Wednesday, May 10, 2006
Inchiesta: risparmio di energia
DOSSIER Tra mega bollette e caro benzina: cosa ci riserva il futuro
Le risorse sono agli sgoccioli: sole e vento ci aiuteranno a superare la crisi energetica ? La natura non basta, assicurano gli esperti. Bisogna abolire gli sprechi e costruire case "intelligenti". Il problema è mondiale, ma l' Italia rischia molto di più. Perché dipendiamo quasi completamente dall' estero per riscaldarci, muoverci e produrre. E per cambiare c' è un solo modo: risparmiare
di Mauro Suttora
Oggi, 10 maggio 2006
Ce ne accorgiamo ogni mese, quando arrivano le bollette: gas, benzina ed elettricità aumentano ormai del dieci per cento all' anno. Questa primavera fredda è stata una batosta non solo per fiori e alberi, ma anche per le nostre tasche. E poi la benzina che rimane a prezzi stratosferici, i russi che tagliano il gas, i blackout estivi... Cosa sta succedendo ? Rischiamo di rimanere senza riscaldamento ed elettricità, o di pagarli una fortuna ? Perché l' energia di cui abbiamo bisogno è diventata così cara ? E che possiamo fare per spendere meno ?
Per capirlo, abbiamo interpellato esperti dei tre grandi rami in cui vanno a finire tutto il petrolio e il gas che utilizziamo: riscaldamento, trasporti, elettricità. Ognuno di questi settori utilizza un terzo dell' energia complessiva, che per l' 85 per cento dobbiamo importare dall' estero, pagando più di trenta miliardi di euro l' anno. L' Italia, infatti, produce soltanto un quinto dell' elettricità che consuma, un sesto del gas e un ventesimo del petrolio: "Siamo totalmente dipendenti, e per di più da Paesi instabili e a rischio politico come Algeria e Russia per il gas, e Libia e Iran per il petrolio", spiega Riki Sospisio della società Etf Ga.
Consumare meno.
Siamo vulnerabili, quindi. Come ridurre i rischi ? "Innanzitutto consumando di meno", risponde Maria Grazia Midulla del Wwf. Il che non vuol dire diminuire il nostro tenore di vita, ma ridurre gli sprechi e usare le varie fonti in modo più intelligente. Per quanto riguarda il riscaldamento tutte le abitazioni dovrebbero essere isolate e coibentate. Sia quelle di nuova costruzione, sia quelle vecchie, ogni volta che vengono ristrutturate. Questo significa installare doppi vetri per non disperdere il calore, utilizzare materiali di qualità, coprire i tetti con pannelli solari per garantirci l' acqua calda. È da trent' anni che se ne parla, ma in concreto è stato fatto pochissimo. Tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, per esempio, dalla Spagna a Cipro, dalla Grecia a Israele, oggi al posto delle tegole hanno i pannelli per il "solare termico", con grandi risparmi nelle bollette.
"In Italia invece mancano gli incentivi fiscali per le famiglie", spiega Midulla, "che sono l' unico modo per ottenere risultati. Le nostre città hanno cambiato volto negli ultimi anni grazie alle detrazioni per le ristrutturazioni delle facciate delle case. Lo stesso potrebbe avvenire per i consumi energetici".
Riscaldarsi.
Nel 1971 il 70 per cento del riscaldamento era a gasolio, oggi appena il 20 per cento. La sostituzione col gas è stata un' ottima cosa per la qualità dell' aria, ma dal punto di vista del costo e della dipendenza dall' estero non è cambiato nulla. Il costo del metano infatti è agganciato automaticamente a quello del dollaro, e dobbiamo importarne l' 83 per cento (vedi la tabella qui sotto). "Occorre una certificazione edilizia energetica per tutte le nuove costruzioni e le ristrutturazioni", avverte Matteo Leonardi del Wwf. Altrimenti succede come per le soffitte e mansarde trasformate (spesso abusivamente) in abitazioni negli ultimi anni: tirate su alla svelta con materiale edilizio di seconda qualità, annullano ogni risparmio di costruzione con i costi di riscaldamento invernale e aria condizionata estiva.
Il boom dei condizionatori dopo il gran caldo del 2003 è un altro spreco: usare elettricità, cioè energia pregiata, per riscaldarsi e rinfrescarsi, è costoso e inefficiente. Meglio le classiche stufe, o le pale al soffitto per la ventilazione. Ma alcune regioni, come Lombardia e Trentino, ora proibiscono l' uso di legna per le stufe. Con scopi apparentemente ecologici (diminuire le emissioni di anidride carbonica che causano l' effetto serra), i quali cozzano però contro i costi, visto che la legna da ardere spesso viene raccolta gratis, e anche contro l' interesse nazionale di non dipendere dall' estero: "Mi vietano di usare la mia stufa ad alta efficienza con legna raccolta qua intorno, e mi costringono invece a pagare un occhio della testa il gas russo o algerino", protesta Alessandro Ghezzer da Trento.
Muoversi.
I trasporti ingoiano un terzo dell' energia che consumiamo, e un terzo di secolo dopo il primo choc petrolifero della guerra del Kippur (ricordate l' austerity del ' 73 ?) nonostante tutti i bei discorsi ecologici il 98 per cento dei nostri veicoli va ancora a benzina o a gasolio. Dai pozzi italiani (soprattutto in Basilicata) riusciamo a estrarre solo il 5 per cento dell' oro nero che consumiamo. Continuiamo quindi a regalare decine di miliardi a personaggi come gli sceicchi, Gheddafi, gli ayatollah e i russi (vedere la tabella).
Purtroppo le alternative sono in teoria molte (auto a gas, ibride, a etanolo), ma in pratica si tratta di vetture ancora poco convenienti per prezzo, peso o difficoltà di approvvigionamento. La rete dei rifornitori di gas infatti non è estesa come quella dei benzinai. Il sogno delle auto ad acqua (idrogeno) resta per ora confinato nei laboratori. L' etanolo è sviluppato solo in Brasile. Le auto elettriche sono appesantite da batterie enormi e di scarsa autonomia. E comunque anche l' elettricità proviene in gran parte da gas e petrolio.
"Per risparmiare non resta che usare di più i trasporti pubblici", predicano gli ecologisti, e in effetti il cosiddetto "costo energetico" di treni, tram e bus, cioè l' energia necessaria per trasportare una persona, è nettamente inferiore a quello delle auto. All' interno del trasporto pubblico, poi, sono preferibili i mezzi su rotaia. Per questo molte città adottano la "cura del ferro", ripristinando tram e scavando metropolitane. E per fluidificare il traffico, evitando i motori accesi di macchine quasi ferme, sono importanti piccoli accorgimenti come i "semafori intelligenti", con la luce verde sincronizzata sulle grandi arterie.
Elettricità.
L' 80 per cento delle nuove centrali in Italia funzionerà a gas. "Bene", applaudono gli ecologisti, nemici di petrolio, carbone e nucleare. "Assurdo", ribatte Suspisio, "sciupare energia pregiata come il gas per produrre elettricità equivale a riscaldarsi bruciando banconote. Meglio il carbone, che oggi si può liquefare e gassificare, con nuove tecniche per evitare l' inquinamento. E che, soprattutto, proviene da Paesi senza rischi come Canada, Australia, Germania".
Quanto al nucleare, stiamo importando parecchia elettricità dalla Francia, che la ricava dalle sue numerose centrali atomiche. Noi abbiamo rinunciato a questa energia vent' anni fa, con il referendum dopo il disastro di Chernobyl. Da allora però non ci sono stati più incidenti. Oggi perfino il Vaticano si dichiara favorevole al nucleare e alla proposta dell' ingegnere Giuseppe Rotunno di utilizzare l' uranio delle testate atomiche per scopi civili, destinando il ricavato al Terzo Mondo. Tuttavia per costruire nuove centrali atomiche ci vogliono una dozzina d' anni, e neanche gli Stati Uniti hanno finora risolto il problema delle scorie, che rimangono radioattive per migliaia di anni.
Acqua, vento, sole.
Sono le uniche energie "rinnovabili", perché non si esauriscono mai, e "dolci", perché non inquinanti e gratuite. Ma l' idroelettrico può aumentare di poco la sua capacità in Italia: è difficile progettare altre dighe sui fiumi, e i valligiani protestano se si alterano troppo gli equilibri ecologici. Perfino il vento ha i suoi oppositori fra gli ambientalisti (come l' ex ministro Carlo Ripa di Meana, oggi presidente di Italia Nostra), perché deturpano il paesaggio e costerebbero troppo. Ma i Paesi più avanzati, come Germania e Danimarca, stanno costruendo molti mulini a vento con turbine che già coprono il 20 per cento del consumo energetico. In Navarra (Spagna) addirittura la metà dell' elettricità viene prodotta così. L' Italia li ha installati sull' Appennino: il paese di Varese Ligure (La Spezia) soddisfa tutti i propri consumi col vento, e fra Puglia, Campania e Basilicata ne sono sorti a decine sui crinali della Daunia. Per evitare "inquinamenti visivi" i generatori eolici si possono comunque installare in mare, vicini alle coste più ventose. Il sole, infine: risulta ancora relativamente poco efficiente produrre elettricità con celle fotovoltaiche, mentre il "solare termico" è già conveniente dal punto di vista economico.
Consigli pratici per pagare meno.
In casa, stare sotto i 20 gradi e spegnere la luce. Fuori, non accelerare. Come spendere meno ? Come ridurre le bollette e i conti dal benzinaio ? Ecco alcuni consigli pratici.
l Riscaldamento. Se siete "termoautonomi", non superate mai i 20 gradi (lo impone anche la legge). Un maglione e una coperta in più fanno pure bene alla salute. Se invece avete il riscaldamento centralizzato di un condominio, date battaglia nelle riunioni: ci sarà sempre un inquilino che si lamenterà per il freddo. Siate crudeli: minacciatelo di spedire i vigili a ispezionargli l' appartamento.
l Aria condizionata. Sì, le ultime estati sono state calde, e abbiamo acquistato tanti condizionatori. Ma non diventiamo fanatici: si sopravvive anche a 30 gradi, senza pretenderne 25. Non tutte le stanze hanno bisogno di essere raffreddate: in alcune può bastare una bella corrente d' aria o le pale sul soffitto. Chiudete le porte fra i locali "condizionati" e gli altri. E le finestre.
l Elettricità. Spegnete le luci quando uscite da ogni stanza. Sembra stupido, ma si risparmia parecchio. Controllate la potenza delle lampadine, che è indicata in watt. Comprate quelle ad alto rendimento: costano di più, ma alla lunga convengono. Date un' occhiata agli elettrodomestici. Alcuni consumano molto, altri sorprendentemente poco, ed è quindi inutile preoccuparsi di spegnerli (Tv, computer). Togliete lo scaldabagno elettrico e sostituitelo con un bruciatore a gas. O, meglio, con pannelli solari.
l Auto. Esistono addirittura gare di guida "risparmiosa": evitando accelerazioni e frenate brusche si riduce il consumo di carburante fino al 30 per cento. Informatevi sempre dei chilometri che un' auto percorre con un litro prima di acquistarla. Preferite i modelli a bassa cilindrata. l Siate drastici. Non serve l' auto per accompagnare sempre i figli se la scuola è vicina. Usate di più i mezzi pubblici. E andate a piedi: oltre a risparmiare sulla benzina, non pagherete le palestre.
Tutti i trucchi del fai da te.
Il sogno: non dipendere più da sceicchi, ayatollah e Gheddafi... Non volete più regalare soldi a Putin per il suo gas o agli arabi per il petrolio ? Oltre a consumare meno, ecco qualche consiglio su come rendersi più autonomi.
l Condominio. Se abitiamo in condominio è difficile adottare decisioni individuali. Ma quando il palazzo deve rinnovare la facciata, il tetto o le finestre, pretendete dall' amministratore che vengano utilizzati materiali e infissi coibentanti: che garantiscano, cioè, più isolamento contro il freddo d' inverno, e contro il caldo d' estate.
l Casa di proprietà. Informatevi sulle possibili migliorie termiche: ormai esistono esperti che garantiscono risparmi anche del 20/30 per cento sui costi del riscaldamento. Di rigore i pannelli solari per l' acqua calda sul tetto, soprattutto sul lato sud. Non preoccupatevi se vivete in Italia settentrionale e se le giornate grigie sono molte: docce e termosifoni caldi sono sempre garantiti, grazie a un' integrazione col bruciatore del gas che scatta quando non si ottiene col sole la temperatura minima. Ma il risparmio c' è sempre.
l Riscaldamento a legna. Se non si ha la fortuna di avere un bosco privato o di vivere vicino a una foresta pubblica, bisogna pagar cara anche la legna da ardere. Ma una buona provvista può durare tutto l' inverno, sempre che la cappa tiri bene (consultate lo spazzacamino) o che la stufa abbia un buon rendimento. Occhio alle esalazioni di ossido di carbonio, però.
l Alberi. Piantatene il più possibile attorno a casa. La loro ombra è il miglior rinfrescante contro le arsure estive. E se avete una fontana in disuso, riattatela: un velo d' acqua scrosciante garantisce vari gradi in meno.
Le citta' piu' efficienti.
Bolzano e Roma offrono incentivi, Milano ha ottimi trasporti pubblici. Quali sono le città più efficienti in termini di energia ? E quali invece le più sprecone ? Ogni anno Legambiente e Sole 24Ore stilano una classifica dei capoluoghi più ecologici. Ecco i migliori e peggiori.
Risparmio. Bolzano offre incentivi per la coibentazione delle case, il risparmio e l' installazione di pannelli solari. Anche Roma fa qualcosa. Alessandria può vantare il primo villaggio "solare". Fra le grandi città sono invece a zero Milano, Genova, Bari e Trieste.
Trasporti. Quelli pubblici migliori sono a Milano, i peggiori a Napoli. Fra le grandi città, bene Trieste e Catania, male Bari e Verona. Fra le medie primeggiano Trento e La Spezia, ultima Pesaro. Fra le piccole, bene Aosta e Chieti, male Verona e Massa. Udine detiene il record per i mezzi a metano (55) ed elettrici (5) su un totale di 77 bus. Quanto all' utilizzo effettivo dei mezzi pubblici, bene Roma, Bologna, Ancona, Siena e Cosenza. Male Torino, Napoli, Messina, Siracusa, Latina, Vercelli e Sondrio.
Elettricità. Al Sud i consumi sono la metà del Nord: 837 kwh annui per abitante ad Avellino, contro i 1.523 di Aosta. Sassari, curiosamente, è a 1.470. Ma la richiesta di elettricità aumenta del 2 3 per cento annuo (del 7 per cento nel 2004 a Catanzaro, Trapani e Crotone).
Carburanti. Enna è la provincia col minor consumo a testa, 236 litri annui, mentre la vicina Ragusa è la più prodiga con 681, superando Grosseto. Ogni 100 italiani, 63 hanno l' auto: record europeo. In testa Biella e Viterbo con 72, in coda Genova e La Spezia (50) e Foggia (52).
Da dove viene e dove finisce la nostra energia
Il pianeta spaccato in due dalla fame di energia in questa immagine emblematica c' è la sintesi dei problemi che attanagliano il pianeta. alla lista dei paesi industrializzati si aggiungono india e cina che consumano quantità esorbitanti di energia facendo lievitare i prezzi. energia più pulita e atomi sicuri per andare avanti eliche giganti a costo zero l' energia prodotta dal vento è conveniente. sulle nostre montagne questo spettacolo sarà sempre più frequente. una cascata di luce l' idroelettrico soddisfa una parte importante del bisogno energetico, ma bisogna anche salvare l' equilibrio delle valli. ritorno al nucleare passati 20 anni (e senza incidenti) da chernobyl, molti suggeriscono di tornare all' energia atomica. petrolio: un mare di guai il greggio è la principale fonte di energia. il guaio è che molti dei paesi produttori sono instabili politicamente.
quando i rifiuti domestici possono valere oro
brescia è la numero uno
Brescia. nel "termoutilizzatore" (foto sotto), la città lombarda brucia la spazzatura rispettando le norme antinquinamento. e riutilizza l' energia prodotta per il riscaldamento e l' elettricità. così un acino d' uva accende una lampadina a faenza si produce energia dalle bucce della frutta faenza (ravenna). sopra, scarti delle lavorazioni (vinacce, bucce d' uva e noccioli di frutta) e residui delle potature consentono a questa azienda agricola, la maggiore produttrice di vino in italia, un' autonomia energetica del 90 per cento. l' elettricità che avanza viene pure rivenduta.
ecco da dove viene la nostra energia...
petrolio e gas la fanno ancora da padroni fra le nostre fonti di approvvigionamento: un terzo di secolo dopo l' austerity per la guerra del kippur, siamo tuttora dipendenti dall' oro nero. le fonti pulite (sole e vento) rappresentano una quota minima.
...e dove finisce:
regnano petrolio e gas riscaldamento, trasporti ed elettricità si dividono equamente l' uso finale dell' energia in italia. negli ultimi anni c' è stato un grosso aumento nell' uso del gas per il riscaldamento e nelle centrali elettriche. importiamo energia nucleare dalla francia.
trivelle per il petrolio nelle vigne piemontesi
dilemma a vercelli gattinara (vercelli). c' è un giacimento petrolifero sotto le preziose vigne dell' omonimo vino. così sono iniziate le trivellazioni, rese convenienti dal petrolio a 72 dollari al barile. sopra: la raffineria di trecate (novara).
Ad Alessandria è nato il primo quartiere dove funziona tutto grazie al sole
Il villaggio fotovoltaico del quartiere Cristo di Alessandria produce da sei mesi con pannelli solari 170 kw di energia elettrica, utilizzata nei 192 appartamenti di otto palazzine. ogni famiglia risparmia così dai 500 agli 800 euro all' anno. Queste case popolari, autonome al 60 per cento, hanno un doppio contatore che registra la produzione di energia propria e quella erogata dall' Enel. il complesso occupa 75 mila metri quadri. gli affitti variano da 30 a 150 euro al mese a seconda del reddito.
Mauro Suttora
Giorgio Napolitano
La disciplina e l’imperturbabilità, innanzitutto. «Nel 1962 il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti comunicò al Comitato centrale i nomi dei prescelti per entrare in direzione», ricorda Abdon Alinovi, 83 anni, già deputato e segretario della federazione comunista di Napoli. «Io ero seduto vicino a Giorgio Napolitano, e quando Togliatti fece il mio nome e non il suo mi dispiacque. Emozionato e contrariato, glielo dissi. Ma lui, tranquillo come sempre, mi rispose: “No, è giusto così”».
Aveva 37 anni allora, il nuovo capo dello Stato. Era già deputato da una decina d’anni, ma per un dirigente comunista il massimo del prestigio era far parte della direzione del partito. Poco dopo Togliatti morì e del nuovo segretario Luigi Longo, Napolitano divenne in pratica il vice. Fu proprio lui nell’agosto ’68, in una Roma deserta per le vacanze, a preparare il comunicato con cui il Pci per la prima volta osò muovere qualche timida critica all’Unione Sovietica, dopo l’invasione della Cecoslovacchia.
«Siamo rimasti in pochi di quella giovane schiera che fu ai vertici del Pci», aggiunge Alfredo Reichlin, coetaneo di Napolitano ed eletto come lui alla Camera nel ’53. Oggi presiede il Cespe (il Centro studi di politica economica dei Ds) ed è vice di Massimo D’Alema alla guida della Fondazione Italianieuropei. Ma alla fine della Seconda guerra mondiale era uno di quei ventenni borghesi di ottima famiglia come Napolitano e Berlinguer che Togliatti valorizzò, preparandoli a dirigere un partito dei proletari ancora stalinista: «Quei giovani, il meglio dell’Italia di allora, abbandonarono libri, studi, carriere e professioni per mobilitarsi in nome di un profondo bisogno di riscatto, dopo che la patria italiana era stata fatta a pezzi dal fascismo e dalla guerra».
Ad affascinare il giovane Napolitano, in contraddizione con le sue origini di classe, fu Giorgio Amendola, considerato il successore di Togliatti. Poi non andò così e, anzi, gli amendoliani venivano criticati da Pietro Ingrao e dai suoi seguaci (fra i quali Reichlin) perchè considerati troppo di destra. Ma in quel partito, come nell’esercito, gli ordini non potevano essere discussi. Massimo Caprara, ex segretario di Togliatti, nel ’69 consegnò proprio a Napolitano, suo coetaneo, concittadino, amico e migliore compagno da un quarto di secolo, la sua sofferta lettera di dimissioni: «Lui la lesse e se ne andò indifferente, senza una parola o un gesto». La politica può essere crudele. Ma dà anche soddisfazioni: come quella che gli Stati Uniti regalarono a Napolitano nel ’78, quando per la prima volta invitarono un comunista italiano a Washington.
Mauro Suttora
Friday, April 21, 2006
Condi Rice musicista
Grazia, 21 aprile 2006
Sarà anche la dura teorica della guerra unilaterale, degli Stati Uniti che attaccano da soli, ma quando si dà alla musica Condoleezza Rice si trasforma, si addolcisce, e riesce a suonare soltanto se accompagnata. Da tre anni la segretaria di Stato americana si rilassa eseguendo musica da camera al pianoforte assieme a un quartetto d’archi composto da amici avvocati e professori di diritto: “Non mi diverto più a suonare da sola”, ha confidato al New York Times.
Si riuniscono nei week-end, ogni volta che possono, quando la donna più potente della Terra (terza nella gerarchia di Washington dopo il presidente George Bush e il vice Dick Cheney) non si trova in giro per il mondo. La prima domenica di aprile, per esempio, l’abituale appuntamento è saltato: lei era a Bagdad assieme al collega ministro degli Esteri britannico Jack Straw per sollecitare i governanti iracheni a mettersi d’accordo su un premier, quattro mesi dopo le elezioni. E anche il prossimo fine settimana Condi sarà in missione. Nel solo 2005 ha visitato 49 Paesi con 19 viaggi, percorrendo una distanza superiore a quella fra la Terra e la Luna.
Ma quando resta a casa, nel proprio spazioso appartamento del palazzo Watergate, la Rice non dimentica mai di convocare quelli che ormai “sono diventati i miei migliori amici, fanno quasi parte della famiglia”: due violinisti, un suonatore di viola e un violoncellista. Eseguono brani complicati anche per dilettanti di lusso come loro: Shostakovich, Schumann, Brahms. “Il mio sogno è di imparare un giorno il secondo concerto per piano di quest’ultimo, lo considero la miglior musica mai scritta, appassionata ma non sentimentale”, confida Condi, alla quale la nonna materna insegnò a leggere le note quando aveva quattro anni.
La Rice si ricorda il momento in cui le esplose dentro questa passione: “Fu quando mia madre portò a casa un disco con la Marcia trionfale dell’Aida di Verdi”. In febbraio è corsa al teatro dell’Opera della capitale per assistere alla Turandot di Puccini, messa in scena dal teatro Kirov di San Pietroburgo. Ma non disdegna di salire sul palco anche lei, in occasioni speciali. Lo fece la prima volta a Washington nel 2002, quando accompagnò al piano il celebre violoncellista Yo-Yo Ma durante una premiazione. Fino al college era questo che voleva fare: musicista professionista. “Poi però mi accorsi che per avere successo in questo campo l’impegno non basta: bisogna essere geniali”. E figurarsi se Condi, bambina-prodigio entrata all’università a soli 15 anni, avrebbe rinunciato a primeggiare. Così cambiò subito curriculum di studi, dalla musica alla sovietologia. Da lì l’impegno sulla politica estera che l’ha portata alla guida dell’unica superpotenza mondiale.
Ma l’amore per la musica, e per le armonie che si intersecano con perfezione matematica, le è rimasto. Anche perchè la Rice non ha famiglia, non le si conoscono avventure sentimentali, a 51 anni è rimasta un’elegante zitellona, quindi di tempo libero ogni tanto se ne trova fra le mani. Lo impiega con rigore, svegliandosi presto al mattino per far ginnastica, pesi, tapis roulant. La sua forma è perfetta, le gambe affusolate, il povero Ariel Sharon prima di entrare in coma ne andava pazzo: “Se le guardo perdo il filo del discorso”, confessò pubblicamente.
Quando non risponde accigliata alle domande difficili dei reporters e alle obiezioni di avversari e alleati, o non digrigna i denti minacciando l’Iran (pochi giorni fa ha ribadito di “non escludere l’opzione militare” contro Teheran), Condi coltiva la sua femminilità civettuola. Lo stesso giorno dell’uragano Katrina sfortuna volle che lei si trovasse sulla Quinta avenue di Manhattan a far incetta di borse nella maxiboutique di Ferragamo: “Cosa ci fa qui mentre a New Orleans annegano?”, le urlò una passante. Poveraccia, che c’entrava? Le sue responsabilità riguardano l’estero, non certo la protezione civile interna.
Mai un capello in disordine, mai una piega sul tailleur, la Rice vuole tenere tutto sempre sotto controllo. Nel suo ufficio privato ha fatto installare due specchi: uno per vedersi davanti, l'altro per controllarsi in ogni momento anche dal didietro. Perfetta e perfezionista, impiega ore a scegliere un vestito nello showroom privato newyorkese del suo stilista preferito, Oscar De La Renta. Adora lo shopping: “Alla domenica mattina, dopo aver guardato ‘Meet the Press’ (il talk show politico più importante d’America, ndr), mi piace girare in incognito dentro a qualche centro commerciale attorno a Washington”, ha rivelato.
Quale futuro politico ci sarà per Condi Rice? Qualcuno sogna un duello presidenziale tutto femminile tra due anni: lei per i repubblicani contro la democratica Hillary Clinton. Ma Condi continua a smentire ogni velleità di farsi eleggere, anche perchè non lo ha mai fatto: è sempre stata nominata a tutte le cariche che ha ricoperto. È perciò priva di una base politica. Difficile anche che continui a guidare la politica estera sotto un altro presidente, seppure del suo partito. Più probabile che Rudy Giuliani o John McCain se la scelgano come vice. Oppure che lei riesca a coronare un altro sogno: quello di diventare presidente della Nfl (National football league). Perchè Condi vanta grande dimestichezza anche con la palla ovale. Solo come tifosa, però: le sue domeniche pomeriggio appartengono a Brahms.
Thursday, April 20, 2006
Il presidente cinese visita gli Usa
Il Foglio, 20 aprile 2006 pag III
Ping, pong. Sono passati 35 anni dall’inizio della diplomazia omonima, con cui Henry Kissinger e Richard Nixon aprirono alla Cina. Ma oggi il presidente George Bush si trova nello stesso dilemma in cui si trovavano loro allora, e nel quale si dibattè anche suo padre quando per un anno, nel 1975, Gerald Ford lo inviò ambasciatore a Pechino. Sfidare o contenere? Arrabbiarsi o ammonire? Il presidente cinese Hu Juntao arriva in queste ore a Washington: dopo aver incontrato a Seattle l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, parla con quello più potente. L’unico ‘sgarbo’ che questa volta gli Stati Uniti si permettono di fare a quello che resta un dittatore, è che non è prevista alcuna cena ufficiale. Quindi, non è una visita di Stato. Per il resto, Hu ha ottenuto tutto quello che dopo la strage di Tien an men dell’89 i suoi predecessori non erano riusciti a strappare. Comprese le 21 salve di cannone sul prato della Casa Bianca.
Ping, pong. Fra alti e bassi di rapporti politici, quelli economici diventano ogni giorno più stretti. Ormai l’oceano Pacifico settentrionale è diventato un corridoio dove transitano, in viavai continuo, le navi container che trasportano merci made in China nella West Coast. I porti californiani sono così sovraccarichi che i mercantili, per evitare ritardi nello scarico, trovano conveniente passare il canale di Panama approdando in scali meno affollati, fino a New York. E’ il più grosso switch industriale della storia: la Cina che cresce del dieci per cento annuo mentre gli Stati Uniti rinunciano all’attività manifatturiera.
In questo quadro, continuare a insistere di liberalizzazione risulta superfluo. Bush richiama a Washington il suo fidato rappresentante per il commercio estero Rob Portman, nominato appena un anno fa, e lo promuove direttore del budget (ministro del Bilancio). Portman è stato lo sparring partner di Dick Cheney per i dibattiti vicepresidenziali 2000 e 2004. Pazienza se i negoziati di Doha, senza di lui, languiranno senza prospettiva: “Portman dovrà assicurare che il governo spenda saggiamente il denaro dei contribuenti, e che il deficit si dimezzi entro il 2009”, dichiara Bush.
Concentriamoci sul deficit interno, ragiona l’amministrazione, visto che su quello commerciale c’è poco da fare: la bilancia import/export continuerà a premiare per centinaia di miliardi di dollari annui Cina ed estremo Oriente, almeno finchè i salari degli operai cinesi saranno un centesimo di quelli statunitensi. L’unico interrogativo è: quando si verificherà il sorpasso? In che anno la Cina diventerà la prima potenza economica mondiale? Per la verità qualcuno non ci crede. Desmond Lachman dell’Aei (American Enterprise Institute) sostiene: “Sono paure esagerate. La crescita cinese non deriva da innovazione e aumenti di produttività, ma dal solo export, in cui viene investito metà del suo pil. Il giochetto per ora funziona grazie al trasferimento della massa lavoro contadina sottopagata nella produzione industriale. Ma finchè la Cina non adotterà riforme di libero mercato, non raggiungerà mai la produttività americana”.
Il presidente Hu spera di calmare i nervosismi Usa sul potere crescente della Cina, sulla sua moneta sottovalutata, sull’enorme fetta di debito americano in mano a Pechino, e soprattutto sulla fame di petrolio che lo ha portato a stringere accordi di fornitura diretta con i peggiori nemici degli Stati Uniti: gli ayatollah di Teheran e Hugo Chavez del Venezuela. Prima della sua visita la Cina ha mollato il contentino di un accordo per l’import di 16 miliardi di dollari in beni Usa. Per ricompensare Gates della collaborazione fornita da Microsoft sulla censura governativa di Internet, Hu si è impegnato a combattere la pirateria sui brevetti elettronici.
Queste concessioni ovviamente non placano i critici della Cina, i quali spostano le proprie critiche su Bush se questi si dimostra troppo conciliante. Frederick Kempe avverte sul Wall Street Journal che “la Cina sta guadagnando influenza mondiale assai velocemente, senza che i suoi governanti abbiano il senso di responsabilità necessario per esercitarla”. Governanti non eletti democraticamente, e quindi secondo la stessa dottrina Bush inaffidabili e forieri di conflitti. Nelle strade di New York si intensificano le proteste di Falun Gong perseguitata dal regime, gli organismi per i diritti umani (Freedom House, Human Rights Watch, Amnesty) non registrano la minima apertura. Che la liberalizzazione economica porti a quella politica è un miraggio smentito dalla storia degli ultimi trent’anni, dopo la morte di Mao (1976).
Per gli Usa è però cruciale ottenere l’appoggio della Cina per premere sull’Iran. Pechino e Mosca porranno il veto a risoluzioni Onu troppo severe contro Teheran, e la diplomazia Usa è al lavoro per allentare questo fronte comune. Ma Pechino aumenta le spese militari con la scusa di Taiwan (la Boeing non vede l’ora di vendergliele), e Hu Juntao si è fatto campione in Brasile di un modello sociale che ridurrebbe la povertà meglio del capitalismo statunitense.
Bush pronuncerà un solo nome nei suoi colloqui con Hu: Kim Chun Hee. E’ una dissidente nordcoreana che aveva chiesto asilo in Cina, ma è stata rispedita indietro. Non si hanno più sue notizie. Gli Usa continuano nella loro politica di perorare casi umani singoli. Ma la base elettorale conservatrice di Bush gli ricorda che in Cina manca ogni libertà elementare: di parola, stampa, riunione, associazione. Dilemma: che fare? Ping, pong.
Tuesday, April 18, 2006
Darfur: parla Barbara Contini
Centomila morti, due milioni di profughi: questo è il bilancio (provvisorio) della grave crisi umanitaria che si sta consumando in Darfur, nel Sudan. Una strage spaventosa, anche perché nascosta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. L’Italia però è in prima linea nell’affrontare la situazione, grazie all’impegno di Barbara Contini. L’energica 44enne milanese, famosa per essere stata governatrice civile di Nassiriya (Iraq) nel 2003/4, ha infatti trascorso gli ultimi sedici mesi nel Darfur a coordinare gli aiuti italiani.
Spesso gli inviati nelle zone di crisi preferiscono non allontanarsi dalle capitali: un po’ per ragioni di sicurezza, ma anche perché nel Terzo Mondo le condizioni di vita lontano dalle città sono proibitive. La nostra Barbara, invece, con spirito garibaldino ha subito scelto di «andare sul campo», e invece di restare a Khartum si è trasferita a Nyala, capoluogo meridionale del Darfur.
«Era l’unico modo per avere il polso della situazione», ci racconta, «fuori dai preconcetti e dalle burocrazie. Stare in contatto diretto con chi si aiuta serve per capire quali sono le possibili soluzioni al problema. Nel caso del Darfur, si tratta di un conflitto etnico: gli arabi, che comandano in Sudan, non vogliono cedere neppure in parte alla popolazione locale il controllo di questa immensa regione, grande il doppio della Francia. Islamica anch’essa, ma di pelle nera. Darfur, infatti, significa “terra degli africani”.
«Lì le distanze sono immense, basti pensare che il Sudan è grande quanto tutta l’Europa occidentale. Nyala sta a quattro ore d’aereo da Khartum. E attualmente ospita mezzo milione di sfollati: donne, bambini, vecchi scappati dai loro poveri villaggi rasi al suolo e bruciati dalle bande dei “janjaweed”, tribù di nomadi che fanno piazza pulita di tutto. Molte donne vengono stuprate e poi magari rapite, i maschi sgozzati per non farli entrare nei ranghi della guerriglia.
«Ma sarebbe sbagliato dare tutta la colpa dei massacri a queste tribù. Loro, infatti, vengono mandati avanti, ma il vero interesse sta nelle mani dei governanti locali interessati alle ricchezze del Darfur: petrolio, oro, ferro, rame. Il dissidio fra i nomadi arabi allevatori e gli stanziali neri agricoltori è sempre esistito. Un po’ come nell’America del vecchio West, è quasi naturale che chi migra attraverso tutto il Nordafrica con mandrie di migliaia di cammelli non vada d’accordo con chi recinta i propri campi impedendo il libero passaggio. Ma dal 2004 il conflitto si è acuito, e ha causato vere e proprie stragi».
Il film The Constant Gardener, tratto da un libro di John Le Carré, illustra bene i massacri: bande di guerrieri a cavallo o in dromedario si avventano su villaggi inermi e li distruggono in un battibaleno.
«Il governo italiano ha finanziato trenta progetti di aiuto con quattro milioni di euro», ci spiega la Contini, «ma per farli funzionare abbiamo prima dovuto garantire la sicurezza dell’area. Così ho agito come a Nassiriya: sono andata dai capitribù locali, mi sono fatta conoscere personalmente, ho chiarito che siamo neutrali, e una volta ottenuto l’impegno a non attaccare quell’area abbiamo scavato pozzi, riparato acquedotti e aperto ambulatori e scuole. Con la colletta di mezzo milione raccolta al Festival di Sanremo di Paolo Bonolis l’anno scorso abbiamo costruito un ospedale.
«Ormai sono vent’anni che giro il mondo con gli aiuti umanitari, ho visto bimbi morire a Calcutta e in Bangladesh, purtroppo sono abituata a certi spettacoli drammatici. Ma quel che distingue il Sudan da altri disastri è la dimensione della devastazione: due milioni di persone costrette a vivere tuttora sotto un telo di plastica, anche d’inverno quando la temperatura di notte crolla di venti gradi. Questi profughi non hanno speranza di rientrare nelle loro capanne di paglia e fango, dove vivevano coltivando sorgo, finché non ci sarà un accordo politico.
«Ci sono due movimenti di guerriglieri del Darfur che combattono contro il governo del Sudan: lo Sla (Sudan Liberation Army) e, più a nord, il Jem. Sono in corso trattative ad Abuja, la capitale della Nigeria, ma finchè non si coinvolgeranno anche le bande di nomadi arabi non si arriverà a nulla. L’Italia potrebbe prendere l’iniziativa e convocare tutte le parti a Roma».
Ma Barbara Contini è pessimista: «Non c’è coordinamento umanitario e diplomatico dell’Europa, ora si parla di inviare truppe Nato anche se il problema è politico. Io sono andata in giro con una scorta di due sole persone proprio per non dare nell’occhio: specialisti del corpo speciale Col Moschin che sanno l’inglese e affrontano le questioni non solo con le armi, ma anche con un approccio psicologico. È così che occorre comportarsi in quei posti: pragmaticamente, senza inutili sceneggiate».
Mauro Suttora
Wednesday, March 22, 2006
Sharon Stone a Roma
Diciotto valigie, 40 vestiti e un baule di scarpe. Così la star è sbarcata nella Capitale per presentare “Basic Instinct 2”. Al suo fianco, uno staff tutto rosa e nessun fidanzato. Allora il nostro cronista ne ha approfittato: “Vieni a prender un drink da me?” E lei...
Oggi, 22 marzo 2006
«Sharon, sei proprio l’ultima diva...»
«Come sei gentile a dirmi così...»
Trinità dei Monti, venerdì, quattro del pomeriggio. L’attrice più bella del mondo scende lentamente la scalinata più bella del mondo. Anche il primo sole primaverile scende lentamente, verso la cupola di San Pietro. I turisti impazziscono. Avevo notato una limousine nera in attesa davanti all’uscita secondaria del Grand Hotel St.Regis. Sharon Stone aveva appena finito la conferenza stampa per presentare il film Basic Instinct 2, in sala dal 31 marzo. Mi ero messo ad aspettare, e improvvisamente un gruppetto di donne esce per infilarsi in fretta nell’auto. Non sono sicuro che in mezzo ci sia anche lei, ma le seguo in taxi. Via Bissolati, via Veneto, un dedalo di strade e svolte, infine su per via Sistina. Davanti all’hotel Hassler la macchina si ferma e il gruppetto esce. Sì, c’è anche Sharon, con la sorella muscolosa Kelly e due guardie del corpo italiane.
Si avviano verso gli scalini, i passanti non fanno in tempo a rendersi conto che è proprio l’attrice americana. Lei, con gli occhiali neri, è già avanti. Mi avvicino, faccio finta di appartenere al suo gruppo, la affianco. Abito da poco in un loft di via Margutta: la stessa stradina dove 53 anni fa il giornalista Gregory Peck nascose per una notte la principessa Audrey Hepburn nel film Vacanze Romane. Tento anch’io il colpaccio, chiedo a Sharon in inglese: «Come for a drink», vieni a bere un bicchiere. Lei mi risponde: «Sorry, we gotta go to Fendi», dobbiamo andare da Fendi.
In piazza di Spagna l’assembramento s’ingrossa, ma Sharon non s’infastidisce. Anzi, il bagno di folla sembra piacerle. Si fa immortalare assieme a un tizio vestito da centurione accanto alla Barcaccia del Bernini. Poi imbocca via Condotti, ma si rischia il soffocamento, tutti a fotografarla coi telefonini, e allora Sharon svolta in via Mario dei Fiori. Alla fine si rifugia per una pausa di tranquillità dentro alla gioielleria Martinelli, che spranga la porta. E anche i successivi 200 metri di shopping prima di arrivare a palazzo Fendi in largo Goldoni sono come l’assedio a una regina. «Ammazza quant’è bbella», commenta un fan che è rimasto ad aspettarla giù. Quando la folla viene premiata dopo mezz’ora con un’apparizione della biondissima divina sul balcone accanto all’amica Carla Fendi, l’entusiasmo è alle stelle.
È durata meno di 24 ore la puntata italiana di Sharon Stone. Anche il suo aereo privato, un Gulfstream IV proveniente da Londra, era rimasto impigliato nel blocco dei radar romani giovedì sera. L’atterraggio a Ciampino è avvenuto in ritardo, verso le dieci. Ad accoglierla solo il presidente della Warner Brothers italiana e l’addetta stampa. È stata una scena surreale, perchè dal jet sono scese soltanto donne: una decina di signore in nero, sembrava la scena di un film poliziesco. La sorella di Sharon, che per questo tour promozionale europeo incassa 40mila dollari in qualità di «assistente al guardaroba», e poi la sua migliore amica, la truccatrice, la segretaria personale, la pierre, una guardia del corpo, una parrucchiera che si occupa delle favolose extension. Dopo Israele, Londra e Roma, via verso Parigi, Madrid e Berlino. Infine la prima statunitense a New York, il 27 marzo.
La diva si porta dietro un bagaglio di 18 valigie griffate Vuitton con 25 abiti da giorno e 15 da sera. Un baule alto un metro contiene solo scarpe. Al St.Regis ha dormito nella suite Ambassador, con acqua distillata tiepida nella vasca jacuzzi. Non è difficile immaginare Sharon mentre fa il bagno, perchè è anche una scena clou del film, che arriva ben quattordici anni dopo il primo Basic Instinct con Michael Douglas. Questa volta il personaggio diabolico che interpreta, e che un po’ le assomiglia, fa uscire pazzo uno psicanalista inglese. Il quale ha come unica colpa quella di non essere andato subito a letto con lei. Non ci sono scene con accavallamento di gambe, quindi resta il mistero sulla presenza o no di mutandine. E nessuno dei ben duecento giornalisti alla conferenza stampa ha osato chiederle delucidazioni in merito.
Sharon Stone, a 48 anni, è ancora sexy come non mai. La sua bellezza matura intimidisce, la voce profonda seduce sia nel film (doppiata sensualmente da Cristiana Lionello, figlia di Oreste) sia nella realtà. La voce è un punto debole di molte attrici americane, che parlano con intonazione da Topolino. Lei invece scandisce maestosamente le parole, e dopo le domande aspetta parecchio prima di rispondere, ieratica come un papa, creando suspense e rispetto. Insomma, altro che Julia Roberts, Angelina Jolie o Charlize Theron, eterne ragazze: Sharon Stone è ormai più di una donna, è un’icona. «Da piccola sognavo star come Ava Gardner, Barbara Stanwick, Bette Davis», confessa. Ebbene, le ha raggiunte a quei livelli di mito, quando basta un gesto o un’occhiata per far ammutolire ogni uomo. Lo conferma lei stessa: «Ho problemi con quelli che mi fanno la corte, gli ci vuole del tempo prima di considerarmi normale».
Non che abbia fatto film memorabili, negli ultimi quattordici anni: alzi la mano chi se ne ricorda più di uno o due. Anche la vita privata è passabilmente disastrosa: liti furibonde col secondo marito Phil Bronstein, direttore del quotidiano di San Francisco, sposato nel ‘98 e divorziato nel 2004. Alla fine il giudice ha partorito un’incredibile sentenza di affido per il figlio adottato Roan, 5 anni: starà dodici mesi con un genitore, e poi dodici mesi con l’altro. Una seconda figlia l’ha adottata da sola pochi mesi fa, alla maniera della Jolie.
Sharon sembra fare di tutto anche per confermare la propria fama di mangiatrice di uomini affamata di sesso. Ne cambia uno ogni dozzina di settimane, la lista è ormai sterminata. Dopo l’avvocato Bernie Cahill, solo quest’inverno è stata avvistata con il produttore Gavin Polone, il comico Craig Ferguson e il giocatore di pallacanestro Rick Fox. Tutti più giovani di lei di una decina d’anni, ovviamente, come nei film che interpreta. Lei li domina, irresistibilmente capricciosa: un anno fa partì per i Caraibi portandosene appresso uno, ma lo licenziò dopo appena due tumultuosi giorni. I paparazzi immortalarono il tapino cacciato improvvisamente dalla villa con le valigie in mano. E il giorno dopo lei stava già con un altro.
L’aspetto più incredibile della vita di Sharon Stone è che fino a 34 anni non era nessuno: «C’è voluto il primo Basic Instinct per convincere anche me che sono una bella donna e una brava attrice», ci ha detto. Quasi vent’anni di gavetta, anche a Roma. È giusto, quindi, che ora si goda il successo, dopo l’aneurisma al cervello che l’ha risparmiata per miracolo. Così la sua magica giornata romana si è conclusa, dopo un’apparizione al Tg5 in cui ha rifiutato l’invito da parte di Cesara Buonamici ad accavallare le gambe, in un tripudio di folla alla prima serale in un cinema di piazza Esedra. Con lei sul tappeto hanno sfilato le sorelle Fendi al completo, e fra gli altri i gioiellieri Silvia e Giorgio Damiani, Renzo Rosso della Diesel e Michele Goldschmied della Ag Jeans. Poi, via di corsa all’aeroporto verso Parigi. Quanto al bicchierino in via Margutta col sottoscritto, sarà per la prossima volta. Tanto Sharon non invecchia mai.
Mauro Suttora
Wednesday, March 15, 2006
Berlusconi incriminato
Ci risiamo. A un mese dalle elezioni, Silvio Berlusconi è stato incriminato per l’ennesima volta. Ora a metterlo nei guai sono 500 mila euro che la procura di Milano lo accusa di aver girato nel 1999 all’avvocato inglese David Mills, in cambio di testimonianze favorevoli in due processi: quello sulla Guardia di Finanza nel '97 e l’All Iberian nel '98. In entrambi i procedimenti il presidente del Consiglio è stato assolto. L’ipotesi di reato, però, ora è di «corruzione in atti giudiziari»: Mills avrebbe reso testimonianze addomesticate, e per queste sarebbe stato ricompensato. Chi paga un testimone per condizionarlo di solito commette il reato di «subornazione». Ma in questo caso Mills testimoniava in aula, assumendo la veste di pubblico ufficiale. Di qui l’accusa più grave di «corruzione».
L’avvocato Mills è stato il creatore, negli anni Novanta, del sistema off-shore di conti esteri di Fininvest. Nulla di illegale: tutte le grandi società hanno disponibilità finanziarie in banche di varie parti del mondo. Soprattutto nei cosiddetti «paradisi fiscali», dove le tasse sono più basse o addirittura inesistenti. Il problema, però, è che Berlusconi è accusato di aver usato alcune sue società off-shore (Accent e Timor, poi diventate Century One e Universal One) per aggirare il fisco italiano e creare fondi neri, a disposizione per pagare eventuali tangenti come quella a Mills, o a politici italiani. Una vera e propria «tesoreria occulta» dei gruppi Fininvest e Mediaset, insomma. Almeno secondo la pubblica accusa.
Gli imputati hanno sempre respinto questa ricostruzione, sostenendo di non avere mai avuto fondi neri e di aver agito rispettando le regole di trasparenza a tutela degli investitori. Fininvest e Mediaset sono infatti società quotate in Borsa: eventuali distrazioni di fondi da parte degli azionisti di maggioranza (Berlusconi e i suoi figli) rappresenterebbero un danno per quelli di minoranza.
L’inchiesta che si è conclusa venerdì 10 marzo con la richiesta di rinvio a giudizio deriva da un altro procedimento, in mano agli stessi procuratori Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo: quello sull’acquisto di diritti tv e cinematografici di società Usa per 470 milioni di euro, effettuato da Fininvest attraverso le sue due società off-shore nel 1994-1999. La procura ipotizza che le major americane abbiano ceduto i diritti alle società berlusconiane, le quali li avrebbero poi rivenduti con una forte maggiorazione di prezzo a Mediaset. Si sarebbe quindi creato lo spazio per fondi neri ed evasione di tasse. Per questo filone principale nel febbraio 2005 sono state incriminate quattordici persone, fra le quali il premier, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’avvocato Mills. Tra le ipotesi di reato ci sono falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, riciclaggio e ricettazione. Questo processo si trova ora nello stadio dell’udienza preliminare.
Dall'inchiesta principale sono nati due «stralci». Nel primo sono indagati i due figli maggiori di Berlusconi, Pier Silvio e Marina (vice presidente Mediaset e presidente di Mondadori), indicati da Mills come beneficiari economici delle società off-shore. Il secondo è quello dei 500 mila euro (600 mila dollari) a Mills, per i quali il gup (giudice delle udienze preliminari) Fabio Paparella dovrà ora fissare l’udienza (probabilmente a maggio) in cui deciderà se accogliere le richieste dei pubblici ministeri o prosciogliere gli imputati.
La difesa di Berlusconi sostiene che il versamento dei 500 mila euro è stato effettuato dal conto alle Bahamas di Diego Attanasio, armatore salernitano. Il quale però nel giorno del bonifico risulta essere stato in carcere, e quindi impossibilitato a effettuarlo. Mills non nega di aver ricevuto la somma, ma sostiene che era per conto di Carlo Bernasconi, manager Fininvest nel frattempo deceduto, come ringraziamento per «gli spettacolari guadagni di oltre il 70 per cento» da lui realizzati grazie ai consigli finanziari di Mills. In una lettera precedente, tuttavia, Mills aveva collegato la somma direttamente a Berlusconi. In ogni caso, il difensore del premier Niccolò Ghedini protesta soprattutto per l’incriminazione avvenuta in periodo di campagna elettorale.
L’inchiesta sta provocando un terremoto politico anche in Gran Bretagna. L’avvocato Mills, infatti, è marito del ministro della Cultura e degli spettacoli Tessa Jowell. Il 26 febbraio il Sunday Times ha svelato che i 500 mila euro sarebbero serviti per estinguere il mutuo per una casa di Londra comprata dalla coppia. Impossibile che la signora non conoscesse l’origine sospetta di quei soldi. Il 4 marzo, colpo di scena: la Jowell annuncia la separazione dal marito. Ma l’opposizione continua a chiederne le dimissioni. Il 6 marzo il premier Tony Blair in persona è stato costretto a sostenerla: «Deve andare avanti nel suo lavoro». Diranno lo stesso gli elettori italiani a Berlusconi il 9 aprile?
Mauro Suttora
Monday, March 13, 2006
Candidati vip e raccomandati
Mogli, ex cognate, fratelli, figlie: il voto del 9 aprile 2006 rischia di passare alla storia come quello «dei parenti». Quasi tutti i partiti hanno presentato una valanga di candidati «di famiglia», con elezione garantita perché hanno abolito anche le preferenze, con l’annesso rischio-trombatura. Se n’è accorta perfino la Cnn: «La famiglia resta l’istituzione italiana più solida», ironizzano i giornalisti americani.
Il caso più clamoroso: la moglie del segretario Ds Piero Fassino, Anna Serafini, ripresentata per la quinta volta nonostante il massimo di due legislature imposto dal partito a (quasi) tutti i propri parlamentari. Oppure Anna Maria Carloni, aspirante senatrice in Campania, regione della quale il marito Antonio Bassolino è presidente. Napoli vanta peraltro una tradizione consolidata di coniugi in politica: la presidente del Consiglio regionale Sandra Lonardo è infatti moglie di Clemente Mastella (Udeur). In Piemonte la diessina Magda Negri sta con il senatore Enrico Morando. E in Lombardia per la Margherita si presenta Linda Lanzillotta, coniugata con Franco Bassanini.
«Lo scrittore Leo Longanesi sessant’anni fa propose di adottare come slogan ufficiale della Repubblica italiana il motto “Tengo famiglia”», scherza Goffredo Locatelli, autore con Daniele Martini del libro omonimo, pubblicato nel ’97. È lui il massimo esperto italiano di nepotismo, anche perchè sei anni prima aveva esordito con un altro volume, "Mi manda papà", che esaminava i legami familiari della Prima repubblica e vendette 25 mila copie. Non hanno scherzato però tutti quelli che lo hanno querelato, in primis la famiglia Necci, chiedendo un totale di dieci miliardi di lire in danni. Risultato: l’editore Longanesi ha tolto Tengo famiglia dalla circolazione, intimorito nonostante le diecimila copie già vendute.
È un argomento scottante, quindi, quello del familismo in politica. Anche perché riguarda tutti gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per esempio, candida alla Camera nella circoscrizione Lombardia 1 l’ex cognata Mariella Bocciardo, già coniugata col fratello Paolo. Si trova al tredicesimo posto in lista, davanti a vari parlamentari uscenti, e con buone probabilità di farcela. In Sicilia il parlamentare di An Enzo Trantino fa correre la figlia Maria Novella, così come il collega di partito Orazio Santagati, che mette in pista la figlia Carmencita. I figli di Bettino Craxi si dividono equamente: Stefania a destra, Bobo a sinistra.
Infine ci sono i fratelli, come Marco Pecoraro Scanio, ex calciatore e poi assessore ad Ancona e Salerno, il quale condivide con Alfonso la fede verde. L’unico sfortunato sembra essere Umberto Bossi: sua sorella Angela è sì candidata, ma contro di lui, in una lista lombarda concorrente della Lega. Sembrano lontani, insomma, i tempi del povero Paolo Pillitteri, crocifisso come «sindaco cognato» quando governava Milano per conto di Craxi.
«Non è cambiato nulla dai tempi della famigerata Prima repubblica», commenta sconsolato Locatelli, «anche perché ormai la politica si è degradata a mestiere, non è più un fatto onorifico». Fra l’altro, abolito il voto di preferenza, quest’anno noi elettori non possiamo neppure vendicarci bocciando il parente eccellente. Insomma, assistiamo impotenti al trionfo della nomenklatura burocratica, che si appropria in ogni modo di compensi molto alti (un parlamentare guadagna 120 mila euro annui). Occorre precisare però che, almeno nel caso delle mogli di Fassino, Bassolino e Bassanini, si tratta di signore in politica da molto tempo, le quali probabilmente avrebbero fatto carriera indipendentemente dai mariti. In altri casi, invece, la «vocazione» sembra essere maturata all’improvviso...
E pensare che fino a pochi anni fa i consiglieri comunali e provinciali percepivano soltanto qualche gettone di presenza. Oggi invece tutti, perfino gli eletti in quartieri e circoscrizioni, incassano uno stipendio fisso. L’unica consolazione viene guardando gli Stati Uniti: anche lì le dinastie familiari sembrano eterne, con cariche che passano di padre in figlio (George Bush senior e junior), tra fratelli (John, Robert e Ted Kennedy) e fra marito e moglie (Bill e Hillary Clinton)
L’altro fenomeno usuale della politica italiana riguarda le star dello spettacolo. Anche quest’anno la lista è lunga: Franca Rame si candida con Antonio Di Pietro, Rita Pavone al Senato col ministro Mirko Tremaglia (An) nella lista Per l’Italia nel Mondo, il regista anticlericale Marco Bellocchio e il fotografo Oliviero Toscani con i radicalsocialisti della Rosa nel Pugno. Pippo Franco è capolista al Senato per il partitino Dc-Psi schierato con la Casa delle Libertà da Gianfranco Rotondi e Gianni De Michelis. Vittorio Cecchi Gori è stato arruolato come capolista della Lega Nord a Roma: «Mi sa che mi toccherà giocare un po’ meno a tennis», è stata una delle sue dichiarazioni più significative degli ultimi giorni.
Il giornalista del Tg1 Francesco Pionati corre con l’Udc, l’ex direttore del Messaggero Paolo Gambescia con i Ds, e la presentatrice Mara Carfagna, 30 anni, con Forza Italia nella sua Salerno: «Non chiamatemi soubrette, sono laureata in Legge con 110 e lode», dice. A gennaio sedeva alla destra del premier alla cena dei Telegatti, ora è quarta in lista per la Camera. Anche la campionessa olimpionica di sci di fondo Manuela Di Centa sceglie Berlusconi, mentre gli astri sembrano portare verso i Comunisti italiani: con Oliviero Diliberto si candidano infatti la scienziata triestina Margherita Hack e l’ex astronauta Roberto Guidoni. Il trans Vladimir Luxuria va con Rifondazione di Fausto Bertinotti. Infine Fiorella Ceccacci, in arte Rubino, 31 anni, attrice che esordì con Tinto Brass nel ’99, ma nota soprattutto come fidanzata di Michele Cucuzza fino a un anno fa. Lei riunisce in sé le due qualità di questo articolo: è sia (ex) parente, sia artista. E viene candidata da Forza Italia in tutto il Lazio.
Mauro Suttora
Saturday, March 04, 2006
Molestie sessuali
Un superiore fa capire a un’impiegata che per conservare il posto deve andare a letto con lui. Un venditore fa commenti osceni su alcune clienti con i propri colleghi. La segretaria di uno studio legale viene messa in imbarazzo da avvocati i quali raccontano abitualmente barzellette spinte in sua presenza. Il cassiere di negozio tocca il sedere e il seno di una collega contro la sua volontà. I colleghi di un’operaia la prendono in giro chiamandola con nomi offensivi e allusivi al sesso. I dipendenti di una filiale inseriscono barzellette pornografiche sul bollettino intranet dell’ufficio. Un impiegato invia ai colleghi e-mail contenenti linguaggio erotico.
Sono sette esempi di condanne recenti per «sexual harassment» in California. Ormai negli Stati Uniti le cause per molestie sessuali sul luogo di lavoro intentate ogni anno sono migliaia. E centinaia di aziende vengono condannate anch’esse, assieme al reo, per «omesso controllo». I risarcimenti per danni morali ammontano a milioni di dollari. Così, dall’inizio dell’anno una legge impone che anche in California, come negli stati di Massachusetts, Connecticut e Maine, ogni società con più di cinquanta dipendenti organizzi un corso «antimolestie» di due ore ogni due anni, con frequenza obbligatoria.
Le situazioni citate all’inizio potrebbero essere punite anche in Italia? Oppure negli Stati Uniti va prendendo piede un nuovo puritanesimo che condanna qualsiasi riferimento al sesso? Per capire dove si situa il confine fra comportamenti leciti e approcci vietati, abbiamo interpellato la maggiore esperta americana del campo: Deborah Rhode, docente di diritto all’università di Stanford.
«Salve ragazze!».
«In questo campo non si può mai generalizzare», spiega la professoressa Rhode, «perchè tutto dipende dal contesto. Perfino un saluto apparentemente innocuo come “Hello girls!”, lanciato da un collega al mattino, può essere sanzionabile se l’ambiente di lavoro è carico di tensione, e se viene intenzionalmente rivolto a una dipendente che ha già subito approcci pesanti, se ne è lamentata in privato e poi con una denuncia formale scritta, ma nonostante questo continua a essere presa in giro e trattata come una ragazzina. Immaginiamo per esempio una distinta dirigente di mezza età la quale venga volutamente e ripetutamente equiparata a una “ragazza” che svolge mansioni inferiori da parte di superiori o colleghi: se risulta chiaro l’intento umiliante, può scattare la denuncia».
Molestare in silenzio.
«La maggior parte dei comportamenti punibili si situa in una zona grigia e ambigua. Per esempio, un dirigente può mettere in serio imbarazzo una dipendente anche solo fermandosi con eccessiva insistenza sulla porta della stanza di lei, continuando a osservarla senza un particolare motivo apparente. Il silenzio a volte è peggio delle parole. I tribunali sanzionano questo tipo di invasione della privacy. In alcuni casi ci sono stati richiami a impiegati che alzavano troppo la testa per spiare colleghe avvenenti sedute ignare alla loro scrivania».
Corteggiamento impossibile?
«Il capitolo dei complimenti e degli atti di cavalleria è immenso. Qui la regola generale è: nessun problema se sono graditi, ma semaforo rosso appena viene segnalato fastidio. Il “Come sei bella con questo vestito” può essere allo stesso tempo una semplice cordialità se detto en passant e sorridendo, oppure una simpatica forma di corteggiamento, oppure ancora un’intollerabile cafonata se pronunciata in modo viscido da un collega cui si è rifiutato un appuntamento la sera prima, e che ti blocca in corridoio guardandoti fisso negli occhi con aria viscida... Stesso discorso per le porte che vengono aperte, i regali, gli inviti, le occhiate, i commenti ad alta voce con altri colleghi. Se sono “unwelcome”, non apprezzati, meglio lasciar perdere subito».
Le avances di San Valentino
«Negli Stati Uniti la festa di San Valentino, 14 febbraio, viene festeggiata molto più che in Europa. Questo è l’unico giorno dell’anno in cui la locuzione “ti amo” cambia significato: ne assume uno molto più ampio, fuori da ogni riferimento romantico. In America anche semplici amici si scambiano cartoline di auguri di Valentine, per dirsi semplicemente “ti voglio bene”. Ma se il collega infatuato appicicaticcio, o peggio il dirigente affamato di sesso, approfitta del San Valentino per lanciare avances impensabili negli altri giorni, il comportamento finisce direttamente nel dossier a suo carico. E’ successo in diverse cause». Forse questo è il destino che attende qualche nostro focoso Romeo italiano che si spinge un po’ troppo oltre il mazzetto di mimose con la scusa della festa della Donna l’8 marzo...
Molestie «ambientali».
Susan Bisom-Rapp, docente all’università di San Diego (California) è anch’essa una veterana del diritto anti-molestie: «I tribunali statunitensi distinguono due forme di sexual harassment», spiega: «C’è quello diretto, sessuale, con inviti sia espliciti che impliciti. Ma c’è anche la molestia ambientale sul luogo di lavoro, ovvero una condotta continuata nel tempo che crea una situazione intimidente, ostile e offensiva. Per vincere questo secondo tipo di cause, occorre provare che il comportamento - da parte di una o più persone - è stato grave e pervasivo».
Calendari erotici.
«Per esempio», continua la Bisom-Rapp, «se un collega appende un calendario sconcio sopra la sua scrivania, la sua vicina può chiederne la rimozione. E’ un caso isolato, la responsabilità ricade soltanto sul singolo o sui superiori se non intervengono. Ma se tutti gli uomini di quella stanza o zona dell’open space coltivano pubblicamente le proprie piccole perversioni voyeuristiche, mettendosi ad appendere donne nude dappertutto in evidenza, e l’azienda resta inerte nonostante le sollecitazioni, allora la condanna in giudizio è pressochè sicura. Attenti anche a certi salvaschermo troppo spinti dei computer».
Niente sesso? Non ti promuovo.
«Il campo più delicato è quello delle discriminazioni: come provare di non essere stati promosse o di non avere ottenuto un aumento solo perchè non siamo state abbastanza ‘disponibili’? Come accusare qualche collega di essere la favorita del capo, per poi magari scoprire che non di divano si è trattato, ma di semplice amicizia, o sintonia, oppure anche di patente nepotismo - una parente, o figlia di amici - , cosa censurabile ma che non rientra nelle molestie sessuali indirette? In teoria una collega - anche lei stagista non pagata - di Monica Lewinski avrebbe potuto far causa per danni a Bill Clinton... Ma la giurisprudenza in questo campo è scivolosa. Anche se le vittime indirette di avances sessuali rifiutate (ma accettate da altre) a volte hanno ottenuto somme notevoli».
Presidente licenziato.
Per evitare problemi alcune società americane hanno adottato regole draconiane. L’anno scorso, per esempio, il presidente della Boeing ha dovuto dimettersi perchè aveva osato mettersi con una dipendente, sinceramente innamorata di lui: vietato dalle regole aziendali.
Bimbo di sei anni sospeso.
Il 30 gennaio, a Brockton (Massachusetts), un bambino di prima elementare è stato sospeso da scuola per tre giorni: aveva toccato una compagna di classe fra le cosce. «Stava solo giocando, anche la bimba lo ha toccato», ha protestato la madre, Berthena Dorinvil. Niente da fare: forse ora il ragazzino finirà sul Guinness dei primati come il molestatore sessuale più giovane della storia.
Perfino all’Onu...
Anche le Nazioni Unite hanno avuto problemi negli ultimi mesi: Carina Perelli, la dirigente uruguaiana che ha controllato le elezioni in Iraq, è stata denunciata non per avances dirette, ma per le «molestie ambientali» descritte prima. Solo che a lamentarsene non sono state donne, bensì uomini: perchè la Perelli è gay. Lei ha ribattuto fieramente: «Mi attaccano per invidia e per ragioni politiche: sono solo dei frustrati un po’ incapaci».
Mauro Suttora
Saturday, February 25, 2006
Cin Cin, Cipriani
by Mauro Suttora
The New York Observer, February 25, 2006
Want to go to Cipriani?"
"Which one?"
"Downtown."
"Girls too flashy and young with men too old and ugly… I prefer the Cipriani on 59th Street."
"But that’s closed for renovation."
"A real pity."
My American girlfriend Marsha loves Cipriani, as long as it’s uptown. After she comes to pick me up at the Rizzoli bookstore on West 57th Street, she takes the so-called Bergdorf shortcut: enters on 57th Street, and gets out on Fifth Avenue. Sixty seconds, enough to lift her mood before crossing the Avenue to the restaurant.
I fancy everything Cipriani. It makes me proud of being Italian. "Ciprianesque" has become a new word in the American dictionary, meaning a peculiar kind of 21st century "dolce vita" happening at the eight restaurants and gala halls that Arrigo (Harry) Cipriani and his son Giuseppe own in Manhattan.
At 72, Harry is more New Yorker than Venetian. The legendary Harry’s Bar his father opened in Venice just off St. Mark’s square in 1931 - with clients such as Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles and Peggy Guggenheim - is the only one he keeps in Italy, together with Harry’s Dolci. Cipriani is today a $150 million world empire, with Hong Kong and Sardinia offspring.
But "nemo propheta in patria", no one is a prophet in his own land, and Cipriani senior is more revered in New York than in Venice: this year his city has turned down his mayoral candidacy, drowning in the usual parochial squabbles ("Baruffe chiozzotte", named them playwright Carlo Goldoni). No "doge" Cipriani, then: just emperor of the main industry (food and entertainment) of the main city in the world. Because a big slice of the Big Apple’s night life, twenty years exactly after they arrived in Manhattan, now belongs to them.With Le Cirque and the Plaza gone, more galas are flocking to their locations: the Rainbow Room on top of the Rockefeller Center, Cipriani 42, Dolci at Grand Central Station, the new Cipriani 23 in Madison Square, and Cipriani Wall Street (the former Regent Hotel), where they hold benefit concerts by Rod Stewart, Sheryl Crow or Beyonce with De Grisogono jeweler, and sell residence condos upstairs with the Witkoff Group, which is also their partner in the grandiose project of turning Pier 57 at 15th Street into the largest gala hall in America.
The "Ciprianesque crowd" is made up of glamorous girls and tanned men, simultaneously envied and despised by the old-money New York establishment. But this is not Cipriani’s only contribution to modern world vocabulary: Bellini (the cocktail) and Carpaccio (sliced raw beef), the two staples on their menus, are three-quarters-of-a-century-old.
"Did you copyright them?" I ask Harry Cipriani.
"Why should I?" replies the old libertarian, who hasn’t even bothered to secure the property of the name "Harry’s Bar" - so that the one in Florence pays royalties to the Paris one, and also the one in London has nothing to do with him.
"We are not jealous and have no secrets: we are even selling to the public our Bellini peach juice in cans."
It’s easy to obtain the classic Cipriani recipe: just add one part of prosecco (the sparkling Italian white wine) to three parts of the base juice, plus three ice cubes.
Harry is open to innovation, though, and he himself suggests variations: "Try ‘Sweet Emy’ with gin replacing prosecco and an orange slice, or ‘Sweet Maggie’ as an after-dinner with rum and a mint leaf, or ‘Sweet Annie’ with vodka".
And everybody knows the other Italian operatic "inis" born in the wake of Bellini: Puccini with tangerine instead than peach, and Rossini with strawberry. I even met a "Strawbellini" once...
Whatever the drinks and the food, Cipriani serves them exactly the same way all over the world: his tables are always low, the wooden chairs as uncomfortable as in Venice, and the cutlery smaller than normal. Even glasses are scaled down: "My father wanted them like that, to please the customer, and I didn’t change anything," says Harry, who got a law degree, has written five books and is a karate black belt. He could have practiced a few months ago, when a group of leftist no-globals stormed into Venice’s Harry’s Bar, ate a hefty meal and disappeared without paying, leaving a note: "Charge NATO. No war in Iraq." Cipriani made the news because, in a bout of anger, he declared that his absent-minded waiters would have to pay the bill. After a few minutes he pardoned them.
He is still angry, though, with some restaurant critics: "Come back without a condom on your tongue," he replied to a bad review in the New York Magazine. And to the London Zagat guide, which has accused his London restaurant of being "good only for tea," he retorts: "After your put-down, I am serving 400 meals a day: please go on..."
Please Marsha, leave your Upper East Side fief and come to West Broadway: let’s enjoy life at Cipriani Downtown.
Mauro Suttora is the U.S. bureau chief of Milan's weekly magazine, Oggi and a New York Observer columnist.
Friday, February 17, 2006
Intervista a Turki
Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3
New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”
Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.
Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”
L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.
Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.
L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”
Mauro Suttora
Condi: 75 milioni per l'Iran
Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006
New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.
Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.
Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.
I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.
Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.
“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.
Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.
E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.
Mauro Suttora
Thursday, February 16, 2006
Athina Onassis compie 21 anni
Oggi, febbraio 2006
Il patrimonio della Fondazione Alessandro Onassis (il figlio di Aristotele premorto al padre nel ‘73 in un incidente aereo) è valutato oggi in circa un miliardo di dollari. Consiste di 19 navi: tredici superpetroliere a tecnologia avanzata e sei portacontainer, per un totale di due milioni e 700mila tonnellate di stazza. Si tratta della quinta flotta petrolifera mondiale. Alla morte di Aristotele Onassis, 31 anni fa, le navi erano 25, ma il tonnellaggio complessivo attuale equivale a quello del 1975, perche’ oggi i vascelli sono piu’ grandi.
La Fondazione possedeva soltanto un edificio a Londra, mentre oggi il patrimonio immobiliare comprende proprietà anche ad Atene, in Francia e a New York (il grattacielo Olympic Tower sulla Quinta Avenue, valutato da solo 300 milioni di dollari, diviso inizialmente a meta’ fra Cristina e la Fondazione, ma del quale il vedovo di Christina Thierry Roussel vendette per 50 milioni la sua parte dopo la morte di lei nell’88). Vi sono poi partecipazioni in varie attivita’ imprenditoriali e investimenti in titoli.
La sede della Fondazione e’ sempre in Liechtenstein per motivi fiscali. Nel 2001 è nata la Fondazione Onassis Usa, che si occupa in particolare degli scambi culturali con gli Stati Uniti. La Fondazione ha mantenuto il proposito voluto dal fondatore: distribuisce ogni anno la meta’ dei suoi utili commerciali in attivita’ benefiche. In tutto, 500 milioni di dollari in questi 30 anni in tre campi: educazione, cultura e sanità. Dal ‘78 sono state finanziate tremila borse di studio per giovani greci che vanno all’estero, e centinaia per studenti stranieri che si specializzano in Grecia.Nel ‘92 è stato aperto il Centro Onassis di Chirurgia cardiologica ad Atene, e nel 2007 aprirà l’adiacente Casa Onassis delle Lettere e Arti (costata 60 milioni di euro).
Il presidente della Fondazione, Stelio Papadimitriou, principale collaboratore di Aristotele Onassis, è morto ottantenne tre mesi fa. Gli è succeduto il figlio Antonio, 50 anni, che guida un presidenza di tre persone, di cui fanno parte gli altri due figli dei due ex vicepresidenti: Giovanni Ioannidis, 51, figlio di Paolo (capo delle attivita’ marittime), e Giorgio Zabelas, 49, figlio di Apostolos (i padri rimangono nel consiglio d’amministrazione composto da 15 persone). Una gestione familiare ereditaria nepotistica, insomma, finita anche per questo nel mirino degli agguerriti avvocati londinesi di Athina Onassis.
Per escludere la ragazza, l’anno scorso la Fondazione ha cambiato il proprio statuto, stabilendo che i membri del consiglio d’amministrazione debbano avere almeno 30 anni e saper parlare in greco. Per questo Athina Roussel, che conosce solo inglese, francese (lingua paterna) e svedese (lingua della matrigna), si e’ iscritta a gennaio a una full immersion di greco.
Wednesday, January 25, 2006
Giulietta e Romeo in Iraq
Oggi, 26 gennaio 2006
Gli occhi. Quelli bellissimi di lei, Ehda, dottoressa irachena 25enne: neri, profondi, misteriosi e affascinanti come nelle Mille e una notte. Quelli di lui, Sean, valoroso sergente 27enne dell'esercito statunitense: azzurri come il mare della sua Florida. Si sono incontrati un giorno di maggio del 2003, un mese dopo la liberazione dell'Iraq, mentre lui faceva da sentinella al ministero della salute di Bagdad. Si sono folgorati a vicenda, e da allora non si sono più lasciati.
«Ci siamo sposati tre mesi dopo con una cerimonia segreta di venti minuti per strada, durante la pausa di una mia missione di pattugliamento», racconta Sean Blackwell a Oggi da Pensacola (Florida), dove è ritornato assieme a sua moglie dopo molte peripezie. Che Ehda racconta nel libro Giulietta e Romeo a Bagdad (ed.Mondadori), appena pubblicato in Italia. Il loro infatti è stato un amore contrastatissimo, che ha dovuto superare innumerevoli ostacoli prima di realizzarsi.
Dicono che a Saddam Hussein piacesse Shakespeare, e in particolare il dramma dei due giovani innamorati di Verona. Fu proprio la visita a uno dei palazzi dell'ex dittatore la meta del primo appuntamento che Sean riuscì a strappare a Ehda: «La conobbi quando si presentò all'entrata del ministero che avevamo occupato», ricorda Sean, «si metteva a disposizione per lavorare come medico laureato in uno degli ospedali che, dopo i saccheggi dell'immediato dopoguerra, sembravano sul punto di crollare. Voleva anche andarsene da Qut, la città satellite di Bagdad dove lavorava, perchè dopo la caduta di Saddam erano apparsi i fondamentalisti islamici, i quali già minacciavano le donne che come lei vestivano all'occidentale.
«Purtroppo i burocrati americani del ministero la rifiutarono. Ma io fui subito colpito da Ehda, dalla sua bellezza, eleganza, cultura, e anche dal fatto che parlava inglese. Mi trovavo in Iraq quasi per caso, perchè avevo lasciato l'esercito nel 2002. Volevo laurearmi in scienza dell'alimentazione, e poichè l'università è gratis per i membri della Guardia nazionale della Florida, mi ri-arruolai. Ma fino ad allora la Guardia nazionale era una specie di Protezione civile, che interviene per le emergenze come gli uragani o le sommosse interne, formata da volontari che hanno un altro lavoro e che dedicano all'addestramento solo un paio di weekend al mese. Invece il caso volle che un mese dopo aver firmato proprio il mio reparto venisse comandato in Iraq, e così mi ritrovai in una garitta a Bagdad...
«Quando mi trovai di fronte quella bella ragazza così desiderosa di collaborare con noi americani feci di tutto per sormontare il muro di indifferenza che le veniva opposto. Non volevo che se ne andasse, e così proposi che la prendessero in una delle cliniche gestite da medici delle forze armate assieme a dottori locali. Sapevo che mancavano dottoresse donne per visitare le pazienti femmine, ma alla fine neanche questa strada si rivelò quella giusta. La verità era che il chirurgo dell'esercito non voleva avere attorno dottori iracheni... Ma almeno tutto questo darmi da fare impressionò Ehda, che rimase lì a chiacchierare.
«Lei si lamentava, diceva che a Qut i fondamentalisti volevano rapirla. Io le risposi sorridendo: "Beh, hanno ragione". E lei, confusa: "Cosa?" E io: "Anch'io ti rapirei". Stavo solo facendo il galante, ma quelle mie parole la mandarono in tilt, tanto che smise di parlare inglese e si rivolse al nostro interprete in arabo. Volevo solo flirtare, ma l'avevo messa in imbarazzo. Non sapevo che da quelle parti è impensabile che un uomo si rivolga a una donna in quel modo. E' uno dei tanti errori che noi americani abbiamo commesso in Iraq. Per fortuna Ehda non se la prese, anzi: dopo essere stata ingaggiata come traduttrice, prese l'abitudine di passare a salutarmi ogni due-tre giorni, portandomi ogni volta qualcosa di buono da mangiare.
«Io mi ero innamorato di lei, e quando cominciamo a frequentarci scoprimmo di avere parecchio in comune: per esempio, entrambi eravamo stati abbandonati dai rispettivi padri da piccoli, e per questo sentivamo il bisogno di creare una famiglia unita. Io per la verità avevo già un matrimonio alle spalle, e due figlie da due donne diverse, ma appena vidi Ehda capii che volevo ricominciare con lei. Dopo tre mesi di appuntamenti le chiesi di sposarmi. Anche lei mi confessò di amarmi.
«Lì però cominciarono i problemi. Il mio comandante, colonnello Thad Hill, era contro il matrimonio. Non voleva neppure discuterne. Un tenente con cui riuscii a parlare mi fece un discorso che mi sembrò abbastanza razzista: "Ma hai pensato a come sarebbe la vostra vita assieme, non vedi cosa mangiano i musulmani, come si vestono, come pregano?" E quando gli risposi che mi ero già convertito all'islam per chiedere la mano di Ehda ai suoi genitori, gli venne un colpo. Così ignorai l'opinione dei miei superiori, e organizzai un matrimonio ultrarapido in un giardinetto dietro a un ristorante, nel quartiere Wasiriyah di Bagdad. I soldati del mio plotone fecero la guardia con fucili e una mitragliatrice pesante. Io ero in tuta mimetica, lei in un vestito a fiori...
«Quando il colonnello Hill scoprì che ci eravamo sposati si imbestialì, e minacciò di trascinarmi davanti alla corte marziale per aver effettuato la cerimonia durante il servizio armato. Ci ha salvato la pubblicità di giornali e tv, sollecitata da un avvocato che contattai in Florida. Nel frattempo, anche Ehda stava passando i suoi guai. Un giorno, mentre tornava a casa in taxi dalla base, fu bloccata da un'auto con dei brutti ceffi che la minacciarono di morte se avesse continuato a frequentare americani vestita così. Molti suoi amici si opposero al matrimonio e poi la abbandonarono, insultandola. Io le chiesi di non uscire più di casa, ma lei insistette per continuare a lavorare come traduttrice. Insomma, io venivo trattato come un traditore, e lei come una puttana.
«Alla fine, un anno dopo, l'esercito mi ha lasciato andare, e sono tornato qui in Florida con Edha. Ma quest'esperienza mi ha scosso, non mi faccio più illusioni sulla guerra e sui motivi per cui i politici ci hanno spedito a morire in Iraq. Poi ho avuto anche paura che il sud degli Stati Uniti si rivelasse troppo conservatore per una donna moderna come mia moglie. Invece lei si è ambientata. Purtroppo non le hanno riconosciuto la laurea, e così per ora deve lavorare come infermiera. Ma sta preparando gli esami per esercitare la sua vera professione. E prima o poi organizzeremo una grande festa per ricelebrare il nostro matrimonio, questa volta a piedi nudi al tramonto sulla spiaggia della Florida...»
Mauro Suttora
RIQUADRO
Tre importanti ottantenni statunitensi nell'ultima settimana hanno chiesto il ritiro dei soldati Usa dall'Iraq:
Walter Cronkite, l'Enzo Biagi d'America. Il decano dei giornalisti, che nel 1968 fu fra i primi ad avere il coraggio e l'onestà di riconoscere che la guerra del Vietnam non poteva essere vinta, oggi pensa lo stesso sull'Iraq: «Prima ce ne andiamo, meglio è».
Tony Bennett, l'erede di Frank Sinatra. Il grande cantante, veterano della Seconda guerra mondiale, ha dichiarato: «La guerra in Iraq mi ha fatto diventare pacifista. La guerra è la forma più bassa del comportamento umano».
John Eisenhower, generale e repubblicano come suo padre, l'ex presidente degli anni '50: «Ho votato per Bush, ma l'Iraq è un'avventura sbagliata».
Saturday, January 21, 2006
La truffa J.T.Leroy
Oggi, 25 gennaio 2006
“Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa”, ma ancor più ingannevole del cuore si è rivelato l’autore di questo libro del 2002, J.T. Leroy. Che non esiste, perchè quello che finora si era spacciato per lo scrittore 25enne e “maledetto” del romanzo autobiografico è in realtà una ragazza della stessa età, Savannah Knoop, che però non ne ha scritto una riga. La vera autrice del libro (e di altri due: il precedente Sarah e il successivo Harold’s End) è la 40enne Laura Albert, moglie di Geoffrey Knoop, fratellastro della ciarlatana.
Lo pseudo-Leroy aveva raggiunto una certa notorietà anche in Italia, soprattutto dopo che Asia Argento era diventata sua grande amica, diceva di volere un figlio da lui (dopo quella avuto col marito Marco Castoldi, alias Morgan, ex cantante dei Bluvertigo), e nel 2004 diresse un film omonimo tratto dal libro.
Adesso Asia non risponde al telefono, e anche il produttore del film Brian Young è imbarazzato, parlando da Los Angeles con Oggi: «No comment, difendiamo il nostro film in quanto opera d’arte». Opera d’arte può darsi, ma sicuramente tutta l’operazione Leroy si è rivelata una cialtronata. Confezionata a regola d’arte, questo sì, tant’è vero che ancora pochi mesi fa perfino il New York Times continuava ad accreditare Leroy come grande scrittore, fino ad affidargli un reportage turistico-letterario su Eurodisney, pubblicato il 25 settembre dal supplemento viaggi curato da un altro italiano, Stefano Tonchi
.
Proprio la spedizione a Parigi per l’inchiesta ha però insostettito il quotidiano newyorkese, dopo che il settimanale New York aveva rivelato la truffa: nell’articolo si descriveva un viaggio con quattro partecipanti, ma le ricevute rimborsate in nota-spese, comprese quelle dei biglietti aerei, si riferivano a sole tre persone. Il personale di Eurodisney e dei due alberghi dove il trio ha soggiornato si erano stupiti che quella che si faceva passare per Leroy fosse una donna, e anche messa male per essere una ventenne. Ma la Albert aveva cercato di tacitarli, inventandosi che si era fatta operare cambiando sesso tre anni prima. I suoi accompagnatori erano il marito Geoffrey Knoop e il figlio (vero) della coppia.
Questo del transessuale era il grande fascino esibito da Leroy fin dall’inizio. Nei suoi libri, nelle interviste e durante le rare apparizioni pubbliche, infatti, Savannah sosteneva di essere la figlia di una prostituta che viveva in una roulotte e soddisfaceva camionisti che si fermavano per la benzina. Il tourbillon di uomini del letto materno avrebbe provocato i primi traumi nel ragazzino, il quale poi raccontava di averle passate tutte: picchiato da mamma e da un patrigno, iniziato al sesso a pagamento e alle orge, drogato, violentato, affidato ai nonni, divenuto omosessuale...
Ciliegina sulla torta: pure malato di Aids, ed è questo il particolare che oggi irrita di più l’agente letterario dello pseudo-Leroy, Ira Silverberg, che ne ha venduto i diritti dei libri in ben venti Paesi: «Ho incontrato poche volte questa Savannah che si spacciava per Leroy, e ogni volta si nascondeva con parrucche e occhiali da sole. Ma presentarsi come una persona che sta morendo di Aids in un mondo culturale che ha perso così tanti scrittori e voci di grande valore per la tremenda malattia, e trarre vantaggio da una situazione di simpatia collettiva, è veramente brutto. Molta gente comprando i suoi libri era convinta non solo di contribuire all’affermazione di un artista nuovo e innovativo, ma anche di aiutare una persona...»
Migliaia di lettori creduloni e truffati, insomma, ma anche molti personaggi famosi si sono lasciati impietosire dalla storia tremendissima del «ragazzo». Il quale si presentava spesso alle letture pubbliche dei suoi libri (effettuate da altri: lui sosteneva di essere timido) accompagnato dai coniugi Knoop e Albert, che si spacciavano per la coppia che lo aveva «salvato», adottandolo e trirandolo fuori dall’inferno in cui apparentemente si dibatteva. Courtney Love (vedova di Kurt Cobain dei Nirvana), Tatum O’Neil, la cantante Suzanne Vega, l’attrice di Star Wars e scrittrice Carrie Fisher: tutte celebrità abbindolate dal «caso pietoso» con un’operazione di autopromozione degna del miglior esperto di pubbliche relazioni.
Che tutto questo circo di sottocultura «alternativa» alla moda puzzasse di falso se n’era per la verità accorto il settimanale (gratuito) di New York Village Voice già nel 2001. Egualmente, però, la «rivelazione» del New York Times del 9 gennaio ha fatto rumore, se non altro perchè è stata affidata (crudelmente?) alla penna di un giornalista che un anno fa aveva tessuto le lodi dello «scrittore». Il quale, in realtà, esiste: la signora Albert, musicista fallita come il marito, ha sempre regolarmente incassato i pingui diritti d’autore di questa mega-sòla, su un conto intestato a sua madre. E che, a questo punto, può legittimamente reclamare anche la gloria presso tutti coloro che in questi anni hanno avventatamente esaltato Leroy, quasi fosse un novello Rimbaud.
Mauro Suttora
Monday, January 16, 2006
Corruzione negli Usa
Abramoff fa tremare Washington ma non il sistema: la politica in America è caccia ai finanziamenti
giovedì 5 gennaio 2006
New York. Il suo tempo valeva oro: 750 dollari all'ora. Per fare più in fretta, e guadagnare perfino sui propri regali, aveva aperto a Washington un elegante ristorante, il 'Signatures' su Pennsylvania Avenue, nel quale invitava a pranzo e a cena i suoi clienti. Offerta anche cucina kosher. E tutti potevano essere clienti di Jack Abramoff, il 46enne principe dei lobbisti statunitensi: dagli indiani che volevano aprire casino' (gli unici col permesso di farlo, fuori da Las Vegas e Atlantic City, e che gli hanno versato 82 milioni) ai politici in cerca di soldi per la rielezione. Ora, allo scopo di ridurre da venti a dieci gli anni che passerà in carcere per truffa, associazione a delinquere ed evasione fiscale, collabora con la giustizia. E 240 parlamentari statunitensi tremano.
Abramoff è repubblicano, negli anni Ottanta fece fortuna come giovane reaganiano, e nel '94 è montato in groppa al trionfo del suo partito che per la prima volta dopo quarant'anni aveva riconquistato la maggioranza al Congresso, proprio con lo slogan "ripuliamo Washington". Ora assieme a lui finisce nella polvere Tom DeLay, l'ex presidente della Camera texano, il terzo repubblicano più potente degli Stati Uniti dopo il presidente e il capogruppo al Senato. Ma i quattro milioni e mezzo di tangenti che Abramoff ha distribuito negli ultimi sei anni sono andati anche a 80 democratici, oltre che a 120 repubblicani.
"L'aspetto più choccante dello scandalo Abramoff non è la ricchezza che distribuiva, ma il numero dei congressmen che eseguivano i suoi ordini", commenta desolato l'editorialista di Usa Today. Tutti disposti a votare si' o no solo in base al posto in palco di lusso alla partita di baseball, al viaggio in Scozia per giocare a golf nel campo di St. Andrews, ai 50mila per la mogliettina del portaborse e agli altri status symbol della capitale americana.
Ma se Abramoff ha potuto avere successo, ammonisce il senatore John McCain, è perchè il lobbismo è l'industria più sviluppata di Washington. Sono ben 700, infatti, i membri della American League of Lobbyists, i quali hanno già cominciato a innaffiare abbondantemente i candidati alle elezioni midterm del prossimo novembre. Tutto - quasi tutto - alla luce del sole, con tanto di rendiconti pubblici: i repubblicani hanno finora raccolto quasi tredici milioni di dollari, i democratici undici, i sindacati ne hanno distribuiti nove, quelli dei dipendenti pubblici quattro, quelli delle costruzioni due.
Ci sono i lobbisti verdi corti di manica: finora hanno raccolto da propri simpatizzanti un milione e 700mila dollari, ma ne hanno distribuiti soltanto mezzo milione. Gli advocacy groups per i diritti umani, invece, sono avventati: hanno già promesso ai futuri parlamentari 900mila dollari, avendone in cassa soltanto 500mila. E poi avanti con la pioggia di bigliettoni: assicuratori, donne, medici, cinematografari, antiabortisti e prochoice, cacciatori e anti...
Il recordman, in questo festival del fundraising, è Michael Bloomberg. Il sindaco di New York appena rieletto fino al 2010 è infatti quello che ha speso di più nella storia per una singola campagna elettorale: 75 milioni. Con un record ulteriore: tutto di tasca propria. Ma sbaglia chi scambiasse la democrazia americana per una plutocrazia: il magnate della birra Pete Coors, per esempio, nel 2004 non è riuscito a farsi eleggere senatore del suo Colorado, nonostante investimenti altrettanto sontuosi. Ne' i lobbisti riescono a comprare tutto: proprio Bloomberg, per esempio, l'altro giorno si è scagliato contro il commercio troppo libero delle armi da fuoco, nonostante la pressione costante della potentissima Nra (National Rifle Association, quella che coniò lo slogan "Happiness is a warm gun" apprezzato perfino da John Lennon).
La battaglia anticorruzione di McCain
Lo scandalo Abramoff, con le sue probabili decine di vittime imminenti, raddrizzerà Washington? Non scherziamo. L'ultimo sondaggio Gallup conferma i film di Frank Capra: il 49% degli americani adulti sono convinti che la maggioranza dei membri del congresso siano corrotti. Disprezzo bipartisan: il 47% punta il dito contro i repubblicani, l'altro 44 contro i democratici. Lo schifo nei confronti della politica professionista è talmente spontaneo, nello statunitense medio, che il presidente George Bush lo sfrutta abilmente nei propri discorsi: "Ho proposto questo e quello, ma i politici di Washington mi hanno bloccato", neanche fosse un qualsiasi Mr. Smith.
Che fare, allora? Tutta la campagna presidenziale di McCain, nel 2000, si era sviluppata sul tema della lotta contro le lobbies. Ma McCain ha perso, perchè fra le abitudini connaturate degli americani c'e' quella di "far combaciare le parole col portafogli", e quindi di tirar fuori i soldi quando si crede in una causa o in una persona. Proibire i contributi alle campagne elettorali e abolire i lobbisti è quindi impossibile. Negli Stati Uniti non esistono sezioni di partito e segretari: ci sono soltanto "fundraiser", raccoglitori di fondi per pagare le campagne elettorali. La politica consiste in questo. Si possono soltanto stabilire patetici paletti, come il limite di poche migliaia di dollari ai contributi personali verso un singolo candidato, nell'illusione di calmierare l'influenza dei Paperoni.
Ora si parla di punire gli eletti che votano su un tema per il quale hanno ricevuto contributi nelle settimane o mesi precedenti. Ma al povero dittatore Omar Bongo del Gabon, che per essere ricevuto da Bush nel 2004 dovette versare milioni di dollari ad Abramoff, i soldi chi li restituirà?
Mauro Suttora
Wednesday, January 04, 2006
Intercettazioni Usa fuorilegge
4 gennaio 2006
New York. Per la terza volta in tre anni, il New York Times scivola su un proprio scoop e riesce a trasformare un successo in una disgrazia. Nel 2003 ci fu lo scandalo di Jayson Blair, il cronista di colore considerato un genio, e che invece s'inventava gli articoli. La scorsa estate è stata la volta di Judith Miller: un mese in carcere per essersi rifiutata di rivelare le sue "fonti". Poi però si scopre che questa supposta eroina della libertà di stampa voleva soltanto proteggere l'amico Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Infine, il grande scoop del 15 dicembre: il presidente George Bush fa intercettare senza mandato le comunicazioni di cittadini americani in territorio americano, mentre una legge del 1979 lo proibisce.
Un 'colpo' giornalistico di gran peso politico, rimbalzato in tutto il mondo e arricchito dalla rivelazione (da parte del settimanale Newsweek) che il 6 dicembre Bush aveva convocato alla Casa Bianca editore e direttore del quotidiano newyorkese, scongiurandoli di non pubblicare l'articolo. Niente da fare. Trionfo del quarto potere. Peccato però che solo poche ore dopo il sito web Drudgereport abbia rivelato che quel commendevole scoop era stato tenuto nel cassetto per più di un anno, e che non era stato pubblicato prima del voto presidenziale del novembre 2004 per non interferire nella campagna elettorale.
Due giorni fa James Risen, l'autore dell'articolo, grande esperto di servizi segreti, ha pubblicato il libro 'State of War: The Secret History of the Cia and the Bush Administration'. Dentro c'è per intera la lunga inchiesta del 15 dicembre, più altre storie. Il libro è stato chiuso in tipografia mesi fa. Cos'è successo, allora? Il Times ha voluto fare un favore al proprio reporter, ritardando la pubblicazione dello scoop affinchè facesse da traino alle vendite del libro? Inconcepibile, per un giornale serio. Più credibile una seconda ipotesi: Risen, contrariato per la non pubblicazione dello scoop, si è preso un'aspettativa, ha scritto il libro, e solo in prossimità dell'uscita il Times si è deciso a pubblicare l'inchiesta, per non fare la figura del censore e fornire a Risen l'aureola del giornalista silenziato.
E qui entra in scena Byron Calame, una vera calamità per i vertici del New York Times. Il quale, prendendo sul serio il proprio ruolo di "public editor" del quotidiano, cioè di difensore dei diritti del lettore, ha mandato ben 28 domande al direttore Bill Keller: "Perchè il ritardo di un anno nella pubblicazione dello scoop? E' vero, come ha scritto lo stesso Risen il 15 dicembre, che il giornale ci ha messo così tanto perchè ha voluto sottoporre l'inchiesta a tutte le verifiche possibili? Quali sono state queste verifiche? Come mai c'è voluto un anno per effettuarle? Quand'era pronta la prima versione dell'articolo? Prima o dopo il voto presidenziale del 2004? Quali pressioni avete avuto da Bush per la non pubblicazione?" E così via.
Keller si è rifiutato di rispondere a tutte le domande: "Non è possibile avere una discussione completa sui retroscena di questa storia senza rivelare quando e come abbiamo saputo quel che abbiamo saputo. E questo, non possiamo farlo", si è limitato a replicare seccamente. L'indomito Calame si è rivolto allora al giovane editore Arthur Sulzberger. Ma anche lui non ha volto rispondere. E allora il public editor si è vendicato pubblicando parola per parola sul New York Times, nello spazio a lui dedicato domenica scorsa, tutta la vicenda del suo inutile tentativo di chiarimento: "Un pesante silenzio sulle intercettazioni", è stato il titolo masochista inflitto agli increduli lettori.
Intanto, mentre da sinistra il Times è accusato di censura, a destra l'addebito è di aver danneggiato la lotta contro i terroristi. Per questo il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, con l'obiettivo di scoprire chi siano i confidenti di Risen dentro ai servizi segreti. Si apparecchia quindi un altro caso Miller, sulla protezione delle gole profonde in nome della libertà di stampa.
L'unica stampa che finora ha beneficiato della vicenda è stata quella del libro di Risen, nel quale sono contenute ulteriori rivelazioni sull'intelligence poco intelligente del dopo 11 settembre 2001. Nel settembre 2002, per esempio, la Cia reclutò un'anestesista irachena ormai cittadina americana, Sawsan Alhaddad di Cleveland, spedendola a Bagdad da suo fratello, scienziato coinvolto nel programma nucleare di Saddam Hussein. Il quale, stupito dalla sue insistenti domande, le rivelò che il programma non esisteva più da dieci anni. Altri trenta parenti di scienziati iracheni furono inviati in Iraq con missioni pericolose di questo tipo, tutte senza esito. Ciononostante, nell'ottobre 2002 i servizi Usa conclusero ufficialmente che Saddam aveva ricominciato il programma atomico.
Un altro inquietante capitolo del libro rivela che un dirigente Cia inviò per sbaglio a un proprio agente iraniano un documento dal quale si potevano individuare tutte le spie che l'agenzia aveva in Iran. Quell'agente purtroppo faceva il doppio gioco: nel giro di poche settimane la rete spionistica americana in Iran fu quasi completamente smantellata, con arresti e incarcerazioni. Chi ha visto l'ultimo film di George Clooney, "Syriana", non fatica a credere a questi incidenti.
Mauro Suttora