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Tuesday, November 17, 2009

Le donne di Mussolini

CLARETTA AL DUCE: "PIANGO PER TE, CINICO TRADITORE"

In un libro i Diari desecretati della Petacci. Tradita come Rachele con tante altre

di Mauro Suttora

Il Tempo, 17 novembre 2009

Le donne di Mussolini. Se n’è scritto e favoleggiato per settant’anni. Finalmente il volume ‘Mussolini segreto’, in libreria per Rizzoli da domani, svela molte verità. Infatti nei suoi diari appena desecretati dall’Archivio di stato Claretta Petacci, amante ufficiale del duce dal 1936, annota spasmodicamente tutti i tradimenti che Benito le infligge anche dopo che lei ha conquistato il ruolo di favorita unica.
Le sue rivali, nel periodo ’37-’38, sono rimaste due: Romilda Ruspi coniugata Mingardi e Alice De Fonseca coniugata Pallottelli.

La prima vive addirittura nella stessa residenza di Mussolini, quella villa Torlonia che il principe omonimo gli ha messo a disposizione. La Mingardi e sua sorella sono ospitate nel villino che il principe ha tenuto per sé all’interno del grande parco.
«All’Opera. Non mi volevi. C’era lei [la Ruspi]. Ho creduto di morire di pena, avevo i morsi nel cuore»: così scrive Claretta il 10 aprile ’37. E intima a Benito di lasciare Romilda. Ma lui non ci pensa proprio: «Quando mi telefonavi di dicevo di lasciarla. Tu: “No”», annota Claretta il 21 aprile.

Passano i mesi. Claretta consolida il suo ruolo e chiede che la Ruspi traslochi da villa Torlonia. Il 5 novembre ’37 i due amanti si vedono al mare, nella tenuta reale di Castelporziano messa a disposizione del dittatore da Savoia: «Domando di lei [la Ruspi], capisco che è rimasta nella villa. Naturalmente mi addoloro. E lui: “Amore, ti giuro che ho fatto tutto il possibile [per mandarla via], non parliamone più. Perché la metti sempre sul piatto? Io ti amo, non m’importa più nulla di nessuna». Quattro giorni dopo, sempre Mussolini: «Quella signora [la Ruspi] è partita ieri sera con il bambino. Non voglio più sentirne parlare. Non la nominare mai più. È finita, è più lontana dell’Alaska. Dov’è l’Alaska?»

Il bimbo in questione è nato nel ’28, la Ruspi sostiene che sia figlio di Mussolini. Lui ci crede, e dà alla donna uno stipendio mensile. Soltanto nell’autunno ’38 Claretta riesce a farla traslocare (in via Spontini, sempre a spese del duce), ma Mussolini continuerà a vederla di nascosto.

Stessa sorte per la bellissima anglofiorentina Alice Pallottelli, amante del duce negli anni ‘20 e madre di due bimbi che Mussolini considera suoi: «Sì, i suoi figli sono miei. La bimba è la più bella di Roma», urla al telefono Benito a Claretta il 10 dicembre ’38, «ieri sono andato dalla Pallottelli dalle due e un quarto alle due e cinquanta, ho veduto i bambini, quando li ho stretti fra le braccia mi sono commosso. Tu vuoi sapere tutto, e io te lo dico. La Pallottelli dice che tutti a Roma sanno di noi, che sono ridicolo perché sono vecchio».

In effetti Mussolini nel ’38 ha 55 anni, Claretta meno della metà: 26. Lei si dispera: «Attacco la comunicazione. Piango come non ho mai pianto. Tutto crolla. Il suo cinismo è ripugnante. Lo esorto a continuare con questa donna e a lasciare me, che non ama né rispetta. [Gli dico]: “[La Pallottelli] è una vecchia vipera che si scaraventa contro la mia presenza per rabbia e invidia».

Un’altra presenza femminile che si affaccia in quegli anni e che minaccia la coppia Claretta-Benito è la contessa Giulia Brambilla Carminati. Fascista fervente, la Brambilla inonda Mussolini di lettere nelle quali lo mette in guardia da quelli che lei considera pericoli di ogni tipo. Anche lei ha avuto una relazione con il duce, ma ormai ha superato la quarantina. E Mussolini, nei suoi commenti con Claretta, è impietoso con le donne sfiorite.

Scrive la Brambilla a Mussolini: «Mi meraviglio che una persona come te sia caduta così in basso da mettersi insieme a quella donnaccia». E il duce nella primavera ’38 legge le lettere di avvertimento della Brambilla Carminati a Claretta, provocando fra le due un odio irresistibile.

Poi però anche in questo caso Claretta ha la meglio, e riesce a far allontanare la Brambilla da Roma. Invece l’amore fra Claretta e Benito, come sappiamo, continuerà. Fino alla tragica fine del ’45.

Secret Mussolini: New York Post

Benito: I hated Jews pre-Adolf

November 17, 2009

ROME -- Benito Mussolini was a fierce anti-Semite who proudly said that his hatred for Jews preceded Adolf Hitler's and vowed to "destroy them all," according to previously unpublished diaries by the Fascist dictator's longtime mistress.

According to the diaries, Mussolini also talked about the warm reception he received from Hitler at the 1938 Munich conference -- he called the German leader a "softy" -- and attacked Pope Pius XI for his criticism of Nazism and Fascism.

The diaries kept by Claretta Petacci, Mussolini's mistress, between 1932 and 1938 are the subject of a book coming out this week, "Secret Mussolini."

"I have been a racist since 1921. I don't know how they can think I'm imitating Hitler," Mussolini is quoted as boasting in August 1938.

Mussolini segreto: bugie private, pubblici segreti

Il duce ritratto dalla Petacci divide gli storici

di Dino Messina

Corriere della Sera, 17.11.09

Amatore instancabile e all’improvviso diventato fedelissimo, antisemita della prima ora, avversario di Pio XI, buonista con il «sentimentalone» Hitler. Il primo assaggio dei diari di Claretta Petacci dal 1932 al 1938, Mussolini segreto, a cura di Mauro Suttora, in uscita domani da Rizzoli e anticipato ieri dal «Corriere», ci consegna un ritratto del Duce, tra il pubblico e il privato, che darà nuovo lavoro agli storici. Intanto è già cominciata la discussione sull’autenticità, sulla quale non vi dovrebbero essere molti dubbi, poi sull’attendibilità delle annotazioni, che, osserva un biografo del dittatore, Aurelio Lepre, autore di "Mussolini l’italiano" (Mondadori), «andranno verificate e messe a confronto per esempio con quelle dei diari di Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano. Allo stesso modo il confronto andrà fatto con le affermazioni contenute nel libro "L’orecchio del Duce" (Mursia), in cui Ugo Guspini riportava le intercettazioni di conversazioni telefoniche tra il dittatore e la sua amante, non sempre ritenute veritiere».

Questo lavoro incrociato sulle fonti diventerà sempre più complicato a mano a mano che si arriverà al tragico epilogo del 28 aprile 1945, la fucilazione degli amanti a Giulino di Mezzegra. Ferdinando Petacci, figlio del fratello di Claretta, Marcello, nell’introduzione al volume ipotizza per la zia un ruolo di spia degli inglesi. Così si spiegherebbe la precisione di certe annotazioni e l’attenzione maniacale per i fatti politici. Una spia che avrebbe subito confessato il suo ruolo all’amante, il quale a sua volta l’avrebbe utilizzata tramite Winston Churchill, anche per la questione del famoso carteggio. La fantomatica corrispondenza tra il premier britannico e il dittatore italiano sarebbe servita a quest’ultimo come merce di scambio nella trattativa per una pace separata. Ma di questa vicenda ci sarà tempo per discutere, giacché, visto il contenuto privato di molte pagine dei diari, custoditi all’Archivio di Stato, devono passare settant’anni per la pubblicazione.

Gli storici concordano sul fatto che questi documenti sono più importanti per la ricostruzione della personalità privata che per il profilo pubblico del dittatore. La pensa così Giovanni Sabbatucci, che precisa: «Non ho motivo di dubitare dell’autenticità dei diari, ciò che può far dubitare è il contenuto del resoconto della Petacci, che non so fino a quanto attendibile, dato che non sappiamo il grado di veridicità delle confidenze di Mussolini alla sua amante». Sicuramente Mussolini mentiva quando giurava alla sua giovane amante fedeltà assoluta, dicendo di aver fatto il deserto intorno a sé. E Claretta prontamente ironizzava: un deserto con qualche cammello!

Il duce mentiva anche quando faceva risalire il suo antisemitismo al 1921? Rispondere a questa domanda significa risolvere una delle annose discussioni storiografiche intorno a Mussolini: quanto cioè il suo razzismo e la sua avversione per gli ebrei dipendessero dalla recente alleanza con la Germania nazista. «Anche su questo aspetto — osserva Lepre — c’è modo di stabilire se Mussolini mentiva, ma quel che conta è il contributo che i diari della Petacci portano al profilo psicologico del dittatore, tanto più che la testimonianza viene da una persona così vicina».

Scettico sull’attendibilità dei diari della Petacci è un suo biografo, Roberto Gervaso, autore nel 1981 di "Claretta, la donna che morì per Mussolini" (Rizzoli): «Secondo me — ha dichiarato Gervaso all’Adnkronos — su temi come le leggi razziali, Pio XI e Hitler i diari di Claretta non possono essere considerati una fonte di prima mano per conoscere il pensiero di Benito. Mussolini era innamorato pazzamente, aveva perso la testa dietro a una ragazza conosciuta quando lei aveva 20 anni e lui 49. Nel loro rapporto questa era l’unica cosa che contava».
Dà ragione a Gervaso il professor Sabbatucci quando afferma che Mussolini si comportava come il più classico degli italiani: un amante che «riempiva di balle» l’amata. Ma le bugie di Mussolini non rendono certo meno interessante questo ritratto del dittatore visto anche dalla camera da letto.

Associated Press: 'Mussolini segreto'

MISTRESS' DIARY: MUSSOLINI WAS FIERCE ANTI-SEMITE

ROME (AP) _ Benito Mussolini was a fierce anti-Semite, who proudly said that his hatred for Jews preceded Adolf Hitler's and vowed to «destroy them all,» according to previously unpublished diaries by the Fascist dictator's longtime mistress.

According to the diaries, Mussolini also talked about the warm reception he received from Hitler at the 1938 Munichconference - he called the German leader a «softy» - and attacked Pope Pius XI for his criticism of Nazism and Fascism.

On a more intimate note, Mussolini was explicit about his sexual appetites for his mistress and said he regretted having affairs with several other women.

The dairies kept by Claretta Petacci, Mussolini's mistress, between 1932 and 1938 are the subject of a book
coming out this week entitled «Secret Mussolini.» Excerpts were published Monday by Italy's leading daily
Corriere della Sera and confirmed by publisher Rizzoli.

Historians said the diaries appeared to be convincing and reinforced the image that Mussolini was strongly
anti-Semitic, even though early on there was some Jewish support for his Fascist movement. But they cautioned that these are the diaries of the dictator's lover - not Mussolini himself - and therefore must be taken with an
extra grain of salt.

Corriere said the diaries shed new light on Mussolini, who had been seen as more obsequious toward the pope and «dubious» over Italy's racial laws, which led to widespread persecution of Italian Jews.

Many of the excerpts that were published date to 1938, a crucial year during which Mussolini's Fascist regime passed the racial laws and Europe sealed its appeasement toward Nazi Germany at the Munich conference.

«I have been a racist since 1921. I don't know how they can think I'm imitating Hitler,» Mussolini is quoted as boasting in August 1938. «We must give Italians a sense of race.»

Italy's racial laws restricted the rights of Jews and expelled them from government, university and other fields.

In 1943, German troops occupied northern and central Italy, and thousands of Jews were deported. According to some researchers, there were 32,000 Jews in 1943 in Italy, of whom over 8,000 were deported to Nazi concentration camps.

«These disgusting Jews, I must destroy them all,» Mussolini was quoted as saying by his lover in October 1938. At another point he calls them «enemies» and «reptiles,» according to the excerpts.

Mussolini also denounced Pius XI, who saw the rise of anti-Semitism in the last years of his 1922-39 papacy, as harming the Catholic Church. Pius commissioned an encyclical to denounce racism and the violent nationalism of Germany, but he died before releasing it and it was never published.

The Fascist dictator said that «there never was a pope as harmful to religion» as Pius XI and accused him of doing «undignified things, such as saying we are similar to the Semites,» according to the excerpts.

For years, the Vatican has struggled to defend Pius' successor _ the wartime Pope Pius XII _ against claims he
didn't do enough to save Jews from the Holocaust.

Mussolini had kind words for Hitler, whom he said was «very nice» and had tears in his eyes when he met the Italian dictator in Munich. «Hitler is a big softy, deep down,» Mussolini is quoted as telling Petacci on Oct. 1, 1938, shortly after the conference.

Mussolini also wrote to Petacci about his «mad desire» for her «little body» and his regret over having had relations with other women. «I adore you and I'm a fool. I mustn't make you suffer,» he was quoted as saying.

Mussolini and Petacci were shot by partisans on April 28, 1945, and their bodies were displayed to a jeering crowd hanging upside-down from a gas station in a Milan square.

Piero Melograni, a historian who has written several books on Fascism and World War II, said the excerpts were «convincing in terms of the character that emerges and therefore the authenticity of the diaries.»

He said the diaries appear to strengthen the notion of a strongly anti-Semitic Mussolini, as demonstrated by the 1938 laws and several speeches. But he said the personal quotes almost «humanize» him.

Another prominent historian, Giovanni Sabbatucci, said that while he has no reason to doubt the authenticity of the diaries, he is less sure of their historical significance because they might not reflect Mussolini's real thoughts.

«We must not forget that, even when authentic, we are reading what a mistress was writing about what her lover told her,» he said in a phone interview.

Sabbatucci said that while there is no doubt that Mussolini had developed a strong anti-Semitism in the later
years of his life, historians are split as to when these sentiments began. The diaries appear to show he developed
them earlier rather than later, but Sabbatucci was doubtful.

«We must not take for granted that she correctly wrote what she was told. And we must not take for granted that what she was told was the truth and not some lover talk,» said Sabbatucci, who teaches contemporary history at Rome's Sapienza University.

16.11.2009 h 20:25

Monday, November 16, 2009

Corriere della Sera: libro 'Mussolini segreto'

DOCUMENTI INEDITI DAL ’32 AL ’38.
LE CONFIDENZE DEL CAPO DEL FASCISMO



Mussolini segreto nei diari della Petacci

Furibondo con ebrei e Pio XI, spavaldo nelle fantasie erotiche: le confessioni del Duce alla sua amante

Corriere della Sera, 16 novembre 2009

Avete presente il Benito Mussolini descritto nei ricordi di seguaci e parenti, o quello che emerge dai suoi pretesi «diari» acquistati da Marcello Dell’Utri, di cui gli storici negano l’autenticità? Un uomo bonario, attaccato alla famiglia, diffidente verso i nazisti, ossequioso nei riguardi del Papa, generoso con gli ebrei e dubbioso sulle leggi razziali.
Ebbene, dai diari della sua amante, Claretta Petacci, esce un ritratto opposto in tutto e per tutto: un Duce ferocemente antisemita, che rivendica il suo razzismo di lunga data, sprezzante verso la moglie, insofferente dei Savoia, ammaliato dalla potenza del Terzo Reich, furibondo con Pio XI per le sue parole in difesa degli ebrei.

Le eloquenti confidenze del Duce, trascritte dalla Petacci e qui anticipate, provengono dal volume Mussolini segreto (Rizzoli, pp. 521, € 21), in uscita dopodomani, nel quale Mauro Suttora ha raccolto una sintesi dei diari di Claretta dal 1932 al 1938. Per i primi anni si tratta di biglietti e brevi annotazioni, ma dall’ottobre 1937 il resoconto diventa fluviale. Naturalmente non tutto il contenuto dei diari può essere preso per oro colato. Sulla sincerità dei proclami di amore eterno, delle recriminazioni di Mussolini verso la moglie (afferma di essere stato tradito per lungo tempo) o di certe vanterie erotiche (sostiene che Maria José di Savoia, moglie del principe Umberto, avrebbe tentato di sedurlo) è lecito nutrire dubbi. Ma non si vede perché il Duce avrebbe dovuto alterare i suoi giudizi politici parlando con Claretta.

Oggetto di un lungo contenzioso tra lo Stato e la famiglia Petacci, che non ha mai smesso di rivendicarli, ma ha visto respingere le sue richieste, i diari si trovano all’Archivio di Stato, «la cui lunga custodia di questi documenti — sottolinea Suttora — ne garantisce l’autenticità».
Dopo il primo blocco, altre annate saranno desecretate «allo scadere dei settant’anni dalla loro compilazione». E secondo Ferdinando Petacci, nipote e oggi unico erede di Claretta, potrebbero contenere novità esplosive, tali da far ritenere che l’amante del Duce fosse in qualche modo collegata a Winston Churchill. Ma anche se l’ipotesi si rivelasse infondata, il contributo di queste carte alla conoscenza dell’uomo Mussolini resta indiscutibile.
Antonio Carioti

Corsera: le confidenze del duce

Dal libro 'Mussolini segreto' (ed. Rizzoli)

Corriere della Sera, lunedì 16 novembre 2009



5 gennaio 1938. Mussolini riceve l’amante a Palazzo Venezia. Tenero e appassionato, ricorda la serata precedente. E lei riporta così le sue parole.

«Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno? Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: 'Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà mia'. Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: 'Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è un tutt’uno con il mio corpo'. Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre».

19 febbraio 1938. Al monte Terminillo, Claretta amareggiata rinfaccia a Mussolini le scappatelle con altre donne. Lui si scusa.

«Sì amore, faccio male, tanto più che ti amo sempre di più, e sento che mi sei necessaria più di ogni cosa. Ti adoro e sono uno sciocco. Non ti devo far soffrire, anche perché questa tua sofferenza si riversa su di me, perché io soffro di ciò che soffri»

17 luglio 1938. Mussolini e Claretta sono al mare, a Ostia. Lei riferisce un suo sfogo.

«Ah, questi italiani, io li conosco bene, li vedo nelle viscere. E so che sto sullo stomaco a molti. L’entusiasmo è un’apparenza. La verità è che sono stanchi di me, che li faccio marciare»

4 agosto 1938. I due amanti sono in barca. Venti giorni prima è uscito il Manifesto della razza.

«Io ero razzista dal ’21. Non so come possano pensare che imito Hitler, non era ancora nato. Mi fanno ridere. (...) Bisogna dare il senso della razza agli italiani, che non creino dei meticci, che non guastino ciò che c’è di bello in noi».

28 agosto 1938. Sono insieme sulla spiaggia. Mussolini legge, poi scatta.

«Ogni volta che ricevo il rapporto dell’Africa ho un dispiacere. Anche oggi cinque arrestati perché convivevano con le negre. (...) Ah! Questi schifosi d’italiani, distruggeranno in meno di sette anni un impero. Non hanno coscienza della razza».

1 ottobre 1938. Il Duce racconta all’amante i retroscena della conferenza di Monaco, nella quale Francia e Gran Bretagna hanno accettato le pretese di Hitler sulla Cecoslovacchia.

«Le accoglienze di Monaco sono state fantasti che, e il Führer molto simpatico. Hitler è un sentimentalone, in fondo. Quando mi ha veduto aveva le lagrime agli occhi. Mi vuole veramente bene, molto. (...) Ma ha degli scatti di una violenza che solo io riuscivo a frenare. Faceva faville, fremeva, si conteneva con sforzo. Io invece, l’imperturbabile. (...)
«Ormai le democrazie devono cedere il passo alle dittature. Noi eravamo una forza sola, avevamo un significato, rappresentavamo un’idea e un popolo. Lui con la camicia bruna, io in camicia nera. Loro così, umiliati e soli. Ti sarebbe piaciuto davvero, essere lì a vedere. (...)
«La vittoria è ormai delle dittature. Questi regimi vecchio stile non vanno più, sono creatori di disordine. Uno solo deve essere al timone, e comandare. Oggi la Germania è la più grande potenza del mondo. Sono ottanta milioni di uomini che bisogna pensarci, prima di attaccarli. (...) Dovevi vedere con che affetto, simpatia e devozione mi hanno accolto ovunque lungo la strada. Hanno compreso anche là che l’artefice della pace, l’unico che poteva far desistere Hitler da qualsiasi movimento, ero io. Lo smacco della politica rossa è insormontabile. No, è falso, non abbiamo mai mangiato insieme a Daladier e a Chamberlain. Sempre fra nazisti e fascisti, e mi sono trovato benissimo».

8 ottobre 1938. Mussolini è indignato con Pio XI, che ha dichiarato «spiritualmente siamo tutti semiti» e chiede di riconoscere la validità dei matrimoni religiosi misti tra ebrei e cattolici.

«Tu non sai il male che fa questo papa alla Chie sa. Mai papa fu tanto nefasto alla religione come questo. Ci sono cattolici profondi che lo ripudiano. Ha perduto quasi tutto il mondo. La Germania completamente. Non ha saputo tenerla, ha sbagliato in tutto. Oggi siamo gli unici, sono l’unico a sostenere questa religione che tende a spegnersi. E lui fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli, li odiamo, e siamo come loro. Abbiamo lo stesso sangue! Ah! Credi, è nefasto.

«Adesso sta facendo una campagna contraria per questa cosa dei matrimoni. Vorrei vedere che un italiano si sposasse con un negro. Abbiamo veduto che anche i matrimoni con i bianchi stranieri portano, in caso di guerra, alla disgregazione delle famiglie. Perché l’uno e l’altro coniuge si sentono in quell’attimo assolutamente per la propria Patria. Perché l’hanno nel sangue. Di qui naturalmente l’impossibilità d’accordo, e le famiglie a rotoli. Lui dia pure il permesso, io non darò mai il consenso. (...) Ha scontentato tutti i cattolici, fa discorsi cattivi e sciocchi. Quello dice: 'Compiangere gli ebrei', e dice: 'Io mi sento simile a loro'... È il colmo».

11 ottobre 1938. Al mare con Claretta, il Duce si scaglia contro gli ebrei.

«Questi schifosi di ebrei, bisogna che li distrugga tutti. Farò una strage come hanno fatto i turchi. Ho confinato 70 mila arabi, potrò confinare 50 mila ebrei. Farò un isolotto, li chiuderò tutti là dentro. (...) Sono carogne, nemici e vigliacchi. Non hanno un po’ di gratitudine, di riconoscenza, non una lettera di ringraziamento. La mia pietà era viltà, per loro. Dicono che abbiamo bisogno di loro, dei loro denari, del loro aiuto, che se non potranno sposare le cristiane faranno cornuti i cristiani. Sono gente schifosa, mi pento di non aver pesato troppo la mano. Vedranno cosa saprà fare il pugno d’acciaio di Mussolini. (...) È l’ora che gli italiani sentano che non devono più essere sfruttati da questi rettili».

10 novembre 1938. Il governo approva il decreto legge sulla razza che entrerà in vigore una settimana dopo. Benito ne parla a Claretta.

«Oggi abbiamo trattato la questione degli ebrei. Certamente sua Santità solleverà delle proteste, per ché non riconosceremo i matrimoni misti. Se la Chiesa vorrà farne, faccia pure. Però noi, Stato, non li riconosceremo, e saranno come amanti. Di conseguenza, nemmeno i figli. Tutti quelli che si sono fatti cattolici fino ad oggi, e quindi i figli, rimarranno come adesso. Dalla data stabilita in poi non si ammetteranno più. Diversamente si farebbero tutti cattolici pur di potersi sposare, e allora la questione della razza non avrebbe ragion d’essere. Questo il Papa non lo vuol capire, quindi faccia come crede».

16 novembre 1938. Nuovo sfogo contro Pio XI.

«Ah no! Qui il Vaticano vuole la rottura. Ed io romperò, se continuano così. Troncherò ogni rapporto, torno indietro, distruggo il patto. Sono dei miserabili ipocriti. Ho proibito i matrimoni misti, e il papa mi chiede di far sposare un italiano con una negra. Solo perché questa è cattolica. Ah no! A costo di spaccare il muso a tutti».

Thursday, October 22, 2009

Diari Petacci a Francoforte

MUSSOLINI: "CLARETTA, T'HO SPOGLIATA A TEATRO"

Amore e potere: la Rizzoli presenta i diari della Petacci alla Buchmesse

La Stampa, 14 ottobre 2009

Mario Baudino

«Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: ''Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sara' ancora mia''. ... Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre».

Cosi' scrisse Claretta Petacci, nel suo diario del '38, riferendo le parole che le avrebbe rivolto Mussolini, appena incontrato a Palazzo Venezia. Esagerava? La buttava un po' sullo svenevole? Fantasticava sul suo schiavo d'amore? Non abbiamo la controprova, per evidenti motivi. Ma tra un mese sara' possibile leggere cinquecento pagine di cio' che la celebre amante del Duce annoto' fra il '32 e il '38. Verranno pubblicate da Rizzoli in Mussolini segreto, a cura di Mauro Suttora, che quei diari ha trascritto e studiato, dopo averli inseguiti a lungo. Erano infatti depositati all'Archivio di Stato, ma non accessibili - neppure agli studiosi - fino allo scadere dei settant'anni dalla loro stesura.

Questo e' il motivo per cui d'ora in poi, ogni dodici mesi, se ne renderanno disponibili altri, fino al '45. Claretta Petacci continuo' a scriverli fino all'ultimo, e li consegno' a un'amica prima di lasciare Milano e incamminarsi con il convoglio dei gerarchi fascisti verso la Valtellina. Segui' l'uomo che amava e mori' con lui, a Giulino di Mezzegra, uccisa in circostanze ancora non del tutto chiare ed esposta cadavere in piazzale Loreto, a Milano.

Ma questa e' la «grande storia». Nei diari c'e' quella magari piu' piccola, della quotidianita' e del sogno. Queste pagine non rispondono agli interrogativi sulla fine del capo del fascismo, sul fantomatico carteggio con Churchill che Mussolini avrebbe avuto con se' nella fuga interrotta a Dongo, e in genere su tutti gli altri misteri italiani del periodo.

La curiosita' dell'editoria internazionale alla Fiera di Francoforte, dove la Rizzoli lancia il libro, e' pero' notevole, stimolata dai fatti di cronaca recenti, dal gossip privato divenuto politico. Non si puo' dire del resto che la povera Claretta Petacci - una figura tragica nella storia d'Italia - si sia risparmiata, anche da questo punto di vista. Tra gelosie e riappacificazioni, pianti e abbracci, ci consegna una trascrizione minuta, parola per parola, di telefonate (anche dieci al giorno) e conversazioni con lui.

Pare un verbale o un'intercettazione telefonica. A volte e' commedia all'italiana, a volte pure melodramma. La voce infatti e' quella di Claretta, e tutto il materiale viene filtrato, tradotto, spesso fantasticato, dall'immaginario di una donna innamorata. Riesce difficile immaginare il capo del fascismo che sussurra nella notte, a un telefono (bianco? ): «Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole»; mentre e' piu' verosimile, ad esempio, una chiamata mattutina dove Mussolini (lei annota: nervosissimo) si informa sbrigativamente: «Hai dormito? Non molto? Io si', sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare».

La Petacci nel '38 aveva 26 anni, era bellissima e gelosissima. Lui aveva passato i cinquanta e com'e' noto non gli mancavano ne' le amanti ne' i figli illegittimi, oltre a una famiglia regolare e a una moglie piuttosto decisa. Lei si era separata dal marito ed era tornata nella casa paterna. Era anche molto chiacchierata, com'e' ovvio. Era in una situazione di debolezza e di precarieta'. Ma era indubbiamente innamorata, anzi cieca di passione. Cosi' scriveva freneticamente, e trasfigurava.

Il Mussolini dei labari, dei gagliardetti e dei pugnali tra i denti qui non esiste. Non esiste nemmeno l'uomo di Stato. C'e' solo un signore superimpegnato che ogni tanto perde le staffe. Per esempio dopo un litigio sul fatto se andare o non andare a teatro. Claretta trascrive le sue parole: «Hai fatto bene a ricordarmi del teatro», le aveva detto, «pero' io rimango sempre dentro al palco e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muovero' da dentro perche' non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Cosi' va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.».

Filippo Tommaso Marinetti, accademico d'Italia. L'uomo che invento' il futurismo. E se ne stava in paziente attesa tra gli eccetera eccetera, ma soprattutto tra una telefonata e l'altra. La dura vita dell'intellettuale.

http://archivio.lastampa.it:80/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=9622368

Wednesday, May 20, 2009

Ida Dalser, «pazza» già nel 1918

Vittima di Mussolini? Sì, ma...

Pubblichiamo in esclusiva documenti che provano lo squilibrio mentale della donna prima che il duce andasse al potere

Oggi, 20 maggio 2009

«Ida Dalser è una squilibrata con carattere nevropatico. Non intende ragioni, avanza pretese inverosimili. Suo figlio ha un’infermità dipendente da sifilide organica ereditaria, e nonostante i suoi soli tre anni d’età non è un angioletto: compendia tutto lo squilibrio psichico della genitrice».

Così scrive nel settembre 1918 il prefetto di Napoli all’ufficio riservato del ministero degli Interni. Attenzione alla data: allora Benito Mussolini era solo un caporale e agitatore politico. Quindi il prefetto non aveva alcun interesse a distorcere la verità in suo favore, dipingendo come pazza la madre di suo figlio e asserita moglie.

In questi giorni l’Italia presenta al festival di Cannes il film Vincere di Marco Bellocchio, che racconta la triste vicenda della Dalser. La quale è stata sicuramente una vittima del futuro duce: come abbiamo scritto la scorsa settimana, Mussolini riconobbe il figlio ma poi la ripudiò, nel ‘26 la fece rinchiudere in manicomio, e lì la donna morì undici anni dopo. Stessa fine per il figlio, al quale il dittatore tolse il proprio cognome: crepato pure lui in ospedale psichiatrico.

«Tutto vero», commenta il professor Antonio Alosco, docente di storia contemporanea all’università di Napoli. «Però, da qui a far passare la Dalser come un’eroina, magari impulsiva e ossessiva ma sana di mente, come pretende il battage pubblicitario attorno al film, ce ne corre. Io sono antifascista, ma non diamo a Mussolini troppe colpe, oltre alle tantissime che già ha».

Nell’archivio della prefettura di Napoli il professor Alosco ha trovato i documenti che provano lo stato mentale della Dalser, già deteriorato nel ’18. Nella primavera di quell’anno, dopo la disfatta di Caporetto, la donna finisce come profuga, con molti suoi corregionali trentini, nel campo di Piedimonte d’Alife (Caserta). Si porta dietro il figlio Benito Albino. Mussolini ha da tempo rotto ogni rapporto con lei: si è sposato con Rachele e non le invia più gli alimenti per il figlio. Nel campo sfollati la Dalser percepisce un sussidio giornaliero decoroso: quattro lire e mezzo.

Il piccolo Benito (che Ida chiama Benittino), però, non sta bene: vede poco da un occhio, ha la gambetta destra paralizzata. Potrebbe essere curato a Piedimonte, ma la mamma coglie il pretesto per trasferirsi in albergo a Napoli. E pretende che le autorità lo paghino, o che premano su Mussolini affinché la mantenga.
Il 18 agosto ’18 Benito junior è visitato dal dottor Manlio Giordano. Pubblichiamo il suo referto a pag. XX. La diagnosi è tremenda: costituzione linfatica, probabile sifilide ereditaria.

Intanto, la Dalser continua la sua battaglia quasi giornaliera con questore e prefetto. Li tempesta di lettere chiedendo soldi, tanto che il prefetto si sfoga con il ministro degli Interni: «Il primo agosto le abbiamo corrisposto un sussidio straordinario di 150 lire, che però ha impiegato per pagare i debiti (…) Le pretese di lei crebbero giornalmente, manifestandosi in forma violenta (…) E’ eccitata ed eccitabile, non tralascia di imperversare quotidianamente con petulante insistenza per tutti gli uffici, portando in giro la sua creatura scostumata, impertinente, smaniosa di distruggere tutto quanto gli capiti fra mano, rivoluzionaria come la stessa madre lo chiama. La Dalser è scontenta di tutto e di tutti, e sente sempre il bisogno di prendersela con qualcuno. Quando giunse a Napoli imprecava contro il trattamento inumano a Caserta; ora è la volta dei funzionari di questo ufficio».

Nel novembre ’18 la Dalser minaccia il suicidio, mentre la polizia ne evidenzia la «cattiva condotta specie morale, essendosi data alla vita allegra riservatamente». Insomma, oltre che squilibrata e «disfattista» (così erano bollati i pacifisti), ragione per la quale il ministro dell’Interno raccomanda «di intensificare la vigilanza sul suo conto», la signora è accusata anche di fare la prostituta. Persecuzione o mania di persecuzione? In ogni caso, nel ’18 non era colpa di Mussolini.

Mauro Suttora

Thursday, May 14, 2009

Giovanna Mezzogiorno e Mussolini

"Porto a Cannes tutta me stessa"

UNA STAR ALLA PROVA

Interpreta Ida Dalser, che fu prima amata e poi annichilita da Benito Mussolini. «Quella parte mi spaventava. Adesso mi inorgoglisce», dice. E punta alla Palma

di Mauro Suttora

6 maggio 2009

«Per interpretare Ida Dalser ho dovuto farmi assistere personalmente da un coach di recitazione: è un personaggio difficile, intenso, pieno di fisicità. Quindi c' è voluta una preparazione teatrale. Troppo spesso il cinema dimentica il corpo. Mentre questo è un film forte, senza understatement ». Insomma, Vincere di Marco Bellocchio non è uno dei soliti film «carini» italiani. È un pugno nello stomaco. Perfino per Giovanna Mezzogiorno, una delle più brave attrici italiane, portarlo a termine è stata una sfida.

La vicenda è quella drammatica della prima, presunta moglie di Benito Mussolini: la Dalser, bella ragazza di buona famiglia, figlia del sindaco di Sopramonte (Trento). Personalità assai intraprendente, a 20 anni va a Parigi per studiare Medicina estetica, poi apre un suo salone di bellezza «alla francese» a Milano: raro esempio, per l' epoca, di donna imprenditrice. Qui s' innamora di Mussolini. «Ed è l' inizio di una passione travolgente», racconta la Mezzogiorno.

DONNE E POTERE
Nel 1913 il futuro dittatore (interpretato da Filippo Timi) ha 30 anni, tre meno di lei. Dirige l'Avanti, quotidiano del partito socialista, ed è un rivoluzionario di estrema sinistra, antimonarchico e anticlericale. In realtà, i due si erano già fuggevolmente incrociati a Trento, e lei ne era rimasta folgorata.

«Già allora Mussolini era un uomo mangiato vivo dall' ambizione», dice la Mezzogiorno. «E non sono poche le donne attratte dal potere, anche se allora lui non era nessuno». Ida si affida al suo eroe. Che nel giro di pochi mesi da pacifista diventa interventista, vuole che l' Italia faccia guerra all' Austria (Paese di cui la Dalser ha la cittadinanza, essendo trentina). Quindi viene cacciato dai socialisti e fonda un giornale, il Popolo d' Italia.
«Per finanziarlo Ida vende tutto: la casa, il salone di bellezza, i gioielli». Intanto però Mussolini sta già con la futura moglie Rachele Guidi (interpretata da Michela Cescon), dalla quale nel 1910 ha avuto la figlia Edda. Non importa: l'agitatore è debordante anche nella vita privata, e pare che nel settembre ' 14 sposi la Dalser con matrimonio religioso (del quale però non esistono prove).

L' unica cosa certa è che l' 11 novembre 1915, a guerra iniziata, Ida dà alla luce un bambino. Al quale viene dato un nome che parla da solo: Benito Albino Mussolini. E il duce lo riconosce, anche se anni dopo falsificherà i dati anagrafici. Un mese dopo, nel dicembre 1915, Rachele l' ha vinta: si fa sposare con rito civile all' ospedale di Treviglio (Bergamo) dove Benito è ricoverato per una ferita di guerra. Così, il Duce non ne vuole più sapere della Dalser: lei riuscirà a rivederlo solo in ospedale, immobilizzato e accudito da Rachele. Si scaglia contro la rivale urlando che è lei la vera moglie. Ma la allontanano a forza.

Il resto della vita della Dalser è un calvario. «Aveva un carattere troppo forte per rassegnarsi», dice la Mezzogiorno, «ed è stata la sua grande personalità a impaurire Mussolini, che ha preferito la quiete del matrimonio con Rachele. La Dalser non si accontenta di soldi in cambio del silenzio, come le altre amanti del Duce: grida sempre la sua verità e scrive a tutte le autorità, dal Papa in giù».

L' ARRESTO E L'OBLIO
Sorvegliata, non si arrende. Ma nel 1926 Mussolini la separa dal figlio (che non rivedrà più), la fa arrestare e rinchiudere nel manicomio di Pergine Valsugana. Poi viene trasferita in quello di San Clemente (Venezia). Qui un direttore sanitario onesto non può diagnosticarle alcun disturbo. Eppure viene torturata e finisce semiparalizzata. Muore nel dicembre ' 37, a 57 anni, per emorragia cerebrale.
Quanto al figlio, Mussolini nel ' 32 gli fa togliere il cognome con decreto reale. Dopo averlo messo in collegio lo spedisce in Cina nella Marina militare. E pure lui viene internato in manicomio, dove muore a 26 anni, nel ' 42. «Per marasma», recita la diagnosi.

«Una storia tremenda», dice la Mezzogiorno. «Già la scena del provino fu lunga e difficile. Era quella dell' interrogatorio della Dalser col giudice. Mi sono affidata a Bellocchio perché mi dicesse cosa voleva vedere nel personaggio. La Dalser era contraddittoria: femminista ma sottomessa, innamorata ma ossessiva».

Bellocchio, maestro del cinema, a 70 anni non ha bisogno di riconoscimenti, ma Vincere è l'unico film italiano in concorso a Cannes: sarà proiettato il 19 maggio. Nello stesso giorno uscirà in Italia. «Sono lusingata di rappresentare l' Italia», dice Giovanna, «dopo essere stata a Cannes l'anno scorso con Palermo Shooting di Wenders». E la prossima prova non sarà meno controversa: La prima linea , sui brigatisti degli Anni 70.

Mauro Suttora

RIQUADRO

Le donne del Duce

Mussolini ha avuto una quantità incredibile di amanti. Le più importanti sono state Margherita Sarfatti e Claretta Petacci. La Sarfatti (1880-1961), ricca ebrea veneziana, giornalista socialista, incontra Benito nel 1912. La relazione va avanti anche dopo il matrimonio di lui. Fascista, va via dall' Italia nel '38, con le leggi razziali. Rientrerà a Como nel '47.
La Petacci (1912-'45), romana, è l'amante dal '36 fino alla morte di entrambi, fucilati nell'aprile '45 e appesi a testa in giù a piazzale Loreto. Fra le altre, Romilda Ruspi Mingardi, negli Anni 20-30, e la marchesa Giulia Brambilla Carminati.

Wednesday, March 04, 2009

Diario di Claretta Petacci, 1938

SEX DUX

A LETTO CON BENITO (COME IN UN LIBRO DI MOCCIA) - L’AMORE totale DELlA “STENOGRAFA” PETACCI PER MUSSOLINI – IL DUCE DOVEVA CHIAMARLA DIECI VOLTE AL GIORNO PER NON FARLA INGELOSIRE -

reso pubblico l’anno 1938 del diario dela grafomane Claretta…

Mauro Suttora per il settimanale 'OGGI'

4 marzo 2009

Povero Benito Mussolini. Nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la gelosissima amante Claretta Petacci.

È stato appena reso pubblico l'anno 1938 del diario della Petacci. L'Archivio di Stato, infatti, fa passare settant'anni prima di togliere il segreto. «Il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni private», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci.

Per decenni gli storici hanno sperato che quelle carte provassero una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi.

Il diario del '38 non offre rivelazioni politiche, ma dal punto di vista personale quelle pagine sono una miniera. Claretta era una grafomane, riempiva migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito.

Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il diario, si capisce come pochi anni dopo si sia fatta fucilare con Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto senso.

«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»

Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. È il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta la fa resocontare parola per parola ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - da anni: l'ha conosciuto nel '32, fanno l'amore dal '36 - sono occupate dall'attesa di parlare con lui. E il resto del tempo la Petacci scrive. È una stenografa in presa diretta.

«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel. alle 3 quando torno qui, amore».

Una scena quasi comica

La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione, e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato con un'altra.

La prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, non mi sento, non ne ho voglia.

Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (...) Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel. fra poco».

«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - non esco. Non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare spettacolo nello spettacolo. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»

«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».
«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo ‘bottone' con l'ex ministro ungherese, adesso devo vedere Marinetti. Farò presto».

«7 e 1/2. È stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita").

Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stai attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse...

Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».

Queste parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, o appartengono al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. A teatro il suo resoconto si trasforma in cronaca:

«Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso.

Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. (...) Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio».

«Telefonata, 12 e 3/4. Amore, quanto ti ho guardata. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. E per me non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami.

Dentro questo teatro non ci siamo che noi. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima, mi piacevi tanto. Dimmi che mi ami. Pensavo: questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore.

Amore, hai sentito quanto ti amo. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, amore, sei sola nella mia vita. Dormi con la mia voce, le mie parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».

Sesso a Palazzo Venezia

Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938. Lo sai amore, ieri sera a teatro ti ho spogliata tre volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui sono folle, domani sarà ancora mia".

Ti vedevo, e quando sei salita ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là, mi dice».

Mauro Suttora

Inedito: Claretta e Benito

UN GIORNO (E UNA NOTTE) NELLA VITA DI MUSSOLINI

"Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo"

ESCLUSIVO: Il diario 1938 di Claretta Petacci è stato reso pubblico dopo 70 anni. Dentro c’è un delirio amoroso, molta fantasia, poca politica. E sesso…

Roma, 4 marzo 2009

Povero Benito Mussolini. Il dittatore italiano nel 1938, anno cruciale della storia mondiale (Adolf Hitler invade l'Austria, conferenza di Monaco), doveva fare dieci telefonate al giorno. E non per questioni di lavoro: al Duce toccava chiamare ogni ora la sua giovane e assillante amante Claretta Petacci, gelosissima (con ottime ragioni).
Sono state appena rese pubbliche le pagine sul 1938 del diario della Petacci. L'Archivio centrale dello Stato, che lo conserva, lascia infatti trascorrere un periodo di settant'anni prima di togliere il segreto su quei documenti. Di anno in anno, quindi, il diario di Claretta (che prosegue fino alla sua uccisione assieme a Benito, nel '45) viene messo a disposizione degli storici.

Siamo andati all'Eur nel palazzo (fascista) dell'Archivio, e abbiamo spulciato le «nuove» pagine. Diciamo subito che il diario non contiene decisive rivelazioni storiche. Perlomeno per l'anno 1938.
«Ma anche negli anni successivi il diario di Claretta è caratterizzato in prevalenza da considerazioni molto private, che non aggiungono granché alla comprensione dei tragici fatti di quegli anni», avverte la dottoressa Luisa Montevecchi, funzionario dell'Archivio e responsabile del fondo Petacci, che ha già controllato il prosieguo del diario e le minute delle lettere che Claretta spediva a Mussolini.

APPASSIONATA GRAFOMANE

Per decenni gli storici hanno sperato che da quelle carte saltassero fuori le prove di una trattativa segreta fra il Duce e il premier inglese Winston Churchill, per una pace separata durante la repubblica di Salò o per una resa che salvasse la vita ai gerarchi fascisti in fuga. L'ultimo erede della famiglia Petacci, Ferdinando, 67 anni, che vive negli Stati Uniti, ha sempre reclamato la proprietà del diario e delle lettere. Ma lo Stato italiano gliel'ha negata.

Se politicamente il diario del '38 non offre novità, dal punto di vista privato quelle pagine sono una miniera. Le abbiamo lette con difficoltà, perché la scrittura della Petacci non è semplice da decifrare. Claretta infatti era una vera grafomane, ha riempito migliaia di fogli. Ma, soprattutto, era innamoratissima del suo Benito. Una passione febbrile, totale, che ha divorato per anni ogni ora delle sue giornate. Leggendo il suo diario, si capisce come pochi anni dopo abbia voluto farsi fucilare assieme a Mussolini. Un esito orrendo ma naturale: senza di lui, la sua vita non avrebbe avuto alcun senso.

«Ore 9 e 1/4. Nervosissimo. Hai dormito? Non molto? Io sì, sto meglio con il dito e ho dormito. Ti ho forse svegliata? Sono molto spiacente. Io? Bene. Adesso lasciami lavorare...»
Così inizia il resoconto di una giornata qualunque. E' il 4 gennaio '38. Telefonata da palazzo Venezia. L'amor folle di Claretta le impone di resocontare minuziosamente, parola per parola, ogni colloquio con Benito. Tutte le sue giornate - e ormai da anni, l’ha conosciuto nel ’32, fanno l’amore dal ’36 - sono occupate dall'attesa di una conversazione col Duce. E il resto del tempo la Petacci scrive. Praticamente, è una stenografa in presa diretta.
«10 e 1/2. Non esci un poco? C'è il sole, vai che è bello».
«Alle 11. Ancora no? Allora ti chiamerò più tardi. Ma se esci verso mezzogiorno che sole prendi? Va bene».
«12 e 1/4. Sei ancora lì? Allora esci adesso e prendi almeno un'ora di sole. Sì è vero, non sono stato gentile ma ho molto da fare, moltissimo. Ho anche della gente nella piazza, i romani ecc. Ti tel alle 3 quando torno qui amore».

UNA SCENA QUASI COMICA

La scena è quasi comica. Uno degli uomini più potenti del mondo, l'allora 54enne Duce, si preoccupa paternamente del sole che deve pigliare la sua 25enne amante preferita. La tempesta di telefonate, si scusa, le spiega che non può stare troppo al telefono a tubare con lei perché deve governare una nazione (anzi, un impero), e ci sono minuzie come la folla in piazza Venezia che lo reclama tronfio al balcone... Ma la chiama ogni ora, anche per dimostrarle che non si è appartato nella sala del Mappamondo con un’altra.

La Petacci è tornata a vivere a casa con i suoi, nella residenza del padre Francesco Saverio medico personale del papa, dopo la separazione dal marito aviere. La loro casa non è lontana da villa Torlonia, sulla Nomentana, dove Mussolini vive con la possessiva moglie Rachele e i figli. E dove torna ogni giorno per pranzo.

Preso fra due fuochi di gelosia, la prima telefonata pomeridiana da palazzo Venezia è per lei: «Alle 3. Cara, sono di ritorno. Sono nervoso perché al solito credevo di avere poche udienze, invece ne sono spuntate 7-8. Credo però che verso le 6 potrai venire. Dove, quale teatro? No, io non mi sento, non ne ho voglia. Ma nessuno me lo ha proibito. Non dire sciocchezze. Va bene, allora per dimostrarti il contrario ci vengo. Sì, va bene ci vengo, benché non mi vada. Ci vedremo a teatro allora, va bene, sei contenta? (dato che si era inquietato, prima gli ho detto "Non è il caso di bisticciare per questo"). Hai ragione. Verrò per farti piacere e per dimostrarti che non c'è alcuno che me lo proibisca. Addio cara ti tel fra poco».

«4 e 1/4. Hai fatto bene a ricordarmi del teatro. Così dispongo le mie cose in modo di poterci andare. Perché altrimenti all'ultimo momento sarebbe stato un guaio. Però io rimango sempre dentro al palco - e non esco. Tu non devi salire su, capito? Io non mi muoverò da dentro perché non voglio assolutamente fare lo spettacolo nello spettacolo. Così va bene. Adesso comincio a ricevere, ne ho diversi: Marinetti, ecc. ecc.»
«Alle 5. Ho tardato perché avevo un lungo colloquio. Non un attimo di sosta. Ti chiamerò al più presto».

IL 'BOTTONE'

«Alle 6 e 1/4. Ho avuto un lungo bottone, adesso devo vedere Marinetti, immagina. Era l'ex ministro ungherese. Adesso farò presto».
«7 e 1/2. E' stato piuttosto lungo, il bottone. Adesso se vuoi che venga a teatro bisogna che tu mi mandi a casa presto. Devo vestirmi, mangiare e continuare con qualcuno che mi accompagni. Certo, sarò felice di vederti. Non ho mai parlato con quella signora del teatro, vorrei che mi accadesse non so cosa se questo non è vero. Non fare così, sai, perché il mio amore si stanca (io gli avevo detto "Tu mi tratti male perché provi rimorso di avermi tradita”). Ti prego, non essere cerebrale. Tu sei cerebrale, il tuo amore è raziocinante. Non c'è più slancio, non c'è impulso. Pensi troppo, stati attenta a tutto, ricordi tutto. Non c'è impulso (se non fossi impulsiva non ti farei di queste domande, starei attenta a non annoiarti). Va bene, senti, se vuoi che il nostro amore vada sempre bene e non subisca scosse… Questa sera voglio guardarti con amore. Desidero guardarti con tenerezza. Ho piacere di guardarti e sorriderti con molto amore, hai capito? Sei contenta? Vedrai dai miei occhi che ti amo. Adesso lasciami andare a casa se vuoi che faccia in tempo. (...) Addio cara, ti tel dopo teatro».

A TEATRO

Quante parole sono effettivamente pronunciate da Mussolini, e quanto invece appartiene al delirio fantastico di Claretta? Impossibile saperlo. Possiamo solo affidarci al suo resoconto. Che a teatro si trasforma in cronaca: «Alle 9 e 1/4 arrivo perché la macchina non funzionava e resto dietro. Poi entro. Al primo intervallo vado su, passo e scena. Lui sorride, mi guarda. Durante il primo atto mi guarda a tratti. C'è la moglie. Vado su con Marcello [il fratello, ndr], si fa scuro, non lo riconosce perché prima pallido poi rosso. Ha come un urto al cuore, poi pensa, si ricorda e mi sorride guardandomi a lungo. Scendo presto. Al terzo mi trattengo di più ed è contento, mi guarda tanto con tenerezza e amore. Alla mia destra c'è una cinquantenne che lo fissa con l'occhialino, una vecchia amante dev'essere. Lui non so se la vede. Durante lo spettacolo mi guarda tanto con desiderio. Si alza in piedi dietro la moglie e fa per tirarmi un bacio. Mi guarda sempre, anch'io».

TELEFONATA NOTTURNA

«Alle 12 e 3/4. Amore, amore, cara, quanto ti ho guardato. Hai veduto che ti guardavo sempre, ti amavo tanto, mi piacevi tanto. Pensavo: per lei, per questa piccola bambina, per il mio tesoro in questo teatro non ci sono che io. Per lei io solo esisto, sono l'unico. L'unico, il solo per la mia piccola. E pensavo ancora: per me in questo teatro non esiste altra donna che lei. L'unica che mi piaccia, che mi interessi, che ami. Dentro questo teatro non ci siamo che noi, io e lei. Cara, amore, mi guardavi tanto. Hai visto come ti sorridevo, e guardandoti ti avvolgevo nella mia tenerezza, ti avviluppavo nel mio amore, e tu lo sentivi. Eri bellissima amore, mi piacevi tanto, davvero era bello. Dimmi che mi ami. Pensavo: domani questa piccola amante, questa dolce donnina che mi parla e che io adoro, domani sarà tra le mie braccia e io la terrò nel mio cuore. Sarà con me domani. Amore, hai sentito quanto ti amo, il mio amore ti avvolgeva. Pensavo che non c'è altra donna che te, dentro e fuori. Ti sono fedele, finalmente tuo, tutto. Clara, Clara, amore, sei sola nella mia vita Clara. Dormi con la mia voce e le mie dolci parole. Queste parole d'amore ti servano per dormire tranquilla, serena, fiduciosa nel mio bene immenso. Ti adoro, buonanotte amore. Amore, dormi fra le mie braccia perché ora vieni con me. Vieni a me nel mio letto che io ti stringa forte, amore, vieni con me amore, dormi con me, ti adoro».

Difficile immaginare che questo sproloquio sdolcinato sia uscito dalla bocca dello sbrigativo e «maschio» dittatore, seppure innamorato o in cerca di perdono per un recente tradimento. Più facile che Claretta scriva di notte per dar sfogo alle proprie fantasie romantiche, per placare la solitudine. E forse anche per lottare contro l'insonnia.

DUCE A LUCI ROSSE

Il giorno dopo Claretta Petacci va a trovare Mussolini a palazzo Venezia: «5 gennaio 1938, XVI E.F. [era fascista] Lo sai amore che ieri sera a teatro ti ho spogliata 3 volte almeno. Quando mi sono alzato in piedi dietro a mia moglie io sentivo di prenderti. Avevo un folle desiderio di te. Mi dicevo: "Il suo piccolo corpo, la sua carne di cui io sono folle, domani sarà ancora mia". Ti vedevo, e quando sei salita su ti sei accorta che ti spogliavo. Ti guardavo, ti svestivo e ti desideravo come un folle. Dicevo: "Il suo corpicino delizioso è mio, è tutto mio. Io la prendo, vibra per me, è tutt'uno con il mio corpo". Vieni, io ti adoro. Come puoi pensare che io, schiavo della tua carne e del tuo amore, pensi ad altre. Andiamo di là lungo la strada, mi dice. Davvero anche tu pensavi questo?»

Chissà, se il Fuhrer avesse letto le parole di questo inedito «Duce a luci rosse», così poco marziale, forse non avrebbe voluto l'Italia alleata in guerra...

Mauro Suttora

Friday, June 20, 2008

Festa del cinema a Roma

La Capitale del debito fa pure la Festa del Cinema

Liberiamo la cultura dal Festival dei dittatori

di Mauro Suttora

Libero, 20 giugno 2008

Nei Paesi civili i politici non si intromettono nella cultura. Non la finanziano (con soldi altrui) con la scusa di «aiutarla» o «promuoverla». Infatti negli Stati Uniti non esiste un ministero della Cultura, né quella sciagura che sono gli assessori alla Cultura. La Gran Bretagna ha capitolato soltanto nel 1992, ma il nuovo Ministry of Culture britannico ha soprattutto il compito di preservare biblioteche e monumenti.

Solo i dittatori vogliono controllare la cultura. Per questo Mussolini creò nel ’32 la Mostra del cinema di Venezia. E il festival di Cannes nacque qualche anno dopo perché i francesi erano stufi delle interferenze fasciste e naziste a Venezia.

Dove il cinema funziona c’è poco bisogno di festival. Infatti a Hollywood ci sono gli Oscar, che si risolvono in una serata dopo un voto fra 5.800 professionisti del settore (non di una giuria di una decina di smandrappati). Ed è una cerimonia privata, senza finanziamenti pubblici.
Gli unici due festival di una certa rilevanza negli Usa (Sundance e Tribeca) sono legati all’impegno personale di Robert Redford e Robert De Niro, ad eventi particolari (il Tribeca è nato dopo l’11 settembre 2001 per risollevare le sorti del quartiere), e hanno pochissimi contributi pubblici.

Nei Paesi civili hanno letto Orson Welles. L’unico «aiuto» che i politici danno alle arti è la detassazione dei soldi investiti dai privati. Invece a Roma vige ancora, da duemila anni, la legge del «panem et circenses». Gli italiani trovano normale che chi ha il potere lo mantenga tramite l’elargizione di spettacoli, a carico dell’erario.

Dopo gli imperatori e i papi, a Roma 33 anni fa arrivò Renato Nicolini. Il primo «assessore alla Cultura» d’Italia. L’inventore dell’«estate romana». Un genio (sul serio, senza ironia: infatti i politici professionisti lo hanno fatto fuori). Due anni fa, invece, è nata la festa del Cinema. Una disgrazia. E non solo perché ha scialacquato decine di milioni in una città con sette miliardi di debito e in un Paese in rosso per 1.600 miliardi. Ma perché ha sbagliato tempo e luogo.

Il tempo. «Ma sono pazzi?», ho quando ho saputo che la festa del cinema di Roma si sarebbe svolta solo un mese dopo il festival di Venezia. Cioè di un evento che bene o male richiama l’attenzione mondiale, e dove infatti vengono un sacco di attori famosi. Che certo non ritornano in Italia dopo cinque settimane, anche se hanno un nuovo film da promuovere. Si chiama «cannibalizzazione». Sarebbe come se Parigi organizzasse una sua festa del cinema a giugno, un mese dopo Cannes.

