Showing posts with label marco pannella. Show all posts
Showing posts with label marco pannella. Show all posts

Wednesday, April 10, 2013

Emma ce la fa questa volta?

 Se il presidente della Repubblica fosse eletto dal popolo, la Bonino sarebbe al Quirinale già da 14 anni. Anche adesso è in testa ai sondaggi. Ma per i politici lei è ancora una donna scomoda: radicale, laica, poco diplomatica. Ecco la sua storia

Oggi, 10 aprile 2013

di Mauro Suttora

Più facile una donna cardinale che al Quirinale: è lo slogan provocatorio dell’associazione femminista Pari e Dispare, guidata dalla radicale Valeria Manieri. E che naturalmente ha Emma Bonino come presidente onoraria.

Ci sembra di conoscerla da sempre, la zia Emma da Bra (Cuneo). E in effetti sono passati quasi quarant’anni da quel 1974 quando, laureata alla Bocconi (ma non in Economia: Lingue straniere, corso abolito nel ’73 perché gli studenti erano troppo di sinistra) con  tesi su Martin Luther King e professoressa a Codogno (Lodi) dopo sei mesi da commessa a New York in un negozio di scarpe, rimase incinta.

Per il codice fascista Rocco l’aborto era un reato gravissimo: «contro l’integrità della stirpe». Le ragazze finivano direttamente in carcere. Lei si rivolse ad Adele Faccio, perché i radicali erano gli unici che si preoccupavano delle interruzioni di gravidanza. I sessantottini rivoluzionari di sinistra disprezzavano aborto e divorzio come «problemi borghesi». Emma si autodenunciò, scappò in Francia, tornò da latitante per vedere sua madre.

Si fece arrestare nel giugno ’75 al suo seggio di Bra durante le elezioni, per provocare più clamore. Ma altro che «disobbedienze civili» in stile Luther King: come tutto in Italia, la cosa fu abbastanza tragicomica, perché nessuno voleva arrestarla. Fu lei a insistere, spiegando ai Carabinieri che era ricercata.

L’anno dopo, ingresso a 28 anni in Parlamento con Marco Pannella e altri due radicali. Erano loro i grillini del 1976: referendum, democrazia diretta, contro la partitocrazia, contro il finanziamento pubblico. E, nel 1978, legge sull’aborto.
Sorride, Emma, quando ricorda quei tempi: «Feci scandalo solo perché osai entrare alla Camera con gli zoccoli e la gonna lunga da femminista».

Fece scandalo anche una sua intervista del luglio ’76 proprio a Oggi, in cui spiegò a Neera Fallaci (sorella di Oriana) come aveva praticato aborti «autogestiti» col metodo Karman (per aspirazione, meno rischioso rispetto al raschiamento delle mammane).

Le lamentele dei bigotti

Qualche bigotto le rinfaccia ancor oggi quei trascorsi. Ma fra i cattolici più evoluti sembra ormai tramontato il «niet» contro i radicali anticlericali, ravvivato dal referendum per la procreazione assistita del 2005. Molte volte, infatti, la Bonino e Pannella hanno condotto campagne accanto ai cattolici: contro la fame nel mondo dal ’79 all’85, per l’istituzione della Corte penale internazionale dell’Onu sui crimini di guerra, contro la pena di morte (con la Comunità di Sant’Egidio del ministro montiano Andrea Riccardi).

Oggi poi, con l’elezione di Papa Francesco, i radicali sono diventati quasi papisti. La loro radio ospita ogni domenica una rassegna stampa vaticana (condotta da Giuseppe Di Leo) entusiasta per il nuovo corso della Chiesa.

Cosicché la Bonino, sempre in giro per Africa e Medio Oriente a battersi contro le mutilazioni genitali femminili (l’escissione del clitoride nelle ragazzine), sembra avere più possibilità che nel 1999 e nel 2006 di essere eletta presidente della Repubblica.

«È l’unica che mette d’accordo destra, sinistra e grillini», spiega il Fatto Quotidiano. A destra le ex ministre Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo la sostengono, con la collega del Pdl Micaela Biancofiore, così apertamente da essere redarguite dal capogruppo Renato Brunetta.

A sinistra la vogliono Pippo Civati, Ermete Realacci, Alessandra Moretti, Ivan Scalfarotto. E la indicano anche i 5 Stelle Luis Orellana (già candidato di parte alla presidenza del Senato), Carlo Sibilia, Paola Pinna e Andrea Colletti. I grillini, comunque, fanno decidere il nome del loro candidato presidente direttamente ai propri elettori, con un sondaggio on line l’11 aprile.

Quanto ai centristi, Mario Monti si scioglie di fronte a tutti i bocconiani, ed è diventato amico della Bonino quando entrambi erano commissari europei a Bruxelles dal 1994 al 1999. Il senatore Benedetto Della Vedova, unico finiano sopravvissuto, è un ex radicale. E apprezzano Emma anche i laici montezemoliani.

"Popolarissima. Quindi sconfitta"

Ma la forza più grande, per la Bonino, deriva dai sondaggi. Che la vedono costantemente in testa da 15 anni fra i politici più amati. Nel 1999 la lista a suo nome ottenne il 12 per cento al Nord, con punte del 18 a Monza e Treviso. Quasi come Grillo oggi.

«È popolarissima», dice Pannella, «quindi non verrà eletta neppure questa volta». In effetti, il voto per il presidente della Repubblica è sempre una partita a poker. Come per il Papa, chi entrerà favorito nell’aula dei mille e passa elettori (deputati, senatori, rappresentanti delle Regioni) probabilmente verrà sconfitto.

Lei, Emma, agli alti e bassi della politica è abituata. Un giorno l’Economist la loda come «la politica più brava d’Europa» (salvò i rifugiati kosovari nel ’99, fu la prima a denunciare il pericolo dei talebani finendo arrestata a Kabul), il giorno dopo Silvio Berlusconi (che pure l’aveva nominata commissaria Ue preferendola a Giorgio Napolitano nel ’94) la insulta: «È solo la protesi di Pannella».

Così la Bonino, per scappare dai miasmi della politica italiana, da 12 anni si è trasferita al Cairo. Lì ha imparato l’arabo, oltre al francese, inglese e spagnolo che parla perfettamente. E in Egitto proprio lei, filoisraeliana in nome della democrazia, ha assistito felice alla Primavera araba. Ci sarà ora una Primavera italiana che manderà la prima donna sul Colle più alto? Lo capiremo da giovedì 18 aprile.
Mauro Suttora   

Wednesday, December 19, 2012

Ma quando si vota?


di Mauro Suttora

Oggi, 19 dicembre 2012


Mancano soltanto 45 giorni al 3 febbraio, data fissata dal Tar per le elezioni regionali del Lazio, ma non si sa ancora nulla. Si voterà, non si voterà? «Richiami nei prossimi giorni», rispondono sconsolati al ministero degli Interni. In nessun Paese di democrazia occidentale era mai successo un disastro del genere. Siamo nell’incertezza più assoluta.

Sono in ballo quattro elezioni: le politiche nazionali (Camera e Senato), più le regionali in Lombardia, Lazio e Molise. Per nessuna di queste, a pochissime settimane dal voto, è fissata una data. Per i partiti già rappresentati in Parlamento e nei tre consigli regionali, poco male: presenteranno le liste dei candidati anche all’ultimo minuto.

Ma tutti gli altri (Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, i Radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, Verso la Terza Repubblica di Luca Cordero di Montezemolo, La Destra di Francesco Storace ed altri) devono raccogliere moltissime firme. Per le Politiche addirittura 160 mila. Impossibile che ce la facciano. L’unico senza problemi sembra Grillo: ai suoi banchetti c’è la fila per sottoscrivere.

E pensare che, per legge, la raccolta firme dovrebbe iniziare sei mesi prima. Ma la regola salta in caso di voto anticipato. E questo è il caso di tutte e quattro le elezioni. Le politiche arrivano due mesi prima la scadenza naturale (aprile) per non accavallarsi con il voto per il nuovo presidente della Repubblica. 

L’unica cosa sicura, adesso, è che andremo alle urne in febbraio. Naturalmente la soluzione più logica è che si voti nello stesso giorno dappertutto: risparmio di soldi per lo stato e di tempo per i cittadini. Ma per gli azzeccagarbugli la semplicità non è una virtù. Possiamo solo sperare che prima o poi il Consiglio dei ministri si svegli e decida. Deve  comunque farlo, prima di Natale. Altrimenti si slitta a marzo.     

Friday, December 07, 2012

Grillo: parlano gli antipartito del passato


di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012
Il Movimento 5 stelle non è il primo a voler «fare politica in modo pulito». Ecco l'opinione su Grillo dei leader dei movimenti «antisistema» degli ultimi 40 anni.  

MARIO CAPANNA (SESSANTOTTINI)
«Grillo mi è istintivamente simpatico, perché ci mette la faccia ed è molto documentato. Deve aver letto almeno due miei libri, sicuramente Coscienza globale. Ogni movimento allo stato nascente gode di un carisma temporaneo. Il problema è la durata. Durante la democrazia diretta assembleare del ’68 i leader dovevano meritarsi la loro qualifica giorno per giorno, nel confronto diretto con centinaia e migliaia di studenti. Oggi nella democrazia telematica manca il contatto diretto con i cuori e le menti. 
In rete circola una gran quantità di ciarpame. Casaleggio stesso dice che il web non è innocente, e teorizza il ruolo degli “influencer”. Grillo è sicuramente un “innovatore”: ora deve dimostrare di essere anche un “rinnovatore”. 
Lui unico controllore del marchio, lui che parla senza contraddittorio in rete e nei comizi: nel ’68 sarebbe stato inconcepibile, le assemblee erano luogo di confronto anche aspro, ma di dialogo. Oggi invece si rischia il solipsismo, si chiede solo di credere e aderire. Mi sorprende il modo in cui fa rispettare le regole del suo movimento, con diktat inappellabili».

MARCO PANNELLA (RADICALI)
«Il movimento grillino non è armato di esperienza. Siamo pronti a mettere a sua disposizione la nostra. Anche noi vogliamo un processo di Norimberga contro la partitocrazia degli ultimi 60 anni».
Marco Pannella vede Grillo adottare molte battaglie dei radicali, ma commettere errori come quello dei referendum contro i finanziamenti pubblici ai giornali del 2008: firme insufficienti, mezzo milione di sottoscrizioni al macero.
«Grillo sbaglia se rifiuta il dialogo, perché rischia di andare a sbattere politicamente e di subire la rivolta dei suoi stessi grillini. Se non passa da un piano monologante a dialogante, anche nell'online, con la sua scelta di impiccare tutto e tutti rischia di restarci lui, e di portare gli altri con sé. Senza soprattutto fare proposte, se non demagogiche e improvvisate, poco costruttive. 
Da Grillo attendo una politica che invece di centrare tutto sulla perversione degli avversari appoggi iniziative concrete, come facciamo noi da sempre. C'è il rischio che i candidati del Movimento 5 stelle riprendano il suo monologo perché sono stati formati a copiare con parole diverse le sue filippiche. Grillo ripete le stesse cose che i fascisti dicevano contro i parlamentari: tutti corrotti, tutti pezzi di m... Ma così non costruisce nulla».

GRAZIA FRANCESCATO (VERDI)
«Conosco Grillo da quando ero presidente del Wwf, e lui negli anni ’90 si avvicinava ai temi ecologisti. Il suo movimento nasce dalla voglia di buona politica. Io però non amo la mera protesta: slogan come “tutti a casa” o “tutti cretini e delinquenti” sono rozzi e sbagliati, ma soprattutto depistano dai veri problemi. Mi ricordano il Berlusconi “ghe pensi mi” di vent’anni fa. 
Noi verdi invece non volevamo capi carismatici, anche se avevamo personaggi di grande carisma come Alex Langer. Ma proprio lui ammoniva che il potere, il seggio elettivo, è come una centrale nucleare che emette radiazioni e rende dipendenti da piccoli e grandi privilegi. Per questo Michele Boato e molti altri praticarono la rotazione a metà mandato, dopo due anni e mezzo. Io stessa sono stata in Parlamento solo due anni, non ho il vitalizio e ho rifiutato il doppio incarico di presidente dei verdi (oggi sono in Sel). 
È importante che gli eletti abbiano un proprio lavoro al quale tornare: non devono essere costretti a dire sempre sì al capo per mancanza di alternative. Spero che dentro al M5S si sviluppi il senso critico: dalla protesta urlata occorre passare alla cultura della complessità. L’ecologia politica è nata 40 anni fa, ma vedo che i problemi sono sempre gli stessi».

GIANCARLO PAGLIARINI (LEGHISTI)
«Voterò Grillo: anche se sbaglia, non potrà fare peggio di tutti gli altri. A meno che non salti fuori qualcosa di veramente nuovo, come Oscar Giannino. Anche Umberto Ambrosoli, candidato del centrosinistra in Lombardia, non mi dispiace. Ma alcuni amici mi assicurano che nel Movimento 5 stelle ci sono ragazzi perbene e preparati che non hanno mai fatto politica, oltre a professionisti che lavorano. 
Come nella Lega Nord vent’anni fa. Io nel 1990 ero revisore dei conti in una multinazionale, stavo per emigrare in Nuova Zelanda. Mi avvicino alla Lega, e nel giro di quattro anni mi ritrovo ministro del Bilancio. E pensare che per la mia poltrona c’era gente che scalpitava da decenni e avrebbe ucciso la nonna… 
Sono rimasto in Parlamento fino al 2006, poi sono stato uno dei pochi a lasciare la Lega spontaneamente, senza venire espulso da Bossi. Ma nei movimenti di rottura come noi e il M5S sono necessari capi duri: chi fa il civile e l’educato non trova spazi nel monopolio della casta. Bossi era uno che scriveva sui muri e sui ponti. Leggo sempre il blog di Grillo, è fatto bene. Ma senza il federalismo neanche lui andrà da nessuna parte».
Mauro Suttora

La democrazia secondo Grillo

VITA QUOTIDIANA NEL MOVIMENTO 5 STELLE RACCONTATA DA UN GIORNALISTA CHE SI È ISCRITTO E PARTECIPA ALLE ATTIVITA'

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012

Maledetto neon. Quello nella sala sotterranea dell'albergo La Rotonda di Saronno (Varese), dove il 18 novembre partecipo alla conferenza regionale lombarda del Movimento 5 Stelle (M5S), è squallido quanto la luce bianca da obitorio che quarant’anni fa mi fece scappare dalla mia prima riunione politica, al ginnasio di Bergamo.

Sono un "grillino". Qualche mese fa mi sono "registrato" nel portale di Beppe Grillo: un po' per simpatia personale, un po' per curiosità professionale. È gratis, basta mandare la scansione di un documento. E ora eccomi qua a fare la vita del militante semplice, anzi del "cittadino attivo" come si dice in grillese. 

Quasi tutta l'attività del movimento si svolge online, questa è una delle rare riunioni in cui ci si incontra di persona. Delusione: poche donne e giovani, maggioranza di maschi 40-50enni. Siamo 200, molti sono attirati dalla possibilità di candidarsi alle regionali lombarde anticipate del 10 marzo.

Per fortuna Grillo ha ristretto la candidatura alle politiche a chi era già in lista nelle elezioni passate: un giusto riconoscimento agli ante-marcia, per evitare l'assalto degli opportunisti. Alle regionali invece possono candidarsi tutti i registrati al 30 settembre. Risultato: lo hanno fatto in oltre 300 per gli 80 posti da consigliere regionale lombardo. 

Perché questa valanga? Anche se gli eletti M5S si ridurranno lo stipendio da 11mila a 2.500 euro netti mensili, sono soldi appetibili per molti: un affare da 600mila lordi in dieci anni, visto che un'altra regola di Grillo è il limite di due mandati per gli eletti. Questo tetto sembra a tutti l'antidoto perfetto per evitare la professionalizzazione dei «portavoce del movimento» (come vengono definiti pudicamente gli eletti): «Massimo dieci anni e poi fuori dai c…», ribadisce sempre il simpatico Beppe.

«Ma lo sapete che gli eletti radicali e verdi trent'anni fa ruotavano a metà mandato?», provo a proporre. «Erano quattro volte più "democratici" di noi. A casa dopo due anni e mezzo, sostituiti dai primi dei non eletti. Se vogliamo evitare la nascita di un'altra casta dobbiamo fare così anche noi, perché dopo dieci anni di politica a tempo pieno è quasi impossibile tornare al lavoro di prima». Qualcuno è d'accordo; ma Grillo ha deciso per i due mandati, e pochi hanno voglia di contraddirlo riaprendo la questione.

In luglio ho partecipato al voto semestrale di conferma per il consigliere comunale M5S di Milano Mattia Calise, 22 anni. Tutti gli eletti lo devono fare. Una sala di periferia, diretta streaming sulla sua relazione, poi voto online nei tre giorni successivi. Promosso con 235 sì e un solo no, «per non sembrare il politburo di Breznev».

Una sera sono andato col mio consigliere di zona 4 a una riunione sul verde nell’area dove non verrà più costruita la Biblioteca europea di Porta Vittoria, di fronte a casa mia. È arrivato in bici sotto la pioggia: bene, un politico che pratica quello che predica. Preso dall’entusiasmo, qualche giorno dopo l’ho aiutato a organizzare un banchetto di propaganda nel quartiere Santa Giulia (Rogoredo), martoriato dalla speculazione edilizia.

L’8 settembre faccio un salto a una manifestazione in piazza XXV Aprile che ripete la richiesta del primo Vaffa-day, cinque anni fa: via i pregiudicati dal Parlamento. Purtroppo c’è poca gente, e in più tanto nervosismo perché è appena scoppiato il caso di Giuseppe Favia, consigliere regionale M5S emiliano beccato in un fuorionda di Piazza pulita ad accusare Grillo e il suo consulente Gianroberto Casaleggio di ogni nefandezza.

Mi stupisco: avevo intervistato Favia pochi mesi prima, era la punta di diamante del movimento. I militanti sono assediati dai giornalisti che chiedono se è vero che nel M5S manca la democrazia interna, come denunciato da Favia.

Il fatto è che in quasi tutti i grillini c’è un fervore palingenetico: sono convinti di essere i primi a voler «fare politica in modo pulito». Io invece ne ho già visti tanti, con questo lodevole proposito. Non so se è un primato da guinness (o da ricovero), ma ho partecipato dall'interno a tutti i movimenti "antipolitici" degli ultimi 40 anni: extraparlamentari di sinistra, radicali, verdi, leghisti (frequentati per conto di Vittorio Feltri, mio direttore all'Europeo), dipietristi.

Con una certa regolarità infatti, ogni 8-10 anni, in Italia nascono formazioni che proclamano di essere «diverse». Da tutti gli altri partiti del passato, del presente e anche del futuro. Il M5S non sfugge a questo ottimismo eroico da stato nascente: «Non siamo un partito, vogliamo la democrazia diretta, permettiamo ai cittadini di decidere in prima persona». 

Il programma, in realtà, assomiglia molto a quello radicale e verde di 30-40 anni fa: no al finanziamento pubblico (il primo referendum radicale - perso per poco – risale al 1978, quello vinto al '93); sì a energie alternative e raccolta differenziata dei rifiuti, no al nucleare (primo referendum radicale tentato nel 1980, vinto con i verdi nell'87, rivinto l'anno scorso), no a inceneritori e grandi opere (Tav, ponte di Messina).

Poi c'è il rifiuto della forma-partito. I verdi ne hanno sempre aborrito sia il nome (nacquero come "liste” verdi nell'85) sia le procedure: «Facciamo politica in modo diverso, siamo biodegradabili», promettevano, fino al degrado poco bio di Alfonso Pecoraro Scanio nel 2008. 

Anche i radicali hanno sperimentato un partito libertario, "liquido": congresso annuale aperto a tutti, tessera perfino a Cicciolina e al capo della 'ndrangheta Giuseppe Piromalli. La parola «partitocrazia» è © di Marco Pannella. Il quale, proprio come Grillo, comanda col carisma. Senza espulsioni, però; mentre Beppe ha già fatto fuori metà dei suoi quattro consiglieri regionali eletti appena due anni fa. «Più che carisma, caserma», mormora qualcuno.

Tutti i movimenti contestatori hanno avuto leader forti: i sessantottini Mario Capanna e Adriano Sofri, i radicali Pannella ed Emma Bonino, i verdi Alex Langer e Grazia Francescato. Per non parlare di Umberto Bossi e Antonio Di Pietro, che hanno eliminato tutti gli avversari interni.

È per questo che oggi osservo con tenerezza il crescendo di purghe con cui Grillo tartassa i suoi eletti. Il M5S non è ancora entrato in Parlamento, non ha tessere, quote d’iscrizione, soldi pubblici, sedi, non ha neppure uno statuto (solo un “non Statuto” proprio per dileggiare la burocrazia dei partiti tradizionali), ma lui lancia anatemi con l’unico risultato di rendere famose le vittime: Favia, poi Federica Salsi (consigliere comunale a Bologna) perché è andata a Ballarò, infine il consigliere regionale piemontese Fabrizio Biolé.

Nelle nostre riunioni non se ne parla. Gli incontri sono sempre molto operativi, “concreti”: bisogna organizzare i banchetti o i criteri per le liste elettorali, le “graticole” per selezionare i candidati o la lista dei “referenti” provinciali del gruppo regionale comunicazione, sottogruppo ufficio stampa.

Non si parla quasi mai di politica, in realtà. Per quello ci sono i post quotidiani di Grillo sul suo portale nazionale. Scritti a volte da lui (o chi per lui: alcune finezze lessicali come “mesmerismo mediatico”, nel famoso post sul punto G della Salsi del 31 ottobre, non gli appartengono) o appaltati ad altri: il polemista Massimo Fini, l’anarchico Ascanio Celestini, l’economista della “decrescita felice” Maurizio Pallante, l’esperto di servizi segreti Aldo Giannuli, il prof universitario di matematica torinese Beppe Scienza che vent’anni fa dava consigli ai risparmiatori sull’Europeo. Ora fustiga le banche, e in effetti è stato uno dei pochi a prevedere la fregatura delle pensioni integrative private rispetto alle vecchie liquidazioni garantite dallo stato. Paolo Becchi, docente di Filosofia del diritto a Genova, ha candidamente confessato a Piazza pulita che sta con Grillo perché è l’unico che gli dà retta.

Nel variopinto parterre dei maitres-à-penser grilleschi ogni tanto s’intrufola qualche pataccaro, come l’attempato blogger romano Sergio Di Cori Modigliani diventato famoso lo scorso luglio per la “bufala Hollande”: un post in gran parte inventato da lui in cui magnificava risultati apparentemente ottenuti dal nuovo presidente francese nei primi cento giorni di governo (da una presunta abolizione totale delle auto blu a stipendi tagliati del 40% agli alti dirigenti statali). Per giorni impazzò sul web, rimbalzato dagli utenti di Facebook, finché qualcuno si prese la briga di controllare le fonti e scoprì il falso. È diventato un caso di scuola sulla capacità manipolatoria e autosuggestiva della Rete.

E qui si arriva al punto dolente. La cosa che m’infastidisce di più nel M5S è la fede assoluta in internet. «La Rete risolve ogni problema», tuona Grillo dai palchi dei comizi, ed è piacevole starlo ad ascoltare. «Grazie alla Rete scopriremo gli arrivisti che cercano di fare carriera nel M5S», dicono sicuri i miei compagni di riunione. Poi però basta che si candidi un qualsiasi Gianni Colombo a Milano, lo si googla per controllare e, panico: ce ne sono centinaia! Come scoprirne i passati misfatti, le candidature in altri partiti? 

Il povero Biolé è stato fatto fuori perché aveva già fatto il consigliere comunale in una lista civica apartitica del  suo paesino di 500 abitanti sulla montagna cuneese negli anni ’90, volontario ambientalista benemerito con vent’anni d’anticipo rispetto a molti grillini neofiti; ma  oggi, a scoppio ritardato di due anni, è diventato un reprobo da espellere, con tanto di lettera degli avvocati Squassi e Montefusco di Milano per conto del signor Grillo Giuseppe, “proprietario unico del marchio 5 Stelle”.

«Non ci può essere democrazia diretta sotto un dittatore», taglia corto il mio amico Luciano Lanza, vecchio libertario, fondatore di A-Rivista anarchica. Ci rimango male, le mie speranze vacillano.
     
«Di questo discuteremo in rete», mi rispondono gli attivisti M5S quando cerco di parlare per una volta non virtualmente, nella riunione di Saronno. «Immagino sia proibita la propaganda personale dei candidati» avevo detto, «perché ho visto orrendi ‘santini’ in Sicilia, e anche qui a Milano l’anno scorso alle comunali era permessa. Niente guerra intestina delle preferenze, spero, e inoltre non vogliamo rischiare che i clan della ’ndrangheta nell’hinterland appoggino qualche candidato sfuggito alla nostra attenta selezione…»

Niente da fare. Non c’è mai tempo per parlare guardandosi negli occhi. Solo web, computer e smartphones per gente sempre “connessa”. Ma connessa a cosa, mi domando. Sempre lì a smanettare come zombies. È online che si svolge la vita vera dei grillini, mica nella realtà così deludente, catastrofica e piena di ladri… Eppure uno dei nostri ispiratori è Ivan Illich, il cantore della convivivialità.

Grillo predica la Rete non più come mezzo ma come fine, e i seguaci più pedissequi la mettono sull’altare come i rivoluzionari francesi sostituirono Dio con la Dea Ragione, a fanatismo inalterato.
Così per seguire il M5S ora devo collegarmi con sei piattaforme diverse: il portale di Grillo, i meetup regionale e comunale, Pbworks, Facebook, Googlewiki per discutere e infine Liquid Feedback per votare.

Una sovrabbondanza elettronica ci succhia via la vita, ci fa litigare con mogli la sera perché sospettano che chattiamo nei siti erotici, o fa crollare drasticamente le nostre produttività sul luogo di lavoro.
Detto questo, ammetto che Liquid Feedback è geniale. È un sistema di votazione adottato dal partito tedesco dei Pirati, ma potrebbe esserlo anche in ogni condominio o consiglio di zona, su su fino all’Europarlamento. Se Clistene o Pericle lo avessero avuto, altro che agorà dell’antica Atene. 

Forse si avvererà la profezia di Erich Fromm: nel ’76, in Avere o essere, propose di votare con referendum sulle dieci questioni più importanti ogni anno, come gli svizzeri nella piazza del cantone di Appenzell, evitando l’intermediazione parassitaria dei politici a tempo pieno. «La politica, come l’amore, è troppo bella per lasciarla a professionisti», diceva lo slogan che invitava alla partecipazione negli anni ’70.

Quindi, ora ci riprovo. Dopo aver frequentato e votato per sessantottini, radicali, verdi, leghisti e dipietristi, mi affido abbastanza disperato a Grillo. Perché, nonostante tutte le critiche e quindi anche questo articolo, il M5S mi sembra l’unica cosa nuova nella vita pubblica italiana oggi. Probabilmente sbaglio, e dopo la sesta illusione arriverà come sempre la delusione. In effetti, il neon delle riunioni è orrendo come 40 anni fa.
Mauro Suttora

Wednesday, February 08, 2012

I politici laureati "sfigati"

DAVVERO CHI SI LAUREA DOPO I 26 ANNI DEVE VERGOGNARSI? ECCO A CHE ETA' HANNO FINITO GLI STUDI MINISTRI ED EX

di Mauro Suttora

Oggi, 1 febbraio 2012

Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.

Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).

Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.

Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.

Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.

Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.

Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.

Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.

Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.

Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.

Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.

Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.

Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora

Wednesday, June 29, 2011

Basta spedizioni all'estero

LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN

di Mauro Suttora

Oggi, 22 giugno 2011

Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.

Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».

Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.

In Kosovo da 12 anni: un'eternità

«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».

Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».

Inutile Libano

Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora

Wednesday, May 25, 2011

Politici estremisti

DOPO LE ACCUSE DELLA MORATTI A PISAPIA, ECCO GLI SCHELETRI NEGLI ARMADI DEGLI ULTRAS DEGLI ANNI DI PIOMBO

di Mauro Suttora

Oggi, 14 maggio 2011

Chi sono i «politici con passato estremista», come Silvio Berlusconi ha bollato Giuliano Pisapia, concorrente di Letizia Moratti alla carica di sindaco di Milano? Dipende da cosa si intende per «estremista». Tutti sanno che Pisapia fino a cinque anni fa era deputato di Rifondazione comunista. Quasi nessuno, invece, ricordava che fosse stato in carcere per ben quattro mesi e poi processato per il furto del furgone con cui nel 1977 gli autonomi volevano sequestrare William Sisti, dirigente della sinistra extraparlamentare.

Glielo ha rinfacciato la Moratti in un dibattito tv, e Pisapia l’ha querelata per diffamazione. Da quel processo, infatti, fu assolto. «E chiesi l’appello per essere completamente scagionato: non grazie a un’amnistia, ma con formula piena», precisa il politico-avvocato milanese.

Nell’Italia lacerata durante l’intero decennio dei ’70 dagli «anni di piombo», però, Pisapia non è l’unico politico famoso a essere stato estremista da giovane. A sinistra, ma anche a destra. Massimo D’Alema, per esempio, non ha mai avuto guai con la giustizia, eppure ricorda perfino con un certo orgoglio di avere lanciato una bottiglia molotov durante il ’68 a Pisa: frequentava la prestigiosa Normale, era del Pci e non un extraparlamentare, ma partecipò anche lui alle rivolte studentesche. Così come il pacatissimo ex ministro della Margherita Paolo Gentiloni.

E, per andare nel centrodestra, l’altrettanto moderato ministro degli Esteri Franco Frattini praticava la vendita militante del Manifesto, mentre il siciliano Gianfranco Micciché era di Lotta Continua. Fabrizio Cicchitto è sempre stato nel Psi, però si è vantato di «avere fatto a botte con i fascisti nel ’68. Prendendole». Quanto a Gaetano Pecorella, deputato Pdl, prima di difendere Berlusconi è stato l’avvocato di tutti gli extraparlamentari rossi a Milano. Ancora nell’87 sostenne in un’arringa che un pestaggio a colpi di chiave inglese poteva essere «la legittima applicazione di un principio costituzionale».

Con la sconfitta di Rifondazione comunista e Verdi tre anni fa sono usciti dal Parlamento quasi tutti i sessantottini. I loro avversari ex neofascisti, invece, hanno fatto carriera. A cominciare dal leader Gianfranco Fini, ferito da un candelotto al ginocchio durante gli scontri con la polizia. A Milano nessun «rosso» osava passare per piazza San Babila: lì il capo dei giovani missini era Ignazio La Russa, con cane lupo al guinzaglio.

L’attuale sindaco di Roma Gianni Alemanno finì in prigione nell’81 per avere aggredito con quattro camerati uno studente. Ce l’aveva sia con con i russi, sia con gli americani: per una molotov contro l’ambasciata sovietica fece addirittura otto mesi di carcere, mentre nell’89 lo arrestarono per avere bloccato l’auto del presidente George Bush padre. Ma alla fine è sempre stato assolto.

Cinque anni per «banda armata»

Il deputato Pdl Marcello De Angelis ha subìto una condanna definitiva a cinque anni per banda armata e associazione sovversiva: era nel gruppo terrorista di estrema destra Terza Posizione. Ne scontò tre (più sei mesi di carcere in Inghilterra, dov’era scappato), è uscito nell’89. Da poco è stato nominato direttore del quotidiano ex An Secolo d’Italia, strappato ai finiani.

C’è perfino un vicepresidente del Senato «pregiudicato»: lo stimatissimo Domenico Nania, pure lui ex Msi, fu condannato nel ’68 a sette mesi per lesioni volontarie personali durante scontri tra studenti di destra e di sinistra a Messina. Ma aveva solo 18 anni.

Era iscritto al Fronte della gioventù (i giovani missini guidati da Fini e poi da Alemanno) anche Niccolò Ghedini. L’attuale avvocato di Berlusconi venne interrogato in questura a Bologna dopo la strage del 1980 alla stazione, perché nella sua sezione padovana c’era un sospettato.

Insomma, molti dei dirigenti Pdl ex An e Msi hanno curriculum a dir poco turbolenti. Quindi, non si sa fino a che punto sia convenuto al premier e alla Moratti riesumare i peccati di gioventù degli avversari di sinistra, perché anche nel centrodestra potrebbe affiorare qualche imbarazzo.

E perfino il nonviolento Pannella...

Perfino i radicali gandhiani hanno dato scandalo, quando nell’83 fecero eleggere in Parlamento e liberare (dopo quattro anni di carcere preventivo) il professor Toni Negri, ideologo degli autonomi, condannato a 17 anni per insurrezione armata. Fuggito in Francia, tornò nel ‘97 per scontare la pena. Libero dal 2003.

Un altro caso si è verificato nel 2006: Marco Pannella fece eleggere deputato Sergio D’Elia, ex terrorista di Prima linea condannato a 25 anni (scontati la metà) per banda armata e concorso morale in omicidio. Due anni dopo il Pd non lo ha più voluto fra i nove eletti radicali ospitati nelle sue liste.

Lo stesso Pannella, comunque, ricorda: «All’inizio degli anni ’50 credo di aver slogato una spalla a Caradonna, capo degli universitari fascisti. Le ho date e le ho prese».
Mauro Suttora

Thursday, May 12, 2011

Le nozze di Mara Carfagna

"Mara, tutto perdonato: a giugno ci sposiamo"

Pace fatta tra la Carfagna e il fidanzato, dopo le rivelazioni di Bocchino. Marco Mezzaroma ha portato la sua bella ministra alle Maldive per Pasqua. Per un anticipo di luna di miele: lei ha già comprato il vestito di nozze nella natia Salerno

di Mauro Suttora

Oggi, 11 maggio 2011

Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti ai milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto un'amicizia particolare con la ministra Mara Carfagna. L'erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell'epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di provocare sofferenze alla moglie Gabriella. Quindi l'onore è salvo.

Sembrava che il mat rimonio Carfagna-Mezzaroma, fissato per il 25 giugno, foss e rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del Partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.

Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d'Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, a Pasqua ha portato Mara alle Maldive, in uno dei resort più lussuosi dell'arcipelago, il Palm Beach.

Più travagliata, invece, l'atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo aveva aperto i giochi con un' intervista-confessione a un settimanale. In cui l' unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassi mo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».

Poi una stilettata politica: «Un po' di delusione c'è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata "telecomandata" da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania». Altre considerazion i sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un'amante sei uno sfigato».

La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».

Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l'abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall'inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l' abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all' altare per sposare il preside Salvatore Carfagna. La Passaro dichiara di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all' insegna della sobrietà e dell' eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, ancora top secret, al primo colpo.

Mauro Suttora

Wednesday, May 04, 2011

La Carfagna si sposa

Oggi, 4 maggio 2011

di Mauro Suttora

Tutto perdonato. Marco Mezzaroma non si è scomposto di fronte alle rivelazioni di Italo Bocchino, che davanti a milioni di telespettatori di Che tempo che fa ha confessato di avere avuto una relazione clandestina con la ministra Mara Carfagna.
L’erede della ricca famiglia di palazzinari romani è fidanzato da tre anni con Mara. Più o meno a quell’epoca, mese più mese meno, Bocchino giura di avere smesso di tradire la moglie Gabriella con la stupenda Mara. Quindi l’onore è salvo.

Il castello Carandini

Per un po’ sembrava che il matrimonio, fissato per il 25 giugno, fosse rinviato o addirittura cancellato. Invece è stato confermato: si svolgerà in un castello alle porte di Roma, nella tenuta di Torre in Pietra di proprietà della famiglia Carandini. Famosa per due cose: il latte omonimo, e il conte Nicolò Carandini, capo del partito liberale nel dopoguerra, e poi fondatore di quello radicale di Marco Pannella.

Ma torniamo al nostro Marco, invidiatissimo promesso sposo della più bella ministra d’Italia, a pari merito con Stefania Prestigiacomo. Per fugare ogni dubbio, ha portato Mara per Pasqua alle Maldive, nel resort più lussuoso dell’arcipelago. E queste foto testimoniano la ritrovata armonia.

Più travagliata, invece, l’atmosfera nella famiglia Bocchino. La ricca moglie Gabriella Buontempo sembrava avere accettato le scuse e il pentimento pubblico di Italo, con un’intervista altrettanto pubblica a un settimanale. In cui l’unico veleno veniva distillato contro la «sfasciafamiglie» Mara, accusata di non essersi posta il problema di rovinare la vita di una coppia sposata da tempo e con figli: «Si presentava ovunque andassimo in vacanza. Andava addirittura dal mio stesso parrucchiere».

«Telecomandata da Italo»

Poi una stilettata politica: «Un po’ di delusione c’è stata. Anche per la scelta della persona. In politica, la Carfagna è sempre stata “telecomandata” da mio marito: segue tutto quello che lui dice. Se non era per Italo, mica li prendeva tutti quei voti in Campania».

Altre considerazioni sono state fatte sulla capacità, da parte delle mogli italiane, di tollerare lunghe relazioni extraconiugali dei mariti: «Lo sapeva tutta Montecitorio. Da due anni e mezzo pure io. In Italia se non hai almeno un’amante sei uno sfigato».

La scorsa settimana Panorama ha scritto che la signora Bocchino chiederà il divorzio. Italo però ha smentito: «Ca...te in libertà, sto partendo per Parigi con lei».

L’abito da sposa

Intanto, nella sua Salerno Mara è andata a comprare l’abito da sposa, accompagnata dalla mamma, dal fratello e dall’inseparabile cugina. Lei era commossa, e non lo ha nascosto nel negozio della sarta Pinella Passaro in corso Vittorio Emanuele: la stessa che aveva confezionato l’abito da sposa della madre di Mara quando, giovanissima, salì all’altare per sposare il preside Salvatore Carfagna.
La Passaro dice di essere rimasta incantata dal ministro: «Ha un portamento da indossatrice e una raffinatezza innata. Ho disegnato per lei un abito che sarà all’insegna della sobrietà e dell’eleganza, da vera regina». Pare che Mara abbia scelto il vestito, per ora top secret, al primo colpo.

Mauro Suttora

Wednesday, March 09, 2011

I tanti vedovi di Gheddafi

In 40 anni quasi tutti i politici italiani (e del mondo) hanno gareggiato nel baciare la babbuccia al satrapo. Moro e Craxi gli salvarono perfino la vita

di Mauro Suttora

Oggi, 2 marzo 2011

Facile dirlo adesso: pazzo, criminale, tragico buffone. Ma fino a due settimane fa quasi tutti i politici italiani hanno blandito Muammar Gheddafi. Forse perché è un nostro connazionale: il dittatore libico, infatti, nasce in un villaggio di cammellieri vicino a Sirte nel giugno 1942. Allora la Libia era nostra. Ancora per pochi mesi, fino alla sconfitta di El Alamein. Incredibile: Gheddafi all’anagrafe è cittadino italiano.

Quinto maschio di dieci figli, genitori anzianotti, vita di stenti. È l’unico a sopravvivere, con tre sorelle più anziane. I Gheddafi sono una delle 180 tribù che, allora come oggi, compongono la Libia. Il piccolo Muammar cresce ascoltando le storie di guerra che suo padre gli racconta mentre gli animali pascolano. L’eroe è Omar al Mukhtar, partigiano impiccato dai colonizzatori italiani. Gheddafi si è appiccicato la sua foto sulla divisa quand’è venuto a Roma nel 2010.

Dopo la madrassa (scuola coranica) nel villaggio, va a Sirte a fare le medie. È così povero che dorme e mangia in moschea. I compagni lo prendono in giro: «Beduino!». Ma lui diventa il primo della classe. E ogni estate, invece di godersi le vacanze, fa transumare i cammelli per 500 chilometri, fino alle oasi del Fezzan. Frequenta il liceo a Sebha, in mezzo al deserto.

Intanto la Libia è diventata indipendente, sotto il re Idris Senussi. Gheddafi però adesso ha anche un altro eroe: il colonnello Gamal Nasser, che nel 1952 ha cacciato re Faruk dall’Egitto. Nel ‘56 segue per radio la crisi di Suez, la guerra contro Israele, poi le lotte anticoloniali algerine. Il suo animo s’infiamma, partecipa a cortei, viene schedato. Ciononostante negli anni ‘60 riesce a entrare all’accademia militare, per imitare il suo idolo. Lo mandano a specializzarsi in Inghilterra e ad Atene.

Il primo settembre 1969 rovescia il vecchio re con un golpe incruento. A 27 anni, diventa il più giovane dittatore della storia: Napoleone ne aveva 30 quando divenne primo console, Fidel Castro conquistò Cuba a 32. Il 1969, pensateci: cinque settimane dopo lo sbarco sulla Luna. Sembra un’altra era. «Cosa sono 42 anni?», ha chiesto Gheddafi cinque giorni fa, provocatorio come sempre: «Dicono che governo da troppo tempo. Ma la regina Elisabetta è al potere da molto più a lungo».

Aveva dei bellissimi rayban, nel ‘69, il capitano Muammar subito nominato colonnello e mai diventato generale per rispetto verso Nasser. La passione per gli occhiali gli è rimasta, l’ultimo fantastico modello panoramico lo ha inforcato nel penultimo discorso, col mantello marrone da beduino. Per tutti gli anni ‘70 e ‘80 l’Occidente lo ha sopportato perché c’era il blocco sovietico, e si voleva evitare che finisse con i comunisti come Assad in Siria e Saddam in Iraq. Poi, è campato grazie alla minaccia islamica e alla sua eccentrica laicità che ha (em)arginato Al Qaeda.

Lui però ne ha combinate di tutti i colori. Ha fornito armi, soldi e addestramento a ogni terrorista della terra: dalle Br all’Ira, dall’Olp alla Raf, dall’Eta al Settembre Nero della strage alle Olimpiadi di Monaco ‘72. Ha mosso guerra al Ciad e alla Francia, litigato con quasi tutti gli altri capi arabi in ogni vertice, incarcerato per anni infermiere bulgare accusate di aver diffuso l’Aids, ospitato Idi Amin, appoggiato Bokassa, ammazzato l’imam libanese Mussa Sadr. Qualunque banda armata in Africa è stata aiutata dalla Libia: nel Sahara Occidentale (contro i «fratelli» marocchini), in Liberia, in Sierra Leone. E se Mao ha scritto il «libretto rosso, Gheddafi ha composto un altrettanto indigesto «libro verde» pieno di teorie egualmente strampalate.

Nel 1986 passò il segno: un agente libico provocò tre morti e 250 feriti (fra cui molti soldati Usa) con una bomba nella discoteca La Belle di Berlino. Ronald Reagan bombardò Tripoli e Gheddafi sarebbe stato sepolto sotto le macerie come la sua figlioletta adottiva, se Bettino Craxi non lo avesse avvertito mezz’ora prima. Si vendicò sparacchiando due missili su una base Usa a Lampedusa: mancarono il bersaglio di due chilometri e finirono in mare.

Non era la prima volta che l’Italia salvava Gheddafi. Nel ‘71 il blitz segreto Hilton Assignment, ideato dal nipote del re deposto (e padre dell’attuale erede al trono libico, il principe Idris Senussi) fu fatto fallire da Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. E questo nonostante l’anno prima 20 mila italiani fossero stati espulsi dalla Libia perdendo ogni bene, le basi angloamericane chiuse, le compagnie petrolifere nazionalizzate. Ma Muammar era considerato il male minore, un baluardo anticomunista. Per questo ancora a metà degli anni ‘80 istruttori italiani addestravano segretamente sui nostri Siai Marchetti (usati anche per mitragliare il Ciad) i piloti militari libici, dotati peraltro di Mirage francesi oltre che di Mig russi.

Gheddafi ha torturato e ucciso migliaia di oppositori in questi 42 anni, dentro e fuori la Libia. Nel 1988 il suo massimo crimine (finora): i 270 morti del jumbo Londra-New York fatto esplodere su Lockerbie (Scozia) da agenti libici. Ai parenti il colonnello ha pagato 2,7 miliardi di dollari (10 milioni ciascuno) in cambio della fine delle sanzioni economiche. Nel 1989 altra bomba su un aereo Uta Ciad-Parigi: 170 morti, 170 milioni di compensazione.

Quell’anno fui invitato da Gheddafi a Tripoli con altri giornalisti per visitare la fabbrica di Rabta: l’Onu lo accusava di confezionarci armi chimiche, lui giurava che fossero solo fertilizzanti. Dopo ore di attesa apparve il colonnello per farsi intervistare: quasi tutte le reporter occidentali si sciolsero al suo cospetto, subendo un misterioso fascino a me incomprensibile. Risultato: quando nel 2003 Gheddafi annunciò che abbandonava i tentativi di costruirsi la bomba atomica (temendo di fare la fine di Saddam), ammise che a Rabta le armi chimiche c’erano.

Finite le sanzioni Onu e Usa e arruolato Gheddafi nella lotta contro Al Qaeda, a Tripoli c’è stata la processione di leader democratici in gara per lucrose commesse: prima Tony Blair, poi Nicholas Sarkozy, infine nel 2008 perfino la bushiana Condoleezza Rice. Silvio Berlusconi ci ha messo maggiore entusiasmo, come sempre. Anche Prodi e D’Alema si sono inchinati davanti al rais del petrolio. Ma Silvio gli ha baciato l’anellone e ci ha inflitto la diretta tv dei disordinati cavalli berberi a Tor Di Quinto. Che hanno sfigurato, rispetto ai perfetti caroselli dei nostri carabinieri. Comunque, il tanto vituperato trattato di amicizia con la Libia del 2009 è stato votato anche dal Pd. Unici contrari: Casini, Pannella, Di Pietro e Furio Colombo. Sono tanti quindi, oggi, i vedovi di Gheddafi.

Non c’entrano invece, nonostante le apparenze, Paolo Conte, autore della deliziosa canzone Tripoli ’69, e Patty Pravo, che la cantò a Canzonissima all’inizio di quell’anno: non vinse, ma fu di buon auspicio per il golpe, regalandogli un’aura di pittoresco esotismo. Quanto a Muammar, gli resta un unico grande rammarico: non avere superato il primatista Fidel Castro nella hit parade mondiale dei satrapi più longevi. Ancora sette anni, e ce l’avrebbe fatta.

Mauro Suttora

Monday, February 07, 2011

I radicali salvano Berlusconi

Pannella stangherà i pm per conto del Cav

Sempre in bilico fra destra e sinistra, il leader radicale promette nove voti al premier

di Mauro Suttora

Libero, 7 febbraio 2011

Se Silvio Berlusconi cerca l'elisir della giovinezza, meglio Marco Pannella di Ruby. L’ottantunenne leader radicale esibisce l’energia di un ventenne, in questi giorni. Con la sua coda di cavallo bianca da capo indiano, è felice per essere tornato a fare notizia. E che notizia: sarà lui a nominare il prossimo ministro della Giustizia. Se Alfano diventerà coordinatore unico del Pdl, di fatto delfino di Berlusconi, il candidato potrebbe essere un «tecnico d’area radicale»: Mario Patrono, consigliere Csm di area socialista negli anni ‘90. Il quale in via Arenula si occuperà dei tre argomenti che stanno a cuore a Pannella: carceri, separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati (referendum vinto nell’87 sull’onda del caso Tortora, ma depotenziato da legge poco applicata).

In cambio, nelle votazioni topiche Berlusconi avrà nove voti in più: i sei radicali alla Camera, e i tre senatori. Difficile per Emma Bonino seguire Marco anche in questo suo ultimo giro di valzer: lei è vicepresidente del Senato, in quota centrosinistra. Con qualche obbligo in più verso chi l’ha eletta, quindi. Ma se Fini ha fatto il salto della quaglia, può farlo anche lei in direzione opposta. Magari astenendosi, oppure con qualche provvidenziale assenza. Già adesso Emma risulta fra i senatori meno presenti. Gli altri parlamentari radicali obbediranno, come sempre. Anche quelli col mal di pancia.

Sbaglia chi carica il «tradimento» radicale di significati politici. Come sempre, Pannella agisce soprattutto in base a umori personali. Gli dà fastidio che Bersani lo snobbi. Mentre lo hanno galvanizzato i due incontri personali con Berlusconi, e poi quello con Alfano.

Il premier è in difficoltà? In Pannella scatta immediatamente l’istinto della crocerossina: «Io ti salverò», gli promette hitchcockianamente. Lo aveva fatto anche con Craxi nel ‘93: «Consegnati, fatti incarcerare, stai in prigione qualche settimana, e alla fine verrai liberato a furor di popolo». Con tutti i parlamentari inquisiti di Tangentopoli, Marco si era dimostrato accogliente. Li aveva combattuti per trent’anni, democristi e socialisti, ma di fronte alla procura di Milano li aveva difesi, respingendo il voto anticipato che li privava dell’immunità: «Riuniamoci all’alba, resistiamo».

Anche adesso, gli piace apparire come il «salvatore». È tornato a fare il consigliere di Berlusconi, come ai bei tempi del ‘94-96, quando i radicali si allearono a Forza Italia. Poi una rottura parziale, quando non raggiunsero il quorum e rimasero fuori dal Parlamento per dieci anni (1996-2006). E una rottura totale nel 2000, dopo che la lista Bonino conquistò il 14 per cento al nord alle europee, ma Berlusconi la liquidò come «protesi di Pannella».

I radicali sono sempre stati in bilico fra destra e sinistra. Liberisti in economia, ma libertari sui diritti civili. Portafogli a destra, cuore a sinistra. Sessant’anni fa Pannella cominciò nella corrente di sinistra del partito liberale con Eugenio Scalfari. Assieme fondarono il partito radicale nel ‘55, per separarsi sette anni dopo: Scalfari guardava al Psi, Pannella al Pci.

Fino al ‘92 i radicali sono rimasti a sinistra. Poi hanno svoltato a destra organizzando referendum liberisti con la Lega Nord, cui aderì anche Berlusconi. Il ritorno a sinistra è del 2006, dopo il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Si allearono con i socialisti, riesumarono il simbolo della Rosa nel pugno, ma non andarono oltre il tre per cento. Nel 2008 Veltroni rifiutò di l’”apparentamento” con loro (come con Rifondazione), costringendoli a un’umiliante contrattazione di posti all’interno delle liste Pd. Ancor peggio l’anno dopo, quando Franceschini li cancellò anche dall’Europarlamento alzando la soglia-ghigliottina al 4 per cento.

L’orgoglioso Pannella non ha dimenticato gli affronti degli «imbecilli del loft», e ora gliela fa pagare.
Con Bersani i rapporti sono rimasti agrodolci fino a poche settimane fa. Il capo Pd ha incontrato Pannella prima del 14 dicembre, quando già c’erano le avvisaglie del cambiamento con i primi abboccamenti dei radicali col centrodestra. Si è sorbito due ore di incontro, in cui ha parlato quasi sempre Pannella. Ma i radicali ce l’hanno con lui perché non li ha appoggiati nella loro battaglia contro le firme false di Formigoni alle regionali della Lombardia la scorsa primavera. «E quando cerchiamo di parlare di giustizia con il Pd, come interlocutori troviamo solo magistrati», si lamenta il deputato radicale Marco Beltrandi.

Ora una cosa è sicura: alle prossime elezioni sarà difficile che il Pd offra nove seggi ai radicali. Fa niente: Pannella li otterrà dal Pdl. Si ritroverà con Daniele Capezzone, suo delfino fino al 2007. E a chi lo accusa di trasformismo, risponde sorridendo: «Omnia immunda immundis. Io lotto per il bene del Paese».

Monday, October 18, 2010

intervista a La Razon

Mientras en España aparece el libro escrito por su amante

¿Ha recuperado Mussolini la memoria?

Italia publica sus polémicos diarios, aunque algunos afirman que son falsos

intervista al quotidiano spagnolo La Razon

16 Octubre 10
Darío Menor - Roma

Los diarios de cualquier persona provocan un impulso inmediato en el prójimo: leerlos. Si el autor es un conocido o un personaje famoso, el estímulo se torna fascinación. Cuando ya se trata de un líder mundial, un dictador o una estrella del espectáculo, el paroxismo es encauzado por las editoriales, que, atentas al negocio, los ofrecen al gran público en forma de libros. La mayor parte de los diarios son auténticos. Otras parece no importar demasiado su autoría.

Es lo que ahora ocurre en Italia con Mussolini. Tras más de 60 años de continuos rumores sobre la aparición de sus supuestos diarios, finalmente una editorial los publicará el mes que viene, poniendo a la venta el primero de cinco volúmenes, correspondiente a los escritos del «Duce» de 1939. El resto, que cubre sus memorias desde 1935 hasta el año en que comenzó la Segunda Guerra Mundial, irá viendo la luz cada seis meses sin seguir un orden cronológico.

Los herederos, de acuerdo

«Sé que hay muchas discusiones sobre su autenticidad: algunos historiadores la niegan, pero sus herederos sostienen que en esas páginas hay temas particulares tan personales que un falsificador nunca podría habérselos imaginado. Como editores, no queremos entrar en este campo», explica al «Corriere della Sera» Elisabetta Sgarbi, responsable de Bompiani, la casa que va a publicar los supuestos diarios de Mussolini. Aunque en el terreno de la autenticidad se lave las manos, Sgarbi ha conseguido ya un éxito poniendo de acuerdo a los propietarios de los manuscritos y a los herederos del «Duce».

La historia de esos textos es tan rocambolesca como típicamente italiana. Al parecer, los diarios fueron arrebatados de las manos del creador del fascismo por uno de los miembros de la brigada partisana que le detuvo y tiroteó en abril de 1945 cuando intentaba huir a Suiza.

El nuevo dueño de los manuscritos y sus herederos llevaban décadas intentado venderlos al mejor postor: al diario londinense «The Times», a la casa de subastas Shotheby’s, a varias editoriales italianas y al semanario «L’Espresso», que desveló en su portada «La verdadera historia de los falsos diarios de Mussolini». Todos los rechazaron por no ser auténticos. Finalmente, fueron comprados de forma conjunta por el senador Marcello Dell’Utri, mano derecha de Silvio Berlusconi y condenado a siete años de cárcel por colaboración con la mafia, y por un empresario afín.

Dell’Utri se vanaglorió hace tres años públicamente de su adquisición, provocando que los historiadores y grafólogos que los habían examinado tacharan de falsos los textos. El senador mafioso ya ni siquiera se preocupa por la autenticidad de los manuscritos. «Ese tema ya no me interesa tanto», dijo este verano al informar de las negociaciones con la editorial Bompiani para la publicación de los mismos. A la editora tampoco parece quitarle el sueño este aspecto, al parecer banal: «Cuando los vi por primera vez me quedé impresionada. Son las reflexiones de un protagonista del siglo XX antes de la entrada en la guerra: son documentos que es justo ofrecer a los lectores», dice.

Chaplin y la Petacci

La llegada a las librerías italianas de las memorias cotidianas del «Duce» distará pocas semanas de la publicación en España de «Mussolini secreto: los diarios de Claretta Petacci 1932-1938» (Crítica), en los que la amante del dictador cuenta con dedicación de amanuense las intimidades y confesiones políticas del hombre que hizo temblar a Italia y Europa.

«Estos sí que son los auténticos diarios de Mussolini. Claretta no habla de sí misma, sólo escribe de lo que le decía Benito», afirma Mauro Suttora, editor del volumen. «Lo que aquí se ve es lo mismo que si instaláramos una videocámara en la habitación de un dictador. Es como si hubiéramos pinchado continuamente el teléfono del “Duce”».

Suttora cuenta lo bien que se lo pasó conociendo a Mussolini a través de las palabras de su amante. «Fue muy divertido. Parecía el dictador de la película de Charles Chaplin. Es un personaje ridículo, obsesionado por el sexo y por el miedo a envejecer». La evocación cinematográfica puede ser real dentro de poco, ya que el editor reconoce que se está preparando una película sobre el «Duce» y Petacci basada en los diarios. «Nunca hemos tenido un retrato tan íntimo de uno de los grandes dictadores. Es como si al lado de Mussolini hubiésemos contado con una espía. Se trata de un documento único, de un gran drama que va más allá de la política. La historia acaba de forma trágica cuando a ambos les matan los partisanos. Claretta estaba tan enamorada de Benito que quiso hacerse fusilar con él, no imaginaba la vida sin su amor. La mataron cuando se tiró con su cuerpo para proteger a Mussolini».

«En este país adoran y luego destruyen»

¿Corre Berlusconi (en la imagen) el riesgo de acabar como Mussolini? El líder radical italiano Marco Pannella cree que sí. Por eso advirtió hace unos días al primer ministro que intente rebajar la tensión política para evitar acabar «fusilado, vejado por la multitud y colgado cabeza abajo junto a una de sus amantes». Suttora también piensa que es posible. «Los italianos están locos: primero adoran y luego destruyen. Cuanto más adoran primero, de forma más violenta destruyen después». Entre ambos líderes, además, hay un hilo conductor: Dell’Utri. Los mecanismos que utilizan estos dos poderosos son también similares. «Es la Italia de siempre, la del hombre solo circundado de aduladores o de gente que trama en la sombra pero que luego tiene miedo», cuenta.

«Mussolini secreto»
Clara Petacci
Suma de letras
480 páginas 28,90 euros

© Copyright 2010, La Razón
Madrid (España)

Wednesday, September 01, 2010

parla Benedetto Della Vedova

"VOGLIAMO SOLO UN PARTITO DI CENTRODESTRA MODERNO"

Oggi, 25 agosto 2010

di Mauro Suttora

Della Vedova, che ci fa con tutti quei «terroni»?
L’imperturbabile Benedetto valtellinese, «colombissima» finiana, non si scompone: «I settentrionali non ci mancano: Valditara, la Moroni, la Germontani, Menia...»
Ma la stragrande maggioranza di voi 44 parlamentari di Libertà e futuro è meridionale. Infatti si parla di nuova «Lega Sud».
«Fini fa bene a chiedere garanzie sul federalismo. Ora sono in Grecia in vacanza: a causa di Atene perfino la Germania ha tremato. Allo stesso modo, la Lombardia non può ignorare Calabria e Sicilia. Lo dice uno come me, che più di nord non si può...»
È di Sondrio anche il suo ex amico Tremonti.
«Lo conobbi nel 2000, quando trattai con lui per conto di Pannella. Poi purtroppo invece della Bonino scelse Bossi. E oggi non posso condividere le sue analisi contro il mercatismo».
Così come Berlusconi condivide pochissimo di Fini.
«L’unica cosa che vogliamo è un centrodestra moderno, europeo. Come quelli di Cameron, Merkel, Sarkozy. Diventati premier dopo confronti intestini non da poco».
Proprio quel che Silvio detesta: le lotte interne ai partiti.
«Ma tutti i partiti del mondo democratico sono “contendibili”: c’è competizione di idee, e ci si conta nei congressi, o alle primarie».
Partiti del secolo scorso, dicono nel Pdl.
«Non mi pare. Obama e la Clinton si sono scannati alle primarie, e ora governano assieme. Blair e Brown si detestavano. Non parliamo dei due capi francesi del centrodestra, Sarkozy e Villepin, finiti in tribunale».
Appunto.
«Al congresso di fondazione del Pdl Fini disse: “So di essere in minoranza su alcuni temi: bioetica, immigrazione. Non pretendo nulla, solo dibattito”. Il confronto è l’essenza del liberalismo. Qualcuno nel Pdl vuole il centralismo democratico, ma è quello ad essere vecchissimo. Possibile che in una città europea come Milano siamo ridotti a dover scegliere fra La Russa, Cl e Calderoli?»
Verdini dice che il Pdl serve per diffondere le idee di Berlusconi fra la gente.
«Raccapricciante. Vedo in giro troppi analfabeti della politica».
Immigrati: c’era una volta la legge Bossi-Fini.
«Chi prende il filobus 90/91 a Milano prova disagio. La sinistra dice: non dovete avere paura. La Lega dice: dovete averla. Noi diciamo: i problemi non vanno né negati né creati, ma governati».
Quando ha parlato l’ultima volta con Berlusconi?
«Cinque mesi fa. Mi dispiace che ora come editore avalli il tentativo di distruzione di un avversario politico interno».
Non sopportava lo stillicidio di critiche di Fini.
«“Stillicidio” non è una categoria politica, ma sociologica. In realtà non abbiamo mai votato contro il governo. Questi sono i fatti. E non vogliamo farlo nel futuro. Tutto il resto è solo racconto fantasioso di Feltri».
Ma a destra Fini non è più tanto amato.
«Se invece di Feltri leggessero Ferrara, giornalista altrettanto vicino a Berlusconi e intelligente, gli elettori di centrodestra penserebbero diversamente».
Due mesi fa immaginava che sarebbe successo tutto questo casino?
«No. Pensavo che in Berlusconi avrebbe prevalso l’intuito politico, che avrebbe accettato nel suo interesse di un Pdl più aperto e inclusivo».
Finirete in un partito di centro con Casini, Rutelli e Montezemolo?
«No. Vogliamo rimanere nel centrodestra. Ma se vogliono distruggerci, ricorreremo alla legittima difesa».

Wednesday, August 18, 2010

Estate calda per i politici

Quest'anno tutti al mare (in attesa di votare...)

VACANZE AVVELENATE: I POLITICI NON SMETTONO DI DIRSELE E DARSELE

Non era mai successo: in pieno agosto governo e opposizione lottano ancora. Ma è soprattutto dentro la maggioranza che la guerra infuria. Così i potenti si rovinano le ferie. Ecco come

di Mauro Suttora

Oggi, 18 agosto 2010

Non era mai successo. Quest' anno la politica non va in vacanza. I politici, in teoria, sì: Gianfranco Fini ad Ansedonia (Grosseto), il presidente Giorgio Napolitano a Stromboli, Pier Luigi Bersani in Ogliastra (Sardegna), Massimo D'Alema a Gallipoli in Puglia dove come sempre troverà l'autoctono Rocco Buttiglione.

Ma, contrariamente agli anni scorsi, i problemi politici rimangono bollenti quanto il sole d' agosto. E continuano a occupare i titoli principali di giornali e telegiornali: «Tregua fra Berlusconi e Fini o rottura?». E in caso di rottura: «Il governo cade?» E se cade: «Un altro governo o elezioni?». E in caso di elezioni: «A novembre o a marzo?»

FERRAGOSTO IN CARCERE
Ormai siamo a Ferragosto. A fine mese, con i festival dei partiti e il meeting di Cl a Rimini, riprende la stagione politica. L'8 settembre riapre la Camera. Ma questa volta l'estate non placa le polemiche. Mai, nel recente passato, le fibrillazioni del Palazzo erano riuscite a fare notizia in modo così ossessivo. Viene registrato ogni sospiro di Italo Bocchino da Panarea, ogni vaticinio di Umberto Bossi dalla Valcamonica, ogni auspicio di Benedetto Della Vedova dalla contigua Valtellina. Il simbolo di questa frenesia senza soste è Silvio Berlusconi. Che rinuncia addirittura alle ferie, e a Villa Certosa (Porto Rotondo) preferisce Tor Crescenza (periferia di Roma). «Sempre di stracchino si tratta...», scherza qualcuno.

L'unico altro politico che rimane nella capitale, perché odia le vacanze, è Marco Pannella: passa come sempre il Ferragosto visitando i carcerati a Regina Coeli. Dovranno invece visitare il premier (non a Regina Coeli come auspicherebbe Antonio Di Pietro dal suo trattore a Montenero di Bisaccia, Molise) gli sfortunati collaboratori più stretti: Sandro Bondi e Denis Verdini pendolari dalla Versilia, Ignazio La Russa dalla Sicilia, Fabrizio Cicchitto pure lui ad Ansedonia, vicino di villa di Fini e Giuliano Amato.

Ma perché tutto questo tourbillon ? «Piaccia o no», risponde Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, «alla maggioranza degli italiani sembra ancora piacere Berlusconi. La realtà è questa. Dunque, niente elezioni anticipate né altri governi». E allora, come se ne esce? «In un solo modo: con un accordo di legislatura fra tutte le componenti del centrodestra: Pdl, Lega, Futuro e Libertà di Fini». Possibile? «Obbligato».

Dissente il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari: «Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento principe per la conquista del potere. Berlusconi è il figlio imbarbarito dell' antipolitica, del qualunquismo e dell' anarchismo. Inutile sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico».

INNAMORATO RESPINTO
Paradossalmente, concorda con Scalfari dalla sponda opposta di destra Vittorio Feltri, direttore del Giornale . Anche lui ritiene impossibile un accordo Berlusconi-Fini, perché quest' ultimo dopo l' espulsione dal Pdl «è come un innamorato folle respinto dalla fidanzata: si vendica uccidendola, poi si spara». Elezioni anticipate, allora? «Sarebbe la soluzione più corretta. Ma non è sicuro che Napolitano la adotti. Nulla gli vieta di tentare la formazione di un nuovo esecutivo con dentro tutti: Pd, Idv, finiani, Udc. Al Senato non avrebbero la maggioranza, perché Pdl e Lega conservano un senatore in più. Ma volete che i ribaltonisti non riescano a comprarsi un tizio qualunque per trenta denari?».

Intanto i ministri Alfano, Calderoli, Tremonti e Fitto preparano un accordo Berlusconi-Fini su quattro punti: giustizia, federalismo, fisco e Sud. «Un'intesa può essere raggiunta facilmente», sostiene De Bortoli, «tranne che sulla giustizia. Quello è uno scoglio difficilmente superabile. La saggezza suggerirebbe di accantonare le leggi ad personam e mettere al primo posto le esigenze dei cittadini».

Come la velocizzazione della giustizia civile: riforma auspicata anche da Adolfo Urso, viceministro finiano rimasto nel governo assieme ad Andrea Ronchi, e che per questo ha votato diversamente dai 43 fuoriusciti sulla mozione Caliendo. Ma ai berlusconiani stanno molto più a cuore la nuova legge Alfano (di livello costituzionale, dopo la bocciatura della Corte) per l'immunità delle alte cariche dello Stato, e quella sul processo «breve». «È proprio qui il nocciolo del problema: Fini spera che prima o poi le grane giudiziarie eliminino Berlusconi», dice Feltri.

«Sarà Bossi a decidere la partita», prevede Scalfari, «è lui a tenere in pugno il manico del bastone. La giustizia non gli interessa: per la Lega quella è solo merce di scambio, l'ha già ceduta a Berlusconi. I leghisti vogliono invece carta bianca sul federalismo e su fisco e Sud, che ne sono due sfaccettature. Sul federalismo Bossi non accetta condizionamenti».

In effetti, è da 23 anni - da quando entrarono per la prima volta in Parlamento - che i leghisti si battono per il federalismo. E ora che è in dirittura d'arrivo, se non lo ottengono o se lo vedono annacquato, tornerebbero a minacciare la secessione. Ma è difficile che i finiani, in buona parte provenienti dal Sud, accettino il federalismo, che inevitabilmente penalizzerà le loro regioni.

Quindi elezioni anticipate? I leghisti non le temono, i sondaggi dicono che farebbero il pieno al Nord. Anche a spese del Pdl. Quanto al Pd, è quello messo peggio, quindi farà di tutto per evitare il voto. Intanto, prosegue il martellamento dei giornali di Berlusconi contro Fini. «Cacciamo gli affaristi!», è lo slogan con cui il presidente della Camera ha aperto la campagna di iscrizioni per il suo nuovo partito, Futuro e libertà. Ma i berlusconiani gli rinfacciano la casa di Montecarlo lasciata ad An da una ricca ereditiera, e finita chissà come al fratello della compagna di Fini dopo un'apparente svendita a una società caraibica. L'estate è calda.

Mauro Suttora