L'ambasciatore Usa all'Onu vuole succedere a Karzai
Il Foglio, 3 settembre 2008
di Mauro Suttora
Quella di presidente dell’Afghanistan è una delle poltrone meno salubri del mondo. L’elegantissimo Hamid Karzai, che la occupa da sette anni, ha subìto finora quattro attentati. L’ultimo quattro mesi fa: un bambino di dieci anni e altre due persone sono state uccise al suo posto. “Presidente dell’Afghanistan”, poi, è una parola grossa. Per il territorio che realmente controlla, molti lo definiscono “sindaco di Kabul”.
Eppure c’è un uomo che non vede l’ora di partecipare alla prossima elezione presidenziale in Afghanistan. Si terrà cinque anni dopo la precedente, quella dell’ottobre 2004 che fu la prima democratica nei cinquemila anni di storia del Paese. Non si sa bene ancora quando. C’è stata una lunga disputa per fissare la data, d’altronde in Afghanistan si litiga su tutto. Le scorse elezioni erano costate tantissimo, 350 milioni di dollari donati dalla comunità internazionale, e dopo pochi mesi si rivotò per il Parlamento. Così i pragmatici hanno proposto di accorpare i prossimi voti, allungando di qualche mese il mandato di Karzai e accorciando di altrettanto quello dei parlamentari. Niente da fare, compromesso fallito. Si voterà quindi separatamente, cominciando con le presidenziali nella seconda metà del 2009. Poiché autunno e inverno sono stagioni proibitive nelle montagne afghane, al massimo all’inizio di ottobre.
L’uomo che già si scalda i muscoli per scalzare Karzai vive a Manhattan, ha 57 anni e si chiama Zalmay Khalilzad, confidenzialmente Zal. Da due anni è ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu. Prima lo è stato per due anni in Iraq. Prima ancora, per due anni ambasciatore Usa in Afghanistan. Adesso, sta facendo imbestialire i suoi superiori al Dipartimento di Stato perché tutti si accorgono che si sta preparando al suo prossimo lavoro, invece di obbedire agli ordini dei tanti vicesegretari e sottosegretari che affollano il Foggy Bottom statunitense.
Fa bene Zal a mandarli a quel paese? Lui di Afghanistan ne sa più di tutti, semplicemente perché è afghano. Di etnia pashtun, come Karzai, anche se è nato nel nord, a Mazar i Sharif, mentre l’elegantissimo viene da una tribù altrettanto ricca ma meridionale, da Kandahar. I padri li spedirono entrambi a fare il liceo a Kabul, e loro non s’incrociarono solo per la differenza d’età, sei anni.
Zal nel ’67 finì in California, uno delle centinaia di “exchange student” dell’Afs (American Field Service). Un anno da senior nella high school della città di Modesto, nome agli antipodi della sua prorompente personalità. Ma invece di diventare figlio dei fiori e consigliare ai suoi coetanei californiani peace&love i migliori indirizzi dove procurarsi hashish afghano, Zal si è trasformato nel più militarista fra i falchi. Merito o colpa del leggendario professor Albert Wohlstetter dell’università di Chicago, che oltre a Zal ha covato Paul Wolfowitz e tutta una nidiata di futuri neocon.
Ora i neocon non vanno più di moda a Washington, e comunque in questi pochi mesi di residua presidenza Bush tutti gli alti gradi del Dipartimento di Stato stanno pensando al loro prossimo job. Molti faranno come fece Zal dal ’92 al 2000, durante l’era Clinton, e reperiranno qualche think tank da cui farsi mantenere. Lui, dopo aver servito sotto Dick Cheney e Wolfowitz nelle presidenze Reagan e Bush senior, non ebbe problemi a farsi dare un posto alla Rand Corporation, visto che era uno dei maggiori esperti di Afghanistan. Fu Zal per tutti gli anni Ottanta a coordinare gli aiuti militari Usa ai mujaheddin, che fecero impazzire gli occupanti sovietici.
Nessuno lo ha ancora superato negli Stati Uniti, come fine conoscitore dei meandri tribali afghani. Non si capisce quindi a quale titolo John Negroponte, suo predecessore sia all’Onu, sia all’ambasciata di Baghdad, e ora vice di Condi Rice allo State Department, gli faccia mandare umilianti e pubbliche e-mail di richiamo (in copia per conoscenza a New York Times e Washington Post) con l’accusa di condurre una “diplomazia personale”.
Certo, non è un mistero che da mesi i suoi amici afghani preparino per lui un comitato elettorale a Kabul. Raccolgono fondi, organizzano riunioni, li si può addirittura incontrare ogni giovedì a pranzo nell’hotel Serena. Karzai è furibondo.
