Wednesday, October 08, 2008

Che abili questi attori disabili

Oggi, 8 ottobre 2008

di Mauro Suttora

«Non ero mai entrato in contatto con disabili prima di questo film. Non ne avevo mai incontrati, né in famiglia né fra amici o conoscenti. Ma sono bastate poche ore per stabilire un rapporto fantastico. Dopo un po’ di tempo non ci si accorge del loro handicap. E il merito è soprattutto loro, perché sono i primi a scherzarci sopra, a prendere tutto con leggerezza, a non lamentarsi, a metterti a tuo agio, ad annullare le differenze».

Alessio Boni, 42 anni, il bello del cinema italiano, ha girato un cortometraggio di dodici minuti con attori disabili: Il Riscatto, regia di Silvia Saraceno, musica di Tony Esposito. Lo ha prodotto l’Accademia Arte nel cuore di Daniela Alleruzzo. Si tratta di una scuola di recitazione, doppiaggio e ballo riservata a persone diversamente abili.

«Inutile girarci attorno», dice Boni, «se un disabile vuole iscriversi a una scuola di arte drammatica non lo prendono, con una scusa o con l’altra. Non per cattiveria, ma funziona così. Perfino i ruoli dei disabili, nei film, vengono affidati ad attori “normali“ che magari fanno figure assurde in carrozzella, perché si capisce chiaramente che non sono abituati. Quindi sono importantissime iniziative come questa. Perché i disabili sono bravi a recitare o a suonare o a cantare esattamente come tutti, e anzi la loro condizione a volte li aiuta a esprimersi con maggiore concentrazione e profondità. Hanno una specie di urgenza interiore...»

Com’è nato il suo coinvolgimento in questo film? «Assolutamente per caso. Ricevo 4-500 mail alla settimana, e anche se non riesco a rispondere cerco di leggerle tutte. Una di queste mi proponeva di girare un corto di Silvia Saraceno con attori non vedenti e paraplegici. Ho subito accettato, anche perché le sfide mi affascinano. E già al primo incontro mi sono sorpreso di come tutti i nostri pregiudizi mentali si appianino nel giro di pochi minuti. Sono stato catapultato in un clima di serenità contagiosa».

Nel film sei ragazzi partono in barca a vela da Civitavecchia, e giunti al largo tirano fuori dalla cabina Boni (che interpreta se stesso) legato e imbavagliato. Vogliono tenerlo prigioniero finché non otterranno un contratto firmato dal produttore della fiction che sta girando Boni. I giovani, in una parodia delle Brigate Rosse, si dichiarano «cellula dell’organizzazione A.A.A., ovvero Azione attori affamati».

Boni appare dapprima incredulo, poi preoccupato. I sequestratori filmano il suo interrogatorio con una videocamera, e per aggiungere veridicità gli dipingono con vernice rossa del sangue sotto l’orecchio, per simulare un taglio del lobo. Nel film che verrà inviato al produttore con le richieste del riscatto non manca l’esposizione di un quotidiano, per provare la data delle riprese.

Infine, con un flashback, gli attori disoccupati si svelano per quello che sono: non soltanto senza lavoro, ma pure disabili. Anche se per tutta la durata del film nessuno se n’era accorto.

«Questo film non è fine a se stesso», spiega la regista Saraceno, «è un pilot che vorrebbe trovare finanziamenti per espandersi e diventare un lungometraggio».

Fra gli attori spicca il non vedente Gerolamo Longo (Gerry): «Quando ci siamo incontrati la prima volta lui mi guardava fisso negli occhi», racconta la Saraceno, «e il suo sguardo era così intenso e preciso che gli ho dovuto domandare: “Ma come fai a sapere esattamente dove sono?”»

Le difficoltà più grosse per le riprese, comunque, non sono arrivate dagli handicap degli attori, ma dalle condizioni del mare: il rollio continuo della barca ha provocato non pochi problemi di stomaco.

Alessio Boni, dopo il grande successo del Caravaggio tv della scorsa stagione con le luci di Vittorio Storaro, è in partenza per New York, dove il 7 ottobre alla Carnegie Hall c’è la prima mondiale della fiction Puccini di cui è protagonista, nel 150° anniversario della nascita del compositore lucchese.

«E poi, dopo cinque anni, torno a teatro con Michela Cescon, Anna Bonaiuto e Silvio Orlando: saremo due coppie di genitori nel Dio della carneficina di Yasmina Reza, per la regia di Roberto Andò. Debuttiamo a gennaio, poi in tournée per tutta l’Italia. Così recupererò il rapporto col pubblico, ma anche con il mio lavoro: al cinema e in tv, infatti, il risultato si vede sullo schermo soltanto dopo un anno. E se Il Riscatto diventerà un lungometraggio, sarò felice di tornare a recitare con questi miei nuovi colleghi, attori disabili».

Mauro Suttora

tabella:

DISABILI IN ITALIA

1.100.000 motorî
(di cui 60.000 in carrozzina)
350.000 vista
800.000 udito
750.000 mentali

3.000.000 TOTALE
(una persona su venti)
di cui 1.000.000 sotto i 64 anni

20.000 nuovi disabili ogni anno per incidenti stradali

Wednesday, October 01, 2008

Ultimo appello di Bush

"AGIRE, O GUAI PEGGIORI"

Dopo il no del Congresso al piano da 700 miliardi. Imbarazzo di Obama e McCain

Libero, mercoledì 1 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Questa volta ha parlato dalla biblioteca della Casa Bianca, con uno sfondo tranquillo di libri sul caminetto. George Bush ha voluto «dare il tono di una conversazione», come ha spiegato la sua portavoce, al messaggio tv trasmesso ieri mattina a un’ora inusuale: le 8 e 45. Prima dell’apertura della Borsa a New York, per spargere fiducia dopo il crollo (meno 9%) del giorno precedente. Di solito il presidente parla dall’Ufficio ovale, soltanto nel gennaio 2007 aveva preferito la biblioteca. Fu la prima volta che ammise errori nella guerra d’Iraq, ma annunciando l’invio di rinforzi.

Ora invece l’avversario di Bush non si sa bene chi sia. I deputati repubblicani e democratici si rimpallano la responsabilità di avere bocciato il suo piano di salvataggio dei titoli immobiliari, dopo il sì del Senato. Ma il voto negativo è stato trasversale: hanno detto no sia 133 repubblicani, sia 95 democratici. Contro tutti gli accordi di vertice, ha prevalso il vecchio istinto popolare americano del «chi rompe paga». Nessuna salvezza per gli speculatori di Wall Street che si sono arricchiti provocando disastri. Nessun aiuto, soprattutto, con i soldi dei contribuenti. Non tanto per la somma: 700 miliardi di dollari, in fondo, gli Stati Uniti li spendono in un solo anno per le Forze armate. «Ma non potevamo certo prendere la decisione finanziaria più importante nella storia del nostro Paese in così poco tempo, senza spazio per un dibattito serio», si è lamentato John Yarmuth, deputato democratico del Kentucky.

Insomma, il piano di Bush è stato sconfitto più per ragioni di metodo che di merito. I repubblicani hanno infranto la disciplina di partito schifati dall’indigeribile minestra assistenziale statalista, ma anche perché la capogruppo democratica Nancy Pelosi ha fatto di tutto per provocarli: «Con questi soldi rimediamo a otto anni di disastri della presidenza Bush», ha detto prima del voto. E figurarsi se i repubblicani, imbufaliti per quest’accusa, le andavano dietro.

«La verità è che tutti sappiamo che nel giro di due-tre giorni torneremo a votare, e diremo sì dopo che Bush avrà reso più presentabile la proposta», ammette Yarmuth. Lo ha detto anche il presidente alla tv: «Voglio assicurare i cittadini di tutto il mondo che il no della Camera non è la fine del processo legislativo. Siamo in un momento critico e abbiamo bisogno che l’economia americana torni a girare». Quindi un avvertimento ai deputati riottosi: «Se continuiamo in questo modo i danni per l'economia saranno dolorosi e duraturi».
E la spiegazione di buon senso, capace di coinvolgere tutti: «Il crollo drammatico in borsa di ieri avrà un impatto diretto sui fondi pensione e sui risparmi personali di milioni di nostri concittadini».
Siamo tutti sulla stessa barca, insomma. Anche se le barche di alcuni pescecani di Wall Street continueranno a essere yacht, grazie a questo piano di assistenza.

Ormai Bush ha di fronte a sè solo tre mesi di mandato, che lui sia stato sconfitto importa a pochi. Stupisce invece l’evanescenza dei candidati, entrambi imbarazzati e paurosi di perdere voti.
Il democratico Obama propone un’assicurazione statale sui conti bancari fino a 250 mila dollari, auspica che il piano venga approvato, ma precisa subito che «dal mio primo giorno da presidente lavorerò per cambiarlo». Come, non lo dice.
Quanto al repubblicano McCain, deve sfuggire all’abbraccio mortale di Bush e vuole apparire super partes: «Non è questo il momento di incolpare qualcuno».

Come al solito, le Borse hanno capito subito l’aria che tira. Già prima del discorso di Bush quelle asiatiche avevano sì accusato perdite, ma non eccessive. Solo Tokyo giù del 4%, Hong Kong ha perso l’uno, e Seul lo 0,5. Shanghai era chiusa per una festa cinese. Poi sono arrivati i rimbalzi europei, e infine il guadagno di New York, aumentata di oltre il 3%. Perfino Mosca, che prima del discorso di Bush aveva dovuto chiudere per eccesso di perdite, ha finito la giornata con un lieve rialzo.

Mauro Suttora

Pranzo di Ferragosto

IL FILM CON LE NOVANTENNI SBANCA IL BOTTEGHINO

Oggi, 1 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Sono di una simpatia travolgente anche nella realtà, le quattro protagoniste di Pranzo di Ferragosto. Le vecchiette che hanno fatto conquistare al film di Gianni Di Gregorio il terzo posto nella classifica degli incassi per sala stanno diventando celebri. Chi le vede al cinema si innamora, e il passaparola ha fatto sì che gli spettatori abbiano già ripagato in pochi giorni il costo del film: 500 mila euro, un’inezia in confronto ai colossal americani.