E poi, ottobre. A Roma in ottobre da sempre non si trova una camera d’albergo vuota. E’ altissima stagione. Come ogni Pro loco sa, gli eventi si organizzano invece per tirar su la bassa stagione.
Ma mi hanno spiegato: «L’auditorium è libero solo in ottobre, prima che inizi la stagione dell’orchestra di Santa Cecilia». Quindi: decidono di organizzare un evento internazionale, prenotando decine di camere nei migliori alberghi e rompendo le balle ai turisti veri, quelli che pagano di tasca propria, solo per sistemare i bilanci in deficit dell’Auditorium (un altro esempio di soldi pubblici scialacquati nel faraonismo pseudoculturale dei politici).

Il luogo, infine. «La festa del cinema ha rilanciato l’immagine di Roma», dichiarò il sindaco Walter Veltroni dopo la prima edizione. Come se la città più bella del mondo avesse bisogno di un lifting d’immagine. Ma i festival fateli a Manfredonia, Monza, Monfalcone: tutte cittadine il cui nome giustamente comincia per M…

Dice: «Molte spese sono coperte dagli sponsor». Te li raccomando, gli «sponsor» a Roma. Sono quasi tutte aziende statali, parastatali, o comunque in debito di favori presso i politici. Certo che Lottomatica finanzia tanti circenses a Roma, invitando i papaveri in prima fila: chi gliela rinnova, altrimenti, la concessione per giochi e lotterie? Certo che la Camera di commercio romana è generosissima con Comune, Provincia e Regione: quante sue aziende dipendono da commesse pubbliche, licenze, permessi, varianti al piano regolatore?

La verità è che a Roma c’è poco o nulla di non parastatale. Perfino la Chiesa lo è diventata, con l’8 per mille. Ma lo spettacolo più buffo è la gente di spettacolo che chiede l’elemosina al burocrate. Il cinema italiano che, con le sale semivuote tranne Christian De Sica, Moccia e Pieraccioni, pretende soldi statali per fare film. E protesta se tagliano il Fus (Fondo unico spettacolo), che finanzia il sottobosco di produttori, maestranze, attori, comparse e pierre alla perenne ricerca di favori, lavoretti, consulenzine da dieci o centomila euro. Non a caso il film vincitore della prima festa del cinema di Roma, nel 2006, s’intitolava «Fare la vittima». Qualcuno l’ha visto?

A questo servono le feste del cinema. A regalare i soldi di chi non va al cinema a quelli che fanno un cinema che fa scappare dai cinema.
Sono andato alla prima dell’ultimo film con Nanni Moretti. All’uscita, davanti al cinema Sacher, c’era un caos calmo di auto blu e limousine parcheggiate. Tutte di sinistra. Al neosindaco di Roma Alemanno e al neoministro della Cultura Sandro Bondi un solo augurio: tagliate. Liberate la cultura.

Mauro Suttora

Tuesday, June 03, 2008

Mangiano pure sulla fame

PAPPONI MONDIALI

Si apre a Roma il vertice mondiale sulla povertà. Un ente internazionale che brucia quattrini senza fare nulla. Presenti anche capi di Stato che affamano i popoli. Come Mugabe e Ahmadinejad

Libero, 3 giugno 2008

di Mauro Suttora

Il quinto dittatore più longevo del mondo è atterrato a Fiumicino tranquillo e felice domenica notte con la moglie Grace. Ha conquistato il potere nel 1980 e non lo ha più mollato. Soltanto Gheddafi e altri tre despoti (il sultano del Brunei, Omar Bongo in Gabon e Dos Santos in Angola) tiranneggiano i loro popoli da più tempo.

Robert Mugabe ha 84 anni ed è ospitato a Roma nell’ambasciata del suo Zimbabwe, quartiere Prati. Mentre era in volo i suoi poliziotti in Africa hanno arrestato l’oppositore più prestigioso, il giovane scienziato Arthur Mutambara, assieme a decine di altri avversari politici.

Lo Zimbabwe è l’ex Rhodesia del Sud. Era un Paese florido, uno dei granai d’Africa. Gli inglesi se ne sono andati 28 anni fa, e da allora le cose sono costantemente peggiorate. Oggi i tredici milioni di sudditi di Mugabe sono fra i più poveri del mondo, ridotti alla fame. L’inflazione è del 156.000 per cento. Non è un refuso: significa che ogni giorno i prezzi quadruplicano. Fino a una dozzina di anni fa almeno c’era la libertà. Ora neanche più quella. Da liberatore, Mugabe si è trasformato in tiranno.

Nel 2002 ha truccato le elezioni per farsi rieleggere. L’Unione europea ha reagito proibendogli di venire nel nostro continente. Ma lui si fa gioco di questo divieto. Con la scusa che a Roma c’è la Fao (Food and agriculture organization), la quale come tutte le agenzie dell’Onu gode di extraterritorialità, fa una capatina in Italia ogni volta che può. L’ultima volta, a un vertice Fao del 2005, paragonò Bush e Blair a Mussolini e Hitler. Chissà cosa dirà questa volta.

Con la sua presenza a Roma, Mugabe sta facendo ombra perfino a un altro gentiluomo come l’iraniano Ahmadinejjad. Il ministro degli Esteri australiano Smith ha definito «oscena» la sua presenza al vertice contro la fame nel mondo: «Mugabe è responsabile della fame di cui soffre il suo popolo, e ha usato gli aiuti alimentari a fini politici». Due mesi fa ha perso di nuovo le elezioni, ma grazie ai soliti brogli ha ottenuto un ballottaggio per il 27 giugno. E ora è venuto a farsi un po’ di propaganda in Italia.

Il pretesto glielo offre uno dei tanti inutili vertici contro la fame di una delle tante inutili agenzie dell’Onu. La Fao, appunto. Il palazzo bianco della Fao sta vicino alle terme di Caracalla, un precursore di Mugabe. Fino al 2002 nel piazzale davanti alla Fao c’era l’obelisco di Axum. Poi l’Etiopia ha chiesto di riaverlo. L’Italia, chissà perché, ha acconsentito. Così l’obelisco è stato tolto e rispedito in Etiopia a nostre spese. Da allora giace abbandonato sotto una tettoia. Questo è il risultato dei complessi di colpa degli ex colonialisti.

Un altro risultato è che continuiamo a finanziare baracconi come la Fao. Ha quattromila funzionari. Duemila stanno «sul campo», nei posti dove si soffre la fame, e probabilmente qualcosa combinano. Gli altri duemila stanno a Roma, e si godono i loro stipendi da ottomila euro al mese esentasse. La Fao costa quasi 400 milioni di dollari l’anno. Poco, tutto sommato, se paragonati ai 300 milioni di euro che abbiamo appena deciso di buttare via per dare qualche altro mese di vita all’Alitalia. Ma tanto, se si scopre che gran parte del bilancio serve per pagare i dipendenti.

Come per l’Onu e l’Unesco, i tre quarti dei soldi vengono versati da undici Paesi (fra i quali non compaiono Cina e Russia, nonostante abbiano diritto di veto). Gli Usa pagano da soli il 25% delle spese, il Giappone il 20. Ma quando si decide come spendere, vale la regola della maggioranza. I membri della Fao sono 191. E il voto di San Marino vale quanto quello degli Usa.

L’inefficienza della Fao è leggendaria. Già nel 1960, visti gli scarsi risultati, fu creato il Pam (Programma alimentare mondiale), agenzia operativa per le emergenze sempre con sede a Roma. Esiste tuttora e funziona abbastanza bene. Negli anni ’70 si continua con la moltiplicazione degli enti: nascono il Wfc (World food council) e l’Ifad (International fund for agricultural development).

Vent’anni fa la Heritage Foundation, think tank Usa di destra, dimostra dati alla mano che l’inefficienza continua. E nel ’91 ai critici della Fao si aggiunge la rivista The Ecologist, bibbia degli ambientalisti, che decreta addirittura: “La Fao promuove la fame nel mondo, invece di combatterla”.

Niente da fare. La burobaracca sopravvive organizzando vertici su vertici. Quello del 2002 viene considerato uno «spreco di tempo» perfino da molti dei partecipanti ufficiali. Nel maggio 2006 si dimette Louise Fresco, assistente direttore generale della Fao, che ammette: “La nostra organizzazione è incapace di adattarsi alla nuova era,i suoi capi non propongono soluzioni per superare la crisi”.

Dopo il vertice del 2006 Oxfam, la più grande Ong (Organizzazione non governativa) privata contro la fame nel mondo, chiese di finirla con le «feste di parole». Un mese fa il presidente del Senegal ha ribadito: “Meglio chiudere la Fao”. Invece ora ci risiamo. Per tre giorni i potenti della Terra, dittatori e affamatori compresi, banchettano a Roma alla faccia degli affamati. Quelli che fanno qualcosa di concreto (i missionari, i volontari delle Ong) sono rimasti in Africa, in Asia, in America Latina.

Mauro Suttora

Mr. Mugabe non gradito

Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente

Il Foglio, 3 giugno 2008

Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.

Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.

Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.

La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».

Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.

C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.

Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.

Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.

Mauro Suttora

Wednesday, March 19, 2003

E' sparito il diario di Claretta

Il furto dell' epistolario Mussolini Petacci ha ragioni politiche?

"Quel carteggio scotta. Mia zia sapeva che gli inglesi avevano chiesto aiuto a Mussolini per l' armistizio con Hitler", rivelò un mese fa a Oggi il nipote della Petacci, Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Hanno rubato i documenti che potevano mettere in imbarazzo gli inglesi", dice lo storico Luciano Garibaldi

di Mauro Suttora

Oggi 19/03/2003

Il giallo si complica. E i misteri sulla morte di Benito Mussolini, invece di dissolversi, si infittiscono. Il nuovo soprintendente dell' Archivio di Stato, Maurizio Fallace, ha denunciato ai carabinieri il furto di tutta l' annata 1937 del carteggio fra il dittatore fascista e la sua amante, Claretta Petacci, e del diario di quest' ultima. L' unico erede della Petacci, il nipote sessantenne Ferdinando che vive a Phoenix, in Arizona, un mese fa aveva lanciato proprio dalle colonne del nostro giornale, in un' intervista esclusiva, l' allarme sul destino degli scottanti documenti: "Qualcuno non vuole che la verità esca fuori" (Oggi n. 6, 5 febbraio 2003). E adesso la notizia che diario e lettere sono già stati saccheggiati da mani ignote fa lievitare i sospetti.

Ma cosa contiene di così esplosivo il carteggio Mussolini Petacci?
"In teoria, nessuno dovrebbe saperlo", risponde lo storico Luciano Garibaldi, uno dei massimi esperti di quel periodo e autore di molti libri (gli ultimi: La pista inglese, edizioni Ares, e Un secolo di guerre, ed. White Star), "perché da 58 anni tutti i governi lo hanno coperto con il segreto di Stato. Che però per legge dura solo cinquant' anni. Cosicché alla sua scadenza, nel 1995, chiesi di esaminarlo. Ma l' Archivio mi impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent' anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell' epoca, Giorgio Napolitano, specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell' Archivio, soltanto alcune pagine dei diari fra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945".

Perché questa autolimitazione ?

"Perché ero venuto in possesso delle trascrizioni delle telefonate fra Mussolini e Claretta, intercettate dai tedeschi che controllavano tutto. Da quei colloqui emergono i contatti segreti che il Duce aveva con emissari inglesi di Winston Churchill. "Riuscirò a convincere Hitler", dice Mussolini alla sua amante, che in quel periodo drammatico era diventata anche la sua confidente politica. Lui si sfogava con lei perché ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno".

Cosa voleva Churchill da Mussolini?

"Bloccare l' Unione Sovietica che stava dilagando troppo velocemente in Europa, mentre gli occidentali erano ancora fermi sul Reno".

E lei cosa voleva scoprire nei diari segreti di Claretta?

"Quello che scrisse, almeno nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate intercettate dai nazisti. Lei ascoltava tutto, e durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, sul lago di Garda, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Miriam".

E perché Napolitano non le ha permesso di consultarli, visto che il periodo del segreto di Stato è scaduto e il suo lavoro è di tipo storico scientifico, non certo alla ricerca di pettegolezzi privati ?

"La sua è stata una risposta curiosa. Sosteneva che i funzionari dell' Archivio avevano già provveduto a consultare i diari e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava".

Quindi qualcuno ha già letto e studiato i documenti segreti. E come mai è sparito proprio l' anno 1937 ?

"Le lettere di quell' anno non dovrebbero contenere rivelazioni importanti dal punto di vista politico. Con tutta probabilità si tratta veramente di corrispondenza d' amore e di lamentele da parte dell' amante di un uomo che faceva ancora il galletto e si concedeva altre avventure galanti. Magari saranno state vendute a caro prezzo a qualche collezionista privato miliardario. Ce ne sono tanti, in giro per il mondo".

Il valore commerciale del carteggio e del diario, quindi, potrebbe essere alto. È per questo che il nipote Ferdinando chiede di riaverli ?

"Petacci ha tutto il diritto di rientrarne in possesso, come unico erede vivente. Scaduto il termine dei cinquant' anni di segreto di Stato, se non gli vengono restituiti è un furto".

Ferdinando Petacci aveva soltanto tre anni quando l' auto su cui si trovava assieme alla zia Claretta, al padre Marcello Petacci, alla madre e al fratellino venne bloccata a Dongo, sulla riva del lago di Como, nell' aprile 1945. Suo padre venne fucilato, nonostante avesse dichiarato di essere in contatto con gli inglesi (o forse proprio per questo), la mamma violentata dai partigiani e il fratello non si riprese più dallo choc. Ora vive in Arizona e pretende che i suoi diritti vengano rispettati. Anche quello alla privacy: come si fa, infatti, a opporlo proprio ai parenti più stretti ?

Ma l' Archivio di Stato ha intenzioni differenti: "Quest' anno, trascorsi settant' anni, renderemo consultabili i primi atti del carteggio e del diario, quelli relativi al 1933", annuncia il sovrintendente Fallace. Ed è stato proprio durante una riunione preparatoria per questa pubblicazione che è stato scoperto il furto.

Luciano Garibaldi avverte però: "Già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in un baule nel giardino della villa dei conti Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di fuggire da Gardone, qualcuno si premurò di purgarli delle parti più compromettenti. D' altra parte, questo è stato il destino subito da tutti i documenti che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Quelli che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka per esempio: vent' anni fa gliene chiedemmo conto, e lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch' esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla sono poi le copie fotografiche che Mussolini consegnava al ministro Carlo Alberto Biggini".

Ma siamo sicuri che esistano le prove dei contatti fra Mussolini e Churchill?

"Non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano "Caro Winston" o "Caro Benito", ma sui rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l' autista del Duce, mi ha rivelato nel ' 94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa al confine con la Svizzera per incontrarli. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta hanno cominciato a incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che catturò sia Mussolini che Marcello Petacci, ha scritto due libri. Peccato che l' Istituto Storico della Resistenza di Pavia non permetta ancora l' ascolto delle cassette con la testimonianza di un altro partigiano, ormai deceduto".

Insomma, i misteri sull' oro di Dongo (il tesoro sparito dei gerarchi fascisti) e sulle uccisioni dei partigiani che non accettarono la versione ufficiale continuano. Dureranno ancora per dodici anni, se il governo non si decide a togliere il segreto (che negli Stati Uniti dura solo trent' anni). E forse per sempre, se malauguratamente si verificherà qualche altro strano "furto".

Mauro Suttora

Wednesday, February 05, 2003

parla il nipote di Claretta Petacci

Intervista a Ferdinando Petacci

"Il diario di zia Claretta dirà che fu Churchill a farla uccidere"

ESCLUSIVO Parla l' unico superstite di Dongo

"Lo Stato nasconde i suoi scritti e le lettere a Mussolini", dice Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Quei documenti proveranno gli accordi top secret tra il Duce e il premier inglese che, per evitarne la divulgazione, avrebbe ordinato l' eliminazione di Benito e dell' amante che sapeva"
"Violentarono mia madre e spararono alle spalle a papà"

dal nostro inviato a Phoenix (Arizona) Mauro Suttora

Oggi 5 febbraio 2003

Dopo sessant' anni bisogna venire fino in Arizona, a diecimila chilometri dall'Italia, per sapere qualcosa di più su uno dei grandi misteri del Ventesimo secolo: l'uccisione di Benito Mussolini e dell' amante Claretta Petacci. "Terra di sogni e di chimere" era definito questo Stato americano in una famosa canzone dell' era fascista, il Tango delle capinere. Ma il suo autore, Cesare Andrea Bixio, aveva scelto l' Arizona per far rima con una "chitarra che suona". E oggi arriviamo fra deserti e grand canyon solo perché qui abita l' unico erede vivente dei Petacci: Ferdinando, 61 anni, figlio di Marcello e nipote di Claretta.

C' era anche lui, bimbo di tre anni, sull' Alfa Romeo fermata a Dongo (Como) dai partigiani il 28 aprile 1945, assieme alla zia Claretta, a papà Marcello, alla mamma e al fratellino di cinque anni. Assassinati i primi due, violentata per giorni la madre, bloccato lo sviluppo mentale del fratello (morto poi giovane di cancro) perché aveva assistito alla fucilazione del padre, Ferdinando è il solo sopravvissuto al dramma. "Per decenni non ho voluto sapere nulla di quelle vicende", mi confessa nella hall dell' albergo dove abbiamo appuntamento, "anche se dopo aver perso la nostra casa di Merano mia madre dovette mandarmi in collegio sotto falso nome. Non sono fascista, non lo sono mai stato, mi sono costruito da solo la mia vita e la mia carriera di dirigente industriale. Mi sono sposato e ho avuto due figli che vivono negli Stati Uniti come me.
Poi, con l' età, mi sono reso conto che la nostra famiglia ha subito una grossa ingiustizia. Non c' era alcun motivo di uccidere Clara Petacci, che ebbe l' unico torto di amare un uomo. Non c' era alcun motivo di ammazzare mio padre, che non era un gerarca fascista: lo urlarono i ministri di Salò ai partigiani comunisti mentre li stavano fucilando. Mio padre riuscì a scappare, si tuffò nel lago, ma fu colpito mentre si allontanava. Dopo la morte di zia Miriam, una decina di anni fa, sono subentrato a lei nella richiesta allo Stato italiano di rientrare in possesso dei diari di mia zia e delle sue lettere a Mussolini".

E questo è il motivo per cui siamo qui. Lei si oppone alla pubblicazione di questo carteggio. Come mai?

"Perché lo Stato italiano ha preso in giro noi eredi per oltre mezzo secolo, e ancora adesso non vuole ridarci ciò che è di nostra legittima proprietà. Il diario e le lettere private, infatti, furono affidati da mia zia Clara a una sua cara amica, la contessa Cervis, prima di fuggire dal lago di Garda nell' aprile ' 45: vivevano assieme nel Vittoriale di D' Annunzio. La contessa seppellì il plico nel giardino della sua villa. Claretta, giunta a Milano, preferì restare con Mussolini, rifiutando di scappare in aereo per la Spagna con la sorella Miriam. Ma a lei si raccomandò: "Se mi capitasse qualcosa, i documenti sono lì". A guerra finita Miriam restò in Spagna e i carabinieri sequestrarono il carteggio. Ma qui cominciano i misteri. Perché dall' inventario del sequestro risulta che le lettere di Mussolini e le minute di quelle di mia zia fossero 600, mentre ora sono la metà. Dove sono finite le lettere mancanti ? Perché sono sparite ? Chi le ha prese ? E che cosa c' era scritto di così delicato da rendere necessario un trafugamento ?".

Lei non ha mai potuto neanche visionare il diario e le lettere ?

"No. Dicevano che c' era il segreto di Stato, che in Italia dura cinquant' anni. Ma nel ' 95, alla scadenza del termine, hanno trovato un' altra scusa per mantenere il segreto: Paola Carucci, sovrintendente dell' Archivio centrale dello Stato, mi ha scritto opponendo un fantomatico diritto alla privacy, che scadrebbe dopo settant' anni. Quindi, secondo loro, io dovrei aspettare ancora fino al 2015. Ma non solo io: tutti gli storici sono esclusi dalla consultazione. Perfino al più prestigioso fra loro, Renzo De Felice, è stato negato l' accesso a quelle preziose carte. Prima con la scusa del segreto, poi con quella della privacy. Proprio contro gli unici che potrebbero dolersene, e cioè i legittimi eredi".

La sovrintendente Carucci è stata sostituita cinque mesi fa dal governo Berlusconi.

"Ma anche i nuovi dirigenti mi deludono", dice Petacci, "quando annunciano che lettere e diari verranno pubblicati, senza restituirli ai legittimi proprietari: si tratterebbe di un ulteriore esproprio senza indennizzo ai danni della mia famiglia".

Si può facilmente immaginare il valore storico ma anche commerciale di una pubblicazione di questi documenti. I misteri sulla fine di Mussolini (dal famigerato "oro di Dongo", il tesoro che i gerarchi in fuga portavano con loro e poi scomparso, alla vera identità del colonnello Valerio, il presunto giustiziere del dittatore fascista, fino alle prove dei contatti segreti fra il premier britannico Winston Churchill e Mussolini e all' assassinio di vari testimoni di quelle vicende) hanno sempre messo in imbarazzo gli eredi dei partigiani comunisti che ammazzarono in quattro e quattr' otto l' ex Duce in fuga.

Perché tutta quella fretta di fare giustizia sommaria ? Sull' argomento sono state avanzate le ipotesi più inquietanti, come quelle contenute nei libri dell' ex capo partigiano Urbano Lazzaro (quello che catturò Mussolini) e dello storico Luciano Garibaldi. Quest' ultimo ne dà un panorama completo nella sua opera più recente, La pista inglese (edizioni Ares, 15 e).

Una pista, quella del coinvolgimento dei britannici, a cui crede anche Ferdinando Petacci: "Sono convinto che la decisione di uccidere Mussolini, mia zia e mio padre fu frutto di un accordo fra agenti inglesi e il colonnello Valerio, che secondo Lazzaro era Luigi Longo, numero due del Pci di Palmiro Togliatti e suo successore".

C' è anche chi ipotizza che Valerio, giunto a prendere i prigionieri per portarli a piazzale Loreto, li trovò già cadaveri. E che fu inscenata una macabra doppia fucilazione, perché i comunisti non volevano perdere il merito di avere giustiziato il Duce. Ha qualcosa da aggiungere sulla pista inglese rispetto agli storici ?

"La vicenda della mia famiglia. Mio padre Marcello ci aveva portati in salvo in Svizzera qualche tempo prima, attraversando di notte il confine nella Val d' Intelvi. Eppure ci fece tornare tutti in Italia, me, mia madre, mio fratello, per prendere mia zia Clara. Perché rischiare ? Mio padre non era certo un pazzo. Aveva dato a tutti noi un passaporto spagnolo, lui si faceva passare per un diplomatico di Madrid, e quando l' Alfa Romeo fu fermata dai partigiani soltanto l' intelligenza di Lazzaro, che era un' ex guardia di Finanza, abituato ai controlli di frontiera, gli fece scoprire un' incongruenza fra il passaporto personale di mia madre e quello collettivo. Così ci arrestarono. Altrimenti Clara Petacci si sarebbe salvata: nessuno l' aveva riconosciuta".

Perché Marcello Petacci era così tranquillo ?

"Perché fino alla sera prima aveva trattato a Milano con agenti spagnoli e inglesi. Churchill era ricattabile da Mussolini, col quale aveva condotto trattative segrete per tutto l' anno precedente. Lo statista inglese aveva capito che il pericolo del futuro non era più la Germania, ma l' Unione Sovietica di Stalin. Quindi aveva contattato Mussolini fin dal giugno 1944, subito dopo il successo dello sbarco in Normandia, con due obiettivi. Il primo era quello di una pace separata con l' Italia, che avrebbe permesso di liberare truppe preziose impegnate sul fronte degli Appennini, spostandole su quello francese per arrivare a Berlino prima di Stalin. Il secondo era quello di convincere Hitler, tramite Mussolini, a negoziare un armistizio a Ovest. Così la guerra sarebbe continuata solo fra nazisti e comunisti, sul fronte orientale. Di tutto questo era al corrente non solo mia zia, ma anche mio padre".

Prove?

"Non le deve chiedere a me, ma allo Stato italiano che nasconde da 58 anni il diario privato di Clara Petacci e le lettere Petacci Mussolini. Comunque esistono testimonianze inequivocabili di incontri segreti fra capi fascisti ed emissari inglesi sul lago d' Iseo. E lo stesso duce si recò due volte in auto di notte da Salò a Ponte Tresa, fra Varese e la Svizzera, per incontrare agenti britannici. Lo doveva fare di nascosto, eludendo la "scorta" delle SS. Anche le trascrizioni delle sue telefonate con Hitler dimostrano come cercasse di convincere il Fuehrer a un armistizio non solo sul fronte italiano, ma anche su quello francese. Hitler però non ne volle sapere".

Fra gli occidentali, gli Stati Uniti non erano disposti a un armistizio coi nazisti, né a tradire l' alleato Stalin. Pretendevano la resa di Hitler.

"Infatti. Per questo la posizione di Churchill era delicata. Se Mussolini avesse subito un processo pubblico, avrebbe esibito le prove delle trattative con il capo inglese, mettendolo in imbarazzo. Per questo gli agenti del controspionaggio inglese, ricevuta la notizia della sua cattura sul lago di Como, si attivarono per eliminarlo. E con lui dovettero uccidere mia zia, che era al corrente di tutto. Infatti lei negli ultimi tempi era diventata una sua stretta confidente anche per le vicende politiche: il diario e il carteggio lo dimostreranno. Non c' era alcun' altra ragione per ammazzarla. Né c' era ragione che Churchill si precipitasse sul lago di Como poche settimane dopo, nell' estate 1945, con la scusa di trascorrere le vacanze nella villa di Moltrasio che oggi appartiene ai Versace, a pochi chilometri da Dongo. È provato che il capo inglese incontrò il funzionario della banca dove era stata depositata la borsa di documenti dalla quale Mussolini non si separava mai: "Lì dentro c' è il futuro dell' Italia", si raccomandò il Duce col partigiano che gliela prese. Anche quei documenti sono spariti".

Mauro Suttora

Wednesday, June 18, 1997

Urbano Lazzaro: "Così arrestai Mussolini"

L'ULTIMO PARTIGIANO DI DONGO: "VI RACCONTO COME HO ARRESTATO IL DUCE"

Il mitico "Bill" che bloccò Mussolini in fuga: "Su quella vicenda, mezzo secolo di menzogne. Io volevo la rappacificazione già nel '45"

dal nostro inviato Mauro Suttora

San Germano (Vercelli), 18 giugno 1997

Non capita spesso di arrestare e uccidere un dittatore. Anzi, non succede quasi mai: soltanto Benito Mussolini e Nicolae Ceausescu, fra tutti i (numerosi) tiranni del nostro secolo, sono stati giustiziati. Così, in questo paesino fra le risaie vicino a Vercelli, vive un pezzo di Storia. Quella con la S maiuscola, che rimarrà scritta nei libri anche fra duecento anni.

Nel nostro caso la Storia si chiama Urbano Lazzaro, ha 72 anni, e una faccia simpatica a metà tra Frank Sinatra e papa Wojtyla. È lui il famoso «partigiano Bill", che alle tre e mezzo del pomeriggio del 27 aprile 1945 salì su un camion di soldati tedeschi in fuga a Dongo, sul lago di Como, riconobbe Mussolini che indossava una divisa dell'esercito di Hitler, lo disarmò, lo strappò ai nazisti incaricati di proteggerlo e lo arrestò "in nome del popolo italiano".

Lazzaro è l'ultimo sopravvissuto di quegli eventi drammatici e ancora misteriosi. Perché in realtà nessuno sa bene cosa sia successo nelle ore successive, fino alla fucilazione del dittatore e della sua amante Claretta Petacci.

Soltanto nel gennaio dell'anno scorso, infatti, il Pds ha messo a disposizione degli storici le carte del cosiddetto "memoriale Lampredi" conservate negli archivi del Pci.
E sempre nel '96, poco prima di morire, lo storico del fascismo De Felice avanzò l'ipotesi che siano stati gli inglesi ad ammazzare Mussolini, perché temevano che rendesse pubbliche le lettere segrete di plauso che gli aveva mandato Winston Churchill.

È materia che scotta, quindi, sulla quale sono stati scritti decine di libri. Quattro portano la firma di Lazzaro: il primo negli anni '60, l'ultimo (Dongo, mezzo secolo di menzogne) pubblicato appena due mesi fa negli Oscar Mondadori.

Ma solo adesso, 52 anni dopo quei tragici giorni, gli animi si sono placati al punto che perfino i post-fascisti di Alleanza nazionale hanno chiamato il partigiano Bill a tenere una conferenza, venerdì 13 giugno, nella loro sede di Vercelli.

«Ho invitato Lazzaro", ci spiega Lodovico Ellena, 40 anni, dirigente di An, professore di filosofia e vicepreside di un liceo scientifico a Torino, "perché erano anni che volevamo sentire la sua voce. Per la verità non pensavamo che accettasse. Invece, eccolo qui. Sono emozionato nel vederlo per la prima volta in faccia".
Siamo stati noi di Oggi, infatti, a combinare il primo incontro fra Ellena e Lazzaro nella casa di quest'ultimo, prima dell'evento di Vercelli.

L'imbarazzo è palpabile. Soprattutto da parte di Ellena, il quale non rinnega di avere militato nel Msi fin dai caldi anni '70, quando la politica fra estremisti di destra e sinistra si faceva a colpi di spranga e manganello. E quando per i giovani neofascisti come lui Mussolini era un mito.

Ellena non nasconde che la decisione di invitare il partigiano che distrusse il Mito, impedendogli di scappare in Svizzera o in Germania, e comunque di salvare in qualche modo la pelle, è stata sofferta: "Non tutti i soci del nostro circolo erano d'accordo. Curiosamente, però, a opporsi non sono stati i più anziani, che ricordano direttamente quei giorni, ma alcuni dei più giovani. Però la maggioranza è d'accordo con quest'atto di riappacificazione..."

Il vecchio partigiano Bill interrompe Ellena sul divano di casa sua, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: "Il primo che ha voluto la pace sono stato io. E sa quando? Nel maggio 1945. Al funerale di un mio compagno partigiano ucciso dai fascisti, del quale avevamo riesumato la salma per dargli una normale sepoltura, io dissi queste solenni parole: 'Adesso che la guerra è finita, di fronte al mio compagno morto per la libertà chiedo a tutti di perdonare'. Ma molti non furono d'accordo con me".

Non solo molti non furono d'accordo con Urbano Lazzaro, il quale a soli vent'anni era stato eletto vicecommissario della Cinquantaduesima brigata Garibaldi, ma per il partigiano Bill che non ha mai voluto conformarsi alle 'verità di partito' i guai cominciarono allora.

"Già quando mi portarono via Mussolini, che era sotto la mia custodia, sentii puzza di bruciato", dice Lazzaro. "L'avevamo arrestato noi, e assieme a lui avevamo preso anche un tale che diceva di essere console della Spagna, sua moglie, i due figlioletti e una donna che non conoscevo. Poi mi dissero che il 'console' era Marcello Petacci, e che la donna era sua sorella Claretta. Ma mentre noi eravamo occupati a controllare che la colonna di nazisti non aprisse il fuoco, e che non piombassero su di noi reparti di camicie nere, Mussolini e la sua amante furono portati via dal municipio di Dongo, prima a Germasino e poi a Bonzanigo, dove passarono l'ultima notte".

I partigiani avrebbero dovuto consegnare Mussolini agli alleati, per un pubblico processo. Ma i capi milanesi dei partiti di sinistra (Sandro Pertini per i socialisti, Luigi Longo per i comunisti e Leo Valiani per gli azionisti) temevano che così Mussolini l'avrebbe in qualche modo fatta franca, e decisero di portarlo a piazzale Loreto per fucilarlo.

A Milano, però, arrivò solo il cadavere del duce. Non solo, ma secondo alcuni Mussolini e la Petacci furono ammazzati prima dell'esecuzione ufficiale a Giulino di Mezzegra. Ormai, mezzo secolo dopo, questi possono sembrare particolari irrilevanti. Ma può darsi che i partigiani siano stati preceduti dagli inglesi. Oppure che abbiano voluto giustificare l'uccisione di una donna, la Petacci, che aveva l'unica colpa di amare Mussolini.

"In ogni caso", ribadisce Lazzaro, "l'alto dirigente del Pci giunto da Milano col nome di battaglia di 'colonnello Valerio' per eseguire la condanna a morte non era Walter Audisio, ma Luigi Longo. Io l'ho visto, e la sua faccia me la ricordo bene".

Longo non avrebbe potuto ammettere la sua partecipazione, perché questo avrebbe pregiudicato la sua carriera politica: fu segretario nazionale del Pci dal '64, dopo la morte di Palmiro Togliatti, al '72, quando gli subentrò Enrico Berlinguer.

L'altro grande mistero è quello dell'"oro di Dongo": l'equivalente di 60 miliardi di oggi che il duce e i gerarchi avevano con sé. Lazzaro ripete di avere depositato le borse sequestrate a Mussolini alla Cariplo di Domaso (Como), e d'altra parte sia lui sia altri accusati di avere trafugato il tesoro sono stati assolti in un processo a Padova nel '57.

Buona parte di quella cifra finì probabilmente nelle tasche del Pci, che la investì fra l'altro per acquistare palazzi come quello dove oggi sta il cinema Arlecchino in via San Pietro all'Orto a Milano, o la tipografia romana dell'Unità.
Adesso il partigiano Bill ha detto la sua verità anche agli ex nemici. Ma i libri di storia aspettano ancora la versione ufficiale.

Mauro Suttora