D’altra parte, è sicuro che Zal da gennaio sarà disoccupato, perché né Obama né McCain rinnoveranno il mandato a uno che sul tavolo del suo alloggio all’hotel Waldorf-Astoria tiene come simpatico souvenir, invece della famosa pistola del predecessore John Bolton sulla scrivania dell’Onu, un fucile d’assalto AK-47 proveniente dall’arsenale di Saddam Hussein. Perché sono fatti così i neocon, ancora meno in auge nelle ultime settimane dopo i débordements del loro protegé georgiano Saakashvili: magari sbruffoni, ma adorabili viveurs capaci di perdere la presidenza della Banca Mondiale per un’amante (Wolfowitz), la rappresentanza alle Nazioni Unite per una battuta di troppo (Bolton), e adesso la guida dell’Afghanistan per una sfacciataggine eccessiva (Zal).
Dicono che Khalilzad stia antipatico a Negroponte ma simpatico a Condi, che il suo ex mentore Cheney non lo possa più sopportare ma che Bush in persona ne apprezzi ancora la personalità “larger than life”. Sicuramente più larga di quella del povero Andrew Young, il primo ambasciatore Usa di colore all’Onu nominato da Jimmy Carter, che perse il posto nel ’79 per lo stesso sgarro imputato a Zal: diplomazia “personale” e contatti allora vietatissimi con i palestinesi dell’Olp.
La verità è che Zal se ne fotte allegramente, della diplomazia. Se ne è sempre fottuto. Soprattutto di quella di carriera, dei frustrati del Dipartimento di Stato che pretendono di compilare dossier sull’Afghanistan sapendo solo quattro parole di pashtun. Ma anche dell’inutile macchina dell’Onu, che sta rendendo lui un frustrato, e che lo annoia profondamente. Lo scorso gennaio i burocrati dello “State” lo avevano perfino escluso dalla delegazione americana a Davos. Allora Zal è andato per conto suo in Svizzera, e ha fatto imbestialire tutti gli “assistant” e i “deputy” segretari di Stato partecipando a un dibattito con Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri iraniano. Lo hanno accusato quasi di intelligenza col nemico, lui che a ogni dibattito nel Palazzo di vetro si trova isolato nel chiedere inasprimenti delle sanzioni contro l’Iran.
Ma fin qui, le intemperanze di Zal sono passabili. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scorsa settimana, è stata invece la rinnovata consuetudine con Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e da mezzo mese candidato a succedere a Pervez Musharraf alla guida del Pakistan.
Anche qui, il fiuto di Zal è innegabile. Da dieci anni era diventato amico di Benazir e del suo discusso marito, cenando con loro a Londra, New York o Ginevra, e viaggiando con la coppia sull’aereo privato verso Aspen.
Scommessa riuscita, perché se Benazir non fosse stata falciata dall’attentato dello scorso dicembre, ora presidente del Pakistan sarebbe lei. «Ma gli Stati Uniti adesso sono neutrali nelle presidenziali pakistane, tu non puoi dare consigli e aiuti a Zardari», ha scritto tramite e-mail l’assistente segretario Richard Boucher a Zal. Così quest’ultimo ha dovuto annullare all’ultimo momento un incontro privato con Zardari a Dubai.
Insomma, per gli Stati Uniti il dilemma è: affidare posti di governo importanti a stranieri naturalizzati, capitalizzando la loro preziosa esperienza ma rischiando figuracce come quella con l’iracheno Ahmed Chalabi? Oppure vietare ai cittadini provenienti da una nazione di occuparsi del proprio Paese d’origine, come fanno le diplomazie britannica, australiana, canadese e neozelandese?
Zal è un seduttore nato, e all’Onu ha affascinato molti: “Ci consulta sempre, non è il solito americano aggressivo”, lo loda l’ambasciatore sudafricano. Ma quelli americani in Afghanistan, Pakistan e Iraq lo detestano, perché si sentono scavalcati da questo afghano elegante e brillante: parla troppe lingue misteriose a loro sconosciute. E non capiscono bene quanto sia intelligente, o furbo, o leale. E a chi.
Mauro Suttora
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Friday, September 05, 2008
Saturday, October 09, 2004
Zalmay Khalilzad
Se per la prima volta in 5 mila anni Kabul elegge il presidente, molto del merito va all'afghano d'America
di Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004
New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.
Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.
Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.
Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.
“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”
Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.
Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.
Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Il Foglio, sabato 9 ottobre 2004
New York. Nel 1968 un afghano diciassettenne
sbarcò negli Stati Uniti con una
borsa di studio Afs (American Field Service).
Frequentò l’ultimo anno di high
school, giocò a pallacanestro, s’innamorò
dell’America, ma poi dovette tornare a Kabul
a finire il liceo. Zalmay Khalilzad però
era così fissato con gli Usa e il basket che
riuscì a convincere i genitori a iscriverlo a
un’università a stelle e strisce. Unico compromesso:
quella più vicina a casa. L’American
University di Beirut, quindi.
Intanto gli era cresciuta la barba, Nixon gli
era antipatico, contestava. Ma studiava,
era bravo, e quindi eccolo sbarcare all’università
di Chicago: dottorato in scienze
politiche. Basta basket, e amicizia con
Paul Wolfowitz fresco di Ph.D. Ma quando
nel ’79 ci arriva lui, al Ph.D., i sovietici invadono
l’Afghanistan. Così Zalmay agguanta
un posto di assistant professor alla
Columbia e rimane negli Usa. Diventa un
esperto prezioso per l’Amministrazione
Reagan, che negli anni 80 arma la resistenza
anticomunista dei mujaheddin.
Consulente del dipartimento di Stato, fonda
il Centro per gli studi mediorientali alla
Rand Corporation e diventa vicesegretario
alla Difesa nel ’91, quando Dick Cheney
è capo del Pentagono. Durante una cena
ufficiale del dicembre ’97, a Houston,
Khalilzad litiga con il ministro della Cultura
talebano. Spinto da sua moglie, la
scrittrice femminista austriaca Cheryl Benard,
gli contesta il carcere per le donne
senza burqa. Quello si mette a citare il Corano,
Zalmad alza la voce e cambia idea:
coi talebani non si può trattare, bisogna
combatterli. Peccato che Michael Moore,
che ha inserito nel suo “Fahrenheit 9/11”
immagini di quella delegazione afghana
invitata in Texas dalla Unocal per il progetto
di un oleodotto, non abbia filmato
anche lo storico alterco.
Intanto Khalilzad, insieme a Cheney, Rumsfeld, Fukuyama,
Forbes, Kagan, Podhoretz, Armitage, Bolton,
Kristol, Perle, Woolsey e tanti altri, firma
gli appelli del Pnac (Project for the
New American Century) per la promozione
delle libertà politiche nel mondo e il ripristino
della leadership militare degli
Stati Uniti. Con la vittoria di Bush torna al
Pentagono da consulente, e dopo l’11 settembre
2001 passa all’azione. Coordina la
parte politica della campagna d’Afghanistan,
poi si occupa anche un po’ d’Iraq, ma
alla fine si concentra su Kabul come plenipotenziario
presidenziale. Un anno fa
viene nominato ambasciatore. E oggi può
festeggiare: per la prima volta in cinquemila
anni, come scrive lui stesso in un editoriale
sul Wall Street Journal, i suoi compatrioti
eleggono direttamente il loro capo dello Stato.
“Su dieci miglia ne abbiamo percorse tre”
Raggiungiamo Khalilzad in videoconferenza
da New York. E’ ottimista, ma guardingo:
“Ci vorranno come minimo altri
cinque anni di nostra presenza qui per ricostruire
la nazione e lo stato di diritto.
Forse anche di più: direi che su un cammino
di dieci miglia ne abbiamo percorse
tre”. Il che vuol dire sette anni.
Non vuole fare propaganda, ammette: “I signori
della guerra, i potentati locali, l’oppio, il
controllo del territorio non completo: tutto
vero. Ma questa è una battaglia che
dobbiamo vincere, e resteremo qui tutto il
tempo che occorre per vincerla. I nostri
nemici non s’illudano. Tre milioni di profughi
sono tornati, altre centinaia di migliaia
parteciperanno alle elezioni, se ne
sono registrati 700 mila solo in Pakistan.
La stragrande maggioranza della gente è
felice della nostra presenza qui, sperano
in un futuro di tranquillità e prosperità
dopo un quarto di secolo di disastri. Questa
volta non li abbandoneremo. Non ripeteremo
l’errore della metà degli anni
90, quando ce ne andammo e lasciammo
che nel vuoto di potere s’installassero gli estremisti”.
Gli oppositori di Bush lo definiscono
vicerè e proconsole, dicono che
il presidente Hamid Karzai non conta, è
una sua marionetta, e che è lui il vero capo
dell’Afghanistan. “Saranno i dieci milioni
di afghani che si sono registrati e
che voteranno liberamente a scegliere il
loro presidente. Certo, in Afghanistan c’è
ancora bisogno dei soldati della Nato e
degli Stati Uniti per mantenere la pace.
Ma le cose migliorano. Capisco anche i nostri
nemici, capisco che ci vogliano attaccare
sanguinosamente in questo periodo,
perché se riusciamo a far funzionare le
cose qui sarà un fatto rivoluzionario per
tutta l’area dal Marocco al Pakistan. Avremo
ancora giorni difficilissimi davanti a
noi. Ma ce la faremo”.
Mauro Suttora
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