«Sono un po’ stanca, la celebrità è faticosa», ammette Grazia Cesarini Sforza, 90 anni, appena tornata nella sua casa nel quartiere romano della Piramide dopo una mattina passata da Michele Cucuzza su Raiuno.
Invece la più giovane del gruppo, Marina Cacciotti, 85 anni, è piena di energia e si diverte come una matta: «Ci stanno invitando dappertutto, da Gorizia al Sud. Un bel cambiamento, rispetto alla vita noiosa di prima».

Il film lo hanno girato in cinque settimane, un anno fa, dentro a una casa di Trastevere. E la cronaca di due giorni a cavallo di ferragosto in cui il protagonista (lo stesso Di Gregorio, anch’egli «giovane» debuttante sessantenne alla regia) accoglie nella propria casa, dove vive con la mamma 93enne, altre due signore anziane parenti dell’amministratore del condominio. Poi arriva il suo medico, che lo visita ma gli affibbia la madre. E di fronte a questo poker di ospiti che gli invadono l’appartamento e lo espellono a dormire in una sdraio sul balcone, al povero Gianni non resta che attaccarsi alla bottiglia.

Ma alla fine l’esuberanza delle vecchiette travolge pure lui, e… Non sveliamo il finale, anche se il fascino del film non è nella trama. Fin dalla prima scena, infatti, con la mamma Valeria (De Franciscis, 93 anni, decana del quartetto) che si fa leggere I tre moschettieri per addormentarsi, sono le parole e le facce degli attori (compreso Di Gregorio) a conquistare, con il loro brio malinconico.

La signora De Franciscis, per esempio, ha il vezzo di intercalare le sue frasi con parole francesi: «Peut-etre…», forse, mormora a tavola al figlio insinuando che il suo amico sia un ubriacone. E poi tutte queste sue coetanee parcheggiate a casa sua improvvisamente, «d’emblée”…
Parlando con Valeria scopriamo divertiti che queste interiezioni in francese non erano previste dal copione, perché lei parla veramente così: «Abbiamo improvvisato, e io parlo francese da quando abbiamo avuto una mademoiselle in casa per tenere nostra figlia. L’ho imparato da piccola, mio padre ci teneva che parlassimo francese, perché era una lingua che faceva da trait d’union con l’estero…»

Vedova del giocatore di polo Gianni Bendoni, scomparso nell’81, Valeria è stata reclutata perché da piccolo il produttore del film, Matteo Garrone, abitava nel suo stesso palazzo sulla collina Fleming: «Mi ha preso come comparsa in qualche suo film, e ho partecipato anche a un programma di Gianni Ippoliti in Rai». Ma tutte le protagoniste sono attrici debuttanti, «prese dalla strada» come i bambini di De Sica e Rossellini. Solo che ai tempi del neorealismo loro erano già delle signorine ventenni.

Molto diverso il loro destino. Valeria, «figlia di famiglia» della Roma bene, non ha mai lavorato, e seguiva il marito che giocava a polo a Deauville o Vittel. Le sue due figlie oggi lavorano a Blob e per il musicista Nicola Piovani.
Marina, invece, perse il marito calzolaio di Ostia che aveva trent’anni e due figli da crescere: «Presi in mano il negozio, e assunsi un lavorante. Solo che questo cominciò a farmi la corte, e allora lo mandai via. Ma tutti gli operai che prendevo s’innamoravano subito, così alla fine ne ho sposato uno e buonanotte. Era siciliano, gelosissimo. Poverino, è morto dodici anni fa. Siccome i soldi non bastavano, quando aprirono l’aeroporto di Fiumicino nel ‘61 lasciai a lui il negozio e mi feci assumere. Cominciai facendo le pulizie con strofinaccio e spazzolone, poi mi promossero all’ufficio dogane: controllavo le stecche di sigarette e i liquori e profumi che vendevano sugli aerei. Lavorare mi piaceva, peccato mi abbiano obbligato a pensionarmi a 55 anni».

Ora i suoi figli sono sessantenni, proprio come quelli del film: le è mai capitato di passare il ferragosto da loro? «Ma figurarsi, con le nuore… Semmai sono loro che vengono da me». Frequentatrice del centro anziani sul lungomare di Ostia, la signora Cacciotti non vede l’ora di prendere lezioni di ballo liscio: «Non trovavo mai un cavaliere, ma ora che sono famosa non avrò problemi!»

Grazia Cesarini Sforza, scelta perché è la zia del regista («Sono una raccomandata», scherza), si era laureata in etruscologia prima della guerra. Poi ha insegnato lettere al liceo di Civitavecchia («Ero quasi coetanea dei ripetenti»), infine ha sposato il fotografo Ezio Graffeo e ha lavorato con lui. Nel film fa la parte della golosa che mangia di nascosto le lasagne di notte: «Lo sono anche nella realtà, non ne posso più di stare a dieta».

E non ha dovuto fingere neppure Maria Calì, 87 anni, siciliana, «scoperta» dal regista in un centro anziani sulla Tuscolana. E lei la cuoca delle magiche lasagne di ferragosto: «Ma che siano buone lo dicono tutti, a cominciare dai miei figli», precisa orgogliosa. Che cast, ragazzi.

Mauro Suttora

Wednesday, September 10, 2008

Sarah Palin

Mossa vincente di McCain: lancia la bella Sarah Palin

Oggi, 30 agosto 2008

John McCain, 72 anni, era stufo di sentirsi dare del vecchio da Obama. Così il candidato repubblicano, con una mossa a sorpresa, si è scelto come candidata vicepresidente Sarah Palin, 44 anni, governatrice dell' Alaska. Il personaggio non poteva essere più azzeccato. Innanzitutto una donna, e dopo la delusione dei 18 milioni di donne che hanno votato Hillary Clinton alle primarie può darsi che anche qualche democratica voti per la Palin, anche se è del campo avverso?

Il secondo motivo della candidatura Palin è che si tratta di una vera conservatrice: contraria all' aborto, cinque figli, ha voluto l' ultimo, nato quattro mesi fa, nonostante abbia la sindrome di Down. E poi è una vera ragazza del West: le piace sparare ed è favorevole al porto d' armi per tutti

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Friday, September 05, 2008

Khalilzad presidente dell'Afghanistan?

L'ambasciatore Usa all'Onu vuole succedere a Karzai

Il Foglio, 3 settembre 2008

di Mauro Suttora

Quella di presidente dell’Afghanistan è una delle poltrone meno salubri del mondo. L’elegantissimo Hamid Karzai, che la occupa da sette anni, ha subìto finora quattro attentati. L’ultimo quattro mesi fa: un bambino di dieci anni e altre due persone sono state uccise al suo posto. “Presidente dell’Afghanistan”, poi, è una parola grossa. Per il territorio che realmente controlla, molti lo definiscono “sindaco di Kabul”.

Eppure c’è un uomo che non vede l’ora di partecipare alla prossima elezione presidenziale in Afghanistan. Si terrà cinque anni dopo la precedente, quella dell’ottobre 2004 che fu la prima democratica nei cinquemila anni di storia del Paese. Non si sa bene ancora quando. C’è stata una lunga disputa per fissare la data, d’altronde in Afghanistan si litiga su tutto. Le scorse elezioni erano costate tantissimo, 350 milioni di dollari donati dalla comunità internazionale, e dopo pochi mesi si rivotò per il Parlamento. Così i pragmatici hanno proposto di accorpare i prossimi voti, allungando di qualche mese il mandato di Karzai e accorciando di altrettanto quello dei parlamentari. Niente da fare, compromesso fallito. Si voterà quindi separatamente, cominciando con le presidenziali nella seconda metà del 2009. Poiché autunno e inverno sono stagioni proibitive nelle montagne afghane, al massimo all’inizio di ottobre.

L’uomo che già si scalda i muscoli per scalzare Karzai vive a Manhattan, ha 57 anni e si chiama Zalmay Khalilzad, confidenzialmente Zal. Da due anni è ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu. Prima lo è stato per due anni in Iraq. Prima ancora, per due anni ambasciatore Usa in Afghanistan. Adesso, sta facendo imbestialire i suoi superiori al Dipartimento di Stato perché tutti si accorgono che si sta preparando al suo prossimo lavoro, invece di obbedire agli ordini dei tanti vicesegretari e sottosegretari che affollano il Foggy Bottom statunitense.

Fa bene Zal a mandarli a quel paese? Lui di Afghanistan ne sa più di tutti, semplicemente perché è afghano. Di etnia pashtun, come Karzai, anche se è nato nel nord, a Mazar i Sharif, mentre l’elegantissimo viene da una tribù altrettanto ricca ma meridionale, da Kandahar. I padri li spedirono entrambi a fare il liceo a Kabul, e loro non s’incrociarono solo per la differenza d’età, sei anni.

Zal nel ’67 finì in California, uno delle centinaia di “exchange student” dell’Afs (American Field Service). Un anno da senior nella high school della città di Modesto, nome agli antipodi della sua prorompente personalità. Ma invece di diventare figlio dei fiori e consigliare ai suoi coetanei californiani peace&love i migliori indirizzi dove procurarsi hashish afghano, Zal si è trasformato nel più militarista fra i falchi. Merito o colpa del leggendario professor Albert Wohlstetter dell’università di Chicago, che oltre a Zal ha covato Paul Wolfowitz e tutta una nidiata di futuri neocon.

Ora i neocon non vanno più di moda a Washington, e comunque in questi pochi mesi di residua presidenza Bush tutti gli alti gradi del Dipartimento di Stato stanno pensando al loro prossimo job. Molti faranno come fece Zal dal ’92 al 2000, durante l’era Clinton, e reperiranno qualche think tank da cui farsi mantenere. Lui, dopo aver servito sotto Dick Cheney e Wolfowitz nelle presidenze Reagan e Bush senior, non ebbe problemi a farsi dare un posto alla Rand Corporation, visto che era uno dei maggiori esperti di Afghanistan. Fu Zal per tutti gli anni Ottanta a coordinare gli aiuti militari Usa ai mujaheddin, che fecero impazzire gli occupanti sovietici.

Nessuno lo ha ancora superato negli Stati Uniti, come fine conoscitore dei meandri tribali afghani. Non si capisce quindi a quale titolo John Negroponte, suo predecessore sia all’Onu, sia all’ambasciata di Baghdad, e ora vice di Condi Rice allo State Department, gli faccia mandare umilianti e pubbliche e-mail di richiamo (in copia per conoscenza a New York Times e Washington Post) con l’accusa di condurre una “diplomazia personale”.
Certo, non è un mistero che da mesi i suoi amici afghani preparino per lui un comitato elettorale a Kabul. Raccolgono fondi, organizzano riunioni, li si può addirittura incontrare ogni giovedì a pranzo nell’hotel Serena. Karzai è furibondo.

D’altra parte, è sicuro che Zal da gennaio sarà disoccupato, perché né Obama né McCain rinnoveranno il mandato a uno che sul tavolo del suo alloggio all’hotel Waldorf-Astoria tiene come simpatico souvenir, invece della famosa pistola del predecessore John Bolton sulla scrivania dell’Onu, un fucile d’assalto AK-47 proveniente dall’arsenale di Saddam Hussein. Perché sono fatti così i neocon, ancora meno in auge nelle ultime settimane dopo i débordements del loro protegé georgiano Saakashvili: magari sbruffoni, ma adorabili viveurs capaci di perdere la presidenza della Banca Mondiale per un’amante (Wolfowitz), la rappresentanza alle Nazioni Unite per una battuta di troppo (Bolton), e adesso la guida dell’Afghanistan per una sfacciataggine eccessiva (Zal).

Dicono che Khalilzad stia antipatico a Negroponte ma simpatico a Condi, che il suo ex mentore Cheney non lo possa più sopportare ma che Bush in persona ne apprezzi ancora la personalità “larger than life”. Sicuramente più larga di quella del povero Andrew Young, il primo ambasciatore Usa di colore all’Onu nominato da Jimmy Carter, che perse il posto nel ’79 per lo stesso sgarro imputato a Zal: diplomazia “personale” e contatti allora vietatissimi con i palestinesi dell’Olp.

La verità è che Zal se ne fotte allegramente, della diplomazia. Se ne è sempre fottuto. Soprattutto di quella di carriera, dei frustrati del Dipartimento di Stato che pretendono di compilare dossier sull’Afghanistan sapendo solo quattro parole di pashtun. Ma anche dell’inutile macchina dell’Onu, che sta rendendo lui un frustrato, e che lo annoia profondamente. Lo scorso gennaio i burocrati dello “State” lo avevano perfino escluso dalla delegazione americana a Davos. Allora Zal è andato per conto suo in Svizzera, e ha fatto imbestialire tutti gli “assistant” e i “deputy” segretari di Stato partecipando a un dibattito con Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri iraniano. Lo hanno accusato quasi di intelligenza col nemico, lui che a ogni dibattito nel Palazzo di vetro si trova isolato nel chiedere inasprimenti delle sanzioni contro l’Iran.

Ma fin qui, le intemperanze di Zal sono passabili. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scorsa settimana, è stata invece la rinnovata consuetudine con Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e da mezzo mese candidato a succedere a Pervez Musharraf alla guida del Pakistan.

Anche qui, il fiuto di Zal è innegabile. Da dieci anni era diventato amico di Benazir e del suo discusso marito, cenando con loro a Londra, New York o Ginevra, e viaggiando con la coppia sull’aereo privato verso Aspen.
Scommessa riuscita, perché se Benazir non fosse stata falciata dall’attentato dello scorso dicembre, ora presidente del Pakistan sarebbe lei. «Ma gli Stati Uniti adesso sono neutrali nelle presidenziali pakistane, tu non puoi dare consigli e aiuti a Zardari», ha scritto tramite e-mail l’assistente segretario Richard Boucher a Zal. Così quest’ultimo ha dovuto annullare all’ultimo momento un incontro privato con Zardari a Dubai.

Insomma, per gli Stati Uniti il dilemma è: affidare posti di governo importanti a stranieri naturalizzati, capitalizzando la loro preziosa esperienza ma rischiando figuracce come quella con l’iracheno Ahmed Chalabi? Oppure vietare ai cittadini provenienti da una nazione di occuparsi del proprio Paese d’origine, come fanno le diplomazie britannica, australiana, canadese e neozelandese?

Zal è un seduttore nato, e all’Onu ha affascinato molti: “Ci consulta sempre, non è il solito americano aggressivo”, lo loda l’ambasciatore sudafricano. Ma quelli americani in Afghanistan, Pakistan e Iraq lo detestano, perché si sentono scavalcati da questo afghano elegante e brillante: parla troppe lingue misteriose a loro sconosciute. E non capiscono bene quanto sia intelligente, o furbo, o leale. E a chi.

Mauro Suttora

Wednesday, August 27, 2008

Pechino, bilancio politico

Nessuna medaglia per i diritti civili
L' organizzazione è stata impeccabile, ma la libertà resta un miraggio

dal nostro inviato Mauro Suttora

Pechino, 25 agosto 2008

Le Olimpiadi sono state un successo per la Cina. Bene organizzate, hanno lasciato soddisfatti tutti: atleti, spettatori, telespettatori, i 20 mila giornalisti piombati a Pechino da tutto il mondo. Ma la gentilezza ed efficienza dei 100 mila volontari non possono farci dimenticare che la Cina è ancora una dittatura. Qui i governanti incarcerano chiunque osi parlare, protestare, criticare i capi del partito unico, stampare un giornale. Prima delle Olimpiadi le autorità avevano annunciato che chi voleva manifestare avrebbe potuto farlo, chiedendo il permesso alla polizia, in tre parchi di Pechino. Risultato: due vecchiette di 77 e 79 anni sono state condannate a un anno di "rieducazione al lavoro" perché avevano richiesto il permesso. Volevano protestare contro lo sfratto subìto per le Olimpiadi.

La lista delle malefatte dei dittatori cinesi è lunga: dopo la strage degli studenti di piazza Tian An Men nel 1989, oggi ci sono quelle in Tibet. Anche lo Xinjiang musulmano chiede, se non indipendenza, almeno autonomia. E poi i seguaci della setta Falun Gong e i cattolici non "ufficiali" perseguitati, i lavoratori forzati nei "laogai" (lager, c' è perfino assonanza). Infine, l' appoggio della Cina a regimi sanguinari come la Corea del Nord di Kim Il Jong, la Birmania che da vent' anni tiene agli arresti la Nobel della pace Aung San Suu Kyi, il Sudan del tiranno Omar Bashir incriminato dalla Corte dell' Aia per il genocidio del Darfur.
Troverà la Cina il suo Gorbaciov ? Un capo coraggioso, che oltre alla libertà economica conceda anche la libertà politica ?

Mauro Suttora

Appuntamento a Londra

Finiti (col botto) i giochi cinesi, si pensa già a quelli del 2012

I pugni di Cammarelle, la marcia trionfale di Schwazer, le pagaiate quasi d' oro della Idem chiudono un' Olimpiade in chiaroscuro. "Siamo soddisfatti", dice il capo del Coni, Petrucci. Ma i nostri esperti chiedono: "Più sport nelle scuole"

dal nostro inviato Mauro Suttora

Pechino, 25 agosto 2008

Grazie Alex, grazie Roberto. Dovevano arrivare questi ragazzoni dell' estremo nord e dell' estremo sud (Vipiteno e Lucania) per salvare lo sport italiano. Diciamolo: dopo le sei medaglie d' oro della prima settimana di Olimpiade, i giorni seguenti si erano rivelati un po' avari per i nostri colori, e il clima era mogio. Poi però sono giunti gli ori di Alex Schwazer, 23 anni, un metro e 85 di bravura, simpatia e bellezza, e di Roberto Cammarelle, 28 anni, uno e 90 di bravura, simpatia e potenza.

Il primo ha trionfato sulla distanza più lunga dei Giochi, maggiore anche della maratona: i 50 chilometri di marcia. Il secondo nella categoria più pesante del pugilato, quella dei supermassimi: quasi imbarazzante la sua superiorità contro l' avversario cinese in finale. Adesso la medaglia d' oro più settentrionale della storia d' Italia (Vipiteno/Sterzing si trova più a nord perfino della Trafoi di Gustav Thoeni) si gode il trionfo in compagnia della fidanzata non più segreta Carolina Kostner, corregionale principessa delle pattinatrici sul ghiaccio. È questa la nuova coppia d' oro dello sport italiano. Mentre Cammarelle da Cinisello Balsamo (Milano), ma figlio di immigrati dalla Basilicata, è tornato ad Assisi dove vive con la compagna Nicoletta e si allena con gli altri pugili azzurri.

Archiviati i Giochi di Pechino con le ultime medaglie, ora lo sport italiano guarda al futuro. Una generazione di atleti esce di scena, una nuova si prepara per le prossime Olimpiadi di Londra 2012. "A ottobre una nostra delegazione andrà lì per un primo sopralluogo", dice a Oggi il presidente del Coni, Gianni Petrucci. Che è soddisfatto del medagliere: "Avevo detto che 27 medaglie sarebbero stato un buon risultato, e ci siamo. Anzi, una di più.

"Più bravi dei francesi"

"Anche facendo il confronto con Paesi a noi paragonabili, come Francia e Spagna. La Gran Bretagna non conta: il Paese che ospita l' Olimpiade successiva fa sempre uno sforzo per apparire bene. E poi molte medaglie britanniche vengono dal ciclismo su pista. Piuttosto, se fossi il presidente del Comitato olimpico statunitense, surclassato negli ori dalla Cina, avrei dei problemi..."

Però non possiamo nascondercelo: ci sono state anche delle delusioni. Alcune medaglie mancate sono il sintomo di un declino più generale dello sport praticato ? "Non direi proprio", risponde Petrucci, "anche se onestamente su alcune sconfitte occorre riflettere. Neanche una medaglia dagli sport di squadra, per esempio: calcio, pallavolo, pallanuoto. Nella pallacanestro non ci siamo neppure qualificati. Ma tutte le federazioni si sono impegnate al massimo. E non dimentichiamo che abbiamo collezionato una marea di quarti posti".

C' è qualcosa in più che può fare la politica per lo sport ? "No, non mi lamento". È l' unico in Italia a non farlo: lamentarsi sembra essere diventato il nostro sport nazionale più praticato. "No, i presidenti Napolitano e Berlusconi ci hanno telefonato, li abbiamo sentiti vicini. E ci tengo a sottolineare che non sono d' accordo con la Vezzali, la quale ha chiesto di non pagare le tasse sui premi per le medaglie. Li abbiamo fissati alti proprio perché sappiamo che ci sono le imposte".

I giochi della gioventù

L' unica cosa che il presidente del Coni chiede è un maggiore impegno della scuola per lo sport: "Non bastano certo quelle due ore alla settimana di educazione fisica, che poi si riducono a una e mezzo per il tempo degli spostamenti".
E su questo sono d' accordo tutti i maggiori esperti di sport che abbiamo sentito: "Sono sessant' anni che lo sostengo, ci manca la base essenziale della scuola", ci dice Candido Cannavò, storico ex direttore della Gazzetta dello Sport, "perché l' Olimpiade è la faccia abbagliante di una situazione che abbagliante non è. Eppure abbiamo ottimi tecnici, e siamo capaci di qualificarci in ben 26 sport. Ma basti dire che si parla tanto di Expo a Milano, e nessuno ricorda che è l' unica città europea priva di una piscina olimpica".
Che fare, quindi ? "Resuscitare i Giochi della Gioventù, per esempio. Correre è la prima cosa che spontaneamente un ragazzo vuole fare. Miracoli come la Giamaica non nascono per caso, o perché le mamme giamaicane fanno figli migliori. Ci vuole un sistema".

Franco Arese, campione dei 1.500 negli Anni '70 e oggi presidente della federazione atletica, concorda: "Abbiamo tanto da lavorare. A Pechino con due medaglie nell' atletica ci è andata bene, ma non dobbiamo fermarci. Anche perché lo sport di base serve a tutti. Il premier inglese Blair ha tolto fondi dalla Sanità per darli allo sport, perché se molti cittadini lo praticano stanno più in salute, e alla fine lo Stato spende meno in cure". L' atletica a Pechino ha deluso: se non ci fossero stati la Rigaudo e Schwazer nella marcia, il nostro bilancio sarebbe stato di un solo atleta fra i primi otto.

Il futuro della pallavolo

Uno che non ha problemi è Carlo Magri, presidente della Federvolley. A Pechino entrambe le squadre maschile e femminile di pallavolo hanno deluso, però lui si consola con "il milione di praticanti e i 370 mila tesserati. Siamo secondi solo al calcio, e abbiamo il quasi monopolio dello sport fra le donne. Nella sola provincia di Milano ci sono 900 squadre di calcio, e 1.200 di pallavolo. E nel primo anno di iscrizione per il beach volley siamo arrivati a diecimila".
Un altro che festeggia è Edoardo Mangiarotti, 89 anni e tredici medaglie vinte nella scherma: "Anche quest' anno abbiamo portato sette medaglie all' Italia, il nostro sport non delude mai". Arrivederci quindi a Vancouver (Canada) per le Olimpiadi invernali nel 2010, e a Londra fra quattro anni.

Mauro Suttora

Tuesday, August 26, 2008

Giulia Quintavalle

Intervista alla medaglia d'oro di judo nel villaggio olimpico

dal nostro inviato Mauro Suttora

Pechino, 20 agosto 2008

Sorride. Sorride sempre, un po’ perché glielo chiede il fotografo, col quale sono riuscito a intrufolarmi nella sua stanza al villaggio olimpico (vietato, ma il Coni ha chiuso un occhio). E soprattutto perché il suo sorriso è irresistibile.

Giulia Quintavalle, 25 anni, da Rosignano (Livorno): la judoka più brava del mondo. Perlomeno fra le donne che pesano fino a 57 chili.
Per tre volte ai campionati mondiali del 2007 e agli europei di quest’anno la Quintavalle è arrivata quinta, cosicché molti avevano cominciato a scherzare col suo cognome. «Allora adesso chiamatemi Primavalle», ha risposto lei, livornese salace, dopo la vittoria.

Provate voi ad avere un fratello gemello (Michel, in onore a Platini) e uno più grande che fanno judo. Niente di più facile che, anche se siete una femminuccia, prima o poi per entusiasmo o autodifesa li imitiate. E così ha fatto Giulia, figlia di geometra comunale. Sette anni fa, la svolta. Troppo brava per le palestre di Livorno: la Guardia di Finanza se la piglia e la manda all’Infernetto. Niente scherzi: così si chiama il quartiere di Roma dove dal 2001 si allena a tempo pieno con la Finanza. Prima lì c’erano zanzare e malaria. Oggi invece è una bella zona residenziale.

Se vuoi diventare medaglia d’oro la vita non è un paradiso. Ecco la giornata tipo di Giulia in caserma: «Sveglia alle otto, allenamento fino alle 12.30, pranzo, nel pomeriggio fino alle sette altre ore di preparazione fisica».
Resta poco tempo libero. Prima Giulia lo ha usato per prendersi la maturità, ora «vado a fare shopping con i miei amici, in centro o nei centri commerciali. Mi piacciono Eros e Giorgia, fra gli attori Raul Bova». Il fidanzato, finanziere e judoista pure lui, si chiama Orazio D’Allura. Ma ora lei ha paura dei pettegolezzi: «Non voglio dire niente, anzi scriva che sono single».

Non ha il fisico della lottatrice, Giulia. Anzi. Alta uno e 73, sembra esile rispetto alle avversarie meglio piantate, tutte più basse: «Due anni fa ho cambiato categoria, dai 63 ai 57 chili. Ma non devo seguire diete particolari, non mangio molto». Il problema è che nella categoria superiore Giulia sarebbe rimasta «chiusa», in Italia, dalla campionessa Ylenia Scapin, che ha otto anni di più e ha vinto due bronzi olimpici (Atlanta ’96 e Sydney 2000). Quindi Giulia ha preferito scendere di peso.

Ai giornalisti sarebbe proibito entrare nelle stanze degli atleti. L’unica parte del villaggio olimpico aperta agli esterni, ma solo per appuntamento e con controlli severissimi, è quella dei negozi: supermercatino, banca, internet point, coiffeur. Ma per Giulia, che ha finito le gare e vinto l’oro, i dirigenti fanno un’eccezione.

Lei è in camera con Lucia Morico di Marotta (Pesaro). Gli appartamenti hanno due stanze da letto. Un palazzo intero di sette piani è occupato dai 347 atleti italiani, a ogni balcone sventola il tricolore. Su uno al terzo piano c’è scritto col pennarello «Fede champion»: è la stanza della nuotatrice Federica Pellegrini.

Più tranquille le judoiste, guidate dal’allenatore Felice Mariani (bronzo a Montreal ’76). Lucia Morico gareggia fra due ore, ma si ferma a parlare con noi come niente fosse, lodando Giulia. Sarà battuta dopo due turni da un ermafrodita brasiliano.

E lei, Giulia, che farà ora? Sorride: «Non lo so. Una ventina giorni di vacanza dai miei al mare. Poi però devo tornare all’Infernetto. Comincia la preparazione per Londra 2012…»
I suoi in pratica non la vedono più da sette anni. «Mia madre non voleva che lasciassi il liceo linguistico per il judo, ma si è ricreduta. Li sento al telefono ogni giorno». Ora tutti la vogliono. Se la contendono i sindaci di Livorno, dov’è nata, e di Rosignano dov’è cresciuta.

«Il giorno della sua vittoria ci siamo alzati prestissimo», racconta papà Fabrizio, «alle cinque eravamo davanti alla tv. Giulia ci ha fatto soffrire quando, in uno degli ultimi incontri, si è fatta male. Mia moglie mi ha stretto forte la mano. Poi però ha vinto e non nascondo di aver pianto».

«Ora l'aspettiamo a casa con la schiacciata del fornaio che le piace tanto, e una bella pasta con le cicale, di quelle che pesca il nonno», aggiunge la mamma. Scoppia di gioia anche il fratello maggiore Manuel, 32 anni: «Ricordo quando aveva cinque anni e la portai con me in palestra. Si appassionò subito, e nostro padre accettò che si allenasse». «Il judo è uno sport stupendo», dice Fabrizio Quintavalle, «ci vogliono preparazione atletica ed equilibrio mentale. Lo consiglio a tutti i genitori che hanno figli piccoli da avviare allo sport».

Mauro Suttora

Pellegrini, Phelps, Bolt

L'Olimpiade dei fenomeni: Federica, Michael e Usain il giamaicano

Oggi

Pechino, 20 agosto 2008

Un chilo di pasta al giorno. Tanto mangia il «mostro» Michael Phelps, trionfatore delle Olimpiadi, il nuotatore che dopo 36 anni ha vinto più di Mark Spitz: otto medaglie d'oro in una sola edizione. Con tanti saluti alle diete «no carb(oidrati)». Quale nostra industria della pasta assolderà ora il 23enne di Baltimora come testimonial?

Il secondo campione simbolo di questi Giochi è Usain Bolt, ancora più giovane, 22 anni. Fino a tredici non aveva i soldi per comprarsi le scarpette, correva a piedi nudi in un paesino giamaicano fra le piantagioni di caffè e zucchero. La sua foto mentre taglia in scioltezza il traguardo dei cento metri con una scarpa slacciata, dopo essersi voltato a guardare gli avversari lasciati due metri indietro, e stabilendo pure il record mondiale (9"69), è già leggenda. Completata il giorno dopo dalle donne giamaicane: soltanto loro nei primi tre posti dei 100 metri.
I due uomini più veloci del mondo (in acqua e per terra) sono i «mostri» che vale la pena conoscere meglio, anche perché vista l'età li attende una lunga carriera.

Quanto a noi italiani, il trionfo della nuotatrice Federica Pellegrini nei 200 stile libero è ancora più clamoroso perché è arrivato a poche ore dalla sconfitta sui 400. Una resurrezione che premia la sua forza di volontà, la capacità di non darsi per vinta. Ma anche l'argento della sua collega romana Alessia Filippi negli 800 è prezioso. Senza dimenticare gli ori degli sport minori: l'udinese Chiara Cainero nel tiro a volo, il bolognese Andrea Minguzzi nella lotta greco-romana, Giulia Quintavalle nel judo (da noi intervistata nell'articolo seguente).

