per salvare Pistoia. Se non li troverà si metterà con Prato, che detesta meno di Lucca.
12) ASCOLI, FERMO. Fermo dista appena 25 chilometri in linea d' aria da Macerata, e 30 da Ascoli. Con tutto il rispetto, quale follia prese il Parlamento nel 2004, quando trasformò questa stupenda cittadina marchigiana di 37 mila abitanti in capoluogo? Tornerà sotto Ascoli, come prima.
13) TERNI . Sabato scorso tutti in piazza per incatenarsi al palazzo della Provincia. Ed esorcizzare un incubo: il ritorno sotto Perugia dopo l'autonomia ottenuta da Benito Mussolini nel 1927. Anche la Provincia di Perugia sparisce: resta solo la Regione, come in Val d' Aosta e Molise.
14) RIETI. Fino a 84 anni fa non stava neppure nel Lazio, ma in Umbria. La creò il fascismo, per la gloria della Regione di Roma. Ora, piuttosto che finire sotto la lontana Capitale, molti tornerebbero con Terni.
15) ISERNIA . Nata 41 anni fa. La città di Isernia è un paesone di 22 mila abitanti. Venafro cercherà di passare alla Provincia di Caserta.
16) CAMPOBASSO. Salta perché, conglobata Isernia, coincide con la regione Molise. E molti vogliono ripristinare la Regione unica Abruzzi-Molise, come prima del 1963.
17) BENEVENTO. «Uniamoci al Molise nel Molisannio», propone Clemente Mastella. Da Salerno e Avellino lanciano appelli di unità anti-Napoli. Più concretamente, si mira a far rientrare 13 mila emigrati nel giorno del censimento (9 ottobre) per superare quota 300 mila.
18) CROTONE . «Non torneremo vassalli di Catanzaro», dice il presidente Stano Zurlo (Pdl), «i parlamentari "nominati" non possono eliminare noi veri eletti del popolo».
19) VIBO VALENTIA. La provincia, anch' essa nata nel ' 95 come Crotone, per sopravvivere vuole annettersi i circondari di Lamezia Terme (Catanzaro) e Rosarno (Reggio Calabria).
20) ENNA, CALTANISSETTA . Enna, paese di 27 mila abitanti, fu fatta Provincia nel 1926 da Mussolini, che la preferì alla Caltagirone (40 mila abitanti) del nemico Luigi Sturzo.
21) CARBONIA-IGLESIAS . Fa parte dell'infornata di quattro nuove Province sarde di sei anni fa. È la più piccola e più povera d'Italia.
22) MEDIO CAMPIDANO . Chi conosce Villacidro e Sanluri? Sono i due capoluoghi di questa Provincia nata nel 2005. In totale, la Sardegna oggi conta 12 capoluoghi di Provincia: come la Lombardia.
23) OGLIASTRA . È quella con meno abitanti: 57 mila. Meno di un rione di Roma. Ma con ben due capitali: Lanusei (5 mila abitanti) e Tortolì (10 mila).
Mauro Suttora
SONO PARTITI CON L'IDEA DI ELIMINARNE 37 SU 110. MA POI SONO SCESI A 29. ANZI NO, A 23. MENO DI UN QUARTO DEL TOTALE. E IL NUMERO POTREBBE SCENDERE ANCORA. INTANTO, LE "NOMINATE" CERCANO DI SALVARSI COSÌ
di Mauro Suttora
Oggi, 19 agosto 2011
All'inizio dovevano essere 37 su 110, le Province tagliate dalla manovra. Poche, per chi vorrebbe abolirle tutte, ma comunque un terzo del totale. Erano sparite quelle sotto i 300 mila abitanti. Poi la precisazione: si salvano le otto «grandi», che misurano più di 3.000 kmq. Criterio ragionevole: da Livigno (Sondrio), per esempio, ci sarebbero volute tre ore e mezzo di auto per raggiungere il nuovo capoluogo più vicino (Como o Lecco); e Sappada (Belluno) è lontanissima da Treviso. Si scende così a 29.
Ora, però, scopriamo che in realtà saranno solo 23 le Province eliminate: molto meno di un quarto del totale. In sei casi basta che due mini-Province attigue si uniscano, per superare la soglia-mannaia degli abitanti: Trieste e Gorizia, Vercelli e Biella (come prima del 1995), Ascoli Piceno e Fermo (separate appena sette anni fa), Savona e Imperia, Pistoia e Prato, Enna e Caltanissetta.
Un trucco cui potrebbero ricorrere anche le confinanti Lodi e Piacenza, La Spezia e Massa-Carrara, Terni e Rieti, Campobasso e Benevento, se non appartenessero a regioni diverse. Infine, se le Regioni a statuto speciale (Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia) riescono a salvare le loro Province in nome dell' autonomia da Roma, come già minacciano, si scenderebbe fino a 14. Una miseria.
Ma vediamo, una per una, la situazione delle 23 Province "in nomination".
1) TRIESTE, GORIZIA . Sono condannate dal 1945, quando la guerra le amputò del loro entroterra passato alla Jugoslavia. «Ma cancellarle è inaccettabile, perché priverebbe di rappresentatività tutta l' area giuliana a vantaggio del Friuli», dice Maria Teresa Bassa Poropat, 64 anni, presidente Pd della Provincia di Trieste. La soluzione: una nuova Provincia targata Vg (Venezia Giulia) o Tg (Trieste-Gorizia).
2) ASTI . Piuttosto che cadere sotto Alessandria, lontana solo 37 chilometri ma detestata dagli astigiani, la presidente provinciale Maria Teresa Armosino (con doppio incarico: è anche deputata Pdl), 56 anni, pensa a una nuova «Provincia del vino» che annetta da Cuneo le Langhe e Roero con Alba e Bra, il Monferrato con Casale e magari pure Chieri e Acqui.
3) VERCELLI, BIELLA. Dovrà tornare a casa, la ricca Biella staccata da Vercelli 16 anni fa. Piuttosto andrebbe con Novara, ma non c' è contiguità territoriale.
4) VERBANO CUSIO OSSOLA. Anche questa nuova Provincia del '95 sarà riassorbita da Novara.
5) LODI . Scorporata da Milano, potrebbe anire con Pavia o Cremona se la Provincia milanese si trasformerà in «area metropolitana» dopo aver perso anche Monza (salva perché è la terza città lombarda, supera pure Bergamo e Como).
6) PIACENZA . Rinascerà il «ducato» con Parma, che durò ben tre secoli ano all' unità d' Italia, anche se nessun papa Farnese imporrà il proprio aglio al suo governo, come nel 1545...
7) ROVIGO. Il destino naturale del Polesine è a nord, con Padova, anche se qualcuno medita di chiedere il cambio di Regione per mettersi con Ferrara. Ma il Po è un conane naturale.
8) IMPERIA, SAVONA . La fantasia del presidente della Provincia di Savona Angelo Vaccarezza (Pdl) è fervida: «Uniamoci con Cuneo, e pure con Nizza...» Anche lui vuole tornare al 1859.
9) LA SPEZIA. Le ipotesi sono due: strappare Sestri e il Tigullio a Genova (che a quel punto diventerebbe area metropolitana), oppure espandersi a Est oltre il conane toscano e unirsi alla Lunigiana (Lunezia).
10) MASSA CARRARA. Odi di campanile rendono difacile l'unione con Lucca. Quindi gli apuani guardano a Ovest e vorrebbero strappare alla Spezia la val di Magra.
11) PISTOIA, PRATO. Basterebbero 7 mila abitanti in più per salvare Pistoia. Se non li troverà si metterà con Prato, che detesta meno di Lucca.
12) ASCOLI, FERMO. Fermo dista appena 25 chilometri in linea d' aria da Macerata, e 30 da Ascoli. Con tutto il rispetto, quale follia prese il Parlamento nel 2004, quando trasformò questa stupenda cittadina marchigiana di 37 mila abitanti in capoluogo? Tornerà sotto Ascoli, come prima.
13) TERNI . Sabato scorso tutti in piazza per incatenarsi al palazzo della Provincia. Ed esorcizzare un incubo: il ritorno sotto Perugia dopo l'autonomia ottenuta da Benito Mussolini nel 1927. Anche la Provincia di Perugia sparisce: resta solo la Regione, come in Val d' Aosta e Molise.
14) RIETI. Fino a 84 anni fa non stava neppure nel Lazio, ma in Umbria. La creò il fascismo, per la gloria della Regione di Roma. Ora, piuttosto che finire sotto la lontana Capitale, molti tornerebbero con Terni.
15) ISERNIA . Nata 41 anni fa. La città di Isernia è un paesone di 22 mila abitanti. Venafro cercherà di passare alla Provincia di Caserta.
16) CAMPOBASSO. Salta perché, conglobata Isernia, coincide con la regione Molise. E molti vogliono ripristinare la Regione unica Abruzzi-Molise, come prima del 1963.
17) BENEVENTO. «Uniamoci al Molise nel Molisannio», propone Clemente Mastella. Da Salerno e Avellino lanciano appelli di unità anti-Napoli. Più concretamente, si mira a far rientrare 13 mila emigrati nel giorno del censimento (9 ottobre) per superare quota 300 mila.
18) CROTONE . «Non torneremo vassalli di Catanzaro», dice il presidente Stano Zurlo (Pdl), «i parlamentari "nominati" non possono eliminare noi veri eletti del popolo».
19) VIBO VALENTIA. La provincia, anch' essa nata nel ' 95 come Crotone, per sopravvivere vuole annettersi i circondari di Lamezia Terme (Catanzaro) e Rosarno (Reggio Calabria).
20) ENNA, CALTANISSETTA . Enna, paese di 27 mila abitanti, fu fatta Provincia nel 1926 da Mussolini, che la preferì alla Caltagirone (40 mila abitanti) del nemico Luigi Sturzo.
21) CARBONIA-IGLESIAS . Fa parte dell'infornata di quattro nuove Province sarde di sei anni fa. È la più piccola e più povera d'Italia.
22) MEDIO CAMPIDANO . Chi conosce Villacidro e Sanluri? Sono i due capoluoghi di questa Provincia nata nel 2005. In totale, la Sardegna oggi conta 12 capoluoghi di Provincia: come la Lombardia.
23) OGLIASTRA . È quella con meno abitanti: 57 mila. Meno di un rione di Roma. Ma con ben due capitali: Lanusei (5 mila abitanti) e Tortolì (10 mila).
Mauro Suttora
L'estate dei politici
DA SARKOZY A BOSSI, ECCO DOVE VANNO IN VACANZA PRESIDENTI E MINISTRI. CHE ALL'ESTERO SONO SENZA SCORTA
Oggi, 17 agosto 2011
di Mauro Suttora
La barista toscana che non ha riconosciuto David Cameron ha fatto fare - indirettamente - una brutta figura ai politici italiani. «Era senza scorta, non pensavo fosse una persona importante», ha spiegato Francesca Ariani del bar di Montevarchi (Arezzo) dove il premier inglese, in vacanza toscana fino a Ferragosto, non è riuscito a farsi servire al tavolo. «Ci pensi lei, mi scusi ma sono sola al banco», lo ha liquidato l' indaffarata Francesca. E per averlo snobbato è finita sulle prime pagine dei giornali inglesi.
POLITICI STRANIERI SENZA POMPA MAGNA
La pompa magna di cui si circondano i nostri politici, con la scusa della «sicurezza», serve in realtà per farsi riconoscere e rispettare. Un retaggio borbonico sconosciuto all' estero. E infatti il presidente americano Barack Obama ha festeggiato il proprio 50° compleanno in una hamburgeria di Washington, dove ha invitato a pranzo cinque persone del suo staff. Ha pagato lui il conto, e alla fine ha offerto un hamburger anche a una signora che era in fila alla cassa.
Quanto alla cancelliera tedesca Angela Merkel, la sua semplicità è leggendaria. Nei giorni scorsi - per un'intera settimana - ha soggiornato col marito a Solda (Bolzano) in un anonimo albergo. È la sesta volta che sceglie l' Alto Adige per le vacanze.
Ma dove passeranno le ferie i politici quest'estate? La drammatica crisi finanziaria li costringe alla scrivania, oppure riescono a sbrigare gli affari tramite cellulare e computer in riva al mare?
HA CHIAMATO SILVIO DA SAINT-TROPEZ
La telefonata con cui Nicolas Sarkozy ha rassicurato il nostro premier Silvio Berlusconi domenica 7 agosto, annunciandogli che la Bce (Banca centrale europea) avrebbe acquistato titoli di Stato italiano per sostenerli, è partita da Cap Nègre, accanto a Saint-Tropez.
Qui il presidente francese si trova da qualche giorno, in una villa di proprietà della famiglia della moglie Carla Bruni. Ci trascorre tre settimane, tornerà a Parigi solo a fine agosto. Ma nessuno in Francia ha protestato: la villa a Lavandou è attrezzata per rimanere in contatto costante con tutti i leader del mondo.
Un brutto scherzo, invece, ha giocato il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ai 150 parlamentari delle commissioni Bilancio e Affari Costituzionali di Camera e Senato: devono presentarsi a Roma l'11 agosto per una seduta. Per questo l'unica coppia «mista» della Camera (Nunzia De Girolamo, Pdl, e Francesco Boccia, Pd) ha dovuto annullare un viaggio insieme già programmato negli Stati Uniti.
ANNULLATO VIAGGIO IN POLINESIA
Annullato il viaggio di mezzo mese a Tahiti del neoministro della Giustizia Nitto Palma con la compagna Elena Stanizzi: lo avevano prenotato a gennaio, quando lui non immaginava di prendere il posto di Angelino Alfano. Lo hanno pagato (parecchio) a giugno. «Perché annullarlo? Io non mi occupo né di economia, né di ordine pubblico come il ministro degli Interni», aveva detto Palma. Poi ha cambiato idea. In effetti, l'unica emergenza che riguarda la giustizia sono le carceri che scoppiano. Ma non è un problema risolvibile nelle ultime due settimane d' agosto.
Berlusconi sta nella sua villa in Sardegna, anche per festeggiare il compleanno della figlia Marina il 10 agosto. Al massimo andrà tre giorni dall' amico Vladimir Putin in Russia.
I ministri restano tutti a portata di mano: Stefania Prestigiacomo nella sua Panarea, Saverio Romano nella sua Palermo, Gianfranco Rotondi nella sua Pineto degli Abruzzi, Anna Maria Bernini a Pesaro, Mariastella Gelmini a Maratea (Potenza), Ferruccio Fazio a Pantelleria.
Umberto Bossi come sempre a Ponte di Legno (Brescia), ospite della famiglia del deputato leghista Davide Caparini che smentisce dissapori. Tremonti lì vicino, a Calalzo (Belluno), così come Franco Frattini (Cornedo all'Isarco, Alto Adige). La barca di Massimo D'Alema resta sottocosta, dove i cellulari prendono. E a far la guardia al bidone a Roma, come sempre, il sottosegretario Gianni Letta.
Mauro Suttora
Oggi, 17 agosto 2011
di Mauro Suttora
La barista toscana che non ha riconosciuto David Cameron ha fatto fare - indirettamente - una brutta figura ai politici italiani. «Era senza scorta, non pensavo fosse una persona importante», ha spiegato Francesca Ariani del bar di Montevarchi (Arezzo) dove il premier inglese, in vacanza toscana fino a Ferragosto, non è riuscito a farsi servire al tavolo. «Ci pensi lei, mi scusi ma sono sola al banco», lo ha liquidato l' indaffarata Francesca. E per averlo snobbato è finita sulle prime pagine dei giornali inglesi.
POLITICI STRANIERI SENZA POMPA MAGNA
La pompa magna di cui si circondano i nostri politici, con la scusa della «sicurezza», serve in realtà per farsi riconoscere e rispettare. Un retaggio borbonico sconosciuto all' estero. E infatti il presidente americano Barack Obama ha festeggiato il proprio 50° compleanno in una hamburgeria di Washington, dove ha invitato a pranzo cinque persone del suo staff. Ha pagato lui il conto, e alla fine ha offerto un hamburger anche a una signora che era in fila alla cassa.
Quanto alla cancelliera tedesca Angela Merkel, la sua semplicità è leggendaria. Nei giorni scorsi - per un'intera settimana - ha soggiornato col marito a Solda (Bolzano) in un anonimo albergo. È la sesta volta che sceglie l' Alto Adige per le vacanze.
Ma dove passeranno le ferie i politici quest'estate? La drammatica crisi finanziaria li costringe alla scrivania, oppure riescono a sbrigare gli affari tramite cellulare e computer in riva al mare?
HA CHIAMATO SILVIO DA SAINT-TROPEZ
La telefonata con cui Nicolas Sarkozy ha rassicurato il nostro premier Silvio Berlusconi domenica 7 agosto, annunciandogli che la Bce (Banca centrale europea) avrebbe acquistato titoli di Stato italiano per sostenerli, è partita da Cap Nègre, accanto a Saint-Tropez.
Qui il presidente francese si trova da qualche giorno, in una villa di proprietà della famiglia della moglie Carla Bruni. Ci trascorre tre settimane, tornerà a Parigi solo a fine agosto. Ma nessuno in Francia ha protestato: la villa a Lavandou è attrezzata per rimanere in contatto costante con tutti i leader del mondo.
Un brutto scherzo, invece, ha giocato il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ai 150 parlamentari delle commissioni Bilancio e Affari Costituzionali di Camera e Senato: devono presentarsi a Roma l'11 agosto per una seduta. Per questo l'unica coppia «mista» della Camera (Nunzia De Girolamo, Pdl, e Francesco Boccia, Pd) ha dovuto annullare un viaggio insieme già programmato negli Stati Uniti.
ANNULLATO VIAGGIO IN POLINESIA
Annullato il viaggio di mezzo mese a Tahiti del neoministro della Giustizia Nitto Palma con la compagna Elena Stanizzi: lo avevano prenotato a gennaio, quando lui non immaginava di prendere il posto di Angelino Alfano. Lo hanno pagato (parecchio) a giugno. «Perché annullarlo? Io non mi occupo né di economia, né di ordine pubblico come il ministro degli Interni», aveva detto Palma. Poi ha cambiato idea. In effetti, l'unica emergenza che riguarda la giustizia sono le carceri che scoppiano. Ma non è un problema risolvibile nelle ultime due settimane d' agosto.
Berlusconi sta nella sua villa in Sardegna, anche per festeggiare il compleanno della figlia Marina il 10 agosto. Al massimo andrà tre giorni dall' amico Vladimir Putin in Russia.
I ministri restano tutti a portata di mano: Stefania Prestigiacomo nella sua Panarea, Saverio Romano nella sua Palermo, Gianfranco Rotondi nella sua Pineto degli Abruzzi, Anna Maria Bernini a Pesaro, Mariastella Gelmini a Maratea (Potenza), Ferruccio Fazio a Pantelleria.
Umberto Bossi come sempre a Ponte di Legno (Brescia), ospite della famiglia del deputato leghista Davide Caparini che smentisce dissapori. Tremonti lì vicino, a Calalzo (Belluno), così come Franco Frattini (Cornedo all'Isarco, Alto Adige). La barca di Massimo D'Alema resta sottocosta, dove i cellulari prendono. E a far la guardia al bidone a Roma, come sempre, il sottosegretario Gianni Letta.
Mauro Suttora
Tuesday, August 30, 2011
Province: che succede in concreto?
SCUOLE, INPS, PREFETTURE: COSA CAMBIERÀ PER GLI ABITANTI
I servizi rimangono, gli uffici si spostano. Ecco cosa cambierà in concreto per gli abitanti delle province abolite.
di Mauro Suttora
Oggi, 19 agosto 2011
Spariranno gli uffici statali, si sopperirà con l'informatizzazione e gli sportelli distaccati. Spariscono prefetture, questure, comandi provinciali di Carabinieri, Guardia di finanza e Vigili del fuoco, direzioni provinciali del lavoro, uffici scolastici provinciali, agenzie delle entrate, motorizzazione, Inps, Inail, Inpdap, Camere di commercio, Aci e tutti gli altri uffici statali o parastatali.
Naturalmente i servizi rimangono: pompieri e Carabinieri, per esempio, continuano ad avere tutte le loro caserme e la Polizia i commissariati. Per le pratiche negli uffici amministrativi, però, bisognerà fare più strada per andare nel nuovo capoluogo. Si ovvierà con sportelli distaccati e con l' informatizzazione (documenti on line ).
Uffici provinciali: tutte le competenze saranno assorbite dalla Provincia cui si viene annessi. Cancellati presidenti, consiglieri e assessori, le competenze passeranno alla nuova Provincia, che assorbirà quella sparita. Ed è qui il problema. Per risparmiare veramente, infatti, bisognerebbe abolire tutte le Province, e trasferire i loro uffici a Comuni e Regioni. Non ha senso, per esempio, che gli edifici delle scuole secondarie (e la loro manutenzione) siano della Provincia, e quelli delle primarie del Comune. Egualmente per le strade provinciali: possono tranquillamente passare alle Regioni.
Occorreranno tempi lunghi: le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Il numero degli abitanti si calcolerà il 9 ottobre, con il censimento 2011. Alcune province vicine ai 300 mila abitanti, come Pistoia e Benevento, potrebbero salvarsi.
Poi, le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Le appena elette Trieste, Gorizia e Vercelli, per esempio, dureranno fino al 2016.
M.S.
I servizi rimangono, gli uffici si spostano. Ecco cosa cambierà in concreto per gli abitanti delle province abolite.
di Mauro Suttora
Oggi, 19 agosto 2011
Spariranno gli uffici statali, si sopperirà con l'informatizzazione e gli sportelli distaccati. Spariscono prefetture, questure, comandi provinciali di Carabinieri, Guardia di finanza e Vigili del fuoco, direzioni provinciali del lavoro, uffici scolastici provinciali, agenzie delle entrate, motorizzazione, Inps, Inail, Inpdap, Camere di commercio, Aci e tutti gli altri uffici statali o parastatali.
Naturalmente i servizi rimangono: pompieri e Carabinieri, per esempio, continuano ad avere tutte le loro caserme e la Polizia i commissariati. Per le pratiche negli uffici amministrativi, però, bisognerà fare più strada per andare nel nuovo capoluogo. Si ovvierà con sportelli distaccati e con l' informatizzazione (documenti on line ).
Uffici provinciali: tutte le competenze saranno assorbite dalla Provincia cui si viene annessi. Cancellati presidenti, consiglieri e assessori, le competenze passeranno alla nuova Provincia, che assorbirà quella sparita. Ed è qui il problema. Per risparmiare veramente, infatti, bisognerebbe abolire tutte le Province, e trasferire i loro uffici a Comuni e Regioni. Non ha senso, per esempio, che gli edifici delle scuole secondarie (e la loro manutenzione) siano della Provincia, e quelli delle primarie del Comune. Egualmente per le strade provinciali: possono tranquillamente passare alle Regioni.
Occorreranno tempi lunghi: le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Il numero degli abitanti si calcolerà il 9 ottobre, con il censimento 2011. Alcune province vicine ai 300 mila abitanti, come Pistoia e Benevento, potrebbero salvarsi.
Poi, le amministrazioni vanno avanti fino alla scadenza naturale. Le appena elette Trieste, Gorizia e Vercelli, per esempio, dureranno fino al 2016.
M.S.
Wednesday, August 24, 2011
Zucchero sequestrato
La rockstar e la compagna nei guai per abusi edilizi: hanno costruito troppo in una delle spiagge più belle d’Italia. Che però resta un paradiso (costoso)
di Mauro Suttora
Oggi, 11 agosto 2011
Povero Zucchero. Appena tornato dalla massacrante tournée europea di tre mesi (ultima tappa il 7 agosto a Kaliningrad, Russia), il Corpo forestale ha messo sotto sequestro alcune suites e il nuovo tetto del ristorante all’Eco del Mare, il famoso beach-club della sua compagna Francesca Mozer fra Lerici e Fiascherino (La Spezia).
Un contrattempo che non ci voleva in piena stagione turistica, e che si aggiunge alle non poche disavventure che hanno colpito recentemente lo stabilimento dei vip (Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Roberto Baggio): un primo sequestro per abusi edilizi nel 2008, quando sopra le cabine sono state ricavate sei stanze extralusso, e l’enorme frana dello scorso Natale che ha interrotto la strada proprio sopra l’Eco del Mare.
I lavori sono ancora in corso e la circolazione è a senso unico. Ma i costosi ombrelloni rimangono aperti nell’incantevole baia. I tavoli del ristorante sono stati spostati all’ombra di una grotta, e Zucchero e la Mozer sperano che il gip sospenda il sequestro prima della grande festa del 2 settembre. Che eguaglierà quella dell’anno scorso, quando all’Eco arrivarono Pino Daniele, Ivano Fossati, Panariello e altri amici del re del rock italiano (senza offesa per i suscettibili Vasco Rossi e Ligabue...)
di Mauro Suttora
Oggi, 11 agosto 2011
Povero Zucchero. Appena tornato dalla massacrante tournée europea di tre mesi (ultima tappa il 7 agosto a Kaliningrad, Russia), il Corpo forestale ha messo sotto sequestro alcune suites e il nuovo tetto del ristorante all’Eco del Mare, il famoso beach-club della sua compagna Francesca Mozer fra Lerici e Fiascherino (La Spezia).
Un contrattempo che non ci voleva in piena stagione turistica, e che si aggiunge alle non poche disavventure che hanno colpito recentemente lo stabilimento dei vip (Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Roberto Baggio): un primo sequestro per abusi edilizi nel 2008, quando sopra le cabine sono state ricavate sei stanze extralusso, e l’enorme frana dello scorso Natale che ha interrotto la strada proprio sopra l’Eco del Mare.
I lavori sono ancora in corso e la circolazione è a senso unico. Ma i costosi ombrelloni rimangono aperti nell’incantevole baia. I tavoli del ristorante sono stati spostati all’ombra di una grotta, e Zucchero e la Mozer sperano che il gip sospenda il sequestro prima della grande festa del 2 settembre. Che eguaglierà quella dell’anno scorso, quando all’Eco arrivarono Pino Daniele, Ivano Fossati, Panariello e altri amici del re del rock italiano (senza offesa per i suscettibili Vasco Rossi e Ligabue...)
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Wednesday, August 10, 2011
Bersani galleggia
UN MESE FA IL PD AVEVA IL VENTO IN POPPA. POI SONO ARRIVATI SCANDALI E TANGENTI CHE HANNO RIPORTATO NEI GUAI LA SINISTRA
Oggi, 1 agosto 2011
di Mauro Suttora
E pensare che soltanto un mese fa tutto sembrava andare per il meglio. Sull’onda delle vittorie alle amministrative e al referendum, il Partito democratico superava per la prima volta nei sondaggi il Popolo della libertà: 29 a 28 per cento. Il premier Silvio Berlusconi, assediato dalle inchieste P3 e P4, era in affanno. Per questo aveva chiesto al fedelissimo Angelino Alfano di lasciare la carica di ministro della Giustizia e di diventare segretario del Pdl. Gli alleati della Lega Nord fremevano.
Sperava in un bis del ribaltone
Lui, Pierluigi Bersani, segretario Pd da un anno e mezzo, dopo mesi di tribolazioni (i due sindaci vincenti a Milano e Napoli, Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris, non appartengono al Pd) sembrava per la prima volta tranquillo e veramente in sella: «Il vento è cambiato», ripeteva fiducioso. E strizzava l’occhio ai leghisti, sperando in un bis del «tradimento» con cui Umberto Bossi mandò a casa Berlusconi nel 1994.
Poi è arrivata la valanga. Prima l’arresto del manager genovese Franco Pronzato, consigliere d’amministrazione dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile) ed ex responsabile Pd del trasporto aereo. Il quale ammette di aver ricevuto da Vincenzo Morichini, «facilitatore» di appalti pubblici e finanziatore della fondazione Italiani Europei di Massimo D’Alema, 20 mila euro in contanti. La somma sarebbe uscita lo scorso Natale dalle tasche di Viscardo Paganelli, proprietario della Rotkopf: una società aeronautica che ha ottenuto da Enac, grazie a Pronzato, l’abilitazione al trasporto passeggeri per l’isola d’Elba.
Inoltre, nel 2010 D’Alema ha viaggiato cinque volte gratis sugli aerotaxi Rotkopf. Imbarazzante: «Se avessi saputo quello che poi è emerso, sarei andato a piedi», ha commentato il padre nobile del Pd. E Bersani: «Pronzato è stato mio collaboratore 11 anni fa, quand’ero ministro dei Trasporti. Ma terremo gli occhi bene aperti».
Invece molti senatori Pd gli occhi sembrano averli chiusi il 20 luglio, quando hanno contribuito a salvare dagli arresti domiciliari Alberto Tedesco (Pd), ex assessore di Nichi Vendola in Puglia accusato di corruzione e concussione. Contemporaneamente, proprio quel giorno la Camera ha spedito in carcere il deputato Pdl Alfonso Papa, ex magistrato accusato di spifferare segreti d’ufficio ai suoi compari della cosiddetta «loggia P4». Insomma, due pesi e due misure: i parlamentari di sinistra liberi, quelli di destra in prigione.
Ma il peggio, per il povero Bersani, doveva ancora arrivare. Quello stesso maledetto 20 luglio è esplosa la notizia dell’accusa contro il suo ex braccio destro Filippo Penati. E da allora per il Pd è ricominciata la via crucis. Eugenio Scalfari ha ricordato mesto l’intervista che lui stesso fece a Enrico Berlinguer esattamente trent’anni fa, luglio 1981, nella quale il segretario del Pci rivendicava orgoglioso la «diversità» della sinistra che (allora) non rubava.
E a destra Tremonti barcolla
Nel frattempo, la destra non gode. Anzi. Il ministro più potente e rispettato del governo, Giulio Tremonti, appare in grande difficoltà per la casa di Roma fornitagli dall’amico e collaboratore Marco Milanese (ex guardia di Finanza, oggi deputato Pdl). Anche per Milanese i magistrati hanno chiesto l’arresto (corruzione e associazione per delinquere). Tremonti ha ammesso di avergli versato (in contanti, lui ministro che le tasse dovrebbe farle pagare) 4 mila euro al mese.
Per sfuggire a tutte queste amarezze, Bersani è andato a distrarsi con la moglie a Pantelleria, accettando un invito nella villa dell’ex ministro Pd Vincenzo Visco. Peccato che proprio nel giorno in cui le nostre foto sono state scattate (giovedì 28 luglio) la Camera fosse in regolare seduta. Il deputato Bersani risulta quindi uno degli 85 assenti ingiustificati.
Una «bigiata» che, rispetto a tutto il resto, appare come un peccato veniale: in fondo, il segretario Pd ha soltanto mancato il voto sulla legge per la «riqualificazione dei centri storici». Speriamo almeno che il volo al mare non gli procuri imbarazzi, come a D’Alema.
Mauro Suttora
Oggi, 1 agosto 2011
di Mauro Suttora
E pensare che soltanto un mese fa tutto sembrava andare per il meglio. Sull’onda delle vittorie alle amministrative e al referendum, il Partito democratico superava per la prima volta nei sondaggi il Popolo della libertà: 29 a 28 per cento. Il premier Silvio Berlusconi, assediato dalle inchieste P3 e P4, era in affanno. Per questo aveva chiesto al fedelissimo Angelino Alfano di lasciare la carica di ministro della Giustizia e di diventare segretario del Pdl. Gli alleati della Lega Nord fremevano.
Sperava in un bis del ribaltone
Lui, Pierluigi Bersani, segretario Pd da un anno e mezzo, dopo mesi di tribolazioni (i due sindaci vincenti a Milano e Napoli, Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris, non appartengono al Pd) sembrava per la prima volta tranquillo e veramente in sella: «Il vento è cambiato», ripeteva fiducioso. E strizzava l’occhio ai leghisti, sperando in un bis del «tradimento» con cui Umberto Bossi mandò a casa Berlusconi nel 1994.
Poi è arrivata la valanga. Prima l’arresto del manager genovese Franco Pronzato, consigliere d’amministrazione dell’Enac (Ente nazionale aviazione civile) ed ex responsabile Pd del trasporto aereo. Il quale ammette di aver ricevuto da Vincenzo Morichini, «facilitatore» di appalti pubblici e finanziatore della fondazione Italiani Europei di Massimo D’Alema, 20 mila euro in contanti. La somma sarebbe uscita lo scorso Natale dalle tasche di Viscardo Paganelli, proprietario della Rotkopf: una società aeronautica che ha ottenuto da Enac, grazie a Pronzato, l’abilitazione al trasporto passeggeri per l’isola d’Elba.
Inoltre, nel 2010 D’Alema ha viaggiato cinque volte gratis sugli aerotaxi Rotkopf. Imbarazzante: «Se avessi saputo quello che poi è emerso, sarei andato a piedi», ha commentato il padre nobile del Pd. E Bersani: «Pronzato è stato mio collaboratore 11 anni fa, quand’ero ministro dei Trasporti. Ma terremo gli occhi bene aperti».
Invece molti senatori Pd gli occhi sembrano averli chiusi il 20 luglio, quando hanno contribuito a salvare dagli arresti domiciliari Alberto Tedesco (Pd), ex assessore di Nichi Vendola in Puglia accusato di corruzione e concussione. Contemporaneamente, proprio quel giorno la Camera ha spedito in carcere il deputato Pdl Alfonso Papa, ex magistrato accusato di spifferare segreti d’ufficio ai suoi compari della cosiddetta «loggia P4». Insomma, due pesi e due misure: i parlamentari di sinistra liberi, quelli di destra in prigione.
Ma il peggio, per il povero Bersani, doveva ancora arrivare. Quello stesso maledetto 20 luglio è esplosa la notizia dell’accusa contro il suo ex braccio destro Filippo Penati. E da allora per il Pd è ricominciata la via crucis. Eugenio Scalfari ha ricordato mesto l’intervista che lui stesso fece a Enrico Berlinguer esattamente trent’anni fa, luglio 1981, nella quale il segretario del Pci rivendicava orgoglioso la «diversità» della sinistra che (allora) non rubava.
E a destra Tremonti barcolla
Nel frattempo, la destra non gode. Anzi. Il ministro più potente e rispettato del governo, Giulio Tremonti, appare in grande difficoltà per la casa di Roma fornitagli dall’amico e collaboratore Marco Milanese (ex guardia di Finanza, oggi deputato Pdl). Anche per Milanese i magistrati hanno chiesto l’arresto (corruzione e associazione per delinquere). Tremonti ha ammesso di avergli versato (in contanti, lui ministro che le tasse dovrebbe farle pagare) 4 mila euro al mese.
Per sfuggire a tutte queste amarezze, Bersani è andato a distrarsi con la moglie a Pantelleria, accettando un invito nella villa dell’ex ministro Pd Vincenzo Visco. Peccato che proprio nel giorno in cui le nostre foto sono state scattate (giovedì 28 luglio) la Camera fosse in regolare seduta. Il deputato Bersani risulta quindi uno degli 85 assenti ingiustificati.
Una «bigiata» che, rispetto a tutto il resto, appare come un peccato veniale: in fondo, il segretario Pd ha soltanto mancato il voto sulla legge per la «riqualificazione dei centri storici». Speriamo almeno che il volo al mare non gli procuri imbarazzi, come a D’Alema.
Mauro Suttora
Friday, August 05, 2011
E se la Francia invadesse Montecarlo?
DOPO LE NOZZE CON CHARLENE, IL PRINCIPE ALBERTO FURIBONDO CONTRO I MEDIA. MA I PROBLEMI DI MONACO SONO BEN ALTRI...
dal nostro inviato a Montecarlo Mauro Suttora
Oggi, 27 luglio 2011
E se la Francia invadesse Monte-Carlo? La telenovela di Alberto e Charlène si sta trasformando in un affare di stato. La bomba l’ha lanciata Christophe Barbier, direttore del rispettato settimanale francese L’Express: «Il principato dovrebbe essere annesso alla Francia, in nome della modernità», ha detto in un dibattito sulla tv France 5 rispondendo alla sobria domanda del conduttore: «C’è del marcio nel regno di Monaco?».
Immediata replica del premier monegasco, Michel Roger: «Siamo uno stato indipendente e sovrano, riconosciuto da lunga data dalla comunità internazionale». Vero e falso allo stesso tempo: la famiglia Grimaldi è infatti la dinastia regnante più antica al mondo (1297). Ma Monaco è stata ammessa all’Onu soltanto nel 1993. Ancor più sdegnato il presidente del parlamento monegasco: «Questo è neocolonialismo francese». Ignorando che L’Express è di proprietà belga, e che quindi non è controllato dal governo di Parigi.
A quasi un mese dal loro matrimonio del 2 luglio, le Loro Altezze Serenissime Alberto e Charlène (questo il loro titolo ufficiale) non sono affatto serene. Tornati alle sei del mattino di mercoledì 20 luglio dal Mozambico, dopo dodici ore hanno convocato quattro giornalisti locali per smentire «tutte le malignità che vengono scritte su di noi».
E cioè che la principessa stava per fuggire prima delle nozze dopo aver scoperto che Alberto deve riconoscere un terzo figlio naturale avuto quando erano già fidanzati, che durante la cerimonia Charlène sembrava triste e fredda, che nella luna di miele (subito soprannominata «di fiele») hanno dormito in stanze separate, addirittura in alberghi lontani 15 chilometri. E che ci sarebbe un contratto prenuziale in cui già si prevede il divorzio dopo che lei avrà scodellato l’erede al trono.
Insomma, il classico matrimonio di convenienza. Ma che una coppia organizzi una conferenza stampa per smentire pettegolezzi, non era mai successo nella storia della vipperia mondiale. Diana avrebbe dovuto farne una al giorno, allora.
Siamo andati a indagare a Monte-Carlo. E abbiamo trovato tutte le edicole della città tappezzate con il titolone del quotidiano locale Monaco-Matin: «Alberto non ne può più». Mai giornale fu più perfido. Uno pensa subito: «Allora è vero: non ne può più di Charlène». No, è stufo dei «rumeurs», delle voci.
Però alla fine dell’articolo c’è una descrizione velenosa. Alberto rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. Poi posa la mano sulla coscia della sposa e le chiede in inglese se vuole aggiungere qualcosa. «No», risponde lei, con «postura distante». «Un atteggiamento che non può essere interpretato, che non lascia supporre nulla», commenta la giornalista. E questo è il massimo che si può scrivere o dire, nel principato. Per lo meno con nome e cognome.
Perché va bene che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, ma da queste parti è tutto un pissi-pissi. In privato. In pubblico, nessuno osa dir nulla sulla famiglia regnante.
«Colpa di voi giornalisti», commenta un’elegante signora seduta al Beach Club, «inventate tutto, lo si è visto con il caso Murdoch». Ma possibile che i giornali dell’intero pianeta abbiano notato qualcosa di strano nelle nozze principesche? I nostri vicini di tavolo al ristorante Rampoldi sparano, sicuri ma anonimi: «Alberto è gay, fidanzate figli e moglie sono una copertura». Al Casinò un monegasco critica Charlène: «In cinque anni non ha imparato il francese, peggio di Schumacher con l’italiano…»
Andiamo al meeting di atletica allo stadio, dove ogni anno si gioca la supercoppa europea. La gloriosa squadra del Monaco (sette scudetti nel campionato francese, seconda in Europa nel 2004 dietro al Porto di Josè Mourinho) è stata appena retrocessa in B dopo 34 anni. È questo il vero lutto per i locali, non i pettegolezzi contro i reali. La tribuna stampa è vicina a quella d’onore, scrutiamo Alberto e Charlène. Sembrano sereni, scendono in pista a premiare i campioni Usain Bolt e Blanka Vlasic. È questo il lavoro dei principi: dare medaglie, presenziare.
Charlène va a visitare la mostra sulle proprie nozze, aperta dal 9 luglio al Museo oceanografico (che c’entrano i reali con i pesci? Il comandante Jacques-Yves Cousteau si rivolta nella tomba). «Trentamila visitatori in dieci giorni!», si entusiasma il settimanale Monaco Hebdo. Ma le carovane di turisti sbarcati da navi di crociera e torpedoni pagano comunque 14 euro per entrare nel Museo e visitare soprattutto gli acquari. Qualunque sia la mostra temporanea in corso.
Siamo nel pieno della stagione turistica, sette milioni di turisti affollano ogni anno il principato. Che con appena due km quadrati è lo stato più piccolo al mondo dopo il Vaticano, il più affollato e il più ricco: 130 mila euro di reddito medio per i suoi 35 mila residenti. Gli stranieri sono 25 mila, gli italiani 6 mila. Non pagano tasse: basta avere o affittare una (costosissima) casa, starci almeno sei mesi l’anno, versare mezzo milione di euro in una banca monegasca e incassare redditi non guadagnati in Italia. L’esenzione non vale per i 9 mila francesi, cui nel ’63 il generale Charles De Gaulle tolse il paradiso fiscale minacciando, lui sì, l’invasione. La tranquillità dei miliardari è protetta da 500 agenti e 116 carabinieri, la più alta densità di polizia sulla Terra.
«La crisi però colpisce anche qui», ci dice Milena Radoman, caporedattrice di Monaco Hebdo, «il Pil è calato del dieci per cento e quindi ogni ministero ora deve tagliare la stessa percentuale». Male va la Societé Bains de Mer, di proprietà statale (quindi della famiglia reale) anche se quotata a Parigi, che controlla quasi tutto a Monaco: i quattro hotel più lussuosi, cinque casinò, 34 ristoranti, 12 discoteche (Jimmy’z, Buddha Bar, Rascasse), l’Opera, i Beach, Golf, Sporting e Country Club, e centinaia di appartamenti: l’ultimo anno i profitti sono crollati da 40 milioni a uno. Il casinò è a meno 18 per cento, e la colpa non è solo del divieto di fumo.
Il regno da operetta non è più l’enclave raffinata di 50, 100 o 150 anni fa (la fortuna cominciò con l’arrivo contemporaneo nel 1860 di casinò e treno). Troppi nobili e grandi industriali sono stati sostituiti da nuovi ricchi cafoni russi e greci, arabi e anche italiani.
Sulla terrazza dell’Oceanografico una mappa mostra le distanze con tutte le città del mondo. Manca solo Johannesburg, da dove viene Charlène. Ed è forse la distanza maggiore…
Mauro Suttora
dal nostro inviato a Montecarlo Mauro Suttora
Oggi, 27 luglio 2011
E se la Francia invadesse Monte-Carlo? La telenovela di Alberto e Charlène si sta trasformando in un affare di stato. La bomba l’ha lanciata Christophe Barbier, direttore del rispettato settimanale francese L’Express: «Il principato dovrebbe essere annesso alla Francia, in nome della modernità», ha detto in un dibattito sulla tv France 5 rispondendo alla sobria domanda del conduttore: «C’è del marcio nel regno di Monaco?».
Immediata replica del premier monegasco, Michel Roger: «Siamo uno stato indipendente e sovrano, riconosciuto da lunga data dalla comunità internazionale». Vero e falso allo stesso tempo: la famiglia Grimaldi è infatti la dinastia regnante più antica al mondo (1297). Ma Monaco è stata ammessa all’Onu soltanto nel 1993. Ancor più sdegnato il presidente del parlamento monegasco: «Questo è neocolonialismo francese». Ignorando che L’Express è di proprietà belga, e che quindi non è controllato dal governo di Parigi.
A quasi un mese dal loro matrimonio del 2 luglio, le Loro Altezze Serenissime Alberto e Charlène (questo il loro titolo ufficiale) non sono affatto serene. Tornati alle sei del mattino di mercoledì 20 luglio dal Mozambico, dopo dodici ore hanno convocato quattro giornalisti locali per smentire «tutte le malignità che vengono scritte su di noi».
E cioè che la principessa stava per fuggire prima delle nozze dopo aver scoperto che Alberto deve riconoscere un terzo figlio naturale avuto quando erano già fidanzati, che durante la cerimonia Charlène sembrava triste e fredda, che nella luna di miele (subito soprannominata «di fiele») hanno dormito in stanze separate, addirittura in alberghi lontani 15 chilometri. E che ci sarebbe un contratto prenuziale in cui già si prevede il divorzio dopo che lei avrà scodellato l’erede al trono.
Insomma, il classico matrimonio di convenienza. Ma che una coppia organizzi una conferenza stampa per smentire pettegolezzi, non era mai successo nella storia della vipperia mondiale. Diana avrebbe dovuto farne una al giorno, allora.
Siamo andati a indagare a Monte-Carlo. E abbiamo trovato tutte le edicole della città tappezzate con il titolone del quotidiano locale Monaco-Matin: «Alberto non ne può più». Mai giornale fu più perfido. Uno pensa subito: «Allora è vero: non ne può più di Charlène». No, è stufo dei «rumeurs», delle voci.
Però alla fine dell’articolo c’è una descrizione velenosa. Alberto rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda. Poi posa la mano sulla coscia della sposa e le chiede in inglese se vuole aggiungere qualcosa. «No», risponde lei, con «postura distante». «Un atteggiamento che non può essere interpretato, che non lascia supporre nulla», commenta la giornalista. E questo è il massimo che si può scrivere o dire, nel principato. Per lo meno con nome e cognome.
Perché va bene che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, ma da queste parti è tutto un pissi-pissi. In privato. In pubblico, nessuno osa dir nulla sulla famiglia regnante.
«Colpa di voi giornalisti», commenta un’elegante signora seduta al Beach Club, «inventate tutto, lo si è visto con il caso Murdoch». Ma possibile che i giornali dell’intero pianeta abbiano notato qualcosa di strano nelle nozze principesche? I nostri vicini di tavolo al ristorante Rampoldi sparano, sicuri ma anonimi: «Alberto è gay, fidanzate figli e moglie sono una copertura». Al Casinò un monegasco critica Charlène: «In cinque anni non ha imparato il francese, peggio di Schumacher con l’italiano…»
Andiamo al meeting di atletica allo stadio, dove ogni anno si gioca la supercoppa europea. La gloriosa squadra del Monaco (sette scudetti nel campionato francese, seconda in Europa nel 2004 dietro al Porto di Josè Mourinho) è stata appena retrocessa in B dopo 34 anni. È questo il vero lutto per i locali, non i pettegolezzi contro i reali. La tribuna stampa è vicina a quella d’onore, scrutiamo Alberto e Charlène. Sembrano sereni, scendono in pista a premiare i campioni Usain Bolt e Blanka Vlasic. È questo il lavoro dei principi: dare medaglie, presenziare.
Charlène va a visitare la mostra sulle proprie nozze, aperta dal 9 luglio al Museo oceanografico (che c’entrano i reali con i pesci? Il comandante Jacques-Yves Cousteau si rivolta nella tomba). «Trentamila visitatori in dieci giorni!», si entusiasma il settimanale Monaco Hebdo. Ma le carovane di turisti sbarcati da navi di crociera e torpedoni pagano comunque 14 euro per entrare nel Museo e visitare soprattutto gli acquari. Qualunque sia la mostra temporanea in corso.
Siamo nel pieno della stagione turistica, sette milioni di turisti affollano ogni anno il principato. Che con appena due km quadrati è lo stato più piccolo al mondo dopo il Vaticano, il più affollato e il più ricco: 130 mila euro di reddito medio per i suoi 35 mila residenti. Gli stranieri sono 25 mila, gli italiani 6 mila. Non pagano tasse: basta avere o affittare una (costosissima) casa, starci almeno sei mesi l’anno, versare mezzo milione di euro in una banca monegasca e incassare redditi non guadagnati in Italia. L’esenzione non vale per i 9 mila francesi, cui nel ’63 il generale Charles De Gaulle tolse il paradiso fiscale minacciando, lui sì, l’invasione. La tranquillità dei miliardari è protetta da 500 agenti e 116 carabinieri, la più alta densità di polizia sulla Terra.
«La crisi però colpisce anche qui», ci dice Milena Radoman, caporedattrice di Monaco Hebdo, «il Pil è calato del dieci per cento e quindi ogni ministero ora deve tagliare la stessa percentuale». Male va la Societé Bains de Mer, di proprietà statale (quindi della famiglia reale) anche se quotata a Parigi, che controlla quasi tutto a Monaco: i quattro hotel più lussuosi, cinque casinò, 34 ristoranti, 12 discoteche (Jimmy’z, Buddha Bar, Rascasse), l’Opera, i Beach, Golf, Sporting e Country Club, e centinaia di appartamenti: l’ultimo anno i profitti sono crollati da 40 milioni a uno. Il casinò è a meno 18 per cento, e la colpa non è solo del divieto di fumo.
Il regno da operetta non è più l’enclave raffinata di 50, 100 o 150 anni fa (la fortuna cominciò con l’arrivo contemporaneo nel 1860 di casinò e treno). Troppi nobili e grandi industriali sono stati sostituiti da nuovi ricchi cafoni russi e greci, arabi e anche italiani.
Sulla terrazza dell’Oceanografico una mappa mostra le distanze con tutte le città del mondo. Manca solo Johannesburg, da dove viene Charlène. Ed è forse la distanza maggiore…
Mauro Suttora
Thursday, August 04, 2011
parla Morten Malmoe
LO STORICO DICE: «NESSUN PERICOLO NAZI IN NORVEGIA, IL KILLER E' UN PAZZO ISOLATO»
Oslo, 25 luglio 2011
di Mauro Suttora
«È il gesto di un pazzo isolato. Le stragi di Oslo e Utoya non hanno alcun significato politico. Rimarranno nella storia della Norvegia perché sono tremende. È il nostro 11 settembre. Ma sono l’opera di una persona sola e malata».
Morten Malmoe, 58 anni, è l’editore della casa norvegese Historie & Kultur. A lui chiediamo una spiegazione della carneficina.
«Anders Breivik si autodefinisce “nazionalista, religioso e anti-islamista”. Attenzione: non “nazista”. E in Norvegia non c’è più alcun partito, seppure minuscolo, che partecipi alle elezioni con programmi che richiamino anche lontanamente il nazismo o il fascismo. Un pericolo neonazi ci fu negli anni ‘70, quando i gruppi di estrema destra si scontravano con quelli di estrema sinistra. Ma adesso tutto si è trasferito dalla strada a internet. E i deliri con svastica non sono giudicati una minaccia dalla nostra polizia».
Infatti Breivik non era neppure schedato.
«No, perché in tutta la sua vita non aveva mai commesso alcun reato. Né aveva partecipato a episodi di violenza. Fino a tre anni fa abitava qui a Oslo, nella mia zona».
Però è stato iscitto al partito del Progresso, che ha il 20 per cento.
«E se n’è andato da parecchio. Il partito del Progresso è di destra, ma non è mai stato violento. Esiste dal 1973, e dagli anni ‘90 al suo programma antifiscale ha aggiunto la polemica contro l’immigrazione, che giudica eccessiva. Ma non c’entra nulla con Breivik».
La Norvegia ha avuto Vidkun Quisling, sinonimo di collaborazionismo con i nazisti.
«Sì, quella è una pagina nera della nostra storia. Ma Breivik è solo un pazzo grafomane. Ho cercato di leggere le 1.500 pagine che ha scritto: paccottiglia insensata. Oltretutto ha colpito, lui anti-islamico, i ragazzi del partito socialdemocratico che ora viene criticato per i motivi opposti: i bombardamenti sulla Libia. Siamo tutti sotto choc. Sono appena tornato dalla cattedrale, piena di candele e fiori per le vittime. Commovente. La vita in Norvegia non sarà più la stessa».
Oslo, 25 luglio 2011
di Mauro Suttora
«È il gesto di un pazzo isolato. Le stragi di Oslo e Utoya non hanno alcun significato politico. Rimarranno nella storia della Norvegia perché sono tremende. È il nostro 11 settembre. Ma sono l’opera di una persona sola e malata».
Morten Malmoe, 58 anni, è l’editore della casa norvegese Historie & Kultur. A lui chiediamo una spiegazione della carneficina.
«Anders Breivik si autodefinisce “nazionalista, religioso e anti-islamista”. Attenzione: non “nazista”. E in Norvegia non c’è più alcun partito, seppure minuscolo, che partecipi alle elezioni con programmi che richiamino anche lontanamente il nazismo o il fascismo. Un pericolo neonazi ci fu negli anni ‘70, quando i gruppi di estrema destra si scontravano con quelli di estrema sinistra. Ma adesso tutto si è trasferito dalla strada a internet. E i deliri con svastica non sono giudicati una minaccia dalla nostra polizia».
Infatti Breivik non era neppure schedato.
«No, perché in tutta la sua vita non aveva mai commesso alcun reato. Né aveva partecipato a episodi di violenza. Fino a tre anni fa abitava qui a Oslo, nella mia zona».
Però è stato iscitto al partito del Progresso, che ha il 20 per cento.
«E se n’è andato da parecchio. Il partito del Progresso è di destra, ma non è mai stato violento. Esiste dal 1973, e dagli anni ‘90 al suo programma antifiscale ha aggiunto la polemica contro l’immigrazione, che giudica eccessiva. Ma non c’entra nulla con Breivik».
La Norvegia ha avuto Vidkun Quisling, sinonimo di collaborazionismo con i nazisti.
«Sì, quella è una pagina nera della nostra storia. Ma Breivik è solo un pazzo grafomane. Ho cercato di leggere le 1.500 pagine che ha scritto: paccottiglia insensata. Oltretutto ha colpito, lui anti-islamico, i ragazzi del partito socialdemocratico che ora viene criticato per i motivi opposti: i bombardamenti sulla Libia. Siamo tutti sotto choc. Sono appena tornato dalla cattedrale, piena di candele e fiori per le vittime. Commovente. La vita in Norvegia non sarà più la stessa».
Strage in Norvegia minuto per minuto
I 78 MORTI DEL KILLER ANDERS BREIVIK
Oslo, 25 luglio 2011
Anders Behring Breivik arriva nel paradiso dell’isola di Utoya alle cinque del pomeriggio di venerdì 22 luglio. Il cielo è nuvoloso, lui ha guidato per 40 chilometri da Oslo. L’intera Norvegia è precipitata nel panico. Alla radio, durante il viaggio, Anders ascolta le notizie sull’autobomba che lui stesso ha appena fatto esplodere nel centro di Oslo un’ora e mezzo prima. Interi palazzi con i vetri delle finestre distrutti, terrore, sangue, passanti per terra, alcuni immobili.
Nessuno sa il numero di morti e feriti: qualcuno urla che è una strage, decine di vittime (alla fine si conteranno dieci morti). L’esercito blocca tutto il centro della capitale. L’ipotesi più probabile: Al Qaeda, oppure una vendetta di Muammar Gheddafi per i bombardamenti Nato sulla Libia che impegnano anche aerei norvegesi.
Nessuno lo immagina, ma il peggio deve ancora arrivare. Anders continua il suo lavoro, per il quale si è preparato negli ultimi tre anni della sua vita solitaria. Da Oslo ha preso la E16, la strada più importante della Norvegia: collega Oslo con Bergen, seconda città del Paese. Solo pochi tratti sono a quattro corsie. Anders sta attento a non superare il limite di velocità: 80 all’ora. Tutto scorre lento e tranquillo, in Norvegia. Anche le stragi.
Arrivato al fiordo Tyri, parcheggia la macchina vicino all’imbarcadero del traghetto per l’isola. È vestito da poliziotto. Alla cintola porta una pistola Glock. Normalmente i poliziotti norvegesi non vanno in giro armati. Questo è il Paese più ricco e pacifico del mondo, ogni anno a Oslo viene consegnato il premio Nobel per la pace.
Ma adesso è scattata l’emergenza. Dopo gli attentati di Londra del 2005, i terroristi tornano a colpire in Europa. «Devo andare sull’isola per proteggere i ragazzi», dice il finto poliziotto Anders al barcaiolo che lo traghetta per 500 metri. Trasporta con se un sacco dove ha nascosto una mitragliatrice, un fucile americano Ruger Mini-14 semiautomatico e le munizioni. Tante munizioni. Le pallottole del fucile sono calibro 5 e 56 millimetri (pare che Anders abbia trasformato alcuni proiettili in «dum dum» per farli esplodere dentro ai corpi).
L’isola di Utoya (felice assonanza con Utopia) è larga 300 metri e lunga 500. Per tre quarti è coperta da boschi, come tutto in Norvegia. Nelle uniche tre radure ci sono un campo di calcio, uno di pallavolo e un campeggio. L’isola è di proprietà del partito socialdemocratico, che ogni estate organizza campeggi per adolescenti. Alla fine arriva il leader del partito per un comizio, che ha larga eco nel Paese. Quest’anno è atteso il premier Jens Stoltenberg.
Quando Anders mette piede sull’isola, tutti sono felici. «Sono venuto da Oslo per proteggere i ragazzi, seguite le mie istruzioni. Portateli nell’edificio principale fra mezz’ora», dice agli organizzatori. Poi si dirige nello chalet di legno dello staff. Ma prima si ferma all’ufficio informazioni. Lì fredda la prima vittima: Monica, la manager del campus. Due colpi secchi. Non li sente nessuno tranne una giovane italiana fidanzata a un socialista norvegese, che si trova lì col figlio di undici anni Si affaccia alla finestra: «Vedo Monica accasciarsi al suolo. Poi da dietro l’angolo spunta un uomo in divisa, alto e muscoloso. sembra un agente delle forze speciali. Va avanti lasciandosi il corpo esanime alle spalle».
Calma e metodo: le due qualità di Anders. Che ora si dirige verso il centro dell’isola, dove stanno affluendo le decine di ragazzi campeggiatori. Lo guardano con fiducia. Ormai sono entrati quasi tutti, è pronto il collegamento web e tv per i ragguagli dopo la strage di Oslo. Improvvisamente, il poliziotto tira fuori dal sacco la mitraglietta e comincia a sparare all’impazzata. Mira soprattutto alle ragazze. Che, cadendo a terra colpite, non capiscono: chi è quell’uomo?
Anders entra nella grande sala, fa chiudere le porte. I ragazzi e i sorveglianti, di poco più anziani, hanno sentito gli spari e le urla fuori, ma non hanno visto che il killer è proprio lui. Ancora una volta Anders li rassicura: «Tranquilli, vi proteggo io». Poi però ricomincia a sparare.
L’unica guardia non armata cerca di fermarlo, ma viene falciato in un attimo. È Trond Berntsen, fratellastro della principessa Mette-Marit, futura regina di Norvegia. I ragazzi gridano terrorizzati, si allontanano dal poliziotto assassino e scappano verso le porte. Ma per Anders il lavoro è facile: spara nel mucchio, la carne è tanta. Calma e metodo. Cammina sui corpi, spara a quelli che ancora si muovono. Quando la sala è vuota esce. Chi rantola viene finito. «Sono salvo per miracolo perché ho fatto finta di essere morto», dice un ragazzo di 16 anni, «mi aveva colpito al braccio e morivo dal dolore, ma sono riuscito a stare zitto».
Ora Anders si dirige verso le tante piccole tende canadesi colorate del campeggio. Le apre una ad una. Chi si è nascosto lì dentro non ha scampo: trucidati come bestie. Si sono fatte le sei. Molti ragazzi hanno chiamato con i telefonini. Si nascondono nei boschi, aspettando aiuto. «Chiudete la suoneria, altrimenti vi sente», consiglia un padre. Ma Anders ha tutto il tempo di proseguire la mattanza. La polizia, infatti, è tutta impegnata nell’attentato di Oslo. Le forze speciali non trovano un elicottero. Decidono di partire in auto verso l’isola.
I ragazzi più coraggiosi si buttano in acqua. Che è gelida, e inghiotte chi non sa nuotare bene. Anders perlustra il bosco e ad ogni minuto trova qualche preda. Spara, ricarica. Ricomincia. Non corre. Fa il giro di quasi tutta la costa dell’isola, per stanare chi si è nascosto sotto le rocce della riva. Il turista tedesco Marcel Gleffe arriva con la sua barca per salvare qualche ragazzo. Anders prende la mira, ma riesce a colpire solo chi nuota ancora vicino. Alle sei e mezzo, finalmente, ecco le forze speciali: «Non ha opposto resistenza. Sembrava stanco. Ma era calmo e tranquillo». Ora, secondo la legge norvegese, rischia 21 anni di carcere per 78 morti.
Mauro Suttora
Oslo, 25 luglio 2011
Anders Behring Breivik arriva nel paradiso dell’isola di Utoya alle cinque del pomeriggio di venerdì 22 luglio. Il cielo è nuvoloso, lui ha guidato per 40 chilometri da Oslo. L’intera Norvegia è precipitata nel panico. Alla radio, durante il viaggio, Anders ascolta le notizie sull’autobomba che lui stesso ha appena fatto esplodere nel centro di Oslo un’ora e mezzo prima. Interi palazzi con i vetri delle finestre distrutti, terrore, sangue, passanti per terra, alcuni immobili.
Nessuno sa il numero di morti e feriti: qualcuno urla che è una strage, decine di vittime (alla fine si conteranno dieci morti). L’esercito blocca tutto il centro della capitale. L’ipotesi più probabile: Al Qaeda, oppure una vendetta di Muammar Gheddafi per i bombardamenti Nato sulla Libia che impegnano anche aerei norvegesi.
Nessuno lo immagina, ma il peggio deve ancora arrivare. Anders continua il suo lavoro, per il quale si è preparato negli ultimi tre anni della sua vita solitaria. Da Oslo ha preso la E16, la strada più importante della Norvegia: collega Oslo con Bergen, seconda città del Paese. Solo pochi tratti sono a quattro corsie. Anders sta attento a non superare il limite di velocità: 80 all’ora. Tutto scorre lento e tranquillo, in Norvegia. Anche le stragi.
Arrivato al fiordo Tyri, parcheggia la macchina vicino all’imbarcadero del traghetto per l’isola. È vestito da poliziotto. Alla cintola porta una pistola Glock. Normalmente i poliziotti norvegesi non vanno in giro armati. Questo è il Paese più ricco e pacifico del mondo, ogni anno a Oslo viene consegnato il premio Nobel per la pace.
Ma adesso è scattata l’emergenza. Dopo gli attentati di Londra del 2005, i terroristi tornano a colpire in Europa. «Devo andare sull’isola per proteggere i ragazzi», dice il finto poliziotto Anders al barcaiolo che lo traghetta per 500 metri. Trasporta con se un sacco dove ha nascosto una mitragliatrice, un fucile americano Ruger Mini-14 semiautomatico e le munizioni. Tante munizioni. Le pallottole del fucile sono calibro 5 e 56 millimetri (pare che Anders abbia trasformato alcuni proiettili in «dum dum» per farli esplodere dentro ai corpi).
L’isola di Utoya (felice assonanza con Utopia) è larga 300 metri e lunga 500. Per tre quarti è coperta da boschi, come tutto in Norvegia. Nelle uniche tre radure ci sono un campo di calcio, uno di pallavolo e un campeggio. L’isola è di proprietà del partito socialdemocratico, che ogni estate organizza campeggi per adolescenti. Alla fine arriva il leader del partito per un comizio, che ha larga eco nel Paese. Quest’anno è atteso il premier Jens Stoltenberg.
Quando Anders mette piede sull’isola, tutti sono felici. «Sono venuto da Oslo per proteggere i ragazzi, seguite le mie istruzioni. Portateli nell’edificio principale fra mezz’ora», dice agli organizzatori. Poi si dirige nello chalet di legno dello staff. Ma prima si ferma all’ufficio informazioni. Lì fredda la prima vittima: Monica, la manager del campus. Due colpi secchi. Non li sente nessuno tranne una giovane italiana fidanzata a un socialista norvegese, che si trova lì col figlio di undici anni Si affaccia alla finestra: «Vedo Monica accasciarsi al suolo. Poi da dietro l’angolo spunta un uomo in divisa, alto e muscoloso. sembra un agente delle forze speciali. Va avanti lasciandosi il corpo esanime alle spalle».
Calma e metodo: le due qualità di Anders. Che ora si dirige verso il centro dell’isola, dove stanno affluendo le decine di ragazzi campeggiatori. Lo guardano con fiducia. Ormai sono entrati quasi tutti, è pronto il collegamento web e tv per i ragguagli dopo la strage di Oslo. Improvvisamente, il poliziotto tira fuori dal sacco la mitraglietta e comincia a sparare all’impazzata. Mira soprattutto alle ragazze. Che, cadendo a terra colpite, non capiscono: chi è quell’uomo?
Anders entra nella grande sala, fa chiudere le porte. I ragazzi e i sorveglianti, di poco più anziani, hanno sentito gli spari e le urla fuori, ma non hanno visto che il killer è proprio lui. Ancora una volta Anders li rassicura: «Tranquilli, vi proteggo io». Poi però ricomincia a sparare.
L’unica guardia non armata cerca di fermarlo, ma viene falciato in un attimo. È Trond Berntsen, fratellastro della principessa Mette-Marit, futura regina di Norvegia. I ragazzi gridano terrorizzati, si allontanano dal poliziotto assassino e scappano verso le porte. Ma per Anders il lavoro è facile: spara nel mucchio, la carne è tanta. Calma e metodo. Cammina sui corpi, spara a quelli che ancora si muovono. Quando la sala è vuota esce. Chi rantola viene finito. «Sono salvo per miracolo perché ho fatto finta di essere morto», dice un ragazzo di 16 anni, «mi aveva colpito al braccio e morivo dal dolore, ma sono riuscito a stare zitto».
Ora Anders si dirige verso le tante piccole tende canadesi colorate del campeggio. Le apre una ad una. Chi si è nascosto lì dentro non ha scampo: trucidati come bestie. Si sono fatte le sei. Molti ragazzi hanno chiamato con i telefonini. Si nascondono nei boschi, aspettando aiuto. «Chiudete la suoneria, altrimenti vi sente», consiglia un padre. Ma Anders ha tutto il tempo di proseguire la mattanza. La polizia, infatti, è tutta impegnata nell’attentato di Oslo. Le forze speciali non trovano un elicottero. Decidono di partire in auto verso l’isola.
I ragazzi più coraggiosi si buttano in acqua. Che è gelida, e inghiotte chi non sa nuotare bene. Anders perlustra il bosco e ad ogni minuto trova qualche preda. Spara, ricarica. Ricomincia. Non corre. Fa il giro di quasi tutta la costa dell’isola, per stanare chi si è nascosto sotto le rocce della riva. Il turista tedesco Marcel Gleffe arriva con la sua barca per salvare qualche ragazzo. Anders prende la mira, ma riesce a colpire solo chi nuota ancora vicino. Alle sei e mezzo, finalmente, ecco le forze speciali: «Non ha opposto resistenza. Sembrava stanco. Ma era calmo e tranquillo». Ora, secondo la legge norvegese, rischia 21 anni di carcere per 78 morti.
Mauro Suttora
Friday, July 29, 2011
tutti pazzi per Cameron
Tredici anni dopo Tutti pazzi per Mary, Cameron Diaz ormai 40enne di nuovo strepitosa in Bad Teacher (Una cattiva maestra), nei cinema italiani dal 31 agosto. Può un film basarsi sulla bravura di una sola attrice? Sì.
Battute da scuola media inferiore, quindi divertentissime. Justin Timberlake recita se stesso. Una chicca nella colonna sonora: la canzone Nothing from Nothing di Billy Preston, il quinto Beatle (piano elettrico in Get Back e organo in Let it be)
Consigliato alle rifattone.
Sconsigliato agli ammiratori di quella pizza tremenda che è The tree of life.
Scena migliore: quando Cameron vuole rifarsi le tette.
Scena peggiore: quando Timberlake canta una canzone composta da lui
Voto: 7
Battute da scuola media inferiore, quindi divertentissime. Justin Timberlake recita se stesso. Una chicca nella colonna sonora: la canzone Nothing from Nothing di Billy Preston, il quinto Beatle (piano elettrico in Get Back e organo in Let it be)
Consigliato alle rifattone.
Sconsigliato agli ammiratori di quella pizza tremenda che è The tree of life.
Scena migliore: quando Cameron vuole rifarsi le tette.
Scena peggiore: quando Timberlake canta una canzone composta da lui
Voto: 7
Thursday, July 07, 2011
Le tre agenzie che controllano il mondo
dall'inviato a New York Mauro Suttora
Oggi, 29 giugno 2011
A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.
Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?
Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.
«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».
Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.
Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».
Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?
È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».
Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.
«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».
Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».
Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.
Mauro Suttora
Oggi, 29 giugno 2011
A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.
Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?
Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.
«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».
Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.
Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».
Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?
È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».
Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.
«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».
Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».
Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.
Mauro Suttora
Wednesday, June 29, 2011
Basta spedizioni all'estero
LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN
di Mauro Suttora
Oggi, 22 giugno 2011
Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.
Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».
Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.
In Kosovo da 12 anni: un'eternità
«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».
Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».
Inutile Libano
Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.
Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 22 giugno 2011
Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.
Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».
Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.
In Kosovo da 12 anni: un'eternità
«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».
Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».
Inutile Libano
Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.
Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora
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