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Wednesday, May 18, 2016

Cos'è Casa Pound?

ECCO I FASCISTI DEL TERZO MILLENNIO A Bolzano hanno superato il 6%, con tre eletti. Orasi presentano a Roma, Torino, Milano e Napoli. Un anno fa stavano con Salvini. Adesso l’estrema destra è tornata sola. Ma l’ha sdoganata perfino la Boschi

Oggi, 18 maggio 2016

di Mauro Suttora

Difficile far somigliare una tartaruga a una svastica. Ci provano, con un simbolo nero su sfondo rosso, come nelle inquietanti bandiere naziste, i «fascisti del terzo millennio» (autodefinizione) di CasaPound.

Il movimento ha ottenuto un clamoroso 6% al voto di Bolzano, eleggendo tre consiglieri comunali. E ora guarda con speranza al 5 giugno, quando presenterà proprie liste a Roma, Torino, Latina e Lanciano (Chieti). A Milano c’è un’alleanza con il candidato sindaco Nicolò Mardegan (ex An, Pdl e Ncd), a Napoli con Marcello Taglialatela (deputato Fdi), a Sulmona (L’Aquila) con la lista Sovranità.

A dare una mano alla notorietà dei neofascisti si è aggiunta Maria Elena Boschi: ha accusato i propri colleghi Pd di «votare come CasaPound» se diranno no alla riforma costituzionale nel referendum di ottobre. «Ringrazio per lo spot, le manderò un mazzo di rose rosse», ha replicato alla ministra Simone Di Stefano, vicepresidente dei casapoundini.

Ma cos’è CasaPound? E perché si chiama così? Tutto è iniziato nel 1994, quando il Msi (Movimento sociale italiano) andò al governo con Silvio Berlusconi e si trasformò in An (Alleanza nazionale).

I missini più estremisti rifiutarono la svolta, e si frantumarono in partitini come Fiamma Tricolore, La Destra, Forza Nuova. I movimentisti si diedero a lotte sociali, e nel 2003 occuparono un palazzo a Roma, in via Napoleone III, fra la stazione Termini e Santa Maria Maggiore: casa Pound, appunto, in ricordo del poeta fascista statunitense Ezra (riquadro nella pagina seguente).

Perché proprio Pound? 
«Per le sue teorie economiche», spiega a Oggi Di Stefano, «perché era contro l’usura delle banche e voleva che il popolo si riappropriasse della moneta nazionale». Teoria propagandata negli anni 90 dal professor Giacinto Auriti e fatta propria anche da Beppe Grillo.

Nel 2008 Gianluca Iannone, musicista e presidente di CasaPound, si candida con La Destra di Daniela Santanché e Francesco Storace. Alle politiche 2013 ottengono 47mila voti (0,14%), un po’ più della Fiamma di Luca Romagnoli e la metà di Forza Nuova di Roberto Fiore, entrambi detestati.

Con Mario Borghezio

Due anni fa alle europee fanno eleggere il leghista Mario Borghezio e inizia la collaborazione con Matteo Salvini, culminata con il comizio comune a piazza del Popolo nel febbraio 2015. Poi però la Lega preferisce tornare all’alleanza con il Pdl, vittoriosa alle regionali in Veneto e Liguria.

La nuova spaccatura nel centrodestra per le comunali di Roma, con Berlusconi e Marchini da una parte e Salvini e Giorgia Meloni dall’altra, non ha fatto rientrare nei giochi CasaPound, che nella capitale spera di ottenere almeno un seggio con il 3,5%: «In realtà Salvini ha messo la Meloni a friggere», maligna Di Stefano, «e lei c’è cascata con tutte le scarpe».

A Milano invece il centrodestra si presenta unito con Stefano Parisi. Il quale rifiuta qualsiasi contatto con l’estrema destra, e ha protestato per la presenza nelle liste della Lega del neofascista 25enne Stefano Pavesi.

Così, i candidati di CasaPound hanno trovato ospitalità nella lista Noi x Milano dell’avvocato Mardegan. Seconda capolista è Angela De Rosa: «Priorità alla lotta contro l’immigrazione e i rom, e per la sicurezza».
Ma questo lo dicono anche Lega e Fratelli d’Italia.
«Sì, ma cosa potranno fare, alleati con i moderati di Forza Italia?»
E allora voi mettetevi con Forza Nuova.
«No, loro sono confessionali».
In che senso?
«Cattolici. Sono contro le unioni gay».
Ah, voi siete a favore?
«Sì, siamo laici. Ci opponiamo solo alle adozioni».
Ma in lista con voi a Milano c’è il Popolo della famiglia dell’integralista Mario Adinolfi.
«È solo un’alleanza tecnica».

CasaPound in Italia ha duemila tesserati (15 euro l’anno), sedi in ogni regione, 15 librerie, venti pub, otto associazioni sportive (pallanuoto, hockey, immersione, moto, ma anche le più marziali paracadutismo e pugilato del “circolo combattenti”), web radio e tv.

Contro i centri sociali

Senta, Di Stefano, anche quest’anno, come ogni 29 aprile, alla commemorazione per il vostro martire Sergio Ramelli a Milano c’erano cortei contrapposti, tensione, traffico bloccato, elicotteri della polizia.
«Lo dica ai centri sociali, che vengono sempre a disturbarci».
Ma sono passati 40 anni ormai.
«E ne sono passati 70 dalla fine della guerra civile, anche noi vorremmo andare oltre».

«Oltre», per CasaPound, significa chiudere le frontiere agli immigrati, cacciare i rom di nazionalità non italiana, mutuo sociale (senza interessi), e soprattutto «sovranità». Ovvero: no euro. In questo siete uguali ai grillini. «No, siamo l’esatto contrario: crediamo nella politica, non siamo antipolitici e qualunquisti».
Mauro Suttora

EZRA POUND: 12 ANNI DI MANICOMIO CRIMINALE AL POETA USA MUSSOLINIANO

È stato uno dei maggiori poeti del Novecento, e solo le sue idee politiche gli hanno impedito di vincere il Nobel. Ezra Pound, nato nell’Idaho, visse dal 1925 al ’45
a Rapallo (Genova).

Era contro il marxismo e il capitalismo. Incontrò una sola volta Mussolini, nel ’33, ma ne rimase affascinato e lo paragonò a Jefferson, terzo presidente Usa. Durante la guerra tenne 600 discorsi di propaganda per il regime alla radio italiana, attaccando «gli ebrei, banchieri usurai». Aderì alla Repubblica di Salò, nel ’45 fu arrestato e consegnato agli americani.

Subì un tracollo mentale, gli fu diagnosticata una schizofrenia e passò 12 anni in un manicomio criminale a Washington. Nel 1957 i suoi amici Hemingway e Robert Frost riuscirono a farlo liberare, e Pound tornò in Italia. Morì a Venezia nel ’72, dov’è sepolto, circondato dall’affetto di poeti come Ferlinghetti e Pasolini.

Nel 2011, dopo due omicidi razzisti avvenuti a Firenze, la figlia di Ezra Pound ha dichiarato di procedere per vie legali contro CasaPound perché riteneva infangato il nome di suo padre: «Un’organizzazione politica compromessa come questa non ha nulla a che fare con lui».
Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2016

Roma ci costa mezzo miliardo all'anno

Il buco finanziario della Capitale è pagato da tutti gli italiani, oltre che dai romani tassati con l’addizionale Irpef più alta d’Italia

Oggi, 4 maggio 2016

di Mauro Suttora

«Roma ha 2700 anni di storia e da 145 è la capitale del paese. È la città con il patrimonio culturale più ricco del mondo, e tra le più visitate. Ma l’ex Caput Mundi è in una situazione drammatica, con una classe politica dimezzata dagli scandali e una macchina amministrativa devastata da clientele, inefficienza (assenteismo con punte del 30 per cento) e dalle inchieste che ne hanno messo a nudo la corruzione sistematica».

Così Daniele Frongia (consigliere comunale 5 stelle) e la giornalista Laura Maragnani iniziano il loro libro E io pago (ed. Chiarelettere), in cui fanno tutti nomi e le cifre del disastro Roma.

Tassa di 7 euro in hotel

«Un disastro che non riguarda più solo i romani, che ormai pagano le tasse locali più alte d’Italia (l’addizionale Irpef arriva al 9 per mille!) in cambio di servizi indegni di una città civile. Roma è un danno per l’Italia intera, di cui è l’indecente biglietto da visita, e una sciagura economica per tutti i contribuenti, che dal 2008 sono costretti ogni anno ad accollarsi il finanziamento salva-Roma.

È una gabella che ammonta a 300 milioni di euro, più un euro di sovrattassa su tutti coloro che transitano dagli aeroporti di Ciampino e Fiumicino, e dai 3 ai 7 euro a notte per i turisti negli alberghi della città. E sono altri 200 milioni», scrivono Frongia e Maragnani.