Federica la lunatica

Lo ammette anche lei: «Cambio umore in fretta». E per fortuna: al mattino è solo quinta nella gara in cui è favorita (solidarietà col fidanzato Luca Marin, pure lui quinto nei 400 misti?), ma alla sera batte il record del mondo nell’altra. La ventenne di Mirano (Venezia) è figlia del capo barman di in hotel di lusso sulla Laguna, ex parà, che le ha dedicato un nuovo cocktail: «Tacchi a spillo». È questa una delle passioni di Fede, oltre al gatto Neve con cui vive a Verona, alla moda, la tv e le Ferrari. «Mi piacerebbe averne una», ha detto dopo la vittoria, ben sapendo che il presidente del suo club, l’Aniene di Roma, è concessionario di auto di lusso. La 500 appena regalatale dalla Fiat è già dimenticata.

Intanto ha strappato il siciliano Marin alla rivale francese Laure Manaudou, ormai più nota per le foto porno che girano in rete che per le prestazioni sportive. Ma quanto a sesso neanche Fede si tira indietro: «Lo facciamo sempre, anche agli appuntamenti importanti, magari non prima della gara. Scarica la tensione. Sogno di farlo coi tacchi alti e nello spogliatoio della piscina», ha detto. Conferma Luca: «Fede non simula mai il mal di testa per non fare l’amore. Bacia molto meglio di Laure. La nostra prima volta sono durato 50 minuti…»

«Le permetterei di posare per un calendario», aveva incautamente detto a Oggi quattro mesi fa papà Roberto. Subito accontentato: a giugno la Pellegrini si è mostrata in topless sul mensile Fox Uomo. I gomiti però coprono i capezzoli, quindi il piercing su quello sinistro non si vede. Fede vanta inoltre quattro tatuaggi. Quello sul gluteo promette: «Nient’altro che noi». «Sono foto vecchie di due anni», si giustifica lei. Che si cura molto le unghie ed è tormentata dall'acne.
I suoi prossimi obiettivi: andare sotto i quattro minuti nei 400 e iscriversi a psicologia all’università: «Da grande voglio fare l’analista. O forse darmi alla moda». Intanto, gira spot per le valigie Carpisa.

Phelps il prodigio

«Non è il nuotatore più forte della storia. È il massimo atleta in assoluto, di ogni sport. La sua impresa è epica»: parola di Spitz, felice di essere stato sorpassato. Ormai sono otto anni che Michael vince tutto. La sua specialità è lo stile farfalla, ma è velocissimo anche nello stile libero, a dorso. «E ora è migliorato anche a rana», dice il suo allenatore e secondo padre Bob Bowman. Che lo scoprì nel '95 in una piscina di Baltimora: si accorse subito che era un fenomeno, e l'ha coltivato come un gioiello.

Il suo vero padre, un poliziotto, aveva divorziato un anno prima dalla mamma, preside di scuola media inferiore, e da allora è sparito. Ma gli esempi in famiglia sono state le due sorelle Hilary e Whitney, entrambe nuotatrici. Whitney mancò per un soffio a 15 anni la qualificazione alle Olimpiadi di Atlanta '96. Il piccolo Michael giurò che l'avrebbe vendicata. E dopo quattro anni, anche lui 15enne, ci riuscì, andando a Sydney. Non vinse nulla, ma ad Atene 2004 esplose: sei ori e due bronzi.

Da allora il ragazzo con mani, piedi e orecchie giganti, alto uno e 92 per 88 chili, non ha perso un colpo. Uniche due disavventure: arresto e diciotto mesi con la condizionale per guida in stato di ebbrezza nel 2004, e la casa invasa dalla schiuma quando ha messo nella lavastoviglie sapone liquido da cucina invece del detersivo apposito.

Non gli si conosce vita sentimentale: «Passo tutta la vita a mangiare, nuotare e dormire. Sono un po' noioso e molto pigro», ammette, «la domenica sto sdraiato sul divano a giocare con la playstation e a guardare la tv». Gli sono state attribuite due legami: una con la nuotatrice sexy Usa Amanda Beard, di tre anni più anziana, e l'altra con una modella inglese che ha sostituito Kate Moss come volto di Burberry.

Qualche fan arriva ad attribuirgli una moglie segreta. Va pazzo per Cameron Diaz, ma quando ha incontrato la ex modella Cindy Crawford qui a Pechino si è emozionato, parlandole con difficoltà. Prima delle gare per caricarsi ascolta rap (Eminem in cuffia), il libro preferito risale alle letture obbligatorie della scuola media: Il buio oltre la siepe.

Dagli sponsor Visa, McDonald’s, Omega, At&t (telefoni) e Speedo (costumi da nuoto) Phelps incassa vari milioni l'anno. Il prezzo minimo di ogni sua comparsata: 15 mila dollari.

Bolt il lampo

«Bolt» in inglese significa lampo, e con un cognome così come si fa a non vincere? «Dopo di lui l’atletica non è più la stessa», dicono gli esperti. Campione sui 200 metri, corre i cento da solo un anno. Alla quinta gara disputata, lo scorso giugno, aveva già stabilito il nuovo record mondiale. E pensare che il suo allenatore lo considerava troppo alto per la distanza breve: uno e 93.

Figlio di un negoziante e una sarta del villaggio rurale di Trelawny, nel profondo nordovest della Giamaica a mezz’ora d’auto da Montego Bay, Usain (nome strano, suggerito per caso da un bambino alla mamma Jennifer) sei anni fa comincia a correre come un razzo e vince tutti i campionati juniores.

Fidanzato con la giamaicana Mizicann Evans, che è qui a Pechino con mamma Jennifer, Usain fa parte della valanga giamaicana abbattutasi sui Giochi: oltre ad Asafa Powell, l’ex primatista mondiale arrivato però solo quinto, le centometriste donne hanno occupato l’intero podio. Prima, era successo solo alle Olimpiadi 1912 di Stoccolma.

Qual è il segreto della Giamaica, Paese di soli 2,7 milioni di abitanti che sforna gli umani più veloci del mondo? «Il potere della musica reggae», scherza l’oro Shelly-Ann Fraser. Altri dicono sia lo yam, una patata dolce tropicale. Qualcuno teme il doping, che ha falciato molti giamaicani in passato, a cominciare da Ben Johnson ai Giochi di Seul ’88. «Ma quelli erano giamaicani espatriati che correvano per Usa o Canada», dice Glen Mills, l’allenatore che gestisce la fucina dei campioni a Kingston. «Io non mi sono mai drogato», giura Usain, «e sono pigrissimo. Mi sveglio alle undici, Glen mi deve tirare giù dal letto. Mangio quel che capita, il giorno della gara ho trovato del pollo fritto. E non faccio mai colazione». Capito, Phelps?

Mauro Suttora

Olimpionici e Tibet

Gli atleti protestano quando tornano a casa

Libero

Pechino, 23 agosto 2008

Che cosa rispondono gli olimpionici delle squadre militari all’occhiolino strizzato dal ministro della Difesa? Ignazio la Russa aveva detto che potrebbe quasi premiare i «propri» atleti se esprimessero in qualche modo solidarietà al Tibet mentre si trovano in Cina.

Qui nella Casa Italia di Pechino però non troviamo neanche un azzurro disposto ad aderire all’invito del ministro. «Non è giusto chiedere a noi singoli atleti di prendersi la responsabilità di un gesto pubblico, che finirebbe per essere clamoroso. I politici potevano prendere le loro decisioni, anche di boicottare i Giochi. Ma non devono scaricare le loro indecisioni su di noi», risponde Antonio Rossi, il canoista 39enne veterano dei Giochi, cinque Olimpiadi alle spalle e portabandiera dello squadrone azzurro.

Ieri è arrivato quarto nella sua K4 1.000, e nonostante appartenga alle Fiamme Gialle della Finanza, e quindi sia formalmente un militare, il consiglio del suo ministro lo lascia freddo. «Anche perché il Cio, il Comitato olimpico internazionale, è stato chiaro su questo. L’articolo 51 proibisce ogni manifestazione politica da parte dei gareggianti, e loro lo hanno ribadito».

Indifferente quindi al Tibet? «Assolutamente no. Anzi, all’inizio delle Olimpiadi ho aderito all’iniziativa simbolica di tagliarsi una ciocca di capelli per il Tibet, e qualcuno mi ha criticato per questo. In quanto portabandiera non avrei dovuto farlo, mi ha detto un atleta. Ma io non rinuncio alle mie idee, e prima e dopo le gare parlo. Anzi, per quanto riguarda la Cina non esiste solo il Tibet. Io vengo da Lecco, e in quella zona parecchie aziende che producevano seta e telai hanno dovuto chiudere per la concorrenza cinese. Ma quanto pagano i lavoratori, qui? E con che metodi li fanno lavorare?»

Il suo compagno di equipaggio Luca Piemonte, 29 anni, di Staranzano (Gorizia), è delle Forestali. Corpo civile, ma anche lui dice: «Non trovo giusto mischiare la politica con lo sport. Le prestazioni sportive non vanno strumentalizzate. Io sono contrario a ogni forma di repressione, e di Paesi repressi al mondo ce ne sono tantissimi. Credo che si possa manifestare in un altro modo, e non durante una manifestazione politica come le Olimpiadi».

«I dirigenti ci hanno detto esplicitamente di non fare gesti politici», dice Michele Zerial, 21 anni, di Trieste, quarto nella K1 500, «ma io non avrei fatto niente lo stesso. Anche perché i cinesi con noi sono stati superdisponibili, aperti, meglio di qualsiasi aspettativa. Prima e dopo l’Olimpiade mi metto volentieri una maglietta per il Tibet, ma qui no. In Cina mi sono trovato bene».

Quanto al presidente del Coni Gianni Petrucci, conferma le cose dette all’apertura dei Giochi, quando arrivò un analogo auspicio di gesti pro-Tibet da parte del ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Perché i politici non chiedono alle aziende che fanno affari con la Cina di boicottarla?»

Mauro Suttora

Alex Schwazer

Forte e allegro, è il nostro Bolt

Libero, 23 agosto 2008

di Mauro Suttora

Chissà perché vengono tutti da posti lontanissimi, i nostri campioni di marcia. Abdon Pamich, ultima medaglia d’oro nei 50 chilometri all’Olimpiade di Tokio 1964, è profugo di Fiume, oggi Croazia. E Alex Schwazer arriva da Vipiteno/Sterzing. A nord di Bolzano, a nord di Bressanone, a soli dieci chilometri dal confine austriaco. Se percorre la sua distanza di gara verso nord, è già a Innsbruck.

Lo osservo mentre parla con i giornalisti nella “mixed zone”, il corridoio che inghiotte gli atleti dopo la gara portandoli agli spogliatoi. Si presenta contemporaneamente a Casimiro, un marciatore slovacco distrutto, piedi nudi e doloranti. Controllo sul tabellone: il povero Casimiro è arrivato ultimo, 47esimo, ed è anche stato bravo a non ritirarsi come hanno fatto in dieci sotto il sole caldissimo di Pechino.
Casimiro e Alex, ultimo e primo. Alex appare miracolosamente già fresco e riposato, dopo aver parlato per mezz’ora alle tv a bordo pista. Perfino i cinesi vogliono intervistarlo.

Alex è bellissimo, perfetto per diventare personaggio e fare innamorare milioni di ragazze. Il suo idolo Robert Korzeniowski, polacco tre volte oro (Atlanta, Sidney, Atene) lo stuzzica in conferenza stampa: “A chi è dedicato il braccialetto che indossi?” Lo sanno tutti: a Carolina Kostner, l’altra regina dello sport altoatesino, due anni più giovane di lui. Ma Alex diventa rosso, continua a sorridere e dice che nella vita non c’è solo lo sport, che bisogna anche essere felici, soprattutto a 23 anni.

Insomma il contrario del disperante “fenomeno” del nuoto Phelps, che ho incrociato l’altra sera alla festa dello sponsor Omega, e che appare quel che lui stesso ammette di essere: “Noioso, nella vita so solo mangiare, dormire e guardare la tv”.

Alex invece ha la luce dell’intelligenza negli occhi scintillanti, ed è giocherellone come Usain Bolt: un altro convinto che nella vita lo sport non sia tutto, fino a prendersi i rimbrotti di quel grigio burocrate che è il presidente del Cio Jacques Rogge, non a caso conte e belga.

Che bello constatare che Bolt, l’uomo più veloce del mondo, e Alex, quello più resistente, sono ragazzi allegri e non automi fabbricati in palestra e farmacia. E questo proprio nell’Olimpiade dei cinesi, che i propri campioni sembrano crearli in caserma.

Alex infila perfino una quasi gaffe, quando spavaldo ma non sbruffone riesce a dire, per sminuirsi: “Se si è superiori è facile vincere”. Il che, detto nel suo accento tedesco, potrebbe risultare inquietante se non fosse Alex.
Per lui scendono negli scantinati dello stadio i massimi dirigenti dello sport italiano: Gianni Petrucci, presidente del Coni, e Franco Arese campione dei 1.500 e capo della Federazione atletica leggera. L’allenatore Sandro Damilano, fratello del Maurizio marciatore d’oro nella 20 km. a Mosca 1980, rimane seduto su una seggiolina portatile, incredulo e felice. Per fortuna che è arrivato l’oro di Alex, dopo il bronzo della Rigaudo sempre nella marcia, a far felici tutti. Altrimenti il bilancio dell’Italia nella principale disciplina dell’Olimpiade sarebbe stato misero.

Ma adesso abbiamo Alex, e tutti i problemi del nostro sport sono risolti. Ora vado alla festa di Casa Italia. Per festeggiare Alex, stasera pizza-party invece delle abituali scaglie dello sponsor Parmigiano reggiano.

Mauro Suttora

Il Partito entra pure in casa


Libero, 22 agosto 2008

di Mauro Suttora

Caro Direttore,
ieri sono andato a trovare un collega giornalista cinese a casa sua a Pechino. Abita in uno delle migliaia di palazzi costruiti negli ultimi vent'anni per i tre nuovi milioni di abitanti che hanno portato il totale a quindici. Numeri e distanze colossali, e infatti per arrivarci dal centro ci vogliono tre quarti d'ora (se non c'è traffico). Un bel quartiere di periferia, dignitoso, quasi elegante. Ricorda un po' il centro Edilnord di Brugherio (Milano), prima creazione di Berlusconi quarant'anni fa.

Il collega paga 300 euro mensili per due camere, cucina abitabile, sala e un bagno. Ne guadagna 800 al mese, ma lavora anche la moglie. Portineria e posto di guardia sono all'entrata del complesso, poi tanti vialetti e anche verde fra palazzi alti 25 piani. Unico difetto: pochi garages. Quindi auto parcheggiate dappertutto, anche sui marciapiedi. Mi sono sentito in Italia.

Mentre aspettavo l'amico all'entrata, ho visto un cartello bilingue. Ho letto la traduzione in inglese, e ti mando la foto. Spero che si legga. Dice che ci troviamo nel quartiere Wangjinghuanyuan (d'ora in poi W) del sotto-distretto Dong Hu. Il quale contiene 31 palazzi con 4.528 appartamenti per tredicimila abitanti fissi e 1.800 "floating" (che vanno e vengono, o forse in affitto), su una superficie di 1.170.000 metri quadri (117 ettari).

Poi alcune indicazioni stradali, preziose per i visitatori ma anche per gli abitanti stessi, che faticano sempre a spiegare a tassisti e amici dove vivono. Infatti Pechino è cresciuta così tanto e così in fretta che nessuno si raccapezza più. Quand'ero venuto per la strage di Tian an men nell'89 la città finiva alla terza circonvallazione, grande quasi quanto le tangenziali di Milano o il Raccordo anulare di Roma. Ora siamo arrivati alla quinta, ma già proliferano fra i campi nuovi quartieri-satellite come questo.

La parte interessante del cartello è la seconda, che dice testualmente: "La Sezione del Partito del quartiere W è stata fondata nel 2002. L'attuale segretario della sezione del Partito è WANG [tutto maiuscolo, ndr] Lifeng. Ci sono cinque membri di comitato e 114 membri del Partito [unica parola sempre in maiuscolo] che si autogestiscono [in inglese: 'self-managed']. Il comitato dei residenti del quartiere W è stato fondato [anch'esso] nel 2002 [all'inaugurazione delle case, presumo]. L'attuale vicedirettore WANG Lifeng è il responsabile del lavoro. Il comitato ha nove membri".

Segue una lode all'abbondanza di strutture scolastiche e mediche nel quartiere. Ma questo succede in tutti i nostri dépliant pubblicitari immobiliari. Poi l'elenco delle imprese della zona, dove primeggia la Panasonic.
Più interessante il penultimo capoverso, che informa: "C'è un Centro di Attività Culturale con 13 gruppi ricreativi, e 7 gruppi volontari di membri del Partito. Grazie alla particolarità della struttura residenziale, l'attività culturale è molto vivace. I gruppi di massa, come quelli dell'arte del giardinaggio, la squadra di insegnanti di inglese e la classe dei cittadini anziani, giocano un ruolo positivo nel percorso della costruzione di una comunità armoniosa".
Infine l'elenco dei premi ricevuti dal quartiere W, come quello per il 'Distretto Residenziale Modello', quello del Comitato della Pubblica Sicurezza Avanzata Municipale di Pechino, e anche quello per la Sezione del Partito.

Ecco, il mio amico mi spiega che tutta la Cina è organizzata così. C'è il quartiere, c'è il comitato di quartiere, e c'è il Partito. Uno solo, con la maiuscola. Attenzione: ufficialmente a governare il quartiere non è direttamente il Partito, ma il comitato dei residenti. Che però ha come suo vicepresidente il signor Wang. E la maggioranza assoluta del comitato (cinque membri su nove) è in mano al Partito. Che avrà anche solo 114 iscritti su 14.800 abitanti, ma alla fine comanda lui. Nella persona del signor Wang, che infatti è sia capo della sezione del Partito, sia vicepresidente del comitato, e con il proprio nome scritto due volte e in maiuscolo. Il presidente non è neanche citato sul cartello. Si vede che serve quanto il nostro, quello della Repubblica intendo (con rispetto parlando).

Ma come si chiamerà questo Partito? Girando per Pechino, non si capisce. Dicono che un tempo si chiamasse 'comunista'. Ma in giro non ho visto neanche una falce e martello. Ritratti del presidente Mao, solo uno : quello in piazza Tian an men. E di stelle sono rimaste solo le cinque sulla bandiera rossa. Insomma, è come in Italia: i comunisti sono spariti. In compenso trionfano i comitati di quartiere, sogno della nostra sinistra negli anni '70.
Ah, e poi la Pubblica Sicurezza Avanzata... Chissà se per costruire la "comunità armoniosa" qui prendono le impronte digitali. E a chi.

Mauro Suttora

Ma(ur)o

Pechino, piazza Tien an men, venerdì 22 agosto 2008, ore 16:00

Saturday, August 23, 2008

Concupiscenza a New York


Brevi saggi più o meno concupiscenti/19

American beauty farm

A New York il desiderio diventa un peccato di gola divorato dall’ascesi edonistica del consumismo

di Mauro Suttora





















"What’s Sutunqa?”. Maledetta scrittura intelligente. Marsha ha ricevuto un mio sms, ma il telefonino Usa storpia sempre così, in automatico, il mio cognome. E ora eccola qui di fronte a me, splendida trentenne, ex modella dagli occhi azzurri, nel mio ufficio sopra la libreria Rizzoli sulla 57esima strada di Manhattan. E’ venuta a trovarmi in redazione. Fuori c’è il solito caldo umido atroce che rovina tutte le estati nella capitale del mondo. L’ho conosciuta a un concerto di musica contemporanea contro la pena di morte organizzato dai radicali italiani (che si piccano di essere transnazionali) a New York. Confesso che c’ero andato soprattutto perché era vicino alla Rizzoli, nel teatro dell’Alliance Française sulla 59esima. Ho concupito Marsha appena l’ho vista. Pure lei, mi ha confessato dopo, anche se lì per lì ha fatto finta di nulla. Il concerto era insopportabile, come tutta la musica classica dopo Debussy. All’uscita lei era dietro di me con un’amica sulla scala mobile. Ho notato subito la sua figura elegantissima, alta, flessuosa, e i capelli neri, lisci, lunghi.
Anch’io ho fatto finta di niente, non mi sono voltato: temevo mi scambiasse per un appiccicoso playboy italiano che squadra le donne lanciando occhiate da triglia. Però ho subito smesso di pensare alla provvida legge del mercato che farebbe giustizia della musica dodecafonica, se quest’ultima fosse lasciata a se stessa come merita, senza più sovvenzioni pubbliche. Una volta tanto, l’esprit de l’escalier che mi affligge (trovo le parole giuste con le donne solo mentre scendo le scale dopo averle salutate, spesso per sempre) ha funzionato al contrario: la scala mobile mi ha dato tutto il tempo di escogitare una frase ad effetto per far colpo su Marsha. 
“Lei è una diplomatica?” (no, non era questa la frase). 
“No, perché?”. 
“A questo concerto hanno invitato soprattutto diplomatici dell’Onu”. 
“Non ho niente a che fare con l’Onu”. 
E' già qualcosa. “Ma... lei è dell’Europa dell’Est per caso?”
“No, perché?” Sorride. 
“Ha bellissimi occhi slavi”.
“Grazie”.
“Le è piaciuto il concerto?”.
“Vuole che sia sincera?”. 
“Certo”. 
“Era ok”. Tradotto dall’educatissimo americano: faceva schifo. 
“Sono d’accordo: praticamente era un’anticipazione di pena”. 
“In che senso?”. 
“Era un concerto contro la pena di morte, no?”. 
“Ah, certo”. Sorride. Chissà se ora ha capito. “Però io non sono così sicura di essere contro la pena di morte”, continua. 
No, non ha capito. E in più è a favore della sedia elettrica.
La concupisco ancora di più: una reazionaria dall’aspetto fisico così poco di destra. Affascinante, meglio di quella fascistona di Ann Coulter. “Lei è favorevole alla pena di morte?”. “Mah, dipende. Si riceve quel che si dà”. “Ma allora perché è venuta a un concerto contro la pena di morte?”. “La mia amica mi ha invitato. Era gratis. E non avevo niente di meglio da fare”. Ho fatto la corte a Marsha per tre settimane. E’ venuta a letto la prima volta nella notte del grande blackout a New York, due o tre agosti fa. Forse per amore, ma ho scorto anche una grande riluttanza in lei di fronte all’incubo di dover farsi quaranta piani di scale a piedi nel suo grattacielo sulla Sessantesima Strada. Io invece abitavo al sesto piano. Più comodo. 
Ora stiamo assieme. Lei è la mia fidanzata americana. Non è la prima. E probabilmente neanche l’ultima, perché ieri sera mi ha confessato: “Better Saks than sex”. Lo sospettavo: meglio i grandi magazzini sulla Quinta Avenue del sesso. Finalmente è stata sincera: lei prova più piacere a fare shopping che a fare l’amore con me. Non è un caso, d’altronde, che il palazzo di Saks stia proprio accanto alla cattedrale di San Patrizio: sono i due maggiori templi di Manhattan, assieme coprono ogni esigenza corporale e spirituale.
E ora eccola qui di fronte a me, la ragazza che mi fa impazzire e potrebbe diventare la madre dei miei figli. Se solo concupisse me (un po’) più delle borsette Chanel. O delle scarpe Prada. O degli orologi Chopard. O dei “risada with prosega”, come lei chiama felice, già al limite dell’orgasmo, i risotti innaffiati con prosecco nel nostro ristorante italiano preferito.
 “E’ così hot and humid fuori, Mauro”, si lamenta Marsha. 
“Sì, caldo e umido. Proprio come te”. 
“Stop it!”, fa finta di indignarsi. 
Eppure è così sexy. Oggi indossa una camicetta scollatissima, pantaloni aderenti sotto al ginocchio e flip flop, le infradito che sono ormai la divisa della donna americana. Cominciano a portarle già a marzo, ai primi soli primaverili, sfidando geloni e pantegane nel metrò, e vanno avanti fino ad autunno inoltrato. Io impazzisco a vedere tutti quei piedi nudi molto attraenti, curatissimi, con le unghie pittate di colori anche fosforescenti impensabili in Italia. Ecco, “the Nails”. Il manicure e pedicure. L’altra attività principale delle femmine newyorkesi dopo lo shopping: ormai ci sono in giro più insegne Nails che negozi di alimentari.
Marsha mi ha scelto anche perché la Rizzoli sta proprio accanto alle J Sisters, il tempio della depilazione, quindi le risulta agevole passare a salutarmi dopo le sedute. Perché come tutti gli americani è pragmatica e benthamiana: massimo risultato col minimo sforzo. Di professione lavora nella moda, e sarebbe un’attività molto redditizia se gran parte dei suoi guadagni non se li facesse sifonare da quei ladri degli stilisti. Infatti ora è già eccitata al solo pensiero di scendere con me verso il “quadrilatero della morte”, a pochi metri da qui: l’incrocio fra 57esima e Quinta Avenue, che vede ai suoi angoli Tiffany, Luis Vuitton, Bulgari e Bergdorf Goodman, con dentro incastonato pure il gioielliere Van Cleef & Harpels. 
Le basterà guardare le vetrine per soddisfare la sua concupiscenza. Marsha concupisce anche me, io concupisco lei, e non è solo passione: ci amiamo pure, vorremmo metter su famiglia, abbiamo intenzioni serie (insomma: mi ha già presentato ai suoi). Lo giuro: non solo sesso e disobbedienza, o “ricerca disordinata del piacere”, come scrivete nel riquadro rosso qua sotto.
Anche nella Grande Mela ci sono personcine serie. Lei ha studiato a Firenze, è laureata in una delle migliori università (Vanderbilt), legge giornali, riviste e perfino libri, ha addirittura scritto la tesi su Derrida. Però io venivo diciassettenne a Manhattan ogni weekend nel ‘77, fuggendo dai campi di golf del Connecticut dove passavo un anno come exchange student. Allora gli Stati Uniti erano la terra della libertà e delle infinite possibilità. New York era una città pulsante, sporca e sensuale. Oggi è una metropoli anerotica e anoressica, la capitale del conformismo politicamente corretto: quando ho osato scherzare con Marsha su un buffo ciccione nel metrò lei mi ha guardato severa inarcando il sopracciglio, e mi ha detto aggressiva: “Mauro, it’s so inappropriate! Non si dice “grasso”, si dice sovrappeso, oversize. Paffuto, chubby, al limite”. Sui computer la parola sex si tinge automaticamente di rosso, le parolacce vengono sostituite da asterischi.
La regina Vittoria godrebbe come una pazza. Io sono innamorato pazzo di Marsha, la concupisco a ogni ora del giorno e della notte. Però io per lei vengo dopo il lavoro, la carriera, i soldi, le cene con le amiche ogni giovedì (“girlies nights”), il jogging a Central Park ogni mattina presto invece di fare l’amore (la concupisco enormemente quando torna a casa accaldata e con le guance rosse: niente da fare), e poi la palestra, il parrucchiere, lo yoga, le commissioni, gli events cui partecipare ogni sera, i gala della beneficenza ipocrita ed esibita, le abbronzature sul roof della piscina dell’L.A. Sports Club, le prime di cinema e teatro, le anteprime ai musei, l’enogastronomia, la lettura degli annunci immobiliari, i weekend obbligatori agli Hamptons con tre ore di coda sull’autostrada. 
Di sera, quando mi avvicino romanticamente sul sofà, lei mi chiede affettuosa come una gattina: “Mi gratti il braccio? Mi accarezzi la schiena? Mi massaggi il piede?”. E’ così che lei raggiunge l’acme. Perché poi, quando comincio a baciarla, troppo spesso mi blocca dicendomi: “Amore, sono stressata, ho bisogno di relax”. “Rilassati scopando, come me”, le ho risposto una volta. Allora lei, che invece pratica un sesso tecnicamente piuttosto ginnico e quindi faticoso, con gran dispendio di calorie, mi ha guardato accondiscendente ammonendomi con un sorriso: “Mauro, don’t be a pervert”.
Ci sono tante Marsha a Manhattan, nei quartieri residenziali dell’Upper East e West Side. Considerano la frigidità un inconveniente pratico, secondario e superabile: con un programma in dodici step, negli intervalli del pilates, oppure – quelle più intellettuali – tramite psicanalista. Certo, a Manhattan c’è la più alta concentrazione di single del pianeta. Certo, in questa città ci si alza ancora al mattino non sapendo bene in quale letto si finirà la sera. Le one night stand, avventure di una notte, accadono sempre, più che altrove nel mondo. Il problema è che cosa si fa, poi, su quel benedetto letto, con la sconosciuta conosciuta al cocktail party. 
Qualcuno ha soprannominato la New York di questo decennio (gli anni Zero) l’Impero di dito&clito. Grande autosoddisfazione. Di qui il successo teatrale dei “Monologhi della Vagina”: a questo serve principalmente oggi l’organo femminile negli isolati (nomen omen) più ricchi del pianeta, quelli dei miliardari (in dollari) orgogliosi di esibire il codice di avviamento postale 10021, fra Park e Madison Avenue. Lì è nata Marsha. Lì è andata a scuola. Lì le hanno insegnato a indossare, provocante e competitiva, lussuriosi pantaloni leopardati; ma a non scoprirsi mai, inibita e puritana, il seno in spiaggia. “Ah, vivi a New York? Come si sta? E come sono le donne di ‘Sex and the City’?”. E’ questa la domanda che mi fanno quasi tutti i miei amici italiani, anche quelli colti. A volte rispondo buttandola sul sociologico: crollo della concupiscenza, suo spostamento su oggetti diversi dal sesso.
Nulla di nuovo, se ne erano già accorti Freud cent’anni fa e Marcuse cinquanta, come ha ricordato Bandinelli su queste pagine. Manhattan oggi è un misto di perversione e repressione. Di allegro disordine mentale (il consumo di Prozac si è decuplicato) e tanta solitudine: quando passeggio a Riverside Park, ogni tanto mi si avvicina qualche (bella) donna domandandomi: “Are you John?” E’ il tizio con cui ha preso un appuntamento al buio su Internet. Ma c’è anche tanta sconfinata, irresistibile energia: in fondo è l’ottimismo di Marsha ad avermi conquistato. Il settimanale New York Observer, quello dove dieci anni fa nacque la rubrica “Sex and the City” di Candace Bushnell prima di diventare libro e poi trasformarsi nel celebre serial tv con Carrie e Samantha, mi ha affidato una column sullo stesso argomento, ma con il titolo “No sex in the city”.
di Mauro Suttora

Tuesday, August 19, 2008

Edoardo Mangiarotti

dall'inviato a Pechino

Oggi, 20 agosto 2009

Il vecchio Edoardo Mangiarotti, 89 anni, leggenda della nostra scherma, è raggiante: «L'oro a Tagliariol per la spada, quello alla Vezzali nel fioretto e le altre quattro medaglie rappresentano l'ennesima conferma che la scherma non tradisce mai lo sport italiano».

