Il commissario del governo non sa molto di finanza
Una sola laurea in economia tra i venti rappresentanti dello stato nelle regioni
di Mauro Suttora
Il Mondo, 3 aprile 2009
Due su 20. L' unico con una laurea in Economia (oltre a quella di prammatica in Legge) è il prefetto di Cagliari Salvatore Gullotta. L' unico con una qualche esperienza di lavoro a contatto con una banca è quello di Milano, Gian Valerio Lombardi, che dopo le lauree in Legge e Scienze politiche a Napoli all' inizio degli anni '70 fece uno stage a Londra alla Commercial Bank of Australia.
Tutti gli altri 18 prefetti dei capoluoghi di regione d' Italia sono digiuni di conoscenze bancarie. Dovranno, quindi, dotarsi di ottimi consulenti per affrontare il compito cui sono chiamati dal governo: quello di sorvegliare l'attività degli istituti nell' erogazione del credito. La mancanza di competenza diretta sulle materie economiche non è una colpa, per i prefetti. La loro carriera, infatti, si svolge nell'ambito del ministero dell' Interno, dove prevalgono altre importanti funzioni: sicurezza, amministrazione statale, diritto pubblico. Il prefetto di Parma Paolo Scarpis, per esempio, è stato questore a Milano; quello di Sassari, Marcello Fulvi, questore a Roma; quello di Cremona, Tancredi Bruno, ha diretto prigioni. All'ultimo concorso per la carriera prefettizia soltanto una sulle 35 domande dell' esame orale riguardava lontanamente l' economia: un quesito di scienza delle finanze, sulla normativa del sostituto d' imposta.
È quasi impossibile, per un non laureato in legge, passare il concorso da prefetto. Ce l' hanno fatta in pochi, soprattutto donne, come Annamaria Cancellieri (prefetto a Genova) e Maria Augusta Marrosu (Gorizia), laureate in Scienze politiche. In maggioranza assoluta i prefetti provengono dalla Campania, quasi tutti oltre la sessantina, pochissime le donne (Genova, Varese, Gorizia, Campobasso).
Quello, infine, che vale per i prefetti dei capoluoghi di regione vale anche per i commissari di governo di altre città importanti sedi, talvolta, di importanti gruppi bancari. Anche a Bergamo, Brescia, Sondrio, Novara, Siena la quasi totalità dei prefetti è laureata in Giurisprudenza.
PREFETTURA nome anni (nato a) laurea
capoluoghi di regione
MILANO: Gian Valerio Lombardi, 62 (Napoli), legge, sc.pol.
TORINO: Paolo Padoin, 63 (Firenze), legge
AOSTA: Pasquale Manzo, 60 (Napoli), legge
GENOVA: Annamaria Cancellieri, 65 (Roma), sc.pol.
VENEZIA: Guido Nardone, 65 (Napoli), legge
TRIESTE: Giovanni Balsamo, 59 (Catania), legge
TRENTO: Michele Mazza, 62 (Napoli), legge
BOLZANO: Fulvio Testi, 61 (Roma), legge
BOLOGNA: Angelo Tranfaglia, 60 (Avellino), legge
FIRENZE: Andrea De Martino, 61 (Caserta), legge
ANCONA: Giovanni D’Onofrio, 67 (Benevento), legge
PERUGIA: Enrico Laudana, 62 (Caserta), legge
ROMA: Giuseppe Pecoraio, 58 (Napoli), legge
L’AQUILA: Aurelio Cozzani, 66 (Roma), legge
CAMPOBASSO: Carmela Pagano, 56 (Cosenza), legge
NAPOLI: Alessandro Pansa, 57 (Salerno), legge
BARI: Carlo Schilardi, 60 (Lecce), legge
POTENZA: Luigi Riccio, 62 (Catanzaro), legge
REGGIO C.: Antonio Musolino, 57 (Reggio C.), legge
PALERMO: Giancarlo Trevisone, 63 (Roma), legge
CAGLIARI: Salvatore Gullotta, 65 (Catania), legge, economia
altre province:
NOVARA: Giuseppe Amelio, 59 (Catanzaro), legge
ALESSANDRIA: Francesco Castaldo, 55 (Salerno), legge
VERCELLI: Pasquale Minunni, 62 (Lecce), legge
BERGAMO: Camillo Andreana, 62 (Napoli), legge
BRESCIA: vicario Attilio Visconti, 47 (Benevento), legge
SONDRIO: Chiara Marolla, 59 (Roma), legge
COMO: Sante Frantellizzi, 64 (Frosinone), legge
VARESE: Simonetta Vaccari, 55 (Siena), legge
PAVIA: Ferdinando Buffoni, 62 (Sassari), legge
CREMONA: Tancredi Bruno, 60 (Cuneo), legge
VERONA: vicario Elio Fallaci, 57 (Napoli), legge
VICENZA: Piero Mattei, 65 (Lucca), legge
PADOVA: Michele Gallerano, 63 (Napoli), legge
TREVISO: Vittorio Capocelli, 63 (Lecce), legge
UDINE: Ivo Salemme, 60 (Napoli), legge
GORIZIA: Maria Augusta Marrosu, 55 (Salerno), sc.pol.
LA SPEZIA: Vincenzo Santoro, 62 (Trapani), legge
PARMA: Paolo Scarpis, 63 (Macerata), legge
REGGIO E.: Bruno Pezzato, 67 (Lecce), legge
SIENA: Giulio Cazzella, 61 (Lecce), legge
PISA: Benedetto Basile, 60 (Palermo), legge
LIVORNO: Domenico Mannino, 62 (Reggio C.), legge
PESCARA: Paolo Orrei, 61 (Benevento), legge
FOGGIA: Antonio Nunziante, 59 (Bari), legge
MESSINA: Francesco Alecci, 62 (Catania), legge
SASSARI: Marcello Fulvi, 63 (Roma), legge
Thursday, April 02, 2009
Stipendi d'oro
MACCHE' CRISI, C'E' CHI GUADAGNA
In America è guerra ai "bonus" immeritati. E in Italia?
Aggiramenti dei tetti di legge. Gratifiche automatiche. Azioni in regalo. Abbiamo messo nel mirino i superpremi. Risultato...
Oggi, 25 marzo 2009
di Mauro Suttora
Piove sul bagnato. In queste settimane decine di migliaia di contratti a termine sono disdetti, migliaia di persone perdono il lavoro, altre migliaia vanno in cassa integrazione. Metà dei nostri risparmi investiti in azioni sono andati in fumo.
Ma per qualcuno la crisi non esiste. I tredici dirigenti della Regione Veneto, per esempio, ai quali è stato appena regalato un bonus di 15 mila euro (vedi riquadro qui sotto). Ma la cuccagna vale per 90 dirigenti pubblici su cento, ai quali viene quasi automaticamente riconosciuto il bonus: il 5% in più sullo stipendio nei ministeri, il 7 nei Comuni e il 10 nelle Regioni. In Germania i bonus vanno solo ai meritevoli: non più di 15 su cento. Negli Usa al massimo sei su cento. In Italia, invece, todos caballeros.
"Ma così diventa impossibile premiare il merito e stimolare la produttività", avverte Nicola Bellè, docente alla Bocconi.
Nelle società private è facile determinare i bonus: basta ancorarli a fatturati e ricavi. Ma se un' azienda viene salvata dallo Stato, com' è capitato alle assicurazioni Aig negli Stati Uniti, diventa immorale usare i soldi dei contribuenti per premiare i manager. "Per i quali, d' altronde, negli ultimi decenni è stata sempre festa", rileva Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Oggi infatti gli alti dirigenti italiani guadagnano 243 volte uno stipendio medio. La forbice si è allargata moltissimo rispetto agli Anni 70, quando la distanza fra il compenso massimo e quello minimo in un' azienda era di 30 40 volte.
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, quindi. Il presidente Obama ha rimediato allo scandalo Aig (almeno 165 milioni di premi pagati a coloro che avevano minato i bilanci della compagnia, costringendola a chiedere allo Stato 182,5 miliardi di fondi pubblici) proponendo di tassare al 90 per cento i bonus immeritati.
In Italia invece il tetto di 290 mila euro annui agli stipendi dei dirigenti pubblici, deciso con la Finanziaria dell' anno scorso, viene ignorato o eluso. Il trucco più utilizzato: cumulare le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale. Come vuole fare Elio Catania all'Atm di Milano. Già nel mirino per la liquidazione di 6,7 milioni concessagli dalle Fs tre anni fa, Catania non vuole scendere dal suo attuale mezzo milione annuo a 87 mila euro: l' 80% rispetto al sindaco Letizia Moratti, come previsto dalla legge per le municipalizzate.
Risparmi in vista invece alla società per l' Expo 2015 milanese: dal milione annuo promesso a Paolo Glisenti (consulente comunale da 900 euro al giorno) si è scesi ai 50 mila della presidente Diana Bracco.
"Un altro problema è che le retribuzioni dei manager spesso sono poco trasparenti", dice Fara, "perché la parte variabile del loro stipendio ha assunto negli anni un peso sempre più forte. Spesso supera il 60 per cento del totale". Insomma, il premio di risultato, in certi casi, è diventato un modo per alzare gli stipendi (più o meno dimenticandosi del risultato).
La struttura dei bonus è una giungla. Le aziende vi ricorrono anche per motivi fiscali: concedere l'auto di servizio o in leasing, pagare l' affitto di un appartamento, fornire una pingue assicurazione sulla vita, una polizza sanitaria integrativa privata o la scuola dei figli fuori busta paga è conveniente sia per chi dà, sia per chi riceve. La rincorsa fra il fisco e le nuove forme di elusione è perenne.
La grossa fetta della torta, però, per i manager delle società quotate in Borsa, sono le stock option. Essere pagati con azioni della società che si guida è un' arma a doppio taglio. Innanzitutto per l'azienda stessa, che da una parte incentiva il risultato, ma dall'altra rischia di ottenere solo miglioramenti immediati, da esibire sul bilancio annuale cui sono legati i compensi, senza strategie lungimiranti di lungo periodo. Al manager non interessa costruire per il futuro, sacrificare il profitto veloce per avere frutti dopo dieci anni.
Ovviamente i rischi li corre anche il dirigente, che vede le sue azioni fluttuare e magari crollare, com'è successo nell' ultimo anno.
"Sono proprio le stock options una delle cause principali della crisi", dice l' economista Giulio Sapelli, che ha appena scritto il libro La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri). Infine il meccanismo più vergognoso: quello per cui l' ammontare di bonus e stock option viene deciso spesso dagli stessi interessati, o dai loro amici nei consigli d' amministrazione.
In teoria c' è il controllo della proprietà, ma quando questa è polverizzata in decine di migliaia di piccoli azionisti, i manager diventano quasi onnipotenti. E la crisi viene pagata dai piccoli risparmiatori.
RIQUADRO
E noi ce lo abbassiamo
Gennaro Gattuso si è detto disponibile a ridursi l'ingaggio di 4,5 milioni all' anno, dopo che il presidente Silvio Berlusconi ha ventilato l' idea di abbassare gli ingaggi del Milan del 30 per cento. E fuori dal calcio cosa succede?
La banca Unicredit taglia 35 milioni di bonus ai venti megadirigenti che li avevano percepiti nel 2008. Per l'amministratore delegato Alessandro Profumo sei milioni in meno: gli restano i 3,4 milioni dello stipendio fisso.
Piergaetano Marchetti, presidente della Rizzoli (la società che edita Oggi), rinuncia al 20% del proprio compenso. E al bonus dicono addio Ferruccio de Bortoli e Claudio Calabi, direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore.
Riduzione spontanea del 10% fra i dirigenti della Ducati Motors a Bologna, e niente bonus anche per quelli della fabbrica di elettrodomestici Elica di Fabriano (Ancona). Il sindaco di Cittadella (Padova) Massimo Bigonci rinuncia all' indennità. Stessa decisione a Milena (Caltanissetta) e a S. Elisabetta (Agrigento).
Mauro Suttora
In America è guerra ai "bonus" immeritati. E in Italia?
Aggiramenti dei tetti di legge. Gratifiche automatiche. Azioni in regalo. Abbiamo messo nel mirino i superpremi. Risultato...
Oggi, 25 marzo 2009
di Mauro Suttora
Piove sul bagnato. In queste settimane decine di migliaia di contratti a termine sono disdetti, migliaia di persone perdono il lavoro, altre migliaia vanno in cassa integrazione. Metà dei nostri risparmi investiti in azioni sono andati in fumo.
Ma per qualcuno la crisi non esiste. I tredici dirigenti della Regione Veneto, per esempio, ai quali è stato appena regalato un bonus di 15 mila euro (vedi riquadro qui sotto). Ma la cuccagna vale per 90 dirigenti pubblici su cento, ai quali viene quasi automaticamente riconosciuto il bonus: il 5% in più sullo stipendio nei ministeri, il 7 nei Comuni e il 10 nelle Regioni. In Germania i bonus vanno solo ai meritevoli: non più di 15 su cento. Negli Usa al massimo sei su cento. In Italia, invece, todos caballeros.
"Ma così diventa impossibile premiare il merito e stimolare la produttività", avverte Nicola Bellè, docente alla Bocconi.
Nelle società private è facile determinare i bonus: basta ancorarli a fatturati e ricavi. Ma se un' azienda viene salvata dallo Stato, com' è capitato alle assicurazioni Aig negli Stati Uniti, diventa immorale usare i soldi dei contribuenti per premiare i manager. "Per i quali, d' altronde, negli ultimi decenni è stata sempre festa", rileva Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Oggi infatti gli alti dirigenti italiani guadagnano 243 volte uno stipendio medio. La forbice si è allargata moltissimo rispetto agli Anni 70, quando la distanza fra il compenso massimo e quello minimo in un' azienda era di 30 40 volte.
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, quindi. Il presidente Obama ha rimediato allo scandalo Aig (almeno 165 milioni di premi pagati a coloro che avevano minato i bilanci della compagnia, costringendola a chiedere allo Stato 182,5 miliardi di fondi pubblici) proponendo di tassare al 90 per cento i bonus immeritati.
In Italia invece il tetto di 290 mila euro annui agli stipendi dei dirigenti pubblici, deciso con la Finanziaria dell' anno scorso, viene ignorato o eluso. Il trucco più utilizzato: cumulare le cariche di presidente, amministratore delegato e direttore generale. Come vuole fare Elio Catania all'Atm di Milano. Già nel mirino per la liquidazione di 6,7 milioni concessagli dalle Fs tre anni fa, Catania non vuole scendere dal suo attuale mezzo milione annuo a 87 mila euro: l' 80% rispetto al sindaco Letizia Moratti, come previsto dalla legge per le municipalizzate.
Risparmi in vista invece alla società per l' Expo 2015 milanese: dal milione annuo promesso a Paolo Glisenti (consulente comunale da 900 euro al giorno) si è scesi ai 50 mila della presidente Diana Bracco.
"Un altro problema è che le retribuzioni dei manager spesso sono poco trasparenti", dice Fara, "perché la parte variabile del loro stipendio ha assunto negli anni un peso sempre più forte. Spesso supera il 60 per cento del totale". Insomma, il premio di risultato, in certi casi, è diventato un modo per alzare gli stipendi (più o meno dimenticandosi del risultato).
La struttura dei bonus è una giungla. Le aziende vi ricorrono anche per motivi fiscali: concedere l'auto di servizio o in leasing, pagare l' affitto di un appartamento, fornire una pingue assicurazione sulla vita, una polizza sanitaria integrativa privata o la scuola dei figli fuori busta paga è conveniente sia per chi dà, sia per chi riceve. La rincorsa fra il fisco e le nuove forme di elusione è perenne.
La grossa fetta della torta, però, per i manager delle società quotate in Borsa, sono le stock option. Essere pagati con azioni della società che si guida è un' arma a doppio taglio. Innanzitutto per l'azienda stessa, che da una parte incentiva il risultato, ma dall'altra rischia di ottenere solo miglioramenti immediati, da esibire sul bilancio annuale cui sono legati i compensi, senza strategie lungimiranti di lungo periodo. Al manager non interessa costruire per il futuro, sacrificare il profitto veloce per avere frutti dopo dieci anni.
Ovviamente i rischi li corre anche il dirigente, che vede le sue azioni fluttuare e magari crollare, com'è successo nell' ultimo anno.
"Sono proprio le stock options una delle cause principali della crisi", dice l' economista Giulio Sapelli, che ha appena scritto il libro La crisi economica mondiale (Bollati Boringhieri). Infine il meccanismo più vergognoso: quello per cui l' ammontare di bonus e stock option viene deciso spesso dagli stessi interessati, o dai loro amici nei consigli d' amministrazione.
In teoria c' è il controllo della proprietà, ma quando questa è polverizzata in decine di migliaia di piccoli azionisti, i manager diventano quasi onnipotenti. E la crisi viene pagata dai piccoli risparmiatori.
RIQUADRO
E noi ce lo abbassiamo
Gennaro Gattuso si è detto disponibile a ridursi l'ingaggio di 4,5 milioni all' anno, dopo che il presidente Silvio Berlusconi ha ventilato l' idea di abbassare gli ingaggi del Milan del 30 per cento. E fuori dal calcio cosa succede?