Insomma, Roma costa all’Italia oltre mezzo miliardo solo per ripianare il buco che si è lasciata alle spalle. Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001) trovò 3,6 miliardi di debiti. Con Walter Veltroni (2001-8) sono saliti a sette, e dopo Gianni Alemanno (2008-13) e Ignazio Marino, ora ammontano a 13,6 miliardi.

Ogni sindaco ha qualcosa sulla coscienza. Cattedrali nel deserto come la “Città dello sport” dell’archistar Calatrava, voluta da Veltroni, “grande opera” gestita da Guido Bertolaso: doveva essere pronta per i mondiali di nuoto 2009, ora provano a resuscitarla per le olimpiadi 2024, ma sta già cadendo a pezzi a Tor Vergata. È costata 600 milioni, il preventivo era 60.

La Nuvola di Massimiliano Fuksas all’Eur: 300 milioni di scostamento tra previsione e consuntivo. La nuova Fiera di Roma: 360 milioni. La metro C ha già sfondato i preventivi per 800 milioni, e chissà se verrà mai terminata: rischia di non arrivare a San Pietro.

E poi: i 400 milioni che il Comune avrebbe potuto incassare dai vari condoni, e che nessuno ha mai visto. I milioni per Imu, Ici più altri «tributi non pagati dal Vaticano» e i «servizi non dovuti (non previsti dai Patti Lateranensi) che vengono offerti gratuitamente alla Chiesa» sono 400.

Morosi 8 inquilini su 10

Basterebbe far pagare gli affitti degli immobili comunali per riportare il bilancio in attivo, senza saccheggiare ulteriormente le tasche degli italiani. L’80 per cento degli inquilini è moroso. Su 55mila beni di proprietà comunale, c’è un danno economico di 150 milioni l’anno solo a causa degli affitti troppo bassi di ville, case e negozi. Ben 15 milioni il Campidoglio potrebbe incassarli adeguando l’importo di concessioni balneari e parcheggi privati, altri 10 rivedendo all’insù i canoni dei grandi impianti sportivi.

Il buco nero dell’Atac

Ogni anno un centinaio di milioni vengono buttati in municipalizzate (soprattutto Atac, trasporti) e partecipate. Solo un esempio: ogni anno «Ama (spazzatura) raccoglie materiale che vale 39 milioni e lo rivende a 8», scrivono Frongia e Maragnani. 

Roma non è la prima città italiana a rischiare la bancarotta: successe a Taranto nel 2005 con 500 milioni di buco, a Catania nel 2008 (un miliardo), ad Alessandria nel 2012.
Ma Roma è la Capitale, non può fallire. Così, capita che Franco Panzironi, nominato da Alemanno capo dell’Ama con stipendio da 545mila euro, assuma clientelarmente 41 persone all’Atac, fra cui il futuro genero (Armando di nome e Appetito di cognome) e la propria bellissima segretaria personale Gloria Rojo. 

Risultato: tutti licenziati e Panzironi condannato a 5 anni e 3 mesi.
Perfino l’immacolata Virginia Raggi, candidata sindaca 5 stelle favorita al voto del 5 giugno, è rimasta sporcata da Parentopoli: ora si scopre, dopo il suo lavoro nascosto nello studio di Cesare Previti, che è stata presidente di una società della Rojo.

Che fare, allora? «Per voltar pagina basterebbe che il Comune di Roma la smettesse di schifare i soldi», sostengono Frongia e Maragnani. Se solo facesse pagare affitti ragionevoli, incasserebbe 200 milioni in più all’anno. 
Se per esempio affittasse il suolo pubblico a bar e ristoranti in centro ai prezzi di Londra (2 euro al mq ogni giorno), di Parigi (1,5), o di Milano e Firenze, invece di regalarlo a 80 centesimi.

Al resto pensano i magistrati. Ma i traffici di Mafia Capitale, fra coop, rom e immigrati, valevano poche decine di milioni. I veri affari sono ben altri: «La metro C alla fine ci costerà sei miliardi», avverte Riccardo Magi, consigliere comunale radicale.

Mauro Suttora

Wednesday, January 20, 2016

Espulsa la senatrice grillina Fucksia

Disastro 5 stelle: dopo le infiltrazioni della camorra

PARLA LA SENATRICE SERENELLA FUCKSIA: “ECCO I SEGRETI DEGLI ELETTI GRILLINI”

«Fico e Di Maio? O complici o incapaci». 
«Noi parlamentari eseguiamo decisioni prese altrove»
«Siamo onesti? No, ipocriti».
L’ultima dei 37 parlamentari fuoriusciti racconta

Oggi, 20 gennaio 2016

di Mauro Suttora



DOPO LE INFILTRAZIONI DELLA CAMORRA NEI 5 STELLE
«Fico e Di Maio? Ripeto loro quel che dissi già nel 2014 ai dirigenti della banca Marche in fallimento: dovete dimettervi, perché o sapevate – e allora siete complici – o non vi siete resi conto di nulla – e allora siete inadeguati e incapaci».

La senatrice Serenella Fucksia è stata espulsa dal Movimento 5 stelle in contemporanea allo scandalo della camorra che ha infiltrato il M5s nell’unico comune campano che governano: Quarto (Napoli), 42mila abitanti.

«Un conto è fare comoda opposizione con slogan e discorsi preparati ad arte da professionisti della comunicazione, un altro è amministrare realtà difficili. Non ci si improvvisa politici. Occorre preparazione, esperienza, consapevolezza dei limiti e anche il coraggio di assumersi responsabilità.
Non dovevano lasciare il cerino in mano alla sindaca 5 stelle di Quarto. L’hanno difesa per un mese, ma dopo un improvviso contrordine l’hanno espulsa».

Come lei.
«Nel mio caso il motivo è pretestuoso e inesistente. Il regolamento del gruppo parlamentare del Senato è stato violato, perché ogni espulsione dev’essere votata dall’assemblea dei nostri senatori. Hanno preso la scusa di un mio ritardo di pochi giorni nella rendicontazione delle spese. Ma tutti sapevano che l’avrei completata entro il 29 dicembre, e così è stato».

La sua espulsione è stata votata sul blog di Casaleggio.
«La rete è stata manipolata e ingannata. Una farsa senza alcuna garanzia per i diritti elementari della difesa».

A chi ha pestato i calli, senatrice?
«A più persone. Da quando è capogruppo l’avvocato Mario Giarrusso sono stata vittima di mobbing da parte sua. Ha ostacolato la mia attività parlamentare».

Di cosa si occupa?
«Semplificazione, tutela animali, salute e sicurezza sul lavoro».

E cos’è successo?
«Giarrusso mi ha cambiato forzosamente di posto in aula. Mi ha tolto a mia insaputa dalla commissione sanità dove sono competente, visto che sono medico, per mettermi in un’altra dove non so nulla. Voleva cacciarmi dal mio ufficio. Lo denuncerò al presidente Grasso. E per chiarezza ho presentato ricorso al comitato d’appello 5 stelle».

Un bell’ambientino, il vostro.
«Dopo la mia espulsione c’è imbarazzo e silenzio. Il dibattito sulle proposte da discutere in aula è inadeguato. Le nostre assemblee, sempre più inconcludenti e disertate, ratificano decisioni prese altrove, da qualche cerchio magico, in parte noto e in parte oscuro».

Quasi 40 parlamentari grillini su 160 se ne sono andati, fra espulsi e fuoriusciti. Continuerà così?
«Il movimento ha ancora un potenziale inespresso enorme, ma il meglio viene coperto da logiche propagandiste e di rivalità elettorale».

Cioè?
«La comunicazione conta più della sostanza, l’arroganza più del merito. All’onestà sostanziale si è sostituita un ipocrita perbenismo di facciata. Oltre alla chat ufficiale ci sono chat segrete parallele per i fedelissimi. Chiediamo trasparenza agli altri, ma al nostro interno regna l’oscurità».

Come si è avvicinata ai grillini?
«Nel 2010 ai ragazzi 5 stelle di Fabriano piacque un mio intervento a un convegno ambientale, e mi coinvolsero. Si vedevano una sera alla settimana in pizzeria. Mi ritrovai riempilista alle comunali. Venne Grillo per un comizio, sul palco mi fece un endorsement fantastico, eleggemmo due consiglieri col 15%, io non passai per un voto. C’era un entusiasmo trascinante, fu un periodo bellissimo».

Nel 2013, il Senato.
«Anche lì, per puro caso. Nelle Marche c’erano realtà 5 stelle più grandi e collaudate: Ancona, Pesaro, Macerata, Civitanova… Nessuno di noi pensava di essere eletto. Invece una sera mentre tornavo da Reggio Emilia, dove seguivo varie aziende come medico della sicurezza sul lavoro, mi telefonano per dirmi che ero capolista al Senato. Quando fui eletta mia madre mi disse: “Lasci il tuo lavoro? Ma sei pazza?” E io: “Mamma, non ho problemi economici, vincoli, mutui, figli. Se non lo faccio io, chi lo deve fare?”»