Lui di medaglie olimpiche ne ha conquistate in tutto tredici (record italiano): sei d'oro, cinque d'argento e due di bronzo. Nonostante un leggero ictus di pochi me fa, non ha voluto mancare a questi Giochi, e si è sobbarcato dieci ore di volo col nipote Carlo: «Sono le diciassettesime Olimpiadi cui partecipo, tutte quelle estive dal 1936 a oggi. Sarebbero 19 senza la guerra. Cinque, fino a Roma '60, come atleta. le altre come dirigente e commentatore. Sono tuttora presidente della commissione disciplinare della Federazione internazionale di scherma».

Mangiarotti è un Guinness dei primati vivente: qui a Pechino non è presente nessuna medaglia d'oro delle Olimpiadi di Berlino di 72 anni fa, quelle famigerate in cui il nazismo volle stupire il mondo. «Avevo 17 anni e vinsi l'oro con la squadra di spada, Ci misero in tribuna d'onore nelle gare successive, e udii con le mie orecchie Hitler a pochi metri da me gridare "Schwein!" (maiale) quando il nero americano Jesse Owens vinse la gara».

La Cina, nonostante tutto, rimane una dittatura. Non si rischia di ricordare un giorno Pechino 2008 come Berlino 1936? «No, sono ottimista e spero che la Cina si democratizzi. Nell'81 fui proprio io, da dirigente, a organizzare qui le prime gare di scherma internazionali».

Sunday, August 17, 2008

Primi giorni di Olimpiade

dall'inviato Mauro Suttora

Pechino, 11 agosto 2008

Gran festa per le medaglie, molte emozioni, qualche delusione. I primi giorni dell’Italia alle Olimpiadi cinesi hanno portato alla ribalta nuovi personaggi come lo schermidore Matteo Tagliariol, mentre alcuni fra i favoriti della vigilia come il ciclista Paolo Bettini non sono riusciti a salire sul podio.

Grande conferma invece per il fioretto: alle inossidabili e ormai leggendarie marchigiane Valentina Vezzali (oro), 34 anni, e Giovanna Trillini, 38, che dominano il mondo da quindici anni, si aggiunge ora la triestina 28enne Margherita Granbassi (bronzo), eletta Miss Olimpiade da vari giornali stranieri per la sua bellezza.

Un altro trio che ha emozionato l'Italia, conquistando l'argento nel tiro con l'arco a squadre, è quello composto dal veterano triestino Ilario Di Buò, 42 anni, dal padovano Marco Galiazzo, 25, e dal giovane pavese Nespoli, 20. Una garanzia di continuità. E poi la stupenda performance della judoista debuttante alle Olimpiadi Giulia Quintavalle di Livorno, 25 anni, che ha atterrato la campionessa olimpica uscente per poi vincere l'oro.

La prima impresa di questi Giochi l’ha compiuta Davide Rebellin, da San Bonifacio (Verona), che ha conquistato l’argento nel ciclismo su strada proprio nel giorno del suo 37° compleanno. Una prova tanto scenografica quanto massacrante: partita fra i palazzi della Città proibita nel centro di Pechino, la carovana ha percorso 250 chilometri sotto la Grande muraglia. Il problema però non era la distanza, ma la tremenda nebbia calda-umida che attanaglia la città. «Semplicemente non ce l’ho fatta», spiega Bettini, quando gli chiediamo come mai non è scattato alla fine, quand’era a pochi secondi dal gruppetto di testa. In più di cento non sono riusciti neppure a terminare il percorso.

Il miracolo, al posto di Bettini medaglia d’oro ad Atene, lo ha compiuto il veterano degli italiani. Rebellin era ancora un dilettante quando sedici anni corse la sua prima Olimpiade a Barcellona, vinta dallo scomparso Casartelli. «E ora non so bene se gioire per il secondo posto, o rimpiangere i pochi centimetri che mi ha dato lo spagnolo Samuel Sanchez in volata», dice.

Uno che invece si sarebbe volentieri suicidato è il francese di colore Fabrice Jeannet, battuto dal nostro Tagliariol nella finale di spada: ha fatto scena muta e disperata alla conferenza stampa dopo la premiazione. Quella medaglia d’oro che il principe Alberto di Monaco ha piazzato sul collo del nostro splendido 25enne trevigiano era infatti sua, nei pronostici. Ma Matteo lo ha stracciato: «Sono stato più determinato, era la mia giornata», spiega a chi gli ricorda che una volta aveva detto di considerare proprio Jeannet il suo modello.

«Conosci te stesso»: questa frase di saggezza degli antichi greci Tagliariol se l’è tatuata sull’avambraccio. E dopo la vittoria è andato ad abbracciare Edoardo Mangiarotti, l’89enne nostro massimo campione di scherma (vedere il riquadro) che lo seguiva trepidante in prima fila. Prima, però, per caricarsi aveva ascoltato sull’i-pod una delle sue canzoni preferite: Plug In Baby dei Muse.

Gli schermidori gareggiano al coperto, e quindi sono fra i fortunati che non devono combattere contro il tempo tremendo di Pechino, oltre che misurarsi con gli avversari. Perché qui, quando non si è soffocati dall’afa, piove. Se n’è accorto Giovanni Pellielo, che ormai alle medaglie olimpiche è abbonato. Dopo il bronzo di Sydney 2000 e l’argento di Atene, il campione vercellese di tiro al piattello un pensierino all’oro lo aveva fatto. Ma al momento di sparare sembrava di essere in una risaia dalle sue parti, con scrosci di acquazzone che hanno stravolto la gara. Nessuno dei favoriti ha preso l’oro, è stata una roulette. Ma lui, 38enne imperturbabile, ha conquistato comunque il secondo posto. Pellielo è forse il più religioso fra i 347 olimpionici azzurri, e anche questa volta la fede lo ha sostenuto.

Pochi lo sanno, ma Pellielo gareggia con i colori delle Fiamme azzurre. Che è la squadra sportiva della Polizia penitenziaria. E, per un’incredibile coincidenza, un’altra Fiamma azzurra fra le 17 approdate a Pechino è salita sul podio un’ora dopo l’asso del tiro a volo, sotto la stessa pioggia di domenica 10 agosto. Tatiana Guderzo, 24 anni, da Marostica (Vicenza), ha conquistato il bronzo nel ciclismo su strada: gara proibitiva quanto quella maschile del giorno precedente. Anche nel suo caso, come per il corregionale veneto Rebellin, la favorita italiana era un’altra: Noemi Cantele. Ma ancora una volta le Olimpiadi hanno confermato la propria imprevedibilità. Così la simpatica «secondina» bionda vicentina ha rimediato alla giornata no della compagna varesina.

Questa prima settimana di Olimpiadi è orfana dell’atletica leggera, specialità regina dei giochi. Le piste e pedane del grande stadio «Bird Nest» (nido d’uccello), ammirato durante la cerimonia inaugurale, si riempiono solo dopo Ferragosto. Questo vuoto però è positivo, perché dà il tempo di interessarsi anche a sport cosiddetti minori.

Così, la mattina del primo giorno di gare sono andato alla prima gara in programma: quella del sollevamento pesi per donne che pesano fino a 48 chili. La specialità è nobile e antica, presente nelle Olimpiadi greche e poi già nella prima edizione di quelle moderne nel 1896. Fino al 2000 era riservata agli uomini, e sarò maschilista ma forse era giusto così. In ogni caso, i cinesi hanno programmato questa gara proprio all’inizio perché volevano essere sicuri che la prima medaglia d’oro andasse a loro, e non agli statunitensi loro rivali per il medagliere finale (ma la «vecchia» Europa, se gareggiasse unita, distruggerebbe sia Cina sia Usa).

Così è stato: la cinese Chen Xexia ha battuto come sempre le rivali turche e thailandesi, alzando bilancieri mostruosi di oltre cento chili. In più, per la gioia dei cinesi più patriottici che considerano Taiwan cosa loro, una ragazza di Taipei ha conquistato il bronzo. Ma al momento dell’alzabandiera il suo vessillo era assente, sostituito da quello olimpico con i cinque cerchi. I cinesi di Pechino infatti vogliono così bene a Taiwan che ne negano l’esistenza. Uno dei tanti «amori» un po’ soffocanti…

Io però ero andato ad ammirare queste piccole forzute anche perché per la prima volta ha gareggiato un’italiana: Genny Pagliaro, bella 19enne siciliana che ha perfino rinunciato alla sfilata d’apertura per essere in perfetta forma la mattina dopo. Così purtroppo non è stato: Genny, sopraffatta dall’emozione, si è fermata a 82 chili. Come più o meno tutte le atlete occidentali, d’altronde.

Ora, lo so che è impossibile consolare gli olimpionici che arrivano qui dopo quattro anni di sforzi e sacrifici incredibili, e si giocano tutto in una gara di poche ore, minuti o addirittura secondi. Però gli atleti a Pechino sono più di diecimila, mentre le medaglie in palio sono appena 900. L’importante è partecipare, bisogna saper perdere, non sempre si può vincere, blablabla…

Ma soprattutto, osservando Genny e le sue avversarie sottoporsi a quelle prove crudeli, fra «strappi» e «slanci», non ho potuto fare a meno di pensare alle nostre mogli, madri, sorelle e figlie che giustamente si lamentano se i sacchetti della spesa da trasportare superano i tre chili. E mi è venuto quasi spontaneo, da gentiluomo, lanciarmi in pedana per aiutare le malcapitate, cercado di alleviare la loro fatica. Mi ha fermato solo lo sguardo severo dei giovani volontari cinesi che controllano la tribuna stampa.

Mauro Suttora