La banca Unicredit taglia 35 milioni di bonus ai venti megadirigenti che li avevano percepiti nel 2008. Per l'amministratore delegato Alessandro Profumo sei milioni in meno: gli restano i 3,4 milioni dello stipendio fisso.
Piergaetano Marchetti, presidente della Rizzoli (la società che edita Oggi), rinuncia al 20% del proprio compenso. E al bonus dicono addio Ferruccio de Bortoli e Claudio Calabi, direttore e amministratore delegato del Sole 24 Ore.
Riduzione spontanea del 10% fra i dirigenti della Ducati Motors a Bologna, e niente bonus anche per quelli della fabbrica di elettrodomestici Elica di Fabriano (Ancona). Il sindaco di Cittadella (Padova) Massimo Bigonci rinuncia all' indennità. Stessa decisione a Milena (Caltanissetta) e a S. Elisabetta (Agrigento).
Mauro Suttora
Bocchino: il mio Fini privato
intervista a Italo Bocchino
di Mauro Suttora
Oggi, 1 aprile 2009
Eravamo quattro amici al bar. «Il bar Giolitti, di fronte a Montecitorio, dove ci trovavamo sempre Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa ed io. Eravamo i tre moschettieri di Gianfranco Fini, e Pino Tatarella, più anziano di noi, era il nostro D’Artagnan».
Così Italo Bocchino, 41 anni, vicepresidente dei deputati Pdl, ricorda i «tempi eroici». Cioè vent’anni fa, quando dopo il crollo del muro di Berlino il presidente Francesco Cossiga («prima di Berlusconi») sdoganò il Msi.
I nostalgici neofascisti si trasformarono nei rispettabili moderati di Alleanza Nazionale. E ora anche An scompare, confluita nel Popolo delle libertà. «Ma quegli amici restano tali, perché l’amicizia non si può sciogliere», dice Bocchino. Che è fiero di occupare lo stesso ufficio d’angolo al quarto piano del palazzo dei gruppi di Montecitorio, «dove fino al ’99 stava Tatarella, morto troppo presto».
«Ricordo perfettamente la prima volta che incontrai Fini nell’85», ricorda Bocchino, «a una conferenza sull’atlantismo nella sede Msi di Terni. Io studiavo a Perugia e stavo negli universitari del Fuan. Lui guidava il Fronte della Gioventù, era già deputato, e mostrava una diversità lombrosiana rispetto ai militanti missini: moderato nei tratti, nei modi, negli argomenti».
Era il cocco di Giorgio Almirante, allevato apposta per succedergli.
«Una scelta lungimirante, quella di saltare tutta una generazione per modernizzare il partito. Ma il Msi era molto democratico al proprio interno, e Almirante non riuscì a imporre subito Fini segretario nell’87. Ci fu lotta con Pino Rauti, Franco Servello e Domenico Mennitti. Io ero il più giovane della corrente finiana, la mascotte dei quattro moschettieri. Gasparri era il motorino organizzativo, La Russa il fantasista. Il nostro rapporto andava oltre la politica, passavamo tutto il tempo assieme. Ho dormito per un anno sul divano del bilocale di 40 metri quadri di Gasparri e della sua santa moglie a Roma in via Gradoli – sì, quella del covo dei brigatisti che uccisero Moro. Lui andava in motorino alla sede del Secolo, io in bus a quella del partito in via della Scrofa. Ma anche a Milano, non ho mai dormito in albergo: sempre a casa di La Russa. E loro da me quando vengono a Napoli».
A proposito di Napoli: è vero che Berlusconi ha consigliato a Fabrizio Cicchitto, di cui lei è il vice, di vestirsi dal suo sarto napoletano Mazzuoccolo, visto che lei è sempre elegantissimo?
«Non solo: ho portato a farsi il guardaroba da lui anche Gasparri e Quagliariello, che guidano i senatori del Pdl. Un altro quartetto…»
Degli amici faceva parte anche Francesco Storace, che però si è allontanato.
«Fu Storace a farmi assumere come giornalista al Secolo: Gasparri stava alla redazione economica, Urso e Landolfi alla politica, lui agli interni, e fece una grande battaglia sindacale per me. Entrare nel giornale allora significava conquistare il primo stipendio fisso. Passai l’esame da professionista con Veltroni e Ferrara».
Nelle foto che pubblichiamo Fini, la sua compagna Elisabetta Tulliani e la figlia Carolina passeggiano a villa Borghese con lei, sua moglie Gabriella Buontempo e le vostre due figlie. Com’è il Fini privato? Il ghiacciolo che è in pubblico?
«Assolutamente no. Formalmente sembra freddo, ma nella sostanza è normalissimo. Ha forti passioni, ora che è diventato padre è rinato a vita nuova. Credo soffra un po’ per una certa difficoltà a esprimere i sentimenti, ma per un uomo abituato a ruoli di leadership da quando aveva 25 anni l’autocontrollo è normale. Né lui né io parliamo di politica fuori dal lavoro…»
E di che parlate?
«Di tutto, delle nostre famiglie, del mare, che è l’altra sua grande passione. Gli piace vivere semplicemente: siamo stati da poco a Parigi con le nostre signore, e ci siamo spostati in metro».
Mai una litigata in un quarto di secolo?
«Come no. Nel 2005, dopo che alcuni di noi suoi amici furono intercettati mentre sparlavamo di lui, ci tolse ogni carica. Non si è più fidato di nessuno fino al 2007, io ho rischiato perfino l’elezione. E stato un periodo molto pesante, ma l’abbiamo superato».
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Oggi, 1 aprile 2009
Eravamo quattro amici al bar. «Il bar Giolitti, di fronte a Montecitorio, dove ci trovavamo sempre Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa ed io. Eravamo i tre moschettieri di Gianfranco Fini, e Pino Tatarella, più anziano di noi, era il nostro D’Artagnan».
Così Italo Bocchino, 41 anni, vicepresidente dei deputati Pdl, ricorda i «tempi eroici». Cioè vent’anni fa, quando dopo il crollo del muro di Berlino il presidente Francesco Cossiga («prima di Berlusconi») sdoganò il Msi.
I nostalgici neofascisti si trasformarono nei rispettabili moderati di Alleanza Nazionale. E ora anche An scompare, confluita nel Popolo delle libertà. «Ma quegli amici restano tali, perché l’amicizia non si può sciogliere», dice Bocchino. Che è fiero di occupare lo stesso ufficio d’angolo al quarto piano del palazzo dei gruppi di Montecitorio, «dove fino al ’99 stava Tatarella, morto troppo presto».
«Ricordo perfettamente la prima volta che incontrai Fini nell’85», ricorda Bocchino, «a una conferenza sull’atlantismo nella sede Msi di Terni. Io studiavo a Perugia e stavo negli universitari del Fuan. Lui guidava il Fronte della Gioventù, era già deputato, e mostrava una diversità lombrosiana rispetto ai militanti missini: moderato nei tratti, nei modi, negli argomenti».
Era il cocco di Giorgio Almirante, allevato apposta per succedergli.
«Una scelta lungimirante, quella di saltare tutta una generazione per modernizzare il partito. Ma il Msi era molto democratico al proprio interno, e Almirante non riuscì a imporre subito Fini segretario nell’87. Ci fu lotta con Pino Rauti, Franco Servello e Domenico Mennitti. Io ero il più giovane della corrente finiana, la mascotte dei quattro moschettieri. Gasparri era il motorino organizzativo, La Russa il fantasista. Il nostro rapporto andava oltre la politica, passavamo tutto il tempo assieme. Ho dormito per un anno sul divano del bilocale di 40 metri quadri di Gasparri e della sua santa moglie a Roma in via Gradoli – sì, quella del covo dei brigatisti che uccisero Moro. Lui andava in motorino alla sede del Secolo, io in bus a quella del partito in via della Scrofa. Ma anche a Milano, non ho mai dormito in albergo: sempre a casa di La Russa. E loro da me quando vengono a Napoli».
A proposito di Napoli: è vero che Berlusconi ha consigliato a Fabrizio Cicchitto, di cui lei è il vice, di vestirsi dal suo sarto napoletano Mazzuoccolo, visto che lei è sempre elegantissimo?
«Non solo: ho portato a farsi il guardaroba da lui anche Gasparri e Quagliariello, che guidano i senatori del Pdl. Un altro quartetto…»
Degli amici faceva parte anche Francesco Storace, che però si è allontanato.
«Fu Storace a farmi assumere come giornalista al Secolo: Gasparri stava alla redazione economica, Urso e Landolfi alla politica, lui agli interni, e fece una grande battaglia sindacale per me. Entrare nel giornale allora significava conquistare il primo stipendio fisso. Passai l’esame da professionista con Veltroni e Ferrara».
Nelle foto che pubblichiamo Fini, la sua compagna Elisabetta Tulliani e la figlia Carolina passeggiano a villa Borghese con lei, sua moglie Gabriella Buontempo e le vostre due figlie. Com’è il Fini privato? Il ghiacciolo che è in pubblico?
«Assolutamente no. Formalmente sembra freddo, ma nella sostanza è normalissimo. Ha forti passioni, ora che è diventato padre è rinato a vita nuova. Credo soffra un po’ per una certa difficoltà a esprimere i sentimenti, ma per un uomo abituato a ruoli di leadership da quando aveva 25 anni l’autocontrollo è normale. Né lui né io parliamo di politica fuori dal lavoro…»
E di che parlate?
«Di tutto, delle nostre famiglie, del mare, che è l’altra sua grande passione. Gli piace vivere semplicemente: siamo stati da poco a Parigi con le nostre signore, e ci siamo spostati in metro».
Mai una litigata in un quarto di secolo?
«Come no. Nel 2005, dopo che alcuni di noi suoi amici furono intercettati mentre sparlavamo di lui, ci tolse ogni carica. Non si è più fidato di nessuno fino al 2007, io ho rischiato perfino l’elezione. E stato un periodo molto pesante, ma l’abbiamo superato».
Mauro Suttora
Thursday, March 26, 2009
Da Mussolini a Silvio
Un curioso paradosso: i postfascisti di An più democratici dei «liberali» di Forza Italia: niente «Uomo della provvidenza» nel Popolo della Libertà
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
Il congresso di scioglimento di An passerà forse alla storia perché conclude l'avventura sessantennale del Msi. Ma sicuramente passa alla cronaca per il debutto in pubblico della nuova compagna di Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani. Un cambio non solo simbolico: l'ex moglie di Fini, Daniela, rappresentava infatti il passato anche politico del presidente della Camera, poiché entrambi sono stati militanti neofascisti, con il braccio alzato nel saluto romano.
Ora gli ex di An andranno d'accordo con gli ex di Forza Italia, oppure il Popolo della libertà scricchiolerà nel giro di pochi mesi, com'è capitato al Partito democratico dove ex comunisti ed ex democristiani non si sono amalgamati? Finché c'è Silvio Berlusconi non ci dovrebbero essere problemi. Ma gli ex fascisti sono abituati a una maggiore democrazia interna nel loro partito, rispetto a Forza Italia. Il «culto del Capo» non fa per loro: neppure Giorgio Almirante, come ricorda Italo Bocchino in queste pagine, riusciva a imporre la propria volontà senza discutere.
Avremo così, nel grande partito del centrodestra, dei «liberali» che si affidano all'Uomo della provvidenza di Arcore, mentre gli ex nostalgici dell'Uomo della provvidenza di Predappio pretenderanno voti democratici e dirigenti eletti, non più nominati dall'alto. Lo ha anticipato Fini: «Niente culto della personalità per Berlusconi». Un curioso paradosso.
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
Il congresso di scioglimento di An passerà forse alla storia perché conclude l'avventura sessantennale del Msi. Ma sicuramente passa alla cronaca per il debutto in pubblico della nuova compagna di Gianfranco Fini, Elisabetta Tulliani. Un cambio non solo simbolico: l'ex moglie di Fini, Daniela, rappresentava infatti il passato anche politico del presidente della Camera, poiché entrambi sono stati militanti neofascisti, con il braccio alzato nel saluto romano.
Ora gli ex di An andranno d'accordo con gli ex di Forza Italia, oppure il Popolo della libertà scricchiolerà nel giro di pochi mesi, com'è capitato al Partito democratico dove ex comunisti ed ex democristiani non si sono amalgamati? Finché c'è Silvio Berlusconi non ci dovrebbero essere problemi. Ma gli ex fascisti sono abituati a una maggiore democrazia interna nel loro partito, rispetto a Forza Italia. Il «culto del Capo» non fa per loro: neppure Giorgio Almirante, come ricorda Italo Bocchino in queste pagine, riusciva a imporre la propria volontà senza discutere.
Avremo così, nel grande partito del centrodestra, dei «liberali» che si affidano all'Uomo della provvidenza di Arcore, mentre gli ex nostalgici dell'Uomo della provvidenza di Predappio pretenderanno voti democratici e dirigenti eletti, non più nominati dall'alto. Lo ha anticipato Fini: «Niente culto della personalità per Berlusconi». Un curioso paradosso.
I partiti personali
LA CASTINA
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
E questi privilegi milionari chi li tocca ?
il palazzo degli sprechi non conosce crisi
Fiumi di denaro ad amministratori locali e partiti "inesistenti". Da Nord a Sud. Uno sconsolante viaggio nella cara politica
di Mauro Suttora
Oggi, 25 marzo 2009
A Roma basta essere consigliere comunale di un partito con un solo eletto per ottenere l' auto blu. E tutti, all' unanimità, dall' estrema destra all' estrema sinistra, si sono appena autoassegnati 75 nuovi portaborse, togliendoli all' anagrafe e ad altri uffici comunali dove rendevano servizi preziosi per i cittadini.
Insomma: i partiti litigano, ma quando si passa a incassare tutti si uniscono magicamente. E anche se Silvio Berlusconi promette di dimezzare i parlamentari, la crisi economica non sembra toccare la casta dei politici di professione. Invece di diminuire, i costi della politica aumentano. I partiti che prendono soldi statali si sono moltiplicati. Le liste regionali, per esempio.
Una volta c'erano solo la Suedtiroler Volkspartei a Bolzano e l' Union Valdotaine ad Aosta. Oggi invece sono 32. Oltre alla trentina di partiti nazionali che continuano a partecipare alle elezioni locali. Una cifra incredibile. Così, un fiume di denaro finanzia tante minicaste locali: solo di stipendi i 1.118 consiglieri regionali ci costano 620 milioni a legislatura.
"E aumentano pure loro", denunciano gli ex senatori Cesare Salvi e Massimo Villone, autori del libro Il costo della democrazia: "La Campania li ha aumentati da 60 a 80, Lazio e Puglia da 60 a 70, l' Emilia da 50 a 65, Liguria e Abruzzo da 50 a 60". Non solo Roma, quindi. Anzi, gli scandali negli ultimi mesi sono avvenuti lontano dalla capitale: Pescara, Basilicata, Napoli.
Dal 2005 il finanziamento pubblico è stato esteso anche a liste che si presentano in una sola Regione. Grande impulso ai "partiti del presidente": Insieme per Mercedes Bresso in Piemonte (che nel 2007 ha incassato mezzo milione di euro), Per la Liguria Sandro Biasotti (640mila), Per il Veneto con Massimo Carraro (925mila), Cittadini per Riccardo Illy in Friuli Venezia Giulia (425mila), L' Aquilone dell' ex presidente siciliano Totò Cuffaro, che si è dovuto dimettere lo scorso gennaio dopo una condanna a cinque anni per favoreggiamento a Cosa Nostra (1,4 milioni).
Puglia. Anche ad altri governatori la lista personale non ha portato fortuna. La Puglia prima di tutto del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è stata fonte solo di guai (oltre che di un finanziamento per oltre 1,6 milioni). Infatti l' ex governatore pugliese è stato accusato di avere preso una tangente di mezzo milione dalla società Tosinvest per un megappalto sanitario da 200 milioni (la gestione di undici residenze per anziani). Fitto non nega che la Tosinvest di Antonio Angelucci (deputato Pdl con il figlio recentemente arrestato per un' altra accusa di tangenti) abbia versato 500mila euro alla lista Puglia prima di tutto. Ma sostiene che era un normale contributo elettorale. Il 30 marzo ci sarà l' udienza preliminare.
In Puglia c' è un altro partitino regionale finanziato dallo Stato: Primavera pugliese. Con appena il 2,3% è riuscita a eleggere due consiglieri per il centrosinistra. Incassano 450mila euro.
Sicilia. Guai giudiziari per la lista Nuova Sicilia dell' ex vicepresidente e assessore regionale Bartolo Pellegrino. Prende 430mila euro, ma il titolare è stato arrestato e ora è sotto processo a Trapani per concorso esterno in associazione mafiosa. Incassa cinque milioni il Mpa (Movimento per l' autonomia) di Raffaele Lombardo, che si è trasformato in partito nazionale.
Lazio. Qui la sfida fra i due governatori (quello uscente di destra Francesco Storace e quello entrante di sinistra Piero Marrazzo) quattro anni fa finì quasi alla pari: 200mila voti e il 7% per entrambe le loro liste personali. Vinse la coalizione di centrosinistra, ed entrambi continuano a incassare 1,6 milioni ciascuno per il proprio partitino. Quello di Storace ha sede nel quartiere Prati. Ma sul citofono non ne risulta traccia: lì c' è solo lo studio del tesoriere della Lista. In compenso, il sito internet di Storace è ben funzionante. Quello di Marrazzo, invece, è aggiornato al 2005: abbandonato dopo il voto. Ma la sede esiste, alla Garbatella. C' è una targa vicino al portone, che però è chiuso: "Ogni tanto viene una signora, qualche ora al pomeriggio", racconta un vicino.
Veneto. Il Progetto Nordest in Veneto con il suo 6 per cento fuori dalle coalizioni provocò un certo sconquasso nel 2005. E l' anno dopo fu addirittura la causa della sconfitta nazionale di Berlusconi, con i voti sottratti al centrodestra. Il fondatore, l' industriale degli infissi Giorgio Panto, è morto due anni fa. Ma i suoi due successori, che stanno incassando i 430mila euro statali, si sono appena alleati con altri movimenti che minacciano la Lega Nord da destra. In Veneto sono finanziati anche due micropartiti: le liste civiche del Nordest e l' Intesa dolomitica di Belluno. Briciole: 28mila euro ciascuna.
Trentino Alto Adige. Qui c' è il record: ben otto partiti locali. La Lista civica del presidente provinciale di Trento Lorenzo Dellai ha preso un milione in cinque anni, mentre la Svp di Bolzano ha incassato sei milioni.
Sardegna. Fortza Paris ha eletto tre consiglieri nel 2004 prendendo 340mila euro. Quattro eletti e 440mila euro hanno avuto i Riformatori liberaldemocratici di Massimo Fantola, aumentati alle ultime elezioni.
Campania. Giuseppe Ossario incassa 370mila euro con i Repubblicani Democrazia Liberale.
Val d' Aosta. Quelli dell' Alleanza autonomista e progressista, poco esperti, un anno fa si sono dimenticati di fare domanda e stavano per perdere i 900mila euro loro assegnati. "Si sono fatti fare una legge apposta per riaprire i termini", mugugnano i rivali dell' Union Valdotaine.
"Insomma, nonostante la crisi i politici continuano a sprecare denaro", commenta Sergio Rizzo, autore del bestseller La Casta con Gian Antonio Stella. "In Spagna il finanziamento statale ai partiti è stato di recente ridotto del 20 per cento. Da noi, niente".
Mauro Suttora
Wednesday, March 18, 2009
intervista a Yunus
La ricetta anticrisi del banchiere dei poveri
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Oggi, 18 marzo 2009
«La ricetta è: cambiare mentalità. Guardare all’economia non solo con gli occhiali del massimo profitto, ma anche con quelli del business solidale. Che non è una predica, non vuol dire “bontà” o disinteresse. Anzi, è nell’interesse di tutti che l’economia funzioni. E il business solidale funziona».
Mohammed Yunus, 69 anni, premio Nobel per la pace nel 2006. Fondatore della Grameen Bank del Bangladesh, che in trent’anni ha erogato cinque miliardi di microprestiti a cinque milioni di persone. «Ma non siamo una cosa solo da Terzo mondo. La nostra filiale di New York aperta un anno fa finanzia iniziative di donne con una media di 2.200 dollari a prestito. E presto arriveremo in Italia, in collaborazione con Unicredit».
Incontriamo Yunus a Roma, ospite della Fondazione Ducci. Arriva da Milano in treno, alla stazione Termini lo riconoscono e applaudono.
«Questa crisi è stata causata da poche persone in pochi Paesi», ci dice il «banchiere dei poveri». «I miliardari stanno perdendo miliardi, ma rimarranno con qualche miliardo. Molte persone, invece, stanno perdendo tutto: lavoro, casa, cibo. Eppure, c’è un lato positivo anche nella crisi: è un’opportunità per cambiare. Le cose che non funzionano si cambiano, no? Prima tutto sembrava andare bene, anche se nel mondo quasi un miliardo di persone soffre ancora la fame. Oggi invece tutti ci rendiamo conto che la regola del massimo profitto non funziona, da sola. Bisogna affiancarle l’economia solidale»
.
Ma il settore no-profit e il volontariato esistono da tempo, anche nel nostro mondo industrializzato.
«Sì, però negli ultimi decenni le banche si sono trasformate quasi in bische per scommesse, e adesso i fondi speculativi stanno facendo pagare il conto a tutti, anche a chi non aveva investito in hedge fund con guadagni colossali. Il loro rischio lo stiamo pagando tutti. Quindi bisogna revisionare il sistema, ormai lo riconosce ogni governo ».
Yunus è un misto di Gesù, Marx e Gandhi. Non una parola d’odio o di contrapposizione esce dalla sua bocca. I suoi slogan sono: fiducia e coinvolgimento.
«Noi non andiamo a protestare sotto le sedi delle multinazionali o ai vertici politici. Cerchiamo di far capire al business tradizionale che è conveniente investire anche nel business solidale. Con la francese Danone, per esempio, produciamo uno yogurt che costa pochissimo e che, arricchito di vitamine, salva da fame e malattie decine di migliaia di nostri bambini. Con la Volkswagen stiamo mettendo a punto un’auto adatta al Terzo mondo, con un motore poco inquinante e soprattutto multi-uso: funziona anche come irrigatore, pompa anti-alluvione, generatore di elettricità e motore per barca. Abbiamo dato un telefonino a 400 mila donne del Bangladesh, e adesso siamo la prima società telefonica del Paese. Domani firmo un accordo con la Basf per una medicina contro la carenza di ferro e per reti antizanzara contro la malaria. Riusciamo a far pagare l’acqua potabile un centesimo ogni quattro litri. E abbiamo proposto ad Adidas di inventare la scarpa che costa un euro: vendendone centinaia di milioni, ci guadagneranno. Ma per tutto questo dobbiamo mettere gli occhiali della creatività e del business solidale».
Lei è un banchiere, e un professore laureato nella prestigiosa università statunitense di Vanderbilt. Perché oggi sono proprio le banche al centro della crisi?
«Perché non hanno fiducia nella gente, e non prestano soldi a chi non ha già. Anche in Italia ci sono milioni di persone escluse dal credito. Perfino nei ricchi Stati Uniti molti lavoratori non possono neppure incassare l’assegno con cui vengono pagati, perché non hanno un conto. Devono andare dalle società che cambiano assegni, e invece di mille dollari ne avranno 800. Eppure le banche possono essere uno strumento di pace, ne ho appena parlato con mister Profumo di Unicredit. Non è vero che i poveri sono debitori inaffidabili, noi abbiamo un tasso di rimborso del prestito di oltre il 90%. Senza garanzie, ipoteche, avvocati. Solo fiducia. La cui mancanza è la causa dell’attuale crisi, tutti lo ammettono».
Quando supereremo la crisi?
«Presto. Sono ottimista. Basta cambiare le cose che l’hanno provocata, e ricostruire il sistema inserendo accanto ai business tradizionali quelli solidali. Spero in Obama, sua madre lavorava proprio nel microcredito, era andata in Indonesia con lui piccolino per svilupparlo. Meglio guadagnare cento in un colpo solo, magari sfruttando, impoverendo e incattivendo qualcun altro, o guadagnare dieci all’anno per dieci anni, con soddisfazione di tutti? La risposta è facile».
Mauro Suttora
Wednesday, March 11, 2009
Rottamare le case
Lezione dagli Usa: ricostruire i palazzi dopo 70 anni
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, martedì 10 marzo 2009
Negli Stati Uniti a settant’anni sono già vecchi. Quindi si buttano giù, si rottamano, e al loro posto se ne costruiscono altri nuovi di zecca in pochi mesi. I palazzi di New York sono affascinanti. Basta stare via da Manhattan per qualche anno, e al ritorno la città è irriconoscibile. Lo skyline della capitale del mondo è in perpetuo cambiamento.
Speriamo che la scossa edilizia annunciata da Berlusconi tolga dal torpore le città italiane, dove invece si conserva maniacalmente tutto, anche le topaie di cent’anni fa senza alcun valore storico: quelle che meriterebbero solo di essere rase al suolo per il benessere dei loro stessi inquilini.
A New York il programma misto pubblico/privato Equity fund, nato vent’anni fa e molto utilizzato dall’ex sindaco Rudy Giuliani per riqualificare zone invivibili del Bronx, ha permesso di rinnovare più di 20mila appartamenti di case popolari degradate. I costruttori ci hanno messo soldi (due miliardi di dollari) e cantieri, in cambio di cospicui tagli di tasse cittadine e statali (qui il federalismo fiscale è una realtà). «Gli inquilini sono stati trasferiti in “case-polmone” per 24 mesi, e al loro ritorno hanno ritrovato un appartamento di eguale metratura completamente nuovo», spiega Kathryn Wylde, presidente della società Housing Partnership.
Ovviamente questo meccanismo funziona dove la proprietà dei singoli appartamenti non è frazionata, e gli inquilini sono in affitto. Ma anche nel caso di molti proprietari in un unico stabile, con un’offerta allettante di può procedere alla rottamazione in tempi rapidi.
Gli americani non hanno pietà. Gli architetti Diller e Scofidio hanno appena finito di ricostruire la Alice Tully Hall, famosa sala concerti del Lincoln Center, nonostante avesse solo cinquant’anni. E sempre in questa zona di New York, che fino agli anni ’50 ospitava i fatiscenti tuguri portoricani in cui Leonard Bernstein ambientò la sua West Side Story, Donald Trump e altri «developers» hanno innalzato negli ultimi anni grattacieli di 60 piani con appartamenti dotati di vista sul fiume Hudson.
Di fronte a casa mia, all’angolo di Broadway con la 93esima Strada, ho visto incredulo sorgere a tempo record un «condo»(minio) di 16 piani dopo la distruzione di un vecchio palazzo di 4 piani. Hanno costruito al ritmo di un piano a settimana.
Mentre a Milano si conservano religiosamente obbrobri urbani come via Padova o viale Monza, e a Roma il Tiburtino o il Prenestino offrono squallore metropolitano, a New York procede senza soste la «gentrification». Che significa rinnovamento e miglioramento di interi isolati, con l’afflusso di inquilini di livello migliore, negozi più belli, ristoranti alla moda, servizi. Così si sono rinnovate l’Upper West Side, Tribeca, Soho, l’East Village e perfino Harlem. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia, dove i quartieri lasciati andare poco a poco decadono. I prezzi crollano, arrivano gli immigrati, e così addio Esquilino a Roma, o Sarpi a Milano.
Ora la crisi sta mordendo duro nelle città americane. Manhattan non fa eccezione: sono almeno trenta i cantieri di grattacieli bloccati. Ce l’ha fatta per un pelo il palazzone residenziale al numero 15 di Central Park West, accanto a una delle tante torri Trump, sorto sulle rovine di una costruzione fine Ottocento: i costruttori Zeckendorf hanno venduto tutti gli appartamenti poche settimane prima della crisi. Fra gli acquirenti, l’attore Denzel Washington (ha pagato 12 milioni per 300 metri quadri con vista su Central Park) e il cantante Sting. Non così fortunato il nuovo palazzo di Richard Meier, l’architetto della contestata Ara Pacis a Roma: la sua residenza di lusso a Chelsea, con le vetrate che danno sull’Hudson, è piena solo a metà.
Comunque gli statunitensi non sono dei barbari: se un edificio ha un valore architettonico viene risparmiato. Quindi nessuno ha toccato la Grand Central Station. Il Madison Square Garden, invece, inaugurato nel ’68 con l’incontro di boxe Benvenuti-Griffith, è il quarto della serie. E presto verrà abbattuto, per costruirne un quinto.
Mauro Suttora
Wednesday, March 04, 2009
Diario di Claretta Petacci, 1938
SEX DUX
A LETTO CON BENITO (COME IN UN LIBRO DI MOCCIA) - L’AMORE totale DELlA “STENOGRAFA” PETACCI PER MUSSOLINI – IL DUCE DOVEVA CHIAMARLA DIECI VOLTE AL GIORNO PER NON FARLA INGELOSIRE -
reso pubblico l’anno 1938 del diario dela grafomane Claretta…
Mauro Suttora per il settimanale 'OGGI'
4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la gelosissima amante Claretta Petacci.
È stato appena reso pubblico l'anno 1938 del diario della Petacci. L'Archivio di Stato, infatti, fa passare settant'anni prima di togliere il segreto. «Il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni private», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci.
Per decenni gli storici hanno sperato che quelle carte provassero una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi.
Il diario del '38 non offre rivelazioni politiche, ma dal punto di vista personale quelle pagine sono una miniera. Claretta era una grafomane, riempiva migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito.
Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il diario, si capisce come pochi anni dopo si sia fatta fucilare con Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. È il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta la fa resocontare parola per parola ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - da anni: l'ha conosciuto nel '32, fanno l'amore dal '36 - sono occupate dall'attesa di parlare con lui. E il resto del tempo la Petacci scrive. È una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel. alle 3 quando torno qui, amore».
Una scena quasi comica
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione, e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato con un'altra.
La prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, non mi sento, non ne ho voglia.
Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (...) Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel. fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - non esco. Non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare spettacolo nello spettacolo. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo ‘bottone' con l'ex ministro ungherese, adesso devo vedere Marinetti. Farò presto».
«7 e 1/2. È stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita").
Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stai attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse...
Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
Queste parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, o appartengono al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. A teatro il suo resoconto si trasforma in cronaca:
«Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso.
Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. (...) Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio».
«Telefonata, 12 e 3/4. Amore, quanto ti ho guardata. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. E per me non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami.
Dentro questo teatro non ci siamo che noi. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima, mi piacevi tanto. Dimmi che mi ami. Pensavo: questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore.
Amore, hai sentito quanto ti amo. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, amore, sei sola nella mia vita. Dormi con la mia voce, le mie parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Sesso a Palazzo Venezia
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938. Lo sai amore, ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui sono folle, domani sarà ancora mia".
Ti vedevo, e quando sei salita ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là, mi dice».
Mauro Suttora
A LETTO CON BENITO (COME IN UN LIBRO DI MOCCIA) - L’AMORE totale DELlA “STENOGRAFA” PETACCI PER MUSSOLINI – IL DUCE DOVEVA CHIAMARLA DIECI VOLTE AL GIORNO PER NON FARLA INGELOSIRE -
reso pubblico l’anno 1938 del diario dela grafomane Claretta…
Mauro Suttora per il settimanale 'OGGI'
4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la gelosissima amante Claretta Petacci.
È stato appena reso pubblico l'anno 1938 del diario della Petacci. L'Archivio di Stato, infatti, fa passare settant'anni prima di togliere il segreto. «Il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni private», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci.
Per decenni gli storici hanno sperato che quelle carte provassero una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi.
Il diario del '38 non offre rivelazioni politiche, ma dal punto di vista personale quelle pagine sono una miniera. Claretta era una grafomane, riempiva migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito.
Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il diario, si capisce come pochi anni dopo si sia fatta fucilare con Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. È il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta la fa resocontare parola per parola ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - da anni: l'ha conosciuto nel '32, fanno l'amore dal '36 - sono occupate dall'attesa di parlare con lui. E il resto del tempo la Petacci scrive. È una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel. alle 3 quando torno qui, amore».
Una scena quasi comica
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione, e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato con un'altra.
La prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, non mi sento, non ne ho voglia.
Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (...) Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel. fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - non esco. Non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare spettacolo nello spettacolo. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo ‘bottone' con l'ex ministro ungherese, adesso devo vedere Marinetti. Farò presto».
«7 e 1/2. È stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita").
Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stai attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse...
Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
Queste parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, o appartengono al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. A teatro il suo resoconto si trasforma in cronaca:
«Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso.
Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. (...) Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio».
«Telefonata, 12 e 3/4. Amore, quanto ti ho guardata. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. E per me non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami.
Dentro questo teatro non ci siamo che noi. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima, mi piacevi tanto. Dimmi che mi ami. Pensavo: questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore.
Amore, hai sentito quanto ti amo. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, amore, sei sola nella mia vita. Dormi con la mia voce, le mie parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Sesso a Palazzo Venezia
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938. Lo sai amore, ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui sono folle, domani sarà ancora mia".
Ti vedevo, e quando sei salita ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là, mi dice».
Mauro Suttora
Inedito: Claretta e Benito
UN GIORNO (E UNA NOTTE) NELLA VITA DI MUSSOLINI
"Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo"
ESCLUSIVO: Il diario 1938 di Claretta Petacci è stato reso pubblico dopo 70 anni. Dentro c’è un delirio amoroso, molta fantasia, poca politica. E sesso…
Roma, 4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Il dittatore italiano nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per questioni di lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la sua giovane e assillante amante Claretta Petacci, gelosissima (con ottime ragioni).
Sono state appena rese pubbliche le pagine sul 1938 del diario della Petacci. L'Archivio centrale dello Stato, che lo conserva, lascia infatti trascorrere un periodo di settant'anni prima di togliere il segreto su quei documenti. Di anno in anno, quindi, il diario di Claretta (che prosegue fino alla sua uccisione assieme a Benito, nel '45) viene messo a disposizione degli storici.
Siamo andati all'Eur nel palazzo (fascista) dell'Archivio, e abbiamo spulciato le «nuove» pagine. Diciamo subito che il diario non contiene decisive rivelazioni storiche. Perlomeno per l'anno 1938.
«Ma anche negli anni successivi il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni molto private, che non aggiungono granché alla comprensione dei tragici fatti di quegli anni», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci, che ha già controllato il prosieguo del diario e le minute delle lettere che Claretta spediva a Mussolini.
APPASSIONATA GRAFOMANE
Per decenni gli storici hanno sperato che da quelle carte saltassero fuori le prove di una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi fascisti in fuga. L'ultimo erede della famiglia Petacci, Ferdinando, 67 anni, che vive negli Stati Uniti, ha sempre reclamato la proprietà del diario e delle lettere. Ma lo Stato italiano gliel'ha negata.
Se politicamente il diario del '38 non offre novità, dal punto di vista privato quelle pagine sono una miniera. Le abbiamo lette con difficoltà, perché la scrittura della Petacci non è semplice da decifrare. Claretta infatti era una vera grafomane, ha riempito migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito. Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il suo diario, si capisce come pochi anni dopo abbia voluto farsi fucilare assieme a Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto alcun senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. E' il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta le impone di resocontare minuziosamente, parola per parola, ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - e ormai da anni, l’ha conosciuto nel ’32, fanno l’amore dal ’36 - sono occupate dall'attesa di una conversazione col Duce. E il resto del tempo la Petacci scrive. Praticamente, è una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel alle 3 quando torno qui amore».
UNA SCENA QUASI COMICA
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne Duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione (anzi, un impero), e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama tronfio al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato nella sala del Mappamondo con un’altra.
La Petacci è tornata a vivere a casa con i suoi, nella residenza del padre Francesco Saverio medico personale del papa, dopo la separazione dal marito aviere. La loro casa non è lontana da villa Torlonia, sulla Nomentana, dove Mussolini vive con la possessiva moglie Rachele e i figli. E dove torna ogni giorno per pranzo.
Preso fra due fuochi di gelosia, la prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, io non mi sento, non ne ho voglia. Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo. Sì, va bene ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (dato che si era inquietato, prima gli ho detto "Non è il caso di bisticciare per questo"). Hai ragione. Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Così va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
IL 'BOTTONE'
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo bottone, adesso devo vedere Marinetti, immagina. Era l'ex ministro ungherese. Adesso farò presto».
«7 e 1/2. E' stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che tu mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita”). Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stati attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse… Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
A TEATRO
Quante parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, e quanto invece appartiene al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. Possiamo solo affidarci al suo resoconto. Che a teatro si trasforma in cronaca: «Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso. Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. Alla mia destra c'è una cinquantenne che lo fissa con l'occhialino, una vecchia amante dev'essere. Lui non so se la vede. Durante lo spettacolo mi guarda tanto con desiderio. Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio. Mi guarda sempre, anch'io».
TELEFONATA NOTTURNA
«Alle 12 e 3/4. Amore, amore, cara, quanto ti ho guardato. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. L'unico, il solo per la mia piccola. E pensavo ancora: per me in questo teatro non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami. Dentro questo teatro non ci siamo che noi, io e lei. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, e guardandoti ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima amore, mi piacevi tanto, davvero era bello. Dimmi che mi ami. Pensavo: domani questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore. Sarà con me domani. Amore, hai sentito quanto ti amo, il mio amore ti avvolgeva. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole. Queste parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Amore, dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me. Vieni a me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Difficile immaginare che questo sproloquio sdolcinato sia uscito dalla bocca dello sbrigativo e «maschio» dittatore, seppure innamorato o in cerca di perdono per un recente tradimento. Più facile che Claretta scriva di notte per dar sfogo alle proprie fantasie romantiche, per placare la solitudine. E forse anche per lottare contro l'insonnia.
DUCE A LUCI ROSSE
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938, XVI E.F. [era fascista] Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata 3 volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà ancora mia". Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, io ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là lungo la strada, mi dice. Davvero anche tu pensavi questo?»
Chissà, se il Fuhrer avesse letto le parole di questo inedito «Duce a luci rosse», così poco marziale, forse non avrebbe voluto l'Italia alleata in guerra...
Mauro Suttora
"Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo"
ESCLUSIVO: Il diario 1938 di Claretta Petacci è stato reso pubblico dopo 70 anni. Dentro c’è un delirio amoroso, molta fantasia, poca politica. E sesso…
Roma, 4 marzo 2009
Povero Benito Mussolini. Il dittatore italiano nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per questioni di lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la sua giovane e assillante amante Claretta Petacci, gelosissima (con ottime ragioni).
Sono state appena rese pubbliche le pagine sul 1938 del diario della Petacci. L'Archivio centrale dello Stato, che lo conserva, lascia infatti trascorrere un periodo di settant'anni prima di togliere il segreto su quei documenti. Di anno in anno, quindi, il diario di Claretta (che prosegue fino alla sua uccisione assieme a Benito, nel '45) viene messo a disposizione degli storici.
Siamo andati all'Eur nel palazzo (fascista) dell'Archivio, e abbiamo spulciato le «nuove» pagine. Diciamo subito che il diario non contiene decisive rivelazioni storiche. Perlomeno per l'anno 1938.
«Ma anche negli anni successivi il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni molto private, che non aggiungono granché alla comprensione dei tragici fatti di quegli anni», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci, che ha già controllato il prosieguo del diario e le minute delle lettere che Claretta spediva a Mussolini.
APPASSIONATA GRAFOMANE
Per decenni gli storici hanno sperato che da quelle carte saltassero fuori le prove di una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi fascisti in fuga. L'ultimo erede della famiglia Petacci, Ferdinando, 67 anni, che vive negli Stati Uniti, ha sempre reclamato la proprietà del diario e delle lettere. Ma lo Stato italiano gliel'ha negata.
Se politicamente il diario del '38 non offre novità, dal punto di vista privato quelle pagine sono una miniera. Le abbiamo lette con difficoltà, perché la scrittura della Petacci non è semplice da decifrare. Claretta infatti era una vera grafomane, ha riempito migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito. Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il suo diario, si capisce come pochi anni dopo abbia voluto farsi fucilare assieme a Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto alcun senso.
«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. E' il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta le impone di resocontare minuziosamente, parola per parola, ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - e ormai da anni, l’ha conosciuto nel ’32, fanno l’amore dal ’36 - sono occupate dall'attesa di una conversazione col Duce. E il resto del tempo la Petacci scrive. Praticamente, è una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel alle 3 quando torno qui amore».
UNA SCENA QUASI COMICA
La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne Duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione (anzi, un impero), e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama tronfio al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato nella sala del Mappamondo con un’altra.
La Petacci è tornata a vivere a casa con i suoi, nella residenza del padre Francesco Saverio medico personale del papa, dopo la separazione dal marito aviere. La loro casa non è lontana da villa Torlonia, sulla Nomentana, dove Mussolini vive con la possessiva moglie Rachele e i figli. E dove torna ogni giorno per pranzo.
Preso fra due fuochi di gelosia, la prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, io non mi sento, non ne ho voglia. Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo. Sì, va bene ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (dato che si era inquietato, prima gli ho detto "Non è il caso di bisticciare per questo"). Hai ragione. Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel fra poco».
«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Così va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
IL 'BOTTONE'
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo bottone, adesso devo vedere Marinetti, immagina. Era l'ex ministro ungherese. Adesso farò presto».
«7 e 1/2. E' stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che tu mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita”). Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stati attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse… Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».
A TEATRO
Quante parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, e quanto invece appartiene al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. Possiamo solo affidarci al suo resoconto. Che a teatro si trasforma in cronaca: «Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso. Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. Alla mia destra c'è una cinquantenne che lo fissa con l'occhialino, una vecchia amante dev'essere. Lui non so se la vede. Durante lo spettacolo mi guarda tanto con desiderio. Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio. Mi guarda sempre, anch'io».
TELEFONATA NOTTURNA
«Alle 12 e 3/4. Amore, amore, cara, quanto ti ho guardato. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. L'unico, il solo per la mia piccola. E pensavo ancora: per me in questo teatro non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami. Dentro questo teatro non ci siamo che noi, io e lei. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, e guardandoti ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima amore, mi piacevi tanto, davvero era bello. Dimmi che mi ami. Pensavo: domani questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore. Sarà con me domani. Amore, hai sentito quanto ti amo, il mio amore ti avvolgeva. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole. Queste parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Amore, dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me. Vieni a me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».
Difficile immaginare che questo sproloquio sdolcinato sia uscito dalla bocca dello sbrigativo e «maschio» dittatore, seppure innamorato o in cerca di perdono per un recente tradimento. Più facile che Claretta scriva di notte per dar sfogo alle proprie fantasie romantiche, per placare la solitudine. E forse anche per lottare contro l'insonnia.
DUCE A LUCI ROSSE
Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938, XVI E.F. [era fascista] Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata 3 volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà ancora mia". Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, io ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là lungo la strada, mi dice. Davvero anche tu pensavi questo?»
Chissà, se il Fuhrer avesse letto le parole di questo inedito «Duce a luci rosse», così poco marziale, forse non avrebbe voluto l'Italia alleata in guerra...
Mauro Suttora
Monday, March 02, 2009
Obama taglia i charity gala
LA BENEFICENZA PRIVATA USA
di Mauro Suttora
Libero, sabato 28 febbraio 2009
Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).
Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.
Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.
Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.
Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.
Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…
Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)
Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.
Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.
Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.
Mauro Suttora
di Mauro Suttora
Libero, sabato 28 febbraio 2009
Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).
Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.
Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.
Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.
Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.
Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…
Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)
Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.
Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.
Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.
Mauro Suttora
Monday, February 23, 2009
Newsweek: guerra del kebab
The Great Kebab Wars
by Mauro Suttora
NEWSWEEK
February 7, 2009
link to Newsweek
The Tuscan city of Lucca, famous as Puccini's birthplace, doesn't need any more publicity—especially if it carries the taint of "culinary racism." But that's the accusation being lobbed in response to Lucca's ban on new ethnic eateries in its city center. Ban supporters claim it will preserve "traditional and cultural identity," says Mayor Mauro Favilla, who wants to avoid becoming another Rome, where ancient streets are home to cheap fast-food and greasy Chinese joints.
Currently, Lucca's center boasts just four "ethnic" eateries, Turkish kebab places that opened within the last two years. "In Pisa, now there are 16 kebab [shops]; that's why they fear us," says Hayri Gok, who runs the Mesopotamia eatery. Detractors say Lucca's move makes little economic sense. "Tourism … is all about openness and variety," says Avi Rosental, director of the International Hotel & Restaurant Association. Besides, what if Turkey retaliates and outlaws pizza?
by Mauro Suttora
NEWSWEEK
February 7, 2009
link to Newsweek
The Tuscan city of Lucca, famous as Puccini's birthplace, doesn't need any more publicity—especially if it carries the taint of "culinary racism." But that's the accusation being lobbed in response to Lucca's ban on new ethnic eateries in its city center. Ban supporters claim it will preserve "traditional and cultural identity," says Mayor Mauro Favilla, who wants to avoid becoming another Rome, where ancient streets are home to cheap fast-food and greasy Chinese joints.
Currently, Lucca's center boasts just four "ethnic" eateries, Turkish kebab places that opened within the last two years. "In Pisa, now there are 16 kebab [shops]; that's why they fear us," says Hayri Gok, who runs the Mesopotamia eatery. Detractors say Lucca's move makes little economic sense. "Tourism … is all about openness and variety," says Avi Rosental, director of the International Hotel & Restaurant Association. Besides, what if Turkey retaliates and outlaws pizza?
Francesco Rutelli
Ritratto di un politico maestro nel riciclarsi
Libero, sabato 21 febbraio 2009
di Mauro Suttora
«Dovete iscrivervi tutti all’Lsd». Udine, estate 1978. Ogni tanto, diciottenne in bici, facevo un salto alla sede del partito radicale, attirato più dalle belle ragazze che dal fascino di Pannella. E un pomeriggio Rita, una di loro, mi intimò di darle tremila lire «per l’Lsd».
«E che sarebbe, questo Lsd?» «Lega Socialista per il Disarmo», sorride Rita, estasiata. «Ma da quando in qua sei antimilitarista?» «Dalla scorsa settimana. Sono andata a Roma, ho incontrato Francesco Rutelli. Lui ha fondato l’Lsd. Ed è bellissimo…»
La seconda volta che m’imbattei in Rutelli fu un anno dopo. Sempre impegnato contro gli eserciti, aveva organizzato con Adele Faccio una Carovana di protesta da Bruxelles (sede Nato) a Varsavia (sede dell’omonimo patto). Ci andai, mi piaceva questa equidistanza fra sovietici e yankee. Presi tenda e sacco a pelo, m’imbarcai su uno dei sei pullman pieni di radicali. Dormivamo in campeggi e palestre di scuole. Le pacifiste tedesche erano affascinanti. C’era anche una sedicenne Sabina Guzzanti che suonava la chitarra. Però Rutelli mi deluse. Lui, con gli altri capetti radicali, non dormiva con noialtri. Dirigeva i sit-in di fronte alle basi militari col megafono, e poi spariva in albergo.
Arrivati al muro Berlino Est fummo manganellati dai vopos, le guardie di frontiera. In Polonia non arrivammo mai. Però io m’ero appassionato alla nonviolenza, e cominciai a leggere Gandhi. Così l’anno dopo, quando Rutelli fondò con lo scrittore Carlo Cassola il mensile ‘L’Asino’, me ne facevo mandare da Roma venti copie che rivendevo agli amici. ‘L’Asino’ era un famoso giornale antimilitarista e anticlericale fondato da Guido Podrecca che all’inizio del ’900 vendeva centomila copie. Poi fu chiuso dai fascisti. La versione rutelliana durò due anni. «Franciasco», come lo chiamavano le sue adepte romane (fra cui Eugenia Roccella), ci scriveva scintillanti articoli contro le spese militari e i missili atomici.
Nel frattempo, a soli 25 anni, Rutelli era diventato segretario nazionale del Partito radicale. Ancora oggi qualche morboso curiosone ogni tanto mi chiede quanti dei giovani politici messi in orbita da Pannella (da Rutelli a Capezzone) siano passati per il suo letto. «Non ne ho idea», rispondo sincero.
Dopo due anni Pannella vuole far spazio a una sua nuova scoperta, Giovanni Negri. Ma Rutelli oppone una fiera resistenza, riesce a restare sveglio tutta una notte mentre il capo radicale parla in riunione fino alle quattro del mattino, e alla fine riesce a farsi nominare vicesegretario assieme a Negri e a un altro giovanissimo: Gaetano Quagliariello.
Negli anni ’80 continuo a seguire con simpatia la carriera di Rutelli, che anch’io reputo bello e simpatico (secondo la mia fidanzata, invece, assomiglia ad Alberto Sordi). Lui sposa Barbara Palombelli, mia collega all’Europeo, e continua a organizzare proteste contro le parate militari del 2 giugno: in mutande e scolapasta in testa fa sfilare in piazza Venezia le «trippe disarmate».
A un certo punto però Pannella gli toglie lo stipendio, costringendolo a «ruotare»: un’usanza giusta ma crudele per dimostrare che i deputati radicali non sono attaccati alle poltrone, e che quindi si dimettono a metà mandato. Il povero Rutelli deve riciclarsi con i verdi, e a un certo punto è perfino costretto a elemosinare collaborazioni giornalistiche a Feltri, allora direttore dell’Europeo.
Ma in politica la ruota gira sempre, e nell’89 i verdi raggiungono il sette per cento: quarto partito italiano. Trionfo di Rutelli che ne diventa il capo. E nel ’93 Ciampi lo nomina ministro dell’Ambiente. Ma lui si dimette dopo un solo giorno per protesta contro il Parlamento che nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi. In quei giorni tumultuosi di Tangentopoli Berlusconi debutta in politica «sdoganando» Fini, e candidando il segretario del Msi sindaco di Roma. A Pannella viene l’idea di contrapporgli Rutelli, che viene eletto.
Non abitando allora a Roma non so come valutare Rutelli, sindaco per otto anni. Però mi ha impressionato la scena di giubilo cui una distinta signora si è abbandonata sull’autobus 52 la scorsa primavera, quando giunse la notizia che Francesco aveva perso il nuovo tentativo di salire al Campidoglio dopo Veltroni: come mai tanto astio?
Mi ha colpito anche la cattiveria di una biografia a lui dedicata dall’editore di Kaos (un ex radicale che gli aveva pubblicato dei libri): ‘Cicciobello del potere’. Viene staffilato come «mediocre politicante che fa carriera a colpi di opportunismi, spregiudicatezze e aria fritta: passato dalle lotte contro la fame nel mondo agli appetiti dei palazzinari romani, dalle campagne anticlericali alle genuflessioni in Vaticano, dall’antimilitarismo ai campi da golf…»
Nel ’99, con Cacciari ed Enzo Bianco, fonda il movimento dei sindaci. Poi si allea con Di Pietro, Prodi e Parisi: dall’Asino all’Asinello. Quindi, nel 2001, viene mandato al sacrificio contro un arrembante Berlusconi. Candidato premier per la sinistra, perde ma si consola: «Solo due punti di distacco». Infine, lui ex radicale, riesce nel miracolo di diventare capo degli ex democristiani nella Margherita. Io lo ammiro per questo, oltre che per essersi risposato in chiesa con la Palombelli. Mi spiace che Andrea De Carlo lo abbia sbertucciato nel romanzo ‘Mare delle verità’ (2006). E lo penso sempre quando passo davanti alla stupenda fontana di piazza Esedra con le naiadi nude scolpite da Mario Rutelli, di cui è bisnipote.
