Wednesday, November 12, 2025

Porno libero. Vogliono mettere le mutande al mondo. Non ci sono ancora riusciti

Dal 12 novembre i siti hard dovevano chiudere ai minorenni. Invece niente, e non sarà facile. Resta l’intenzione di togliere il porno ai ragazzini (del boom di psicofarmaci non interessa a nessuno). Articolo libertario contro lo spirito iraniano del governo Meloni

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 12 novembre 2025

Per ora il porno è ancora libero. Nei siti principali possono accedere anche i minorenni, basta che mentano sulla propria età cliccando +18. I proprietari canadesi di YouPorn e Pornhub si chiamano Ethical Capital Partners, guidati dall’eticissimo investitore compaesano Rocco Meliambro e dal rabbino-avvocato Solomon Friedman. Il quale da Ottawa assicura: “Siamo in regola, i nostri sono tutti video di adulti consenzienti”. Il Canada festeggia: l’export di sesso è notevole, e soprattutto immune dai dazi di Trump.

Il problema sono gli adolescenti: l’88% dei maschietti italiani e il 40% delle femmine pare guardino con piacere il sesso online. Il governo invece vuole preservare il loro “benessere psichico e fisico”, cosicché il decreto Caivano ha messo fuorilegge 48 siti a luci rosse.

Si sperava che Meloni & c. avessero di meglio da fare, tipo combattere le mafie, specie da quelle parti. Invece ora i nemici sono le pippe dei ragazzi. I quali si ingozzano di psicofarmaci, consumo raddoppiato negli ultimi anni. Ma su quello, pazienza.

Le grida contro i siti zozzoni sono peggio che sbagliate: sono inutili. Come ciascuno di noi sa, dagli undici anni in poi tutti siamo stati alla ricerca di immagini elettrizzanti. E più erano proibite, più ci attiravano. Un tempo c’era la rivista Le Ore, naturalmente proibita ai minorenni. Cosicché ci toccava mandare in edicola i fratelli maggiori, o affidarci al mercato nero fiorente a scuola.

Più ardua l’impresa di entrare in un cinema a luci rosse. Ma ecco che magicamente negli anni 80 arrivarono le videocassette Vhs. La mamma della mia fidanzatina tuonava contro i nostri “sporchessi”. Ma senza quelli, cosa caspita avremmo potuto raccontare al prete nel confessionale?

Niente da fare. I politici sembrano avere incorporata l’insopprimibile esigenza di “mettere le mutande al mondo”. Non so quale filosofo ridicolizzò questo inane tentativo. Che non si limita peraltro a ciò che sta sotto alle mutande. Perché ora i governi sembrano voler regolamentare tutto. Per aiutarci coi bonus e proteggerci dal male psicofisico, ovviamente.

Uno dei pochi siti porcelli che hanno ottemperato al proclama Agcom (ma quante sono ‘ste costosissime authority?) è quello dal nome più poetico: Chaturbate. Ho provato a entrarci, ora vogliono una verifica tramite una app, Yoti. Così ho dovuto scaricare l’ennesima app che appesantisce la memoria del cellulare, e caricare un mio documento. Poi c’è stata l'identificazione facciale. Sono sicuro che stanno violando una qualche mia privacy, prevedo ricorsi in massa all’altra authority, quella amica di Report.

Tutto inutile. “Dato l’alto afflusso di richieste, la preghiamo di pazientare”. Ma figurarsi. La soddisfazione dev’essere istantanea. I 140 milioni di fruitori giornalieri di Youporn passano in media 9 minuti davanti allo schermo. Il doppio di quel che ci mettono i canadesi a far sesso vero, secondo un sondaggio birichino.

I ragazzi faranno più in fretta ad attivare un’altra diavoleria, la Vpn, per bypassare il divieto al godimento. Non chiedetemi cos'è: so soltanto che la usano tutti in Cina e Iran per evitare i controlli governativi sulla rete. Ma ora la libertà (scusate, niente maiuscole: questa piccola libertà privata e un po’ vergognosa) ne avrà bisogno pure da noi. 

Monday, November 10, 2025

Solo in Italia basta guadagnare 2.500 euro al mese per essere considerati Paperoni

L'aliquota massima Irpef è del 46-47%, includendo le addizionali regionali e comunali. Il problema è che scatta già a 50mila euro, contro i 500mila degli Usa. Ripristiniamo piuttosto la progressività Irpef per i ricchi, invece di parlare di patrimoniale

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 novembre 2025

La polemica tutta italiana sulla patrimoniale non ha senso. Il nuovo sindaco di New York Zohran Mamdani, infatti, non pensa affatto a introdurla per i miliardari. Il suo aumento del 2% riguarda soltanto l'addizionale comunale dell'income tax, la nostra Irpef: quindi colpirà i redditi, non i patrimoni.