Quando iniziarono i problemi?
«Con le gelosie dei non eletti. Qualcuno non ce l’ha fatta tre, quattro volte: in comune, alle politiche, alle europee nel 2014 e poi alle regionali lo scorso giugno. Così il clima è diventato infernale. Ma in tutti i gruppi locali ormai è così. Hanno appena espulso un consigliere regionale marchigiano, un ingegnere competente».

E a Roma?
«Dopo pochi mesi in Senato già cominciarono cose strane, qualcuno che contava più di qualcun altro. Poi è scoppiata la guerra fra fedeli e dissidenti. Io ero contraria alle epurazioni. Però con Casaleggio e soprattutto con Grillo non ho mai avuto problemi. Beppe mi ha telefonato anche dopo la mia espulsione, era dispiaciuto…»

Lacrime di cocco… Grillo?
«No, mi è sembrato sincero. Il problema non sono i capi, ma i caporali. Con molti di loro sembra di essere all’asilo infantile».

Eppure il M5s vola nei sondaggi.
«Finora per autogol altrui. I meriti reali sono ancora da dimostrare».

Mauro Suttora

Wednesday, August 05, 2015

intervista a Boncinelli

LE DUE GIOVANI FOGGIANE SCAMBIATE IN CULLA: PARLA IL MASSIMO GENETISTA ITALIANO

di Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2015

La nostra personalità è determinata dal Dna o dalla vita? Il caso delle due ragazze foggiane scambiate in culla 26 anni fa può illuminare l’eterno dibattito fra innatisti e empiristi? 
Insomma, alla nascita quel che noi saremo è già deciso dai geni, o siamo una tabula rasa che verrà plasmata dall’educazione e dall’esperienza?

«Sicuramente agli studiosi piacerebbe indagare sulla loro vicenda», risponde a Oggi Edoardo Boncinelli, massimo genetista italiano, «anche se per approdare a risultati scientifici un caso solo non fa testo».

Una ragazza è piombata in un ambiente sfortunato, tanto che poi è stata adottata da un’altra famiglia, mentre la seconda ha avuto una vita agiata, ma non priva di difficoltà psicologiche.
«Naturalmente oggi è difficile ricostruire la vita delle due ragazze, quanto ora siano simili a quel che erano da piccole, e come l’ambiente abbia influito sul loro carattere. Il problema è che la somma fra geni e vita non arriva mai a cento».

Cioè?
«Non osa dirlo nessuno, ma da trent’anni sappiamo che Dna e ambiente contano ciascuno al massimo un 33 per cento».

E il resto?
«Il terzo fattore si chiama caso. Fortuna. Nulla spiega il genio di Michelangelo o Leonardo: né i genitori, né l’educazione ricevuta».

Quindi anche il destino delle due ragazze era imponderabile? Se così fosse, non avrebbero diritto a risarcimenti.
«Le variabili sono infinite. La forza di volontà, per esempio, è temprata dalla vita. Il successo stimola il carattere, fino al punto di cambiare la capacità di realizzazione del soggetto».

Pensavamo il contrario: che siano le difficoltà, e non la bambagia, a creare personalità forti.
«E invece certi apatici al primo successo partono in quarta. L’appetito vien mangiando».

Comunque, dicono gli scienziati, gli scambi in culla sono rari. E pochissimi vengono scoperti. Quindi, gli studi sul conflitto natura/società riguardano casi più frequenti: Dna uguali cresciuti in ambienti diversi (fratellini separati alla nascita), o Dna diversi cresciuti nello stesso ambiente (figli adottati o illegittimi). E, da qualche anno, quell’immensa miniera statistica che sono le fecondazioni artificiali. Sempre che i donatori di seme abbiano fornito informazioni, e che ai figli venga rivelato il genitore biologico.
Mauro Suttora

Wednesday, April 29, 2015

Sinistra, destra? No, la Resistenza è di tutti

«Prima sembrava che i partigiani fossero solo comunisti. ultimamente li hanno dipinti come criminali. La verità è che tutta l’italia si è ribellata ai nazifascisti», dice il giornalista-scrittore Aldo Cazzullo. E lo dimostra con un libro

di Mauro Suttora

Oggi, 22 aprile 2015

Fanno venire i brividi, le lettere dei condannati a morte della Resistenza. «Babbo adorato, se la mia vita fu serena e facile lo devo a te, che mi hai guidato col tuo amore, col tuo lavoro, col tuo esempio. Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero».

Franco Balbis non era comunista, non faceva politica. Era capitano di carriera dell’esercito, aveva combattuto con valore in Africa e Croazia. Dopo l’8 settembre 1943 era entrato in clandestinità per combattere l’invasore. I fascisti lo presero nel marzo ’44, nella sacrestia del Duomo di Torino.

Tutti fucilati alla schiena
Poche ore dopo quella lettera, Balbis viene fucilato alla schiena con altri otto partigiani comandati dal generale Giuseppe Perotti. Uno solo di loro era comunista.

«In nessuna delle lettere c’è un’espressione di odio o anche solo di rancore verso i loro carnefici», dice Aldo Cazzullo, editorialista del Corriere della Sera.

Possa il mio sangue servire (Rizzoli) è il titolo del suo ultimo libro, che a 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale traccia un bilancio «non partigiano» della lotta di liberazione. 

«Gli uomini e le donne della Resistenza avevano ragione», dice Cazzullo, «fecero la scelta giusta, schierandosi contro l’invasore nazista e i suoi collaboratori. Eppure questa ovvietà, mai messa in discussione in nessuno dei Paesi occupati da Hitler, in Italia non viene accettata». 

Perché?
«Prima la Resistenza era considerata solo una “cosa di sinistra”: fazzoletto rosso e Bella Ciao. Poi, negli ultimi anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari che si accanirono su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”».

E invece?
«La Resistenza è patrimonio dell’intera nazione, non di una fazione. Fu fatta da comunisti, ma anche da cattolici, socialisti, liberali, monarchici, apolitici. E da donne, militari, suore, ebrei, preti, carabinieri. Case che si aprono nella notte, feriti curati nei pagliai, ricercati nascosti in cantina. Migliaia di episodi di eroismo che non si trovano nei libri».

Il 25 aprile ricordiamo 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il 24 maggio cent’anni dall’inizio della Prima.

«Entrambe hanno avuto pagine eroiche e vergognose. Dopo l’8 settembre, su 810mila soldati italiani fatti prigionieri, meno di 200mila si schiereranno con Salò. La grande maggioranza sceglie le sofferenze della prigionia, piuttosto che schierarsi con gli occupanti nazisti».

E la strage di Porzûs, in Friuli?

«Va raccontata anche quella: partigiani comunisti che assassinarono partigiani cattolici come Guido Pasolini, fratello dello scrittore Pier Paolo, e Francesco De Gregori, zio del cantautore che ne porta il nome».
Mauro Suttora  

Wednesday, January 07, 2015

L'incubo del traghetto Grecia-Ancona


FUOCO, FUMO, MARE FORZA OTTO, SOCCORSI IMPOSSIBILI. POI IL BUIO, FREDDO, PAURA. INFINE LA SALVEZZA

Oggi, 29 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Alla faccia della cavalleria. «Quando gli elicotteri dei soccorsi sono arrivati, i passeggeri si sono fatti prendere dal panico», racconta Christos Perlis, 32 anni, camionista greco che era sul traghetto Norman Atlantic. «Tutti si pestavano per salire. Io e un altro abbiamo cercato di imporre un po’ d’ordine. Prima i bambini, poi le donne, poi gli uomini. Ma alcuni uomini hanno cominciato a colpirci, volevano entrare per primi. Non hanno dato la precedenza, niente».

L’incubo è durato ben 37 ore. Soltanto 170, sui quasi 500 fra passeggeri ed equipaggio, sono stati salvati il primo giorno. L’incendio è divampato in piena notte, alle 4 e mezzo. Tutti dormivano in cabina. Molti si sono accorti del pericolo soltanto per il fumo che entrava sotto le porte. Ma il mare in tempesta ha impedito alle navi in soccorso di avvicinarsi. E gli elicotteri non riuscivano ad atterrare sul ponte per il fumo e il rollio. Così gli unici a riuscire a scappare sono stati quelli imbarcati nelle scialuppe.

Un giorno e una notte ad aspettare e sperare

Poi è calata la notte. Ed è lì che per molti dei 300 ancora imbarcati è iniziato il vero inferno: freddo, fumo, onde da far venire il vomito, spruzzi. E tanta paura.
«Io e mio marito siamo stati più di quattro ore in acqua. Ho tentato di salvarlo ma non ci sono riuscita, lui mi diceva “moriamo, stiamo morendo”», racconta Teodora Doulis, 56 anni, greca, moglie di Georghios, 67, una delle otto vittime (bilancio purtroppo provvisorio). I due si erano gettati in mare per raggiungere la scialuppa. Il marito potrebbe essere deceduto per ipotermia.

«L’ho visto morire. Eravamo sullo scivolo della nave, lui davanti, io dietro. È rimasto impigliato a un telo di plastica e io non riuscivo a scendere. Ci davano fretta e ci dicevano di scendere, ed eravamo bagnati perché raggiunti dai getti d’acqua utilizzati per spegnere le fiamme. Alla fine siamo scesi in acqua, tenuti a galla dai salvagenti. C’era una nave, ma troppo lontana per soccorrerci. Siamo rimasti così più di quattro ore, nuotavo, per fortuna non avevo gli stivali. A mio marito usciva sangue dal naso, forse perché aveva battuto la testa sulla nave».

«A un certo punto», continua disperata la donna, «è arrivato un soccorritore che ha tentato di tagliare il telo in plastica in cui era rimasto intrappolato mio marito. Ma quando al secondo tentativo c’è riuscito, lui è morto tra le sue braccia. Ho visto anche un’altra persona morta, il cadavere era accanto a mio marito, aveva addosso una ciambella di salvataggio ma si vedeva che era privo di vita».

L’incendio è partito da uno dei cento camion nel garage, e si è propagato alle 150 auto. Soltanto una quarantina di passeggeri erano italiani. Duecento i greci. Tutti gli altri, di ogni nazionalità.
Il traghetto era nuovo. Varato a fine 2009 dai cantieri Visentini di Rovigo, apparteneva alla società Visemar, stesso gruppo. Ma in questi pochi anni ha cambiato vorticosamente mari, nomi e affittuari: prima la rotta Genova-Termini Imerese (Messina) finché qui c’era la fabbrica Fiat, poi Siremar, Grandi navi veloci e Moby per la Sardegna con il nome Scintu, infine i collegamenti con la Grecia con caronte e, attualmente, la compagnia greca Anek.

Il comandante italiano Argilio Giacomazzi, 62 anni, di La Spezia, è stato l’ultimo a lasciare la nave, prima che venisse trainata dai rimorchiatori nel porto di Brindisi. Almeno non c’è stato un altro caso Schettino.
Mauro Suttora

Thursday, September 25, 2014

Quanti colpi di sole, dottoressa Lorenzin!


LA POLITICA DI PUNTA DELL'NCD TRA GAFFES E POLEMICHE

Scandalo Avastin, fecondazione eterologa, figli dei gay: sono tanti i terreni scivolosi per il ministro della Salute. Che dice di avere «il dono dell'obliquità». E dà consigli medici senza essere laureata

Oggi, 24 settembre 2014

di Mauro Suttora

Per carità, un lapsus può sempre scappare. Ma si sono guardati perplessi i senatori della commissione Salute quando il ministro Beatrice Lorenzin (Nuovo Centrodestra) ha detto testualmente, chiudendo il proprio cellulare che squillava: «Abbiamo il dono dell’obliquità», scambiandola con l’ubiquità (per vedere la gustosa scenetta, andate qui).

Quell’audizione era piuttosto delicata, perché la ministra doveva difendersi dalle accuse di inerzia di fronte allo scandalo Avastin/Lucentis: un farmaco contro la maculopatia degli occhi fatto pagare al servizio sanitario nazionale cento volte più dell’equivalente concorrente. C’è voluta una multa di 180 milioni di euro da parte dell’Antitrust per sanzionare la manovra di due multinazionali ai danni dell’erario: il ministero della Salute, retto dalla Lorenzin già dal 2013 nel governo Letta, non aveva bloccato la speculazione.

Non è l’unico terreno scivoloso che la giovane, simpatica e bella ministra Lorenzin (praticamente una sosia di Meg Ryan) ha affrontato negli ultimi tempi.

Francesca Vecchioni, figlia gay del cantautore Roberto, si è risentita perché la Lorenzin è contro le adozioni nelle coppie omosessuali. La ministra infatti ha detto: «La letteratura psichiatrica, da Freud in poi, riconosce l’importanza di avere un papà e una mamma per la formazione della personalità del bambino. Non aspettiamo che lo Stato ci risolva i problemi».
Ribatte la Vecchioni, senza infierire sulla  confusione fra psichiatria e psicanalisi di Freud: «Per lei le mie bambine, figlie mie e della mia ex compagna, sono “problemi”».

Un altro episodio, per il quale la Lorenzin è stata accusata di non avere una laurea in Medicina, né una laurea purchessia, sono le rubriche di consigli medici (prevenzione delle smagliature comprese) che tiene sui settimanali Visto e Tutto: «Temi di competenza esclusivamente sanitaria», l’ha attaccata Melania Rizzoli, responsabile Sanità di Forza Italia, aggiungendo con perfida ironia: «Mi sento di escludere che sia così imprudente da tenere una rubrica specialistica».

Anche sulla fecondazione eterologa la Lorenzin è criticata: non ha preparato rapidamente una direttiva nazionale, lasciando così spazio a regole diverse in ogni Regione.
Insomma, bersagliata a destra e a manca, aveva proprio bisogno di un po’ di relax al mare.
Mauro Suttora

Wednesday, September 03, 2014

Mare nostrum o Frontex?

IMMIGRATI: CHI SE NE DEVE OCCUPARE?

di Mauro Suttora

Oggi, 27 agosto 2014

Da dieci anni l’Unione europea ha un’Agenzia apposita per fronteggiare gli immigrati clandestini: la Frontex (nome completo: Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne). Sede a Varsavia, 317 dipendenti, 90 milioni di bilancio annuale. 

All’Italia l’operazione Mare Nostrum per salvare i disperati dei barconi è costata 110 milioni questo primo anno. Il 19 ottobre scade, e il nostro governo chiede che del problema si occupi tutta l’Europa, senza scaricarlo sugli Stati mediterranei (oltre a noi, Grecia, Malta e Spagna). Ma la Frontex è in grado di subentrare a Mare Nostrum?

In teoria, l’Agenzia ha 21 aerei, 27 elicotteri e 116 navi. «Ma solo sulla carta, perché appartengono ai 28 Stati della Ue che li mettono a nostra disposizione», ha spiegato Ilkka Laitinen, direttore dimissionario finlandese di Frontex. «Se li usassimo tutti contemporaneamente, esauriremmo i nostri fondi in due settimane».

In realtà il problema è politico. Queste navi, chiunque le paghi, devono respingere i migranti o accoglierli? La Ue è più severa dell’Italia. Il nostro governo varò Mare Nostrum dopo la strage di 300 clandestini annegati un anno fa, di fatto cessando la politica dei respingimenti. Che invece molti governi europei vorrebbero applicare contro chi non ha diritto all’asilo politico. 

Frontex destina solo 21 milioni annui a operazioni marittime, e il suo bilancio è stato ridotto di 25 milioni rispetto a tre anni fa. Sarà una dura battaglia, a Bruxelles.

Wednesday, August 27, 2014

Glenn Close in W la Gente!

La sigla finale di Techetechetè su Rai1 ogni sera ci mostra l'attrice di Attrazione fatale mentre cantava ventenne nel coro del musical americano

di Mauro Suttora

Oggi, 20 agosto 2014
Ogni sera su Rai1, dopo le nove,  la sigla finale di Techetechetè mostra il coro gioioso dei ragazzi di Viva la gente! Era un musical americano approdato nel 1968 in Italia, che lanciava un contagioso messaggio di fratellanza. E fra i giovani statunitensi in tournée per il mondo, c’era Glenn Close. Facile riconoscerla: è la prima a destra in prima fila.
L’attrice diventata famosa negli anni 80 con Il Grande Freddo e Attrazione Fatale era entrata nel cast di Up With People! (titolo originale del musical) già nel 1964, 17enne, e vi rimase per cinque anni. Fu anche ricevuta da Paolo VI quando il Papa onorò il cast di passaggio a Roma con un'udienza nel 1969.

Quel che pochi sanno, però, è che Glenn Close, impegnata politicamente a sinistra, nel 2012 ha rinnegato quell'esperienza: «Era una setta, il braccio musicale di un movimento di destra che si chiamava “Riarmo morale”. La mia famiglia vi aderì quando avevo sette anni, e ci rimasi fino a quando andai all'università. Era un culto, tutti dovevano pensare allo stesso modo. Devastante. Però quell’esperienza mi è servita per riuscire a osservarmi dal di fuori, e questo per un'attrice è fondamentale».

Concorrenza a «Hair»
Viva la gente! faceva concorrenza ad altri musical dell'epoca come Calcutta, Godspell e Hair, ispirati dalla moda hippy. Che però, in base al motto «Pace & Amore», era anche piena di musica rock, droga e controcultura antimilitarista. Erano infatti gli anni delle proteste contro la guerra in Vietnam, che fece 50mila morti fra i giovani americani di leva obbligati a combattere.

Niente di tutto questo nel movimento Up With People, rigorosamente apolitico e anzi ossequioso verso le autorità. Un movimento peraltro attivo ancor oggi, con sede a Denver in Colorado, che continua a organizzare tournée del fortunato musical. Gli interpreti sono giovani provenienti da tutto il mondo, e in questo mezzo secolo si sono avvicendati in migliaia per cantare l’inno che fu della giovane soprano Glenn Close.
Mauro Suttora

Wednesday, May 14, 2014

Tifosi violenti


COME SCONFIGGERLI

di Mauro Suttora

Oggi, 7 maggio 2014

Soltanto in Italia e in Serbia i tifosi violenti vengono ancora tollerati. I Paesi del Nord Europa hanno sconfitto da tempo gli hooligans. Non che siano scomparsi: se ne sono accorti lo scorso dicembre quelli del movimento dei Forconi che a Milano bloccavano da giorni il traffico a piazzale Loreto. Bastò che arrivasse un pullman olandese, da cui scesero minacciosi tifosi alticci, per far scappare tutti.

GRAN BRETAGNA. La svolta avvenne nel 1985, dopo i 39 morti dell’Heysel (Juventus-Liverpool). Margaret Thatcher autorizzò l’arresto preventivo dei sospetti violenti e tappezzò stadi e dintorni di telecamere. Basta la prova visiva per farsi 24 ore di carcere, e il Daspo (Divieto di accedere a eventi sportivi) dura fino a dieci anni. Chi lo vìola finisce dentro, e a chi fa appello ma perde la condanna viene raddoppiata. Per evitare figuracce all’estero, con semplice provvedimento amministrativo i teppisti si vedono ritirare i passaporti. Negli anni ci sono state varie accuse di liberticidio, ma la linea dura continua.

Severità anche in FRANCIA: tre anni di galera a chi osa portare razzi allo stadio, due anni per chi si azzarda a ricostituire bande di tifosi sciolte dal ministero degli Interni. Il Paris Saint-Germain ha rinunciato a 13 mila abbonamenti di ultras. In Spagna bisogna prenotare il posto con nome e cognome anche nelle curve. E il Barcelona ha sciolto gli ultras Boixos Nois. In Germania vige l’arresto preventivo per gli ubriachi o i minacciosi. In Russia il Daspo dura fino a sette anni, e i violenti rischiano 160 ore di lavori socialmente utili.

RISULTATI POSITIVI. Ora gli stadi britannici sono pieni al 90 per cento,  e  due  spettatori su dieci sono donne. Gli stadi non hanno più barriere: il terreno di gioco è protetto solo dalla sua «sacralità», i tifosi ospiti siedono vicino a quelli di casa. Il calcio è tornato uno spettacolo per famiglie: si gioca il 26 dicembre, il 1° gennaio e a Pasqua. Gli impianti sono di proprietà dei club, con tutti i posti a sedere, moderni e accoglienti come teatri.

Mauro Suttora

Tuesday, July 30, 2013

Berlusconi: parla Brunetta


intervista di Mauro Suttora

Oggi, 24 luglio 2013

1) La sentenza del 30 luglio sarà veramente l'atto finale del confronto ventennale fra magistrati e Berlusconi?
“Magari l’assoluzione, che io ritengo logica, spegnesse i fuochi di guerra accesi da una certa parte della magistratura! Ci sono però altri processi se possibile più assurdi che hanno appena superato il primo grado. Di certo, se a fine luglio ci fosse una condanna, essa sarebbe nelle intenzioni dell’ala eversiva delle toghe la parola fine su Berlusconi. Comunque vada, costoro si illudono”.

2) Perche' il processo sui diritti tv e' cosi' importante?
“Se fosse confermata la sentenza della Corte d’Appello di Milano Berlusconi verrebbe estromesso dalla vita pubblica e forse anche dalla libertà. Si butterebbe nella pattumiera il voto di otto milioni di italiani. Lo sfregio alla vita democratica e alla sovranità popolare sarebbe difficilmente sanabile”.

3) Berlusconi e' un perseguitato politico? Altri imprenditori non sono stati presi cosi' di mira.
 “È un fatto evidente. Finché  Berlusconi è stato semplicemente un imprenditore, nulla gli è mai stato imputato. Da quando non si occupa più della sua azienda si sono accumulati contro di lui una trentina di processi, per intimidirlo e screditarlo. Non è solo un record tra gli imprenditori, ma un primato universale: Berlusconi è suo malgrado un campione mondiale, a prescindere dalla professione d’origine”.

4) I parlamentari Pdl esagerano nel contestare i magistrati?
“Noi non contestiamo la magistratura o la totalità dei magistrati in astratto. La questione riguarda un’ala eversiva di pm e di giudici. Alla loro battaglia politica rispondiamo con lotta politica. Quei magistrati però dispongono di armi letali, che si chiamano libertà e reputazione dell’avversario. Non dimentichiamo che Magistratura democratica ha teorizzato esplicitamente l’uso dei processi per scopi politici. E Berlusconi è il loro nemico giurato. Ma questo è limitato a un settore preciso, e dunque sbaglia chi fa di ogni toga un fascio. La divisione dei magistrati in correnti politicizzate non favorisce la percezione dell’imparzialità, per usare un eufemismo.
Adesso l’obiettivo del Pdl è quello di riformare la giustizia attraverso i sei referendum radicali: responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, basta con l’ergastolo, stop all’abuso della custodia cautelare. Ci sarà una grande mobilitazione per raccogliere le firme e per cambiare finalmente la giustizia grazie al voto popolare. Un grande segnale di democrazia”.

5) Sarebbe grave se Berlusconi fosse interdetto dai pubblici uffici? Non sarebbe il primo leader politico a essere condannato.
“Ripeto: l’interdizione dai pubblici uffici non sarebbe soltanto la negazione dei diritti politici di un uomo, ma l’eliminazione del leader che è la voce e l’anima del popolo di centrodestra, il quale sarebbe così defraudato irreparabilmente nella competizione politica, con un vantaggio clamoroso assegnato dai giudici alla sinistra”.

6) Da una condanna Berlusconi ci guadagnerebbe, elettoralmente?
“Non sono nella condizione di rispondere a una domanda che suppone un grado di cinismo che non possiedo. So che c’è chi si figura un Berlusconi il quale, estromesso dal Parlamento e da cariche pubbliche, continua a far politica dall’ufficio. Non ci voglio nemmeno pensare. Sono convinto lo assolveranno. E se non accadesse decideremo con lui il da farsi. Di sicuro il popolo dovrà essere chiamato alle urne. La crisi istituzionale impedirebbe a noi parlamentari e ai nostri ministri di continuare a lavorare dopo che ci hanno tagliato il capo, la testa”.

7) Il governo Letta cadrebbe? Nuovo voto? Governo senza Pdl?
“Non faremo cadere il governo Letta, non è questo il punto. La condanna innescherebbe una crisi istituzionale, il cui rimedio sarebbe solo l’urna elettorale.  Escludo che la sensibilità democratica del presidente Napolitano gli detti un comportamento diverso dalla convocazione dei comizi elettorali”.

8) Che fine farebbe il centrodestra senza Berlusconi?
“Non ho nessuna voglia adesso di prefigurare scenari da day after. Berlusconi comunque non sarebbe mica morto. Non smetterebbe di pensare e di essere un riferimento morale e dunque politico per milioni di italiani. Il progetto di Forza Italia sarebbe più attuale che mai, avrebbe le impronte di Berlusconi comunque”.

9) Chi glielo fa fare a Berlusconi di rimanere in politica a 77 anni?
“L’amore per l’Italia. Lo disse diciannove anni e mezzo fa: “l’Italia è il Paese che amo”. Spero non si stufi, come pure sarebbe legittimo. Ma lui ha una tempra incredibile, unica. Lo dico io, che non credo certo di essere uno che si piega. Ma il nostro Presidente non ha paragoni”.

10) Dopo Silvio, Marina Berlusconi?
“Se vuole, avrebbe un bellissimo nome e una grande esperienza imprenditoriale di successo da giocare in politica. Ma, come tutti, dovrebbe dimostrare di meritarsi la leadership. Non per diritto dinastico, questo è certo. Senza essere calata con le corde dall’alto, magari da chi fa qualche calcolo interessato sulla successione”.
Mauro Suttora 

Wednesday, January 13, 2010

Alfano alle Maldive con la scorta

Il ministro della Giustizia, in vacanza con la famiglia, fa allontanare dei paparazzi. Abuso di potere? In realtà le cose stanno un po' diversamente...

di Mauro Suttora

Oggi, 13 gennaio 2009

Va bene che le Maldive sono un Paese di religione musulmana, ma è proprio necessaria una scorta di poliziotti italiani se un nostro politico ci va a trascorrere le vacanze private con la famiglia?

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha scelto questo paradiso nell’oceano Indiano per le ultime ferie di Natale e Capodanno. Dieci giorni di relax con moglie e figli nel villaggio Valtur sull’isola di Kihad. Meta prediletta di vip italiani, soprattutto nei periodi di alta stagione. Quest’anno alle Maldive c’erano, fra gli altri, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il presidente del Senato Renato Schifani, la cantante Carmen Consoli con la madre, e il giocatore del Milan Ronaldinho. Alta, quindi, anche la concentrazione di paparazzi nostrani. Compresi alcuni fra i più temibili, pure loro in trasferta da Roma: Maurizio Sorge e Massimiliano Scarfone. Quest’ultimo famoso per avere immortalato il portavoce di Romano Prodi Silvio Sircana con un trans, e più recentemente per l’altro scandalo trans con il governatore del Lazio Piero Marrazzo.

I due, come ha rivelato Gabriella Sassone sul Tempo e su Dagospia, erano sulle tracce di Eros Ramazzotti, a mollo in un altro atollo nonostante gli acquazzoni quasi perenni, con la nuova fidanzata bergamasca Marika Pellegrinelli e la figlia Aurora, con amichetta al seguito. «Ormai siamo degli habitués delle Maldive, ci veniamo ogni anno da tempo immemorabile», racconta Sorge a Oggi, «ma questa volta c’è stata una spiacevole novità per noi».

Avvisati dal loro «contatto» locale della presenza del ministro Alfano, i due fotografi hanno affittato un motoscafo da 400 cavalli e dopo tre ore di navigazione da Malè si sono appostati a qualche centinaio di metri dalla costa del villaggio Valtur, per immortalare il ministro sulla battigia. Ma i due agenti di scorta del ministro si sono accorti subito dei teleobiettivi che sbucavano dalle acque. E, come nel film di Vanzina Paparazzi, prima hanno raggiunto la barca dei fotografi intimando loro in modo piuttosto rude di allontanarsi. Poi hanno allertato la polizia maldiviana.

«In realtà siamo stati identificati grazie a un altro fotografo italiano che ha dato le nostre generalità alla polizia, per compiacenza», racconta Sorge. «Il nostro collaboratore maldiviano ci ha subito telefonato per dirci di tornarcene in Italia. La polizia aveva contattato anche lui per farci sapere che la prossima volta che torniamo alle Maldive a fare foto finiamo direttamente in galera. Ma che abbiamo fatto di male? Quale reato abbiamo commesso? Abbiamo bisogno pure noi di un Lodo Alfano? Mi pare incredibile che i politici italiani comandino anche all’estero...»

In effetti, è la prima volta che la scorta di un politico italiano allontana dei fotografi in suolo straniero. Ma al ministero dell’Interno l’Ucis (Ufficio centrale scorte) spiega che i poliziotti sono stati assegnati obbligatoriamente ad Alfano perché, come ministro della Giustizia, è particolarmente esposto alle minacce di mafiosi e camorristi. È lui, infatti, il titolare dell’applicazione dell’articolo 41 bis, cioè il regime di carcere duro che tanto fa infuriare i boss. «La scorta è indisponibile», dicono al Viminale: quindi la decide il Comitato per l’ordine e la sicurezza, e neppure il ministro stesso è libero di rinunciarci. Insomma, il suo non è stato un capriccio in nome della privacy.

Nei viaggi all’estero devono portarsi dietro sempre la scorta anche i presidenti della Repubblica, del Consiglio, e quelli di Camera e Senato. Ma loro per ragioni protocollari. Per i ministri più esposti, invece, decidono caso per caso i dirigenti della Pubblica sicurezza. E, paradossalmente, il fatto che le Maldive siano uno dei luoghi più tranquilli al mondo accresce, invece di diminuire, il rischio: un eventuale attentato potrebbe essere pianificato con più facilità.
Mauro Suttora

Monday, December 28, 2009

Fiume negli anni Trenta

Nel romanzo Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani) il novantenne Brunello Vandano ricorda gli amori di una civiltà magica

di Mauro Suttora

Oggi, 10 dicembre 2009



«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»

Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.

«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».

Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.

Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.

Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».

Mauro Suttora

Wednesday, November 11, 2009

Caso Marrazzo

INDAGINE SU UNO SCANDALO CHE FA TREMARE IL PALAZZO

Un filmato pieno di enigmi, racconti che si contraddicono, le curiose iniziative di alcuni giornalisti... Sulla storia del trans e del governatore ci sono troppi silenzi. E poche verità

di Umberto Brindani, Mauro Suttora

Oggi, 11 novembre 2009

Troppi misteri, troppi silenzi, troppe bugie. A due settimane dal blitz dei carabinieri del Ros che ha scoperchiato lo scandalo Marrazzo (21 ottobre), l' intera vicenda, invece di chiarirsi, si è ulteriormente confusa e intorbidata. Non torna il conto delle date, dei video o presunti tali, dei soldi, delle persone coinvolte.
I protagonisti, a cominciare dallo stesso Piero Marrazzo, si contraddicono, si correggono, si smentiscono tra loro. E nel caos generale, monta come un blog il rito della maldicenza, la caccia ai clienti vip dei trans di via Gradoli e dintorni. Girano come mosche impazzite liste (ovviamente impubblicabili) di decine e decine di nomi: ministri ed ex ministri, politici di destra, di sinistra e di centro, imprenditori, calciatori, giornalisti ad alta visibilità televisiva...

«I deputati sono lo specchio del Paese e quindi non possono essere specchiati», cerca di scherzare Benedetto Della Vedova, del Pdl. «Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie», aggiunge la senatrice radicale Donatella Poretti, «e quindi non mi stupisce che anche i politici di professione vadano a trans o a puttane, come il resto dei maschi italiani».
Perfino Silvana Mura (Italia dei Valori) assolve i birichini: «Le debolezze sessuali esistono in tutti gli ambienti». Intanto, però, qui ci sono una vita e una famiglia rovinate, quelle dell' ex governatore della Regione Lazio. E un' aria fetida che sa di complotti, segreti e menzogne. Cerchiamo allora di rimettere in ordine i fatti certi e le domande ancora inevase, sia sulle circostanze che hanno portato alla realizzazione del famoso video, sia sugli strani percorsi che il medesimo filmato ha imboccato successivamente.

Friday, June 13, 2008

Sex and the City, il film

LE QUATTRO 'RAGAZZE' DI NEW YORK APPRODANO SULLO SCHERMO

"Ma io che le ho conosciute da vicino dico: alla larga!"

Oggi, 11 giugno 2008

Rischia di passare alla storia come quello di 'Sex and the city', il decennio degli anni Zero che stiamo vivendo. In mancanza - tocchiamo ferro - di nuove guerre o attentati. Purtroppo ho conosciuto da vicino le "ragazze" di Manhattan (si fanno chiamare ridicolmente così anche quando hanno 50 anni), avendo vissuto con una di loro per un anno mentre ero corrispondente di 'Oggi' da New York. Le conseguenze sono state: portafogli (mio) vuoto, stress, divertimento, molte ubriacature.

Ho raccontato tutto nel libro 'No Sex in the City' (ed. Cairo, seconda edizione 2007). Molti pensano che a New York, capitale mondiale dei single, si faccia parecchio l' amore. È vero il contrario: le donne, ossessionate da carriera e shopping, provano più piacere comprando un paio di scarpe che a letto. Riducono il sesso a un' attività ginnica, che però viene dopo il tapis roulant in palestra. Per i maschi è un inferno: ho visto miliardari di Wall Street ridotti a cagnolini al guinzaglio delle loro mogli. Samantha, la più simpatica delle quattro smandrappate del film, viene dipinta come una ninfomane. In realtà, è proprio lei la meno falsa.

Mauro Suttora

Tuesday, November 27, 2007

lib magazine intervista suttora

Mauro Suttora risponde

Mauro Suttora è un privilegiato. Già. Leggi il suo libro, "No Sex in the city" (Cairo edizioni, 2006) e lo invidi ogni pagina. Sempre di più. Per studiare l'antropologia del popolo americano, sceglie autonomamente di partire dalle donne e di studiarne ogni loro antro. Giornalista della Rizzoli Corriere della Sera (scrive su Oggi, che lui definisce "fantastico settimanale pop"), vive tra Roma e Manhattan. E' columnist di Newsweek e del New York Observer. In Italia, di tanto in tanto, i suoi articoli vengono pubblicati sul Foglio. Noi di LibMagazine, siccome siamo fortunati, lo abbiamo avvicinato. Piacevolissimo!

LibMagazine: l'America è la più grande democrazia del mondo. Alla base della democrazia il pluralismo: politico, culturale. La cosa che più mi ha colpito del suo libro "No Sex in the city" è invece il modo semplicistico con cui gli Americani, le Americane si accostino alle problematiche. Ragionamenti semplici, poca analisi, il tutto all'interno di un perimetro di valori e di regole di vita elementari e che non lasciano spazio per flessibilità. Il tempo è denaro, come si direbbe, e quello che conta è il fare. E' tutto proprio cosi?

Mauro Suttora: Sì, ed è per questo che amo gli americani. Perché, come diceva Giolitti - che ho scoperto qui a Roma pensano sia un gelataio - quando hanno finito di dire quel che devono dire, hanno finito anche di parlare. Insomma, sono l'esatto contrario di Pannella. Ieri sera ho assistito alla presentazione romana di "Piena disoccupazione", l'ultimo libro di Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corsera. Enrico Letta, che anche se fa il giovanilista è nato che era già molto vecchio, invece di dire "Non sono d'accordo su questa parte del libro", è riuscito a pronunciare queste parole: "Mi pongo in rapporto dialettico con questa parte del libro". Sono rabbrividito: mi è sembrato di ripiombare in una sezione del Pci degli anni '70, dove i giovani Veltroni strologavano in sociologhese. Un americano non riuscirebbe mai a dire "mi pongo in rapporto dialettico" neanche sotto tortura. Comunque, lei ha ragione: non confondiamo semplicità con semplicismo.

LibMagazine: Alla domanda precedente mentivo. La cosa che mi ha colpito di più del suo libro è stata l'onda verde in Taxi. Arrapante!

Mauro Suttora: Beh, allora deve spiegare di che si tratta. A Manhattan, grazie ai semafori intelligenti e al fatto che tutte le avenues tranne la Park sono a senso unico, se in auto si imbrocca un verde e si mantiene una velocità di crociera media, si riescono a superare senza fermarsi tutti gli incroci, per chilometri. I tassisti sono abilissimi in questo. E io ho avuto una fidanzata americana che quand'era un po' brilla, tornando a casa in taxi la notte da un ristorante o un club, si eccitava, alzava la gonna e mi montava addosso. La prima volta mi imbarazzai perché temevo che il tassista ci spiasse dallo specchietto, nonostante i vetri divisori dei taxi di New York. Poi invece scoprii che tutti erano indifferenti, anche quelli delle auto vicine che davano una sbirciatina quando ci fermavamo per un rosso. Però capitava raramente, perché c'era appunto l'onda verde che manteneva il taxi in continuo movimento, senza rallentamenti agli incroci.

LibMagazine: torno serio. Si dice spesso che l'Italia è il paese dei furbi. La struttura della cosa pubblica è tale che per dimenarsi occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se anche nell'America che si è fatta da sé; l'America in cui si partì tutti uguali correndo lungo praterie per conquistarsi il proprio pezzo di terra occorre "sapersi muovere". Mi chiedo se è un paese in cui il "non furbo" può sopravvivere.

Mauro Suttora: Un conto è essere furbi, un altro "sapersi muovere". Lì devi essere sempre "aggressive". Per noi questo è un aggettivo deteriore, per loro invece una qualità indispensabile e ammirata. Non solo nel business, anche nei rapporti umani. Per evitare il peggiorativo, tradurrei con "determinato". Diciamo che mentre in Italia si fa carriera al 70% per parentela e raccomandazioni e al 30 per merito, lì le percentuali sono invertite.
Io ho cominciato come columnist a Newsweek semplicemente andando per caso a pranzo con un caporedattore che, interessato da quello che gli dicevo sull'Onu, mi ha chiesto: perché non lo scrivi? E quattro giorni dopo il mio articolo era in pagina. Mentre in Italia per diventare opinionista di Panorama o Espresso devi avere almeno 50 anni, scrivere da 20, stare nel partito giusto e frequentare qualche combriccola...
A New York invece vai a un aperitivo, a una festa, a una riunione, ovunque, e tutti fanno "social networking". Cioè ti abbordano, ti domandano chi sei e che fai, ti valutano in pochissimi minuti di conversazione cordiale, e se fai colpo o se pensano che gli servi, che si possono fare affari o sesso assieme, ti danno il loro biglietto da visita e pretendono il tuo. Sono curiosissimi, sempre pronti al nuovo. Cioè l'esatto contrario delle feste o incontri in Italia, dove tutti se ne restano barricati nel gruppo dei propri amici e se vedono uno nuovo lo guatano in tralice... Mi viene in mente una bellissima canzone degli Eagles del '76, nel disco 'Hotel California': “New Kid in Town”. Ecco, il nuovo ragazzo che arriva in città ha più possibilità negli Usa che in Italia.

LibMagazine: un mercato così libero, come è quello Americano, è trasportabile in Europa?

Mauro Suttora: Penso di sì, col tempo. In Inghilterra e Irlanda è già così. Ma non è vero che negli Usa il mercato sia così selvaggio. Si perde il lavoro anche senza giusta causa con un preavviso di due settimane, ma lo si trova alla stessa velocità. E c'è il sussidio di disoccupazione per sei mesi. Lì è tutto un turbinio di cambiamenti. Se non ti piace una cosa - un lavoro, una moglie - invece di lamentarti cambi. Ma anche in Italia i giovani hanno contratti a termine, il posto fisso è diventato raro. Solo che qui la parola "precario" è negativa, mentre negli Usa tutto è sempre precario. Anche il capo della banca più potente rischia di essere licenziato dall'oggi al domani. Se penso a certe cariatidi italiane...

LibMagazine: ma per tutti questi appartenenti ai ceti benestanti, che Lei ha avuto modo di frequentare durante la sua permanenza a New York, quanto conta la religione? La sua osservanza?

Mauro Suttora: E' un fatto privatissimo. Molti fanno donazioni, anche perché sono deducibili dalle tasse, e non esiste alcun finanziamento pubblico alle chiese. Quando spiego l'8 per mille o il referendum sulla fecondazione assistita, mi guardano come se venissi da un Paese sottosviluppato. Ma anche gli Usa hanno le loro aree di sottosviluppo, con i pastori evangelici e televisivi nel Texas e nel sud. Sono micidiali, buffissimi.

LibMagazine: Ho letto con gusto il suo "catalogo dei culi di Manhattan". Innanzitutto mi dica:"Ma che rapporto ha lei con il suo culo?"

Mauro Suttora: Copione, è la stessa domanda che ho fatto intervistando Jennifer Lopez. Vent'anni fa il mio attraeva pederasti di ogni nazionalità, ma rimasi vergine (a proposito: mi piace la parola "pederasta", è scorretta quanto "invertito", nessuno la usa più da decenni). Comunque il vero genio in questo campo è Massimo Fini, con il suo sublime "Di(zion)ario erotico", edizioni Marsilio 2001. Io ho solo affibbiato le dieci diverse tipologie di culo da lui individuate a ciascun quartiere di Manhattan.

LibMagazine: la prego, sia indulgente, insisto sul lato B. Per Libmagazine, se la sente di catalogare queste coppie: Bush jr. e Al Gore - Obama e Mrs.Clinton - Berlusconi e Veltroni?

Mauro Suttora: Immagino uguali i sederi di Hillary e Walter: sono quelli flaccidi e colloquiali. Bush e Berlusconi probabilmente hanno quello militare: piccolo, duro e antipatico. Quello di Al Gore non m'interessa, basta la faccia: che cazzo ha fatto per l'ecologia negli otto anni in cui è stato al governo? Quanto a Obama, deve possedere chiappe diffidenti e avare, come quelle dei toscani...

LibMagazine: ma è proprio vero che con i democratici al governo non si sarebbe fatta una politica estera così "espansiva" ? LibMagazine teme di no!

Mauro Suttora: LibMagazine ha ragione nel ritenere i democratici Usa militaristi quasi quanto i repubblicani, e la riprova arriverà fra un anno con la presidente Clinton. Infatti suo marito negli anni '90 non abbassò le spese militari: si limitò a non alzarle, nonostante la scomparsa della minaccia sovietica. Però cagate come le invasioni di Afghanistan e Iraq poteva farle solo Bush.
La frase più memorabile la ricordo pronunciata da un neocon al Council on Foreign Relations, un club di Manhattan dove politici, miliardari e accademici si illudono di governare il mondo. Questo tale Max Boot (nomen omen: Massimo Stivale) nel 2003 sostenne che gli Usa avrebbero portato la democrazia a Kabul e Bagdad così come fecero con Roma, Berlino e Tokio. Come se noi prima del loro arrivo fossimo stati abitati da tribù di allevatori di capre... Comunque, visto che arriccia il naso, le comunico che essere antimilitaristi è di destra, perché i liberali sono per lo stato leggero, mentre non c'è niente di più pesante delle forze armate.

LibMagazine: vino preferito? Glielo chiedo perché vorrei capire quanto è vera l'America dipinta da Sideways, quel film in cui un gruppo di amici viaggia in California lungo itinerari enogastronomici, improbabili e non sempre super-pregiati (enologicamente).

Mauro Suttora: Veramente quelli di Sideways sono due sfigati che la metà basta. Gli statunitensi non capiscono nulla di vini. Qualsiasi nostro beone della Carnia è più ferrato di loro. Nel mio libro racconto che i newyorkesi accettano di pagare somme spropositate nei bar, anche 15 dollari, per qualsiasi bicchiere di vini imprecisati. Ti chiedono soltanto: "Red or white?", senza specificare altro. Ma è molto trendy atteggiarsi a esperti enologi. Anch'io, che di vini mi importa nulla, lo faccio a volte per darmi un tono. E il bello è che mi prendono sul serio. Sono un neocon dei vini.

LibMagazine: l'America consuma ciò che viene prodotto in Cina e India. Imperversa la serializzazione e la parcellizzazione del lavoro. La verticalità nella specializzazione alla orizzontalità. Valore educativo e formativo fondamentale e del quale si è occupato recentemente, in una lectio Magistralis, George Steiner. Ma che tipo di scuola forma gli Americani? Dove nasce questo patriottismo, questo forte attaccamento alla famiglia, alla comunità?

Mauro Suttora: Madonna come parla difficile. Io sono solo un umile cronista, come dice Bordin di Radio radicale. E poi lei usa parole inquietanti come patriottismo e famiglia. Fronterré, non è che sotto l'aspetto liberale in lei batte un cuore un po' fascistone, come Capezzone? Ho fatto l'anno 1976/77 in un liceo di Madison (Connecticut) con una borsa di studio Afs/Intercultura, ho preso il diploma e avevo A, cioè il voto massimo, in tutte le materie. E questo dice tutto sul livello dei loro licei. I primi quattro anni delle loro università, gli "undergraduate", equivalgono a un nostro buon liceo. Poi cominciano a fare sul serio. E in campo scientifico sono imbattibili: in un solo isolato della Columbia University a New York insegnano e sperimentano più premi Nobel che in tutta Europa.
Quanto allo spirito civico, è vero: ne hanno molto più di noi. Ma è semplicemente un retaggio della civiltà nordeuropea, degli emigrati anglosassoni e poi tedeschi e scandinavi. Per loro "community" significa veramente comunità. E questo a livello locale è magico. Sul patriottismo, invece, io sto con Dürrennmatt, che disse: "Quando lo stato si prepara ad ammazzare, si fa chiamare patria". Ho visitato il cimitero militare di Arlington, mi sono commosso davanti alle tombe dei Kennedy, ma vedendo tutte quelle croci di giovanissimi soldati le ho subito associate alle facce grasse e rubizze di certi grandi azionisti di industrie belliche come Boeing o General Electric o Northrop - tanto per non far nomi - diventati miliardari mandandoli a farsi ammazzare. Ma mi scusi, scivoliamo sempre in politica. Comunque grazie per l'accenno a Steiner, mi è piaciuto il suo Correttore di Bozze. Mi riprometto di leggere anche Lectio Magistralis, così mi solleverò dai livelli di Bordin.

LibMagazine: Dove andiamo? Dinamismo Atlantico. Già. Pensa che le donne italiane ci metteranno tanto a diventare così nomadi con le domande?

Mauro Suttora: Ah, sì, la frase preferita della mia ex fidanzata americana Marsha quando improvvisamente diventava seria e voleva fare il punto della situazione fra noi (traduzione: sposarsi) era: "Mauro, dove stiamo andando?". Io di solito le rispondevo: "Ma perché bisogna andare da qualche parte? Non si può restare qui, fermarsi? Non va bene così?". E lei si imbestialiva. Giustamente. Perché il motto dell'America è: "On the road". Sempre in movimento, Kerouak. E' per questo che gli Stati Uniti ci affascinano. Tutti alla costante ricerca di nuove avventure. Senza scoraggiarsi mai. Provando e riprovando. Come cantava Janis Joplin: "Try, just a little bit harder". Provaci, con un po' piu' d'impegno. In Italia invece siamo depressi perché ci rassegnamo troppo presto. In questo potrebbe avere ragione perfino Bush: a forza di rimanere in Iraq, magari alla fine vince veramente lui.
Anche la mia Marsha era testardissima, ci dava dentro finché non otteneva quel che voleva. In ogni campo: lavoro, amore. Dolcemente aggressiva, determinata. E se alla fine andava a sbattere, almeno non si trascinava dietro i rimpianti di noi europei decadenti. "A bad day is when you think about things that might have been", un giorno brutto è quando pensi a come le cose avrebbero potuto essere, sostiene nella sua 'Slip sliding Away' il mio filosofo preferito, Paul Simon (senza Garfunkel). Il peggio è Magris, con le sue troiate sulla Mitteleuropa. Ragazzi, so di che parlo, sono figlio di profughi dalla splendida isola di Lussino, ho fatto l'università a Trieste, adoro esteticamente il Caffè degli Specchi, ma di fronte a certe seghe passatiste non posso che ribattere all'americana: "Move on", andiamo avanti, procediamo. Quasi rivaluto i marinettiani.

LibMagazine: Cosa salva noi Europei? Cosa ci difende dalla subliminale e markettara capacità di persuasione d'oltreoceano?

Mauro Suttora: Nulla. Ci siamo fatti persuadere da Stalin, Hitler, Mussolini, e poi per passare dai giganti ai nani da Fanfani, Craxi, e oggi Berlusconi, Veltroni, Prodi. Prodi, ma ci rendiamo conto? Uno che appena apre bocca sembra un mongoloide. Pardon, diversamente dotato. "Verbally challenged", sfidato verbalmente, lo definivano gli inglesi quand'era presidente Ue a Bruxelles.

LibMagazine: Negli anni 90 si parlava del primato della economia sulla politica. Oggi diremmo che all'interno della economia vige il primato del marchio sul prodotto. La promozione, la comunicazione alla manifattura. Lo spopolamento delle fabbriche, la loro chiusura ha rotto quel meccanismo secondo il quale il produttore diventava anche consumatore dei beni che aveva contribuito a produrre. Nike, Shell sono simboli di una economia che veicola valori, idee, ma non produce nulla. Sono scoppiati scandali per lo sfruttamento dei lavoratori, ma il dato più preoccupante a mio avviso è l'interruzione di un certo ricambio generazionale di competenze, di saper fare. Cosa ne pensa?

Mauro Suttora: Fronterré, le ribadisco che lei parla troppo complicato. Intuisco animalescamente qualcosa di quello che mi dice e penso di concordare su quasi tutto, perché sono un figlio della controcultura anni '60 e quindi anch'io mi sono abbeverato a Marcuse e Pasolini. Posso solo risponderle che vesto Oviesse a dei marchi mi frega un cazzo, però anche questo è pericoloso perché a forza di sentirmi dire "fregauncazzo" la povera Marsha pensava che fosse un sinonimo di "fa niente", "non importa". Così quando un barista in Italia le ha chiesto se voleva acqua liscia o frizzante, lei ha risposto "fregauncazzo".
Sì, sono totalmente anticonsumista. Però rispetto al "ricambio generazionale di competenze" che si sarebbe interrotto, dipende quali. Mio padre è competente in marketing, ma se fosse stato operaio alla Breda per me sarebbe stato lo stesso, sono indifferente ai suoi "saperi" in quel campo. Invece mio nonno insegnava greco e latino, e io mi sento un suo seppure indegno discendente. Ecco, se nelle loro high school imparassero il greco e il latino forse gli americani sarebbero perfetti.

LibMagazine: lei giustamente fa notare che l'America fa molto la guerra perché fa poco l'amore. LibMagazine la ringrazia per aver cercato di invertire la rotta. Nel suo piccolo si intende!

Mauro Suttora: veramente ho ipotizzato l'esatto contrario: che in Usa oggi si faccia poco l'amore perché si fa molto la guerra. Nel senso dell'ideologia che permea il tutto, ovviamente. Non so, vediamo se riesco a contraddirmi popperianamente: negli anni '60 si faceva la guerra (in Vietnam) ma si faceva molto anche l'amore. La differenza è che allora i giovani erano 'obbligati' tutti a fare la guerra, mentre ora a morire ci vanno solo i volontari: o i fanatici, o i poveracci con nulla di meglio da fare.

LibMagazine: ha Lei una domanda per LibMagazine?

Mauro Suttora: Perché sono sempre più belle le cose fatte gratis, come questa intervista, invece di quelle a pagamento? Forse bisognerebbe abolire i soldi, come dice ogni tanto Beppe Grillo ricordando quel genio del professor Giacinto Auriti.

Michele Fronterre'