Mauro Suttora
Libero, sabato 21 febbraio 2009
di Mauro Suttora
«Dovete iscrivervi tutti all’Lsd». Udine, estate 1978. Ogni tanto, diciottenne in bici, facevo un salto alla sede del partito radicale, attirato più dalle belle ragazze che dal fascino di Pannella. E un pomeriggio Rita, una di loro, mi intimò di darle tremila lire «per l’Lsd».
«E che sarebbe, questo Lsd?» «Lega Socialista per il Disarmo», sorride Rita, estasiata. «Ma da quando in qua sei antimilitarista?» «Dalla scorsa settimana. Sono andata a Roma, ho incontrato Francesco Rutelli. Lui ha fondato l’Lsd. Ed è bellissimo…»
La seconda volta che m’imbattei in Rutelli fu un anno dopo. Sempre impegnato contro gli eserciti, aveva organizzato con Adele Faccio una Carovana di protesta da Bruxelles (sede Nato) a Varsavia (sede dell’omonimo patto). Ci andai, mi piaceva questa equidistanza fra sovietici e yankee. Presi tenda e sacco a pelo, m’imbarcai su uno dei sei pullman pieni di radicali. Dormivamo in campeggi e palestre di scuole. Le pacifiste tedesche erano affascinanti. C’era anche una sedicenne Sabina Guzzanti che suonava la chitarra. Però Rutelli mi deluse. Lui, con gli altri capetti radicali, non dormiva con noialtri. Dirigeva i sit-in di fronte alle basi militari col megafono, e poi spariva in albergo.
Arrivati al muro Berlino Est fummo manganellati dai vopos, le guardie di frontiera. In Polonia non arrivammo mai. Però io m’ero appassionato alla nonviolenza, e cominciai a leggere Gandhi. Così l’anno dopo, quando Rutelli fondò con lo scrittore Carlo Cassola il mensile ‘L’Asino’, me ne facevo mandare da Roma venti copie che rivendevo agli amici. ‘L’Asino’ era un famoso giornale antimilitarista e anticlericale fondato da Guido Podrecca che all’inizio del ’900 vendeva centomila copie. Poi fu chiuso dai fascisti. La versione rutelliana durò due anni. «Franciasco», come lo chiamavano le sue adepte romane (fra cui Eugenia Roccella), ci scriveva scintillanti articoli contro le spese militari e i missili atomici.
Nel frattempo, a soli 25 anni, Rutelli era diventato segretario nazionale del Partito radicale. Ancora oggi qualche morboso curiosone ogni tanto mi chiede quanti dei giovani politici messi in orbita da Pannella (da Rutelli a Capezzone) siano passati per il suo letto. «Non ne ho idea», rispondo sincero.
Dopo due anni Pannella vuole far spazio a una sua nuova scoperta, Giovanni Negri. Ma Rutelli oppone una fiera resistenza, riesce a restare sveglio tutta una notte mentre il capo radicale parla in riunione fino alle quattro del mattino, e alla fine riesce a farsi nominare vicesegretario assieme a Negri e a un altro giovanissimo: Gaetano Quagliariello.
Negli anni ’80 continuo a seguire con simpatia la carriera di Rutelli, che anch’io reputo bello e simpatico (secondo la mia fidanzata, invece, assomiglia ad Alberto Sordi). Lui sposa Barbara Palombelli, mia collega all’Europeo, e continua a organizzare proteste contro le parate militari del 2 giugno: in mutande e scolapasta in testa fa sfilare in piazza Venezia le «trippe disarmate».
A un certo punto però Pannella gli toglie lo stipendio, costringendolo a «ruotare»: un’usanza giusta ma crudele per dimostrare che i deputati radicali non sono attaccati alle poltrone, e che quindi si dimettono a metà mandato. Il povero Rutelli deve riciclarsi con i verdi, e a un certo punto è perfino costretto a elemosinare collaborazioni giornalistiche a Feltri, allora direttore dell’Europeo.
Ma in politica la ruota gira sempre, e nell’89 i verdi raggiungono il sette per cento: quarto partito italiano. Trionfo di Rutelli che ne diventa il capo. E nel ’93 Ciampi lo nomina ministro dell’Ambiente. Ma lui si dimette dopo un solo giorno per protesta contro il Parlamento che nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi. In quei giorni tumultuosi di Tangentopoli Berlusconi debutta in politica «sdoganando» Fini, e candidando il segretario del Msi sindaco di Roma. A Pannella viene l’idea di contrapporgli Rutelli, che viene eletto.
Non abitando allora a Roma non so come valutare Rutelli, sindaco per otto anni. Però mi ha impressionato la scena di giubilo cui una distinta signora si è abbandonata sull’autobus 52 la scorsa primavera, quando giunse la notizia che Francesco aveva perso il nuovo tentativo di salire al Campidoglio dopo Veltroni: come mai tanto astio?
Mi ha colpito anche la cattiveria di una biografia a lui dedicata dall’editore di Kaos (un ex radicale che gli aveva pubblicato dei libri): ‘Cicciobello del potere’. Viene staffilato come «mediocre politicante che fa carriera a colpi di opportunismi, spregiudicatezze e aria fritta: passato dalle lotte contro la fame nel mondo agli appetiti dei palazzinari romani, dalle campagne anticlericali alle genuflessioni in Vaticano, dall’antimilitarismo ai campi da golf…»
Nel ’99, con Cacciari ed Enzo Bianco, fonda il movimento dei sindaci. Poi si allea con Di Pietro, Prodi e Parisi: dall’Asino all’Asinello. Quindi, nel 2001, viene mandato al sacrificio contro un arrembante Berlusconi. Candidato premier per la sinistra, perde ma si consola: «Solo due punti di distacco». Infine, lui ex radicale, riesce nel miracolo di diventare capo degli ex democristiani nella Margherita. Io lo ammiro per questo, oltre che per essersi risposato in chiesa con la Palombelli. Mi spiace che Andrea De Carlo lo abbia sbertucciato nel romanzo ‘Mare delle verità’ (2006). E lo penso sempre quando passo davanti alla stupenda fontana di piazza Esedra con le naiadi nude scolpite da Mario Rutelli, di cui è bisnipote.
Mauro Suttora
Wednesday, February 18, 2009
Elena Russo, raccomandata
Oggi, 11 febbraio 2009
Povera Elena Russo. Per quanto tempo la bella attrice napoletana sarà perseguitata da quella telefonata? Nel 2007 Silvio Berlusconi fu intercettato mentre la segnalava al dirigente Rai Agostino Saccà, assieme ad altre belle attrici emergenti, per una parte in qualche fiction. Da allora, qualsiasi cosa faccia, la Russo attira il sospetto della «spintarella». Ora però è diventata testimonial di uno spot in cui il governo celebra la risoluzione del problema della spazzatura a Napoli.
E poiché il committente è la presidenza del Consiglio (cioè Berlusconi stesso), il marchio di «favorita» è tornato automaticamente a sfiorarla. Ma come viene spiegata la scelta presa da un istituto prestigioso come Pubblicità Progresso? Dice il suo presidente, Alberto Contri (ex consigliere Rai berlusconiano): «La Russo non era la nostra prima scelta. Faceva parte di una rosa di napoletane veraci assieme a Serena Autieri e Luisa Ranieri. Ma loro non hanno potuto girare lo spot, perché erano già impegnate».
Parole che potrebbero creare qualche imbarazzo alla Russo, che da Londra (dove studia l’inglese) commenta: «Lo spot mi è stato proposto dalla mia agente, sapevo della gara con altre professioniste. Nessun favoritismo».
Povera Elena Russo. Per quanto tempo la bella attrice napoletana sarà perseguitata da quella telefonata? Nel 2007 Silvio Berlusconi fu intercettato mentre la segnalava al dirigente Rai Agostino Saccà, assieme ad altre belle attrici emergenti, per una parte in qualche fiction. Da allora, qualsiasi cosa faccia, la Russo attira il sospetto della «spintarella». Ora però è diventata testimonial di uno spot in cui il governo celebra la risoluzione del problema della spazzatura a Napoli.
E poiché il committente è la presidenza del Consiglio (cioè Berlusconi stesso), il marchio di «favorita» è tornato automaticamente a sfiorarla. Ma come viene spiegata la scelta presa da un istituto prestigioso come Pubblicità Progresso? Dice il suo presidente, Alberto Contri (ex consigliere Rai berlusconiano): «La Russo non era la nostra prima scelta. Faceva parte di una rosa di napoletane veraci assieme a Serena Autieri e Luisa Ranieri. Ma loro non hanno potuto girare lo spot, perché erano già impegnate».
Parole che potrebbero creare qualche imbarazzo alla Russo, che da Londra (dove studia l’inglese) commenta: «Lo spot mi è stato proposto dalla mia agente, sapevo della gara con altre professioniste. Nessun favoritismo».
Chantal Sciuto
Lady Frattini lasciata dal ministro degli Esteri
Oggi, 11 febbraio 2009
di Mauro Suttora
Che sfortuna essere nata il 4 novembre. Aveva organizzato da mesi la propria festa di compleanno, Chantal Sciuto. La sera più importante della sua vita: perché compiva 40 anni, cifra tonda, e perché da sei mesi era la fidanzata (prima segreta, poi ufficiale con tanto di comunicato a mezzo stampa) del ministro degli Esteri Franco Frattini. Peccato non si fosse accorta che era anche la data delle elezioni presidenziali Usa, avvenimento storico per la probabile vittoria di Barack Obama.
Così quella sera il capo della diplomazia italiana, invece di presenziare a uno dei party d’alto livello programmati a Roma, o di prepararsi a commentare l’evento in uno studio tv, ha dovuto partecipare alla festa della bella dermatologa. Lei, come da copione, gli ha presentato i genitori arrivati apposta dalla Sicilia. Lui, dopo averle regalato un anello, si è persino fatto fotografare per un giornale a cui lei aveva assicurato l’esclusiva e gli è toccato sorridere a molti amici di lei, tra cui personaggi della «Roma godona» fra spettacolo e tv, come attricette e tronisti, gente lontanissima dall’aplomb della diplomazia. Ma è riuscito a eclissarsi quasi subito, prima di mezzanotte.
«Lo soffocava», sibila un ambasciatore che lavora nel bianco palazzo della Farnesina, già lambito dagli scandali rosa tre anni fa per gli appuntamenti galanti di Salvo Sottile, addetto stampa dell’allora ministro Gianfranco Fini.
In effetti, i caratteri di Chantal (soprannominata Chantal n°5 dagli amici) e dell’algido Franco sono agli antipodi. Ma in amore gli opposti si attraggono, e Frattini sembrava aver perso la testa per la dottoressa dei vip. Tanto da portarla con sé all’austero convegno Ambrosetti di Cernobbio, al vertice Ue di Avignone, e perfino all’Assemblea generale dell’Onu a New York.
Il modello della Sciuto era Carla Bruni Sarkozy. Dimenticando però che l’ex top model, prima di conquistare il presidente francese, esibiva già un carniere pieno di conquiste importanti: da Donald Trump a Mick Jagger, da Eric Clapton al genero filosofo di Bernard-Henri Lévy.
Chantal invece, Venere in miniatura dagli occhioni smeraldo, movenze da gatta e vocina sexy, prima di Frattini vantava un fidanzamento con Paolo Calissano, l’attore finito nei guai per cocaina e la morte di una ragazza nella sua casa di Genova, e amicizie con il conduttore Michele Cucuzza e gli attori Enrico Mutti e Antonio Cupo. I suoi amori però non arrivano mai all’happy end. Avrà un caratterino difficile? Cucuzza ha sempre smentito il flirt ed è rimasto in buoni rapporti con lei.
Con Calissano invece fu gelo totale, anche perché Chantal confessò (con quella sincerità disarmante che l’ha portata ad annunciare via comunicato stampa il fidanzamento con Frattini) di essere rimasta incinta di lui, ma di avere abortito spontaneamente. Calissano motivò la propria discesa nella droga anche per quell’episodio. Poi però l’attore ha precisato: «Chantal è fantastica, una persona speciale. Una delle donne più solari, dinamiche e intelligenti che abbia mai conosciuto. Forse non avevo capito la fortuna che mi era capitata».
Neanche Frattini l’ha capita, e l’ha scaricata da un giorno all’altro («Senza preavviso, fino a una settimana prima tutto sembrava filare per il meglio», dicono gli amici di lei) e, si dice, con un sms. Frattini ha addirittura scomodato l’ufficio stampa del ministero per smentire, ma una conoscente sussurra: «Sms? No, molto peggio».
Oddio, e che c’è di peggio di un messaggino per dire addio? In che modo è stata tradita l’eleganza dei modi che anche gli avversari politici riconoscono a Frattini? Nessuno sembra saperlo con certezza, anche perché Chantal, distrutta, per la prima volta in vita sua si è rifugiata nel silenzio. Ha lavorato un po’ al Villa Borghese Institute, la clinica della bellezza dei proprietari delle acque Rocchetta e Uliveto dove esercita come dermatologa. Poi è scomparsa qualche giorno.
Niente più aperitivi in piazza San Lorenzo in Lucina con l’amico Sandro Rubini, arrampicata sulle sue scarpe preferite (Caovilla tacco 12). Niente più vita sociale instancabile, dai 40 anni dell’amica del cuore Ramona Badescu alle prime con Nancy Dell’Olio (ex dell’allenatore Eriksson), fino alle feste dello sceicco arabo Rashid Al Habtoor (ex di Manuela Arcuri e Naomi Campbell).
DOMINATRICE SADOMASO
In questi giorni nel generone romano non si parla d’altro. Alcuni dicono che Chantal non andasse d’accordo con la figlia diciottenne di Frattini: il padre aveva cercato di farle diventare amiche, le portava a pranzo insieme la domenica. Altri parlano di presa coscienza di una insuperabile incompatibilità di carattere.
Forse la verità è da ricercare nella smania di apparire di Chantal. Dava interviste corredate da foto da dominatrice sadomaso con frustino da cavallerizza in pugno, si faceva paparazzare assieme a lui con perizoma in bella vista, andava in Tv a farsi pubblicità («Conflitto d’interessi», ha tuonato il deputato del Pd Roberto Giachetti). Forse un po’ troppo per l’austero Frattini, soprannominato «frigorifero».
Mauro Suttora
Oggi, 11 febbraio 2009
di Mauro Suttora
Che sfortuna essere nata il 4 novembre. Aveva organizzato da mesi la propria festa di compleanno, Chantal Sciuto. La sera più importante della sua vita: perché compiva 40 anni, cifra tonda, e perché da sei mesi era la fidanzata (prima segreta, poi ufficiale con tanto di comunicato a mezzo stampa) del ministro degli Esteri Franco Frattini. Peccato non si fosse accorta che era anche la data delle elezioni presidenziali Usa, avvenimento storico per la probabile vittoria di Barack Obama.
Così quella sera il capo della diplomazia italiana, invece di presenziare a uno dei party d’alto livello programmati a Roma, o di prepararsi a commentare l’evento in uno studio tv, ha dovuto partecipare alla festa della bella dermatologa. Lei, come da copione, gli ha presentato i genitori arrivati apposta dalla Sicilia. Lui, dopo averle regalato un anello, si è persino fatto fotografare per un giornale a cui lei aveva assicurato l’esclusiva e gli è toccato sorridere a molti amici di lei, tra cui personaggi della «Roma godona» fra spettacolo e tv, come attricette e tronisti, gente lontanissima dall’aplomb della diplomazia. Ma è riuscito a eclissarsi quasi subito, prima di mezzanotte.
«Lo soffocava», sibila un ambasciatore che lavora nel bianco palazzo della Farnesina, già lambito dagli scandali rosa tre anni fa per gli appuntamenti galanti di Salvo Sottile, addetto stampa dell’allora ministro Gianfranco Fini.
In effetti, i caratteri di Chantal (soprannominata Chantal n°5 dagli amici) e dell’algido Franco sono agli antipodi. Ma in amore gli opposti si attraggono, e Frattini sembrava aver perso la testa per la dottoressa dei vip. Tanto da portarla con sé all’austero convegno Ambrosetti di Cernobbio, al vertice Ue di Avignone, e perfino all’Assemblea generale dell’Onu a New York.
Il modello della Sciuto era Carla Bruni Sarkozy. Dimenticando però che l’ex top model, prima di conquistare il presidente francese, esibiva già un carniere pieno di conquiste importanti: da Donald Trump a Mick Jagger, da Eric Clapton al genero filosofo di Bernard-Henri Lévy.
Chantal invece, Venere in miniatura dagli occhioni smeraldo, movenze da gatta e vocina sexy, prima di Frattini vantava un fidanzamento con Paolo Calissano, l’attore finito nei guai per cocaina e la morte di una ragazza nella sua casa di Genova, e amicizie con il conduttore Michele Cucuzza e gli attori Enrico Mutti e Antonio Cupo. I suoi amori però non arrivano mai all’happy end. Avrà un caratterino difficile? Cucuzza ha sempre smentito il flirt ed è rimasto in buoni rapporti con lei.
Con Calissano invece fu gelo totale, anche perché Chantal confessò (con quella sincerità disarmante che l’ha portata ad annunciare via comunicato stampa il fidanzamento con Frattini) di essere rimasta incinta di lui, ma di avere abortito spontaneamente. Calissano motivò la propria discesa nella droga anche per quell’episodio. Poi però l’attore ha precisato: «Chantal è fantastica, una persona speciale. Una delle donne più solari, dinamiche e intelligenti che abbia mai conosciuto. Forse non avevo capito la fortuna che mi era capitata».
Neanche Frattini l’ha capita, e l’ha scaricata da un giorno all’altro («Senza preavviso, fino a una settimana prima tutto sembrava filare per il meglio», dicono gli amici di lei) e, si dice, con un sms. Frattini ha addirittura scomodato l’ufficio stampa del ministero per smentire, ma una conoscente sussurra: «Sms? No, molto peggio».
Oddio, e che c’è di peggio di un messaggino per dire addio? In che modo è stata tradita l’eleganza dei modi che anche gli avversari politici riconoscono a Frattini? Nessuno sembra saperlo con certezza, anche perché Chantal, distrutta, per la prima volta in vita sua si è rifugiata nel silenzio. Ha lavorato un po’ al Villa Borghese Institute, la clinica della bellezza dei proprietari delle acque Rocchetta e Uliveto dove esercita come dermatologa. Poi è scomparsa qualche giorno.
Niente più aperitivi in piazza San Lorenzo in Lucina con l’amico Sandro Rubini, arrampicata sulle sue scarpe preferite (Caovilla tacco 12). Niente più vita sociale instancabile, dai 40 anni dell’amica del cuore Ramona Badescu alle prime con Nancy Dell’Olio (ex dell’allenatore Eriksson), fino alle feste dello sceicco arabo Rashid Al Habtoor (ex di Manuela Arcuri e Naomi Campbell).
DOMINATRICE SADOMASO
In questi giorni nel generone romano non si parla d’altro. Alcuni dicono che Chantal non andasse d’accordo con la figlia diciottenne di Frattini: il padre aveva cercato di farle diventare amiche, le portava a pranzo insieme la domenica. Altri parlano di presa coscienza di una insuperabile incompatibilità di carattere.
Forse la verità è da ricercare nella smania di apparire di Chantal. Dava interviste corredate da foto da dominatrice sadomaso con frustino da cavallerizza in pugno, si faceva paparazzare assieme a lui con perizoma in bella vista, andava in Tv a farsi pubblicità («Conflitto d’interessi», ha tuonato il deputato del Pd Roberto Giachetti). Forse un po’ troppo per l’austero Frattini, soprannominato «frigorifero».
Mauro Suttora
parla Gad Lerner
Oggi, 11 febbraio 2009
Cosa pensa del conflitto istituzionale innescato da Berlusconi?
«Non considero esaurita la forza, la spinta del berlusconismo. Ma l’ossessione di affermare la sua autorità, facendo leva sulle posizioni neodogmatiche della Chiesa, questa volta ha fatto commettere un errore a Berlusconi. Il quale teme un asse fra i due altri presidenti, quello della Camera Gianfranco Fini e quello della Repubblica Giorgio Napolitano, che imbrigli la sua azione di governo. E’ ricorso quindi al decreto legge, ingaggiando un braccio di ferro con il presidente della Repubblica. Il suo è un fastidio esibito contro ogni impiccio che lo ostacoli. Ma Berlusconi non si rende conto che sul tema da lui scelto per scatenare questo conflitto la società italiana è molto più avanti delle pagnotte e bottiglie piazzate davanti alla clinica La Quiete. Tutti i cittadini prima o poi, tramite qualche parente, hanno avuto a che fare con la pratica pietosa e silenziosa di interrompere gli accanimenti negli ospedali, per evitare che la tecnica imprigioni la vita. Il neodogmatismo illiberale mal corrisponde all’evoluzione del costume. Mi sembra che Berlusconi abbia presunto troppo dalla forza del suo consenso».
Riuscirà a cambiare la Costituzione?
«Berlusconi l’ha già stravolta da tempo, con la prassi della decretazione d’urgenza. Ha instaurato una nuova costituzione materiale, riducendo il rapporto con il Parlamento a una cinghia di trasmissione».
Sul caso Eluana si sarà fatto guidare da qualche sondaggio.
«Mi pare che questa volta abbia agito d’istinto, approfittando dell’appoggio delle gerarchie del Vaticano per liberarsi da quello che per lui ormai è diventato un vero e proprio incubo: l’asse Fini-Napolitano. Ma credo che sia stato un autogol, perché una volta finite le accuse irrazionali di omicidio, o le affermazioni secondo cui una ragazza dovrebbe morire, mentre ormai purtroppo si tratta di una donna, passato tutto questo, a Berlusconi resterà poco in mano».
Mauro Suttora
Cosa pensa del conflitto istituzionale innescato da Berlusconi?
«Non considero esaurita la forza, la spinta del berlusconismo. Ma l’ossessione di affermare la sua autorità, facendo leva sulle posizioni neodogmatiche della Chiesa, questa volta ha fatto commettere un errore a Berlusconi. Il quale teme un asse fra i due altri presidenti, quello della Camera Gianfranco Fini e quello della Repubblica Giorgio Napolitano, che imbrigli la sua azione di governo. E’ ricorso quindi al decreto legge, ingaggiando un braccio di ferro con il presidente della Repubblica. Il suo è un fastidio esibito contro ogni impiccio che lo ostacoli. Ma Berlusconi non si rende conto che sul tema da lui scelto per scatenare questo conflitto la società italiana è molto più avanti delle pagnotte e bottiglie piazzate davanti alla clinica La Quiete. Tutti i cittadini prima o poi, tramite qualche parente, hanno avuto a che fare con la pratica pietosa e silenziosa di interrompere gli accanimenti negli ospedali, per evitare che la tecnica imprigioni la vita. Il neodogmatismo illiberale mal corrisponde all’evoluzione del costume. Mi sembra che Berlusconi abbia presunto troppo dalla forza del suo consenso».
Riuscirà a cambiare la Costituzione?
«Berlusconi l’ha già stravolta da tempo, con la prassi della decretazione d’urgenza. Ha instaurato una nuova costituzione materiale, riducendo il rapporto con il Parlamento a una cinghia di trasmissione».
Sul caso Eluana si sarà fatto guidare da qualche sondaggio.
«Mi pare che questa volta abbia agito d’istinto, approfittando dell’appoggio delle gerarchie del Vaticano per liberarsi da quello che per lui ormai è diventato un vero e proprio incubo: l’asse Fini-Napolitano. Ma credo che sia stato un autogol, perché una volta finite le accuse irrazionali di omicidio, o le affermazioni secondo cui una ragazza dovrebbe morire, mentre ormai purtroppo si tratta di una donna, passato tutto questo, a Berlusconi resterà poco in mano».
Mauro Suttora
Tuesday, February 17, 2009
Coldplay verso Udine
Coldplay in mutande
"Che noia essere il signor Paltrow"
Libero, sabato 14 febbraio 2009
Stasera e domani i Coldplay suonano a Osaka in Giappone. Mercoledi saranno a Londra, poi da fine febbraio in Australia per mezzo mese, quindi Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi… Fino a Udine il 31 agosto, stadio Friuli, unico concerto italiano del loro tour mondiale. Tutto esaurito, anche perché i loro prezzi sono onesti: 40-50 euro a biglietto contro i vergognosi 100-200 per gli U2 a San Siro in luglio.
«Se siamo la rock band più importante del mondo?», si schermisce il loro leader, cantante, chitarrista e pianista Chris Martin. «Non so se lo siamo mai stati, ma ora tornano gli U2 con il loro nuovo disco… Siamo solo stati i supplenti, occupando il loro posto per un po’».
Così risponde Martin a ‘60 Minutes’ sulla Cbs, il programma tv più prestigioso d’America. Che lo ha appena intervistato in coincidenza dell’ennesimo exploit: sette nomination e tre Grammy award (gli Oscar della musica) per il miglior disco rock del 2008 (‘Viva la Vida’, sette milioni di copie vendute in otto mesi), la migliore canzone e il migliore gruppo.
«Ma ci affidiamo più all’entusiasmo che alle nostre effettive capacità», confessa Martin. «Qualsiasi cosa si faccia, se lo si fa con entusiasmo alla gente piace di più. Io non so ballare come Usher, non so cantare come Beyonce, non so scrivere canzoni come Elton John. Ma cerchiamo di fare il massimo con quello che abbiamo».
Umili e riservati, ma anche gentili e pieni di senso dell’humour, appaiono i quattro moschettieri del rock del terzo millennio (unica novità di questi anni Zero, Rem e Oasis c’erano già da prima). Hanno trent’anni, stanno insieme da dodici, continuano a firmare democraticamente le loro canzoni con i nomi di tutti, anche se tutti sanno che la mente è Martin. Non hanno mai sbagliato un colpo: tutti i loro quattro dischi, da ‘Parachutes’ del 2000 in poi, hanno conquistato platini planetari.
Il loro segreto? «Uno solo: c’impegniamo molto, molto duramente», dice a ’60 Minutes’ il chitarrista Johnny Buckland. Tutti figli di professori, media borghesia, hanno cominciato nel quartiere di Camden a Londra. Laurea (Martin con lode in greco e latino, Buckland in matematica, il batterista Will Champion in antropologia), e firma del loro primo contratto discografico. Più facile di così…
Nei concerti suonano meticolosamente tutti i loro successi, da ‘Yellow’ in poi. Non si stancano, non fanno le bizze come certe rockstar che si rifiutano di eseguire alcuni pezzi, con la scusa che «non vogliono rimanere prigionieri di una sola canzone». «Alcune non le farei, perché non ci piacciono più particolarmente, ma gli spettatori hanno pagato caro il biglietto, sono venuti per ascoltare proprio quelle, e quindi le suoniamo». Michael Stipe dei Rem ha anche consigliato ai Coldplay di non variare troppo i brani live rispetto alla versione su disco, perché i fans sono abituati a quelle.
Martin spiega, scherzando ma non troppo, di utilizzare un particolare rilevatore di «customer satisfaction», soddisfazione del cliente: «Quando siamo sul palco non riusciamo a osservare molto la gente, però vediamo da lontano le luci dei corridoi di uscita. Così all’inizio di una tournée, per capire quali canzoni funzionano e quali no, se notiamo molte silhouettes di persone che ingombrano le uscite, vuol dire che la canzone che stiamo suonando probabilmente non è quella giusta, perché la gente preferisce uscire per farsi un hot dog o qualcos’altro… Mentre so che tutto va bene se le uscite illuminate rimangono vuote. E’ il nostro modo di giudicare, il “silhouette factor”…»
Martin non si sente la “rockstar” del nuovo millennio: «Rockstar, non mi piace questa parola. E poi non indosso i pantaloni giusti per essere una rockstar». Il bassista Guy Berryman però è felice, come gli altri, che sia Martin a catturare tutta l’attenzione dei paparazzi, anche per il suo matrimonio con l’attrice Gwyneth Paltrow: «Non riuscirei mai a uscire di casa con tutti quei fotografi!» «E’ una benedizione stare in questa band senza essere il cantante», sorride Champion.
«Invece io», ribatte Martin, «sogno il momento in cui tu, Will, improvvisamente ci dirai: “Ho deciso di diventare uno sgargiante batterista omosessuale, mi metterò vestiti incredibili e dirò cose pazzesche”. Mi sarebbe veramente d’aiuto per alleggerire la pressione e conquistare un po’ di tranquillità».
Ne avrebbe bisogno, Martin, per evitare le scenate un po’ penose cui lui, gentleman britannico, talvolta si abbandona aggredendo i fotografi per strada. Di solito accade quando è con Gwyneth, e anche con ’60 Minutes’ quando si affronta l’argomento Paltrow si chiude a riccio: «Per certi giornali divorzieremmo ogni settimana, e la settimana dopo i Coldplay si scioglierebbero. Come diceva Bob Dylan: “Sono contento che quello non sono io”».
Mauro Suttora
"Che noia essere il signor Paltrow"
Libero, sabato 14 febbraio 2009
Stasera e domani i Coldplay suonano a Osaka in Giappone. Mercoledi saranno a Londra, poi da fine febbraio in Australia per mezzo mese, quindi Hong Kong, Singapore, Abu Dhabi… Fino a Udine il 31 agosto, stadio Friuli, unico concerto italiano del loro tour mondiale. Tutto esaurito, anche perché i loro prezzi sono onesti: 40-50 euro a biglietto contro i vergognosi 100-200 per gli U2 a San Siro in luglio.
«Se siamo la rock band più importante del mondo?», si schermisce il loro leader, cantante, chitarrista e pianista Chris Martin. «Non so se lo siamo mai stati, ma ora tornano gli U2 con il loro nuovo disco… Siamo solo stati i supplenti, occupando il loro posto per un po’».
Così risponde Martin a ‘60 Minutes’ sulla Cbs, il programma tv più prestigioso d’America. Che lo ha appena intervistato in coincidenza dell’ennesimo exploit: sette nomination e tre Grammy award (gli Oscar della musica) per il miglior disco rock del 2008 (‘Viva la Vida’, sette milioni di copie vendute in otto mesi), la migliore canzone e il migliore gruppo.
«Ma ci affidiamo più all’entusiasmo che alle nostre effettive capacità», confessa Martin. «Qualsiasi cosa si faccia, se lo si fa con entusiasmo alla gente piace di più. Io non so ballare come Usher, non so cantare come Beyonce, non so scrivere canzoni come Elton John. Ma cerchiamo di fare il massimo con quello che abbiamo».
Umili e riservati, ma anche gentili e pieni di senso dell’humour, appaiono i quattro moschettieri del rock del terzo millennio (unica novità di questi anni Zero, Rem e Oasis c’erano già da prima). Hanno trent’anni, stanno insieme da dodici, continuano a firmare democraticamente le loro canzoni con i nomi di tutti, anche se tutti sanno che la mente è Martin. Non hanno mai sbagliato un colpo: tutti i loro quattro dischi, da ‘Parachutes’ del 2000 in poi, hanno conquistato platini planetari.
Il loro segreto? «Uno solo: c’impegniamo molto, molto duramente», dice a ’60 Minutes’ il chitarrista Johnny Buckland. Tutti figli di professori, media borghesia, hanno cominciato nel quartiere di Camden a Londra. Laurea (Martin con lode in greco e latino, Buckland in matematica, il batterista Will Champion in antropologia), e firma del loro primo contratto discografico. Più facile di così…
Nei concerti suonano meticolosamente tutti i loro successi, da ‘Yellow’ in poi. Non si stancano, non fanno le bizze come certe rockstar che si rifiutano di eseguire alcuni pezzi, con la scusa che «non vogliono rimanere prigionieri di una sola canzone». «Alcune non le farei, perché non ci piacciono più particolarmente, ma gli spettatori hanno pagato caro il biglietto, sono venuti per ascoltare proprio quelle, e quindi le suoniamo». Michael Stipe dei Rem ha anche consigliato ai Coldplay di non variare troppo i brani live rispetto alla versione su disco, perché i fans sono abituati a quelle.
Martin spiega, scherzando ma non troppo, di utilizzare un particolare rilevatore di «customer satisfaction», soddisfazione del cliente: «Quando siamo sul palco non riusciamo a osservare molto la gente, però vediamo da lontano le luci dei corridoi di uscita. Così all’inizio di una tournée, per capire quali canzoni funzionano e quali no, se notiamo molte silhouettes di persone che ingombrano le uscite, vuol dire che la canzone che stiamo suonando probabilmente non è quella giusta, perché la gente preferisce uscire per farsi un hot dog o qualcos’altro… Mentre so che tutto va bene se le uscite illuminate rimangono vuote. E’ il nostro modo di giudicare, il “silhouette factor”…»
Martin non si sente la “rockstar” del nuovo millennio: «Rockstar, non mi piace questa parola. E poi non indosso i pantaloni giusti per essere una rockstar». Il bassista Guy Berryman però è felice, come gli altri, che sia Martin a catturare tutta l’attenzione dei paparazzi, anche per il suo matrimonio con l’attrice Gwyneth Paltrow: «Non riuscirei mai a uscire di casa con tutti quei fotografi!» «E’ una benedizione stare in questa band senza essere il cantante», sorride Champion.
«Invece io», ribatte Martin, «sogno il momento in cui tu, Will, improvvisamente ci dirai: “Ho deciso di diventare uno sgargiante batterista omosessuale, mi metterò vestiti incredibili e dirò cose pazzesche”. Mi sarebbe veramente d’aiuto per alleggerire la pressione e conquistare un po’ di tranquillità».
Ne avrebbe bisogno, Martin, per evitare le scenate un po’ penose cui lui, gentleman britannico, talvolta si abbandona aggredendo i fotografi per strada. Di solito accade quando è con Gwyneth, e anche con ’60 Minutes’ quando si affronta l’argomento Paltrow si chiude a riccio: «Per certi giornali divorzieremmo ogni settimana, e la settimana dopo i Coldplay si scioglierebbero. Come diceva Bob Dylan: “Sono contento che quello non sono io”».
Mauro Suttora
Wednesday, February 11, 2009
Mariella Bocciardo, cognata di Berlusconi
SCOVATA L’UNICA BERLUSCONA CHE LAVORA: MARIELLA BOCCIARDO, COGNATA DI SILVIO, STAKANOVISTA DEL PARLAMENTO (HA VOTATO 99,8% DELLE VOLTE) – “ERO PRODUTTRICE DELLE NEWS FININVEST. CON CARELLI, BOCCA, ZUCCONI... RICORDO CERTE NOTE SPESE”… (da dagospia.com)
PRESENTE! LA SUPERCOGNATA STRACCIA GLI ONOREVOLI FANNULLONI
Mauro Suttora per "Oggi"
11 febbraio 2009
La stakanovista della Camera mi fa accomodare su un divano nella Galleria dei Presidenti di Montecitorio. È il corridoio posteriore del palazzo, opposto al più mondano Transatlantico: l'entrata di servizio. Mariella Bocciardo, 59 anni, tranquilla signora milanese, deputata dal 2006, fino a un mese fa era conosciuta a Roma solo come la «cognata di Berlusconi» (prima moglie di Paolo, fratello di Silvio).
Ora però è stata pubblicata la classifica dei parlamentari più presenti alle votazioni, e lei risulta in testa con un incredibile 99,8 per cento. In otto mesi ha premuto il tasto 2.029 volte.
«Ma è un record che voglio migliorare», dice lei, che come tutte le donne lombarde è insoddisfatta fino al raggiungimento della perfezione. Mormora: «In realtà ho mancato cinque voti solo perché il sistema elettronico si era inceppato».
Due anni e mezzo fa, quando perlustrai il Transatlantico per scoprire le novità fra i nuovi eletti, la debuttante signora Bocciardo stazionava nel capannello delle donne di Forza Italia. Il cosiddetto «gruppo bella gnocca», come lo chiamavano con invidia i deputati di sinistra. In effetti, l'avvenenza delle varie Mara Carfagna, Fiorella Ceccacci Rubino, Gabriella Carlucci o Michaela Biancofiore contrastava col grigiore di tutto il resto. Ma la più matura «cognata» rifiutò la mia proposta d'intervista: «Non saprei cosa dirle, sono appena arrivata. Mi faccia acclimatare».
Adesso si sente preparata, per la prima volta parla con un giornale. E apre al nostro fotografo la sua casa di Milano Tre, dove posa sul divano con entrambe le figlie, Alessia (presidente di Pbf, la holding di famiglia che fra l'altro pubblica il quotidiano Il Giornale) e Luna (anche lei con ruoli di responsabilità nel gruppo), e i nipotini Jody e Davide, figli di Alessia.
Signora, le dà fastidio essere definita «la cognata»?
«Per carità, far parte della famiglia Berlusconi è un onore. Ma terrei a precisare che il mio impegno politico non è nato con l'elezione in Parlamento. Faccio la volontaria per Forza Italia da quando è stata fondata, nel ‘94. Anni e anni di lavoro, dal primo club a Milano Tre con Valentina Aprea alle provinciali di Milano del ‘99 con Paolo Romani, quando facemmo eleggere Ombretta Colli. Ora il nuovo coordinatore della Lombardia dopo Mariastella Gelmini, l'eurodeputato Guido Podestà, mi ha chiesto di diventare sua vice. Così sono tornata a passare tutti i miei sabati e domeniche fra la sede di Forza Italia in viale Monza, e riunioni in Lombardia».
Mai nessuna carica elettiva?
«No. Per me la politica è passione. Nel 2001 Silvio mi chiese: "Mariella, hai qualche aspirazione? Vuoi venire a Roma?". Io risposi: "Non mi sento pronta, preferisco rimanere nel partito. Aspettiamo ancora un po'».
E in questi due anni e mezzo a Roma, che cos'ha combinato?
«Il bilancio è assolutamente positivo. Mi piace molto l'attività nella commissione Affari sociali, perché è lì, più che in aula, che si affrontano e si cercano di risolvere i problemi concreti. Anche con l'opposizione il clima in commissione è diverso, più costruttivo. Faccio parte anche della bicamerale per l'infanzia. Dobbiamo prendere coscienza che la vita dei bambini oggi è a rischio».
Beh, non più di trent'anni fa...
«No, no, la situazione è peggiorata. Fra bambini abusati, rapiti, vittime di pedofili, l'infanzia oggi vive un disagio che scuola e famiglie non affrontano con la necessaria attenzione».
Signora, non vorrei toglierle la gioia per il record di presenze alle votazioni, ma le viene mai il sospetto che abbia ragione suo cognato Silvio? E cioè che alla Camera basterebbero trenta o quaranta deputati, perché gli altri passano il tempo a pigiare il bottone su questioni di cui non sanno niente?
«Guardi, non vedo nulla di squalificante nel "pigiare un bottone". Fa parte anche questo del mio lavoro, e trovo riduttivo pensare solo al momento del voto: il lavoro di un parlamentare non si esaurisce in aula. Come in tutte le cose, è la passione e la dedizione del singolo a fare la differenza».
Però ora la maggioranza ha cento voti in più, non c'è neanche il brivido del testa a testa.
«Veramente ogni voto è prezioso, perché fra deputati ministri, sottosegretari e in missione, ogni volta ci mancano una sessantina di persone».
E perché chi ha il doppio incarico non si dimette?
«Non lo chieda a me».
Com'è che non riuscite a diminuire i costi della politica?
«Il nostro sistema prevede due Camere che fanno le stesse cose. Quindi per risolvere il problema o tagliare i parlamentari, bisogna cambiare la Costituzione».
Per diminuire le auto blu no.
«Mah, a volte l'auto di servizio può anche servire. Certo l'uso andrebbe razionalizzato».
Quando ha visto Silvio l'ultima volta?
«A Natale, per gli auguri».
Avete parlato di politica?
«No. Per quello, lo sentirò al massimo due volte l'anno».
Niente filo diretto, quindi?
«Non ce n'è bisogno. La sintonia è totale».
Come sono i rapporti con i suoi colleghi di Forza Italia?
«Cordiali, con un briciolo di sana competizione».
Anche fra donne?
«A volte».
Con chi va d'accordo, nell'opposizione?
«Livia Turco, Paola Binetti».
Da quanti anni conosce Silvio Berlusconi?
«Da quando ho incontrato suo fratello, al liceo, verso il '63 o '64. Silvio era simpaticissimo già allora. Ho lavorato per lui quando vendevano le prime case a Brugherio e Milano Due. Poi sono arrivate le mie figlie e per un po' mi sono dedicata solo alla famiglia. Ricordo quando nacque Luna, alle cinque del mattino del 2 agosto 1975: Silvio venne in clinica a trovarmi già alle sette. È sempre stato molto premuroso».
Poi lei e suo marito vi siete separati.
«Sì, nell'82, ma i rapporti sono rimasti molto cordiali. E io ho ricominciato a lavorare in Fininvest».
Di cosa si occupava?
«Ero produttrice delle prime news, quando ancora non avevamo la diretta. C'erano Emilio Carelli oggi a Sky, Giorgio Bocca, Guglielmo Zucconi... Seguivo tutta la produzione, dalle riunioni di redazione alla trasmissione finita. Mi occupavo persino degli stipendi, e ricordo anche le note spese di certi giornalisti».
Per esempio?
«Uno chiese il rimborso addirittura di uno shampoo».
Chi?
«Non dico il peccatore».
Prima di Forza Italia per chi votava?
«Come mio padre, che stava per Malagodi: liberale. Ma seguivo poco la politica».
Che scuole ha fatto?
«Il liceo linguistico-umanistico di via Manin a Milano. Abitavamo in viale Zara, ero figlia unica. Amavo i libri francesi, i Beatles e De André. Poi mi sono iscritta a Lingue alla Cattolica. Ma mi sono sposata a 21 anni con Paolo, è nata Alessia e ho interrotto l'università».
Un colpo di testa. Cosa dissero in famiglia?
«Paolo ed io stavamo già insieme da tanti anni... La presero bene, anche se erano severi».
Dove vi siete conosciuti?
«Sotto casa, in bici. Lui andava dai salesiani, come il fratello».
Se lo immaginava allora che trent'anni dopo sarebbe finita in politica con Silvio?
«Beh, al liceo lessi "La Forza d'amare" di Martin Luther King. E oggi mi piace poter contribuire, nel mio piccolo, a diffondere certi valori».
Quali?
«Responsabilità, senso del dovere, onestà».
Mauro Suttora
PRESENTE! LA SUPERCOGNATA STRACCIA GLI ONOREVOLI FANNULLONI
Mauro Suttora per "Oggi"
11 febbraio 2009
La stakanovista della Camera mi fa accomodare su un divano nella Galleria dei Presidenti di Montecitorio. È il corridoio posteriore del palazzo, opposto al più mondano Transatlantico: l'entrata di servizio. Mariella Bocciardo, 59 anni, tranquilla signora milanese, deputata dal 2006, fino a un mese fa era conosciuta a Roma solo come la «cognata di Berlusconi» (prima moglie di Paolo, fratello di Silvio).
Ora però è stata pubblicata la classifica dei parlamentari più presenti alle votazioni, e lei risulta in testa con un incredibile 99,8 per cento. In otto mesi ha premuto il tasto 2.029 volte.
«Ma è un record che voglio migliorare», dice lei, che come tutte le donne lombarde è insoddisfatta fino al raggiungimento della perfezione. Mormora: «In realtà ho mancato cinque voti solo perché il sistema elettronico si era inceppato».
Due anni e mezzo fa, quando perlustrai il Transatlantico per scoprire le novità fra i nuovi eletti, la debuttante signora Bocciardo stazionava nel capannello delle donne di Forza Italia. Il cosiddetto «gruppo bella gnocca», come lo chiamavano con invidia i deputati di sinistra. In effetti, l'avvenenza delle varie Mara Carfagna, Fiorella Ceccacci Rubino, Gabriella Carlucci o Michaela Biancofiore contrastava col grigiore di tutto il resto. Ma la più matura «cognata» rifiutò la mia proposta d'intervista: «Non saprei cosa dirle, sono appena arrivata. Mi faccia acclimatare».
Adesso si sente preparata, per la prima volta parla con un giornale. E apre al nostro fotografo la sua casa di Milano Tre, dove posa sul divano con entrambe le figlie, Alessia (presidente di Pbf, la holding di famiglia che fra l'altro pubblica il quotidiano Il Giornale) e Luna (anche lei con ruoli di responsabilità nel gruppo), e i nipotini Jody e Davide, figli di Alessia.
Signora, le dà fastidio essere definita «la cognata»?
«Per carità, far parte della famiglia Berlusconi è un onore. Ma terrei a precisare che il mio impegno politico non è nato con l'elezione in Parlamento. Faccio la volontaria per Forza Italia da quando è stata fondata, nel ‘94. Anni e anni di lavoro, dal primo club a Milano Tre con Valentina Aprea alle provinciali di Milano del ‘99 con Paolo Romani, quando facemmo eleggere Ombretta Colli. Ora il nuovo coordinatore della Lombardia dopo Mariastella Gelmini, l'eurodeputato Guido Podestà, mi ha chiesto di diventare sua vice. Così sono tornata a passare tutti i miei sabati e domeniche fra la sede di Forza Italia in viale Monza, e riunioni in Lombardia».
Mai nessuna carica elettiva?
«No. Per me la politica è passione. Nel 2001 Silvio mi chiese: "Mariella, hai qualche aspirazione? Vuoi venire a Roma?". Io risposi: "Non mi sento pronta, preferisco rimanere nel partito. Aspettiamo ancora un po'».
E in questi due anni e mezzo a Roma, che cos'ha combinato?
«Il bilancio è assolutamente positivo. Mi piace molto l'attività nella commissione Affari sociali, perché è lì, più che in aula, che si affrontano e si cercano di risolvere i problemi concreti. Anche con l'opposizione il clima in commissione è diverso, più costruttivo. Faccio parte anche della bicamerale per l'infanzia. Dobbiamo prendere coscienza che la vita dei bambini oggi è a rischio».
Beh, non più di trent'anni fa...
«No, no, la situazione è peggiorata. Fra bambini abusati, rapiti, vittime di pedofili, l'infanzia oggi vive un disagio che scuola e famiglie non affrontano con la necessaria attenzione».
Signora, non vorrei toglierle la gioia per il record di presenze alle votazioni, ma le viene mai il sospetto che abbia ragione suo cognato Silvio? E cioè che alla Camera basterebbero trenta o quaranta deputati, perché gli altri passano il tempo a pigiare il bottone su questioni di cui non sanno niente?
«Guardi, non vedo nulla di squalificante nel "pigiare un bottone". Fa parte anche questo del mio lavoro, e trovo riduttivo pensare solo al momento del voto: il lavoro di un parlamentare non si esaurisce in aula. Come in tutte le cose, è la passione e la dedizione del singolo a fare la differenza».
Però ora la maggioranza ha cento voti in più, non c'è neanche il brivido del testa a testa.
«Veramente ogni voto è prezioso, perché fra deputati ministri, sottosegretari e in missione, ogni volta ci mancano una sessantina di persone».
E perché chi ha il doppio incarico non si dimette?
«Non lo chieda a me».
Com'è che non riuscite a diminuire i costi della politica?
«Il nostro sistema prevede due Camere che fanno le stesse cose. Quindi per risolvere il problema o tagliare i parlamentari, bisogna cambiare la Costituzione».
Per diminuire le auto blu no.
«Mah, a volte l'auto di servizio può anche servire. Certo l'uso andrebbe razionalizzato».
Quando ha visto Silvio l'ultima volta?
«A Natale, per gli auguri».
Avete parlato di politica?
«No. Per quello, lo sentirò al massimo due volte l'anno».
Niente filo diretto, quindi?
«Non ce n'è bisogno. La sintonia è totale».
Come sono i rapporti con i suoi colleghi di Forza Italia?
«Cordiali, con un briciolo di sana competizione».
Anche fra donne?
«A volte».
Con chi va d'accordo, nell'opposizione?
«Livia Turco, Paola Binetti».
Da quanti anni conosce Silvio Berlusconi?
«Da quando ho incontrato suo fratello, al liceo, verso il '63 o '64. Silvio era simpaticissimo già allora. Ho lavorato per lui quando vendevano le prime case a Brugherio e Milano Due. Poi sono arrivate le mie figlie e per un po' mi sono dedicata solo alla famiglia. Ricordo quando nacque Luna, alle cinque del mattino del 2 agosto 1975: Silvio venne in clinica a trovarmi già alle sette. È sempre stato molto premuroso».
Poi lei e suo marito vi siete separati.
«Sì, nell'82, ma i rapporti sono rimasti molto cordiali. E io ho ricominciato a lavorare in Fininvest».
Di cosa si occupava?
«Ero produttrice delle prime news, quando ancora non avevamo la diretta. C'erano Emilio Carelli oggi a Sky, Giorgio Bocca, Guglielmo Zucconi... Seguivo tutta la produzione, dalle riunioni di redazione alla trasmissione finita. Mi occupavo persino degli stipendi, e ricordo anche le note spese di certi giornalisti».
Per esempio?
«Uno chiese il rimborso addirittura di uno shampoo».
Chi?
«Non dico il peccatore».
Prima di Forza Italia per chi votava?
«Come mio padre, che stava per Malagodi: liberale. Ma seguivo poco la politica».
Che scuole ha fatto?
«Il liceo linguistico-umanistico di via Manin a Milano. Abitavamo in viale Zara, ero figlia unica. Amavo i libri francesi, i Beatles e De André. Poi mi sono iscritta a Lingue alla Cattolica. Ma mi sono sposata a 21 anni con Paolo, è nata Alessia e ho interrotto l'università».
Un colpo di testa. Cosa dissero in famiglia?
«Paolo ed io stavamo già insieme da tanti anni... La presero bene, anche se erano severi».
Dove vi siete conosciuti?
«Sotto casa, in bici. Lui andava dai salesiani, come il fratello».
Se lo immaginava allora che trent'anni dopo sarebbe finita in politica con Silvio?
«Beh, al liceo lessi "La Forza d'amare" di Martin Luther King. E oggi mi piace poter contribuire, nel mio piccolo, a diffondere certi valori».
Quali?
«Responsabilità, senso del dovere, onestà».
Mauro Suttora
Lucca: la disfida del kebab
La città di Puccini vieta i ristoranti etnici dentro al centro storico: nel mirino quattro paninerie turche. Razzismo culinario?
Lucca, 4 febbraio 2009
dall'inviato Mauro Suttora
«Non sono ammessi nuovi esercizi di etnie diverse». Maledette quelle due paroline, etnie diverse, altrimenti del nuovo regolamento per i ristoranti di Lucca non si sarebbe accorto nessuno. Se avesse scritto «fast food», non sarebbero piovute accuse di razzismo da tutto il mondo sul povero Mauro Favilla, 75 anni, eterno sindaco prima dc (nel 1972!) e oggi pdl. Perché arrivando in questa perla della Toscana pensavamo di trovarla devastata da pizzerie al taglio, pub rumorosi o ristoranti cinesi come certe zone turistiche di Roma e Firenze. Invece l’oggetto del contendere sono solo quattro piccole rivendite di kebab turco.
«Prima ha aperto quella di via Elisa», ci dice Hayri Gok, 30 anni, di Varto (Turchia), «poi sono arrivato io nel 2007. E dopo hanno aperto quelle di San Paolino e corso Garibaldi».
Un successone: attirati dal prezzo (tre euro per un pasto completo di carne e verdura), studenti, giovani turisti e immigrati affollano i locali. E per Lucca si profila l’incubo Pisa, dove i kebab ora sono sedici.
Invidia, protezionismo? «Beh, i kebab non rappresentano certo una minaccia per noi», assicura magnanimo Giuliano Pacini, 67 anni, proprietario del ristorante più antico di Lucca (aperto dal 1782), la Buca di Sant’Antonio. «Quel regolamento c’era già, ed servito per impedire a McDonald’s di installarsi in centro. Lo hanno messo in periferia. Ma i take-away non sono in concorrenza con i ristoranti della cucina tipica. Il Comune vuole solo far mantenere un certo stile, un decoro… Lucca era famosa come la città del “garbo”».
E oggi ai lucchesi non «garba» l’invasione del turismo «basso», quello del «mordi e fuggi», dei grupponi scaricati dalle corriere che arrivano al mattino, parcheggiano fuori dalle mura, percorrono via San Paolino e visitano in poche ore le stupende piazze e chiese del centro.
Poi ci sono gli immigrati. Quando arriviamo nella kebabberia di San Paolino, proprio di fronte alla chiesa, la troviamo piena di albanesi che vengono sfamati da pakistani che lavorano per una catena tedesca di cibo turco. Infatti i kebab (porchetta di bovino) sono penetrati in Europa grazie alla folta colonia dei turchi di Germania. E da lì stanno invadendo l’Italia.
Anche Gok viveva in Germania fino a cinque anni fa. Ha aperto il suo Mesopotamia proprio in centro, nel “chiasso” (vicolo) Barletti, all’angolo con via Fillungo (la via Condotti o Montenapoleone di Lucca). Scandalo! E per di più lo tiene aperto dal mattino fino a mezzanotte sette giorni su sette grazie al cognato e alla moglie. Lavorano come bestie, e così riescono a tenere i prezzi bassi. Lì vicino con tre euro si compra solo una fettina di pizza al taglio sottile come la carta.
«Mi hanno dato una multa di 370 euro per il cartello pubblicitario che ho messo sul marciapiede», si lamenta Gok. Perché non chiedi il permesso di occupazione del suolo pubblico? «L’ho chiesto, non me lo danno».
Lo sai che il nuovo regolamento impone a tutti i ristoranti anche «almeno un piatto tipico lucchese»?
«E quali sono?»
Farro, ceci…
«Ah, bene, i ceci già li metto nel falafel».
E poi il comma E dell’articolo 7 richiede che i camerieri sappiano l’inglese…
«Perfetto: io oltre all’inglese e all’italiano parlo anche turco e tedesco».
«Bisogna stare molto attenti quando si prendono certe iniziative di tutela della “tradizione”: io sento puzza di razzismo», commenta con Oggi Graziano Cioni, l’assessore-sceriffo di Firenze famoso perché vietò i lavavetri ai semafori. Cioni è di sinistra, il sindaco di Lucca di destra: la polemica è facile. «Ma dov’era la sinistra quando il regolamento è stato approvato prima in commissione e poi in consiglio comunale?», chiede il sindaco Favilla. «Allora non ci accusarono di razzismo, e non hanno neppure votato contro: si sono astenuti».
Gli elettori di centrodestra difendono il nuovo regolamento: «Ci voleva, i fast food non possono moltiplicarsi indiscriminatamente. Di fronte a quei kebab la sera c’è disordine, sporcano per terra, lasciano cartacce, disturbano con schiamazzi», dice la signora Simonetta V., dipendente comunale.
«Il sindaco è vecchio, vorrebbe che mangiassimo tutti farro», ribatte Alessandro Fantozzi, 22 anni, lucchese che studia Scienze politiche a Pisa. Aggiunge il suo amico Alessandro Solinas, 23, studente a Bologna: «Dove si può pranzare con tre euro a Lucca?»
La statua seduta di Giacomo Puccini, il lucchese più famoso, osserva muta sotto la sua casa natale. Lucca ne ha appena festeggiato il 150° della nascita, e per attirare turisti d’estate organizza anche concerti rock in piazza Napoleone (Leonard Cohen lo scorso luglio). Però qui il turismo resta d’élite, i miliardari inglesi hanno comprato le ville della Lucchesia.
«Anche a Pistoia hanno proibito i ristoranti “di culture diverse da quella locale”», insiste il sindaco. Ma solo in una piccola zona, quella della piazza della Sala. Invece lo stupendo centro storico di Lucca è enorme, due chilometri: come quello di Milano. Troppo, per andare a farsi un kebab fuori dalle mura.
Mauro Suttora
Lucca, 4 febbraio 2009
dall'inviato Mauro Suttora
«Non sono ammessi nuovi esercizi di etnie diverse». Maledette quelle due paroline, etnie diverse, altrimenti del nuovo regolamento per i ristoranti di Lucca non si sarebbe accorto nessuno. Se avesse scritto «fast food», non sarebbero piovute accuse di razzismo da tutto il mondo sul povero Mauro Favilla, 75 anni, eterno sindaco prima dc (nel 1972!) e oggi pdl. Perché arrivando in questa perla della Toscana pensavamo di trovarla devastata da pizzerie al taglio, pub rumorosi o ristoranti cinesi come certe zone turistiche di Roma e Firenze. Invece l’oggetto del contendere sono solo quattro piccole rivendite di kebab turco.
«Prima ha aperto quella di via Elisa», ci dice Hayri Gok, 30 anni, di Varto (Turchia), «poi sono arrivato io nel 2007. E dopo hanno aperto quelle di San Paolino e corso Garibaldi».
Un successone: attirati dal prezzo (tre euro per un pasto completo di carne e verdura), studenti, giovani turisti e immigrati affollano i locali. E per Lucca si profila l’incubo Pisa, dove i kebab ora sono sedici.
Invidia, protezionismo? «Beh, i kebab non rappresentano certo una minaccia per noi», assicura magnanimo Giuliano Pacini, 67 anni, proprietario del ristorante più antico di Lucca (aperto dal 1782), la Buca di Sant’Antonio. «Quel regolamento c’era già, ed servito per impedire a McDonald’s di installarsi in centro. Lo hanno messo in periferia. Ma i take-away non sono in concorrenza con i ristoranti della cucina tipica. Il Comune vuole solo far mantenere un certo stile, un decoro… Lucca era famosa come la città del “garbo”».
E oggi ai lucchesi non «garba» l’invasione del turismo «basso», quello del «mordi e fuggi», dei grupponi scaricati dalle corriere che arrivano al mattino, parcheggiano fuori dalle mura, percorrono via San Paolino e visitano in poche ore le stupende piazze e chiese del centro.
Poi ci sono gli immigrati. Quando arriviamo nella kebabberia di San Paolino, proprio di fronte alla chiesa, la troviamo piena di albanesi che vengono sfamati da pakistani che lavorano per una catena tedesca di cibo turco. Infatti i kebab (porchetta di bovino) sono penetrati in Europa grazie alla folta colonia dei turchi di Germania. E da lì stanno invadendo l’Italia.
Anche Gok viveva in Germania fino a cinque anni fa. Ha aperto il suo Mesopotamia proprio in centro, nel “chiasso” (vicolo) Barletti, all’angolo con via Fillungo (la via Condotti o Montenapoleone di Lucca). Scandalo! E per di più lo tiene aperto dal mattino fino a mezzanotte sette giorni su sette grazie al cognato e alla moglie. Lavorano come bestie, e così riescono a tenere i prezzi bassi. Lì vicino con tre euro si compra solo una fettina di pizza al taglio sottile come la carta.
«Mi hanno dato una multa di 370 euro per il cartello pubblicitario che ho messo sul marciapiede», si lamenta Gok. Perché non chiedi il permesso di occupazione del suolo pubblico? «L’ho chiesto, non me lo danno».
Lo sai che il nuovo regolamento impone a tutti i ristoranti anche «almeno un piatto tipico lucchese»?
«E quali sono?»
Farro, ceci…
«Ah, bene, i ceci già li metto nel falafel».
E poi il comma E dell’articolo 7 richiede che i camerieri sappiano l’inglese…
«Perfetto: io oltre all’inglese e all’italiano parlo anche turco e tedesco».
«Bisogna stare molto attenti quando si prendono certe iniziative di tutela della “tradizione”: io sento puzza di razzismo», commenta con Oggi Graziano Cioni, l’assessore-sceriffo di Firenze famoso perché vietò i lavavetri ai semafori. Cioni è di sinistra, il sindaco di Lucca di destra: la polemica è facile. «Ma dov’era la sinistra quando il regolamento è stato approvato prima in commissione e poi in consiglio comunale?», chiede il sindaco Favilla. «Allora non ci accusarono di razzismo, e non hanno neppure votato contro: si sono astenuti».
Gli elettori di centrodestra difendono il nuovo regolamento: «Ci voleva, i fast food non possono moltiplicarsi indiscriminatamente. Di fronte a quei kebab la sera c’è disordine, sporcano per terra, lasciano cartacce, disturbano con schiamazzi», dice la signora Simonetta V., dipendente comunale.
«Il sindaco è vecchio, vorrebbe che mangiassimo tutti farro», ribatte Alessandro Fantozzi, 22 anni, lucchese che studia Scienze politiche a Pisa. Aggiunge il suo amico Alessandro Solinas, 23, studente a Bologna: «Dove si può pranzare con tre euro a Lucca?»
La statua seduta di Giacomo Puccini, il lucchese più famoso, osserva muta sotto la sua casa natale. Lucca ne ha appena festeggiato il 150° della nascita, e per attirare turisti d’estate organizza anche concerti rock in piazza Napoleone (Leonard Cohen lo scorso luglio). Però qui il turismo resta d’élite, i miliardari inglesi hanno comprato le ville della Lucchesia.
«Anche a Pistoia hanno proibito i ristoranti “di culture diverse da quella locale”», insiste il sindaco. Ma solo in una piccola zona, quella della piazza della Sala. Invece lo stupendo centro storico di Lucca è enorme, due chilometri: come quello di Milano. Troppo, per andare a farsi un kebab fuori dalle mura.
Mauro Suttora
Wednesday, January 28, 2009
parla Ari Folman
VALZER CON HAMAS
«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar
Oggi, 28 gennaio 2008
di Mauro Suttora
«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»
Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.
Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.
«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.
«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»
Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?
«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»
Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?
«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».
Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.
«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».
Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?
«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»
Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?
«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».
Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.
«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».
Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?
«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».
Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.
«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».
Mauro Suttora
«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar
Oggi, 28 gennaio 2008
di Mauro Suttora
«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»
Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.
Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.
«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.
«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»
Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?
«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»
Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?
«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».
Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.
«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».
Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?
«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»
Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?
«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».
Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.
«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».
Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?
«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».
Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.
«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».
Mauro Suttora
L'Uomo nero di Rignano Flaminio
DI SICURO C'E' SOLO CHE NON E' LUI
Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato
di Mauro Suttora
Oggi, 28 gennaio 2008
No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.
Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
.
Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.
Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.
Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».
Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.
«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.
«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».
Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.
Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.
I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.
«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».
La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?
«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».
Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?
«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».
Mauro Suttora
Intervista esclusiva al cingalese Kelum Weramuni, scagionato
di Mauro Suttora
Oggi, 28 gennaio 2008
No, non è lui l’Uomo Nero. Kelum Weramuni de Silva non è un pedofilo, non ha violentato i bambini di Rignano Flaminio (Roma), non ha mai conosciuto gli alunni e le maestre dell’asilo del paese. Una settimana fa è arrivato il decreto ufficiale d’archiviazione dalla procura di Tivoli.
Ma Kelum, 30 anni, due mesi fa è tornato nella sua patria, lo Sri Lanka: «Era da quattro anni che non vedevo la mia fidanzata Ishara, i miei genitori, la mia famiglia. In Italia non potevo più lavorare, non mi prendeva nessuno dopo quella storia. Ero tornato clandestino, avevo un decreto d’espulsione, dormivo da amici, loro mi aiutavano anche per mangiare. Ma non ce la facevo più. Sono tornato a casa. Però qui non c’è lavoro. Quindi spero di poter tornare presto in Italia»
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Ha ancora voglia di stare nel nostro Paese, Kelum, nonostante l’incubo che gli è piombato addosso e che è durato più di un anno e mezzo. Il 24 aprile 2007 era stato arrestato assieme a tre maestre della scuola materna «Olga Rovere», una bidella e il marito di una di loro. Una gragnuola di accuse infamanti: violenza sessuale aggravata dalla minore età delle vittime, sequestro di persona, atti osceni, maltrattamenti, sottrazione di persona, corruzione di minori, atti contrari alla pubblica decenza.
Diciassette giorni di carcere a Rebibbia, poi l’interrogatorio e la scarcerazione. Ma l’inchiesta si è conclusa solo adesso, con tre archiviazioni (lui, la bidella, una maestra che non era finita in prigione) e quattro «avvisi di conclusione dell’indagine», con una possibile richiesta di rinvio a giudizio.
Kelum faceva il benzinaio nel paese di ottomila abitanti, 40 chilometri a nord di Roma. «Lavoravo lì dal settembre 2005», ci racconta, «ma non ho mai conosciuto nessuno di quella scuola. Anzi, non sapevo neppure dove fosse. Quando sono arrivato in commissariato mi hanno detto di cosa ero accusato, ma non capivo».
Venti bambini fra i quattro e i sei anni avevano raccontato ai genitori di essere stati portati più volte in una casa fuori dall’asilo, alla periferia del paese. Lì gli adulti li avrebbero sottoposti a giochi erotici di ogni tipo, con maschere, carezze, toccamenti e penetrazioni con piccoli oggetti. La cosa sarebbe andata avanti da anni: le prime denunce dei genitori sono del 2006.
«Gli avvocati mi hanno spiegato che due bambini su venti mi avrebbero “riconosciuto”. Una bimba, mentre era in auto con i suoi che si erano fermati a far benzina, disse che io ero Maurizio, facevo i giochi della scuola con loro, mi mascheravo da scoiattolo. E un altro era scoppiato a piangere dopo che io gli feci una smorfia per scherzo. Diceva che io ero Giovanni, l’Uomo nero con il codino che li aspettava in auto e li portava a casa di una maestra».
Due bambini su venti. Ma le loro testimonianze sono bastate per incastrare Kelum, unico uomo dalla pelle nera nei dintorni.
«Nell’interrogatorio spiegai al giudice che non ho la patente e non ho mai guidato. Lavoravo dalle sette del mattino alle otto di sera, ero sempre lì alla pompa, tutti mi vedevano. Nella pausa di chiusura, dall’una alle tre, andavo a pranzo lì vicino, a casa di altri cingalesi. Potevano testimoniare tutti, anche il mio padrone».
Gli avvocati Ettore Iacobone e Domenico Naccari assistevano Kelum da tempo: il permesso di soggiorno gli era scaduto, aveva ricevuto un decreto di espulsione, ma il suo datore di lavoro aveva fatto domanda di regolarizzazione. Aspettava la sanatoria. Invece, è finito in prigione.
Il caso ha fatto un enorme clamore non solo per le accuse di pedofilia collettiva da parte di maestre in un asilo, ma anche perché il paese di Rignano si è spaccato in due, fra colpevolisti (le famiglie dei bambini) e innocentisti (parenti e amici degli accusati). Ci fu perfino una dimostrazione di questi ultimi sotto Rebibbia per chiedere la scarcerazione.
I presunti «orchi» di solito non vengono trattati bene dagli altri carcerati.
«Ma io non ho avuto problemi in quei diciassette giorni, tutti mi credevano», dice Kelum. che è buddista e ha un carattere assai mite. Anche adesso, al telefono da Ceylon, più che la rabbia sembrano trasparire sorpresa e rassegnazione.
«Non sono mai riuscito a capire perché quei due bambini mi hanno accusato. I carabinieri sono anche venuti a sequestrare un computer nella casa dove dormivo, non so cosa cercavano, ma non hanno trovato niente. Io sono sempre stato tranquillo, perché non avevo nulla da nascondere».
La sua famiglia in Sri Lanka ha saputo qualcosa?
«Certo, i miei amici hanno telefonato qui a casa raccontando quello che era successo. Ma la mia fidanzata mi conosce da quando avevamo quindici anni, nessuno ha creduto a niente. Anche perché di solito sono gli occidentali che vengono qui in Sri Lanka per fare certe cose con i bambini».
Ma davvero vuoi tornare in Italia dopo questa disavventura?
«Prima di emigrare in Europa lavoravo in un albergo qui vicino a Colombo. Ma adesso c’è crisi nel turismo, non c’è lavoro. Ero emigrato in Germania, però dopo un mese ho preferito l’Italia. Quando mi hanno liberato dal carcere mi hanno subito portato in un Cpt, un Centro di permanenza temporaneo, per espellermi. Ma i miei avvocati hanno fatto ricorso, e sono rimasto. Ho lavorato da un dentista a Morlupo, poi però non mi ha preso più nessuno. Con quelle accuse, quale famiglia ti vuole come domestico? Eppure mi sembrava che il giudice mi avesse creduto, infatti non mi ha dato neppure il divieto d’espatrio. Ora voglio solo tornare».
Mauro Suttora
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