Attualmente i 36mila newyorkesi che guadagnano più di un milione di dollari pagano l'aliquota massima del 50%, suddivisa fra imposta federale (35%), statale (11%) e comunale (4%). Mamdani vuole alzare quest'ultima dal 4 al 6%. Briciole per i ricchissimi, che però frutteranno quattro miliardi di dollari. In Italia l'aliquota massima Irpef è del 46-47%, includendo le addizionali regionali e comunali.

 Il problema è che scatta già a 50mila euro, contro i 500mila degli Usa: un incredibile rapporto di uno a dieci. Insomma, da noi basta guadagnare 2.500 al mese per essere considerati Paperoni. È qui, più che sui patrimoni, che si può intervenire. Non è possibile che stiano nello stesso scaglione irpef i redditi dei ceti medi e quelli dei miliardari. I quali godono in pratica di una flat tax.

Siamo un caso unico fra i Paesi G7: abbiamo contemporaneamente l'aliquota massima che inizia più in basso di tutti, e l'aliquota più alta per i redditi da 50mila euro. In Francia la soglia massima, del 45%, comincia solo dai 157mila euro. E a 50mila si paga appena il 30%, il 16% meno di noi. In Germania si è considerati ricchi (e tassati al 45%) oltre i 260mila euro. A 50mila l’aliquota è del 39%. Gli altri Paesi G7 sono il vero paradiso dei ceti medi. Regno Unito, Giappone e Canada colpiscono i redditi da 50mila euro col 20%, meno della metà di noi.

Le aliquote massime britannica e giapponese sono del 45%: a Londra oltre i 175mila euro (150mila sterline), a Tokyo ce ne vogliono 312mila (40 milioni di yen). Il Canada è quello che tratta meglio i suoi Paperoni: lo scaglione massimo è solo del 33% e scatta a 150mila euro (216mila dollari canadesi). La Spagna non fa parte dei G7, ma è la più simile all’Italia: scaglione massimo con imposta anche qui del 45% a partire dai 60mila. Ma a 50mila si paga molto meno: 37%. Negli Usa con 50mila dollari si è tassati al 12% a livello federale, più qualche punto in ogni stato (zero in Florida, 6% a New York, 8% in California).

Insomma, se in Italia vogliamo ripristinare il principio costituzionale della progressività fiscale, di fatto abolito dai 50mila euro in su, basta diversificare le aliquote Irpef più alte. Che nel 1973 arrivavano al 72%, sceso dieci anni dopo al 63%, e via via fino all'attuale 47%. 

E a chi si stupisce per percentuali così alte basta ricordare una canzone dei Beatles del 1966, 'Taxman': "One for you, nineteen for me (Uno per te, 19 per me)", diceva loro l'agente del fisco. Sì, allora i miliardari come loro pagavano un incredibile 95% di tasse sui loro redditi. 

Thursday, November 06, 2025

La politica del fantasy. Spie e paranoie reciproche: la disfida fra Ranucci e Fazzolari

L’uomo forte di Report e quello del governo si accusano a vicenda, naturalmente tirando in mezzo i servizi segreti, che non mancano mai, e i giochi sporchi della magistratura. Complotti e complottardi fra Pomezia e Fiumicino

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 6 novembre 2025 

Il fantasy è un genere appassionante. Al cinema, nei libri, e anche in politica. Quindi seguiamo con trepidazione la disfida Sigfrido-Giovanbattista che si dipana da mesi.

Tutto comincia quando Sigfrido Ranucci rivela a Report che il padre di Giorgia Meloni si beccò nove anni per traffico di droga. E pazienza se la premier aveva solo due anni quando i suoi si separarono e Meloni senior scomparve dalla sua vita. 

Entrano allora in scena i servizi segreti. Ingrediente imprescindibile dei fantasy. Ci accompagnano da tempo immemorabile, ci siamo cresciuti assieme. Dal caso Sifar alla strategia della tensione, sono sempre una cornucopia di misteri. Perché quando appaiono le spie, si può inventare tutto e il contrario di tutto: doppi giochi, tripli. E anche qui cominciano i sospetti incrociati. Sigfrido sospetta che Giovanbattista Fazzolari, potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio e consigliere principe della premier, pensi che sia stata una “manina” a imboccarlo sul padre di Giorgia. Va a lamentarsi all’Europarlamento. Giovanbattista minaccia querela. Il prode Sigfrido non accetta intimidazioni.

A Roma invece dell’avverbio “forse” dicono “capasceché” (capace che). È l’epitome del fantasy: pare che, dicono. E se Giovanbattista avesse anche ordinato alle spie di indagare su Sigfrido? Avrà pure lui un padre, un faldone con qualche scheletro nell’armadio. Capasceché lo fa pedinare.

In realtà Giovanbattista non ha potere sui servizi segreti. Giorgia ha affidato la scottante delega all’altro sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano. Ma capasceché Giovanbattista si sia affacciato alla porta accanto di palazzo Chigi e gli abbia chiesto “Alfre’, mi fai un favore?”.

Le paranoie reciproche resuscitano e rimbalzano più veloci dopo il recente attentato a Sigfrido. Il quale, incassata la solidarietà unanime, invece di godersi l’aureola del martire comincia ad apparire in ogni occasione in cui si sputi sul governo di Giorgia: manifestazioni di grillini, di Cgil, dell’Anm. Geppi Cucciari lo santifica nel suo splendido programma su Rai3.

Fino all’audizione in Parlamento dell’altro giorno, in cui Ranucci chiede di secretare la sua risposta sul sospetto di pedinamento. Che ovviamente viene spifferata da qualche parlamentare subito dopo: “Mi risulta che Fazzolari abbia ispirato l’attivazione dei servizi”.

Giovanbattista minaccia di nuovo querela. Ma lui stesso si rende conto del vicolo cieco: “Se non lo denuncio sembra che lo avalli. Se lo denuncio sembra che lo intimidisca”. E intanto dice di non poter credere che Ranucci sia protetto dalla magistratura, mentre ammette di sospettarlo.

Sigfrido abita a Pomezia, Giovanbattista a Fiumicino. Potrebbero risolvere la questione con un duello rusticano a Roma Sud.

Invece noi, ingordi di fantasy, speriamo in innumerevoli altre puntate. In fondo, la tetralogia dei Nibelunghi di Wagner dura una ventina di ore. E da sola l’opera Sigfrido ce ne infligge cinque.

Comunque, tutti all’estrema destra se sono scampati ai mattoni di Bayreuth hanno almeno letto Tolkien. Possibile che a Giovanbattista non stia simpatico il nome Sigfrido, eroe di quei nani tedeschi del fantasy nibelungico? Certo, il merito della scelta onomastica è del padre di Sigfrido, non sua. Ma se le colpe dei papà non ricadono sulle figlie Meloni, il merito di Ranucci senior è invece indiscutibile. Magari era di destra anche lui. Fantasy. 

Saturday, November 01, 2025

Ecco come Pasolini divenne radicale e capì tutto

Il cattocomunista eretico Pasolini e il laicissimo Pannella non potrebbero essere culturalmente più lontani, seppure entrambi libertari. Ma la loro simpatia nasce già nel 1963, quando il primo firma l'appello del secondo per un voto a sinistra in nome dei valori radicali. Il Pr non si presenta a quelle elezioni, però raccoglie l'adesione di intellettuali come Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini, Nelo Risi, Roberto Roversi, Massimo Mila - oltre a Pasolini

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 1 novembre 2025
"Caro lettore, passerei allo stile del volantinaggio: invia un telegramma o un biglietto di protesta ai segretari dei partiti o alla presidenza della Camera e del Senato". L'articolo che Pier Paolo Pasolini riesce a pubblicare sul Corriere della Sera il 16 luglio 1974 è inaudito: lo scrittore si lancia in una vera e propria propaganda diretta per Marco Pannella. Il quale è in sciopero della fame, perché due mesi dopo aver vinto il referendum sul divorzio la Rai continua a boicottarlo.
Il comitato di redazione filocomunista del Corrierone vorrebbe a sua volta boicottare l'articolo di Pasolini, che accusa Botteghe Oscure oltre che la Dc: "Il Vaticano e Fanfani, grandi sconfitti del referendum, non potranno mai ammettere che Pannella semplicemente 'esista'.  Ma neanche Berlinguer e il comitato centrale del Pci possono farlo. Pannella viene dunque 'abrogato' dalla vita pubblica italiana", denuncia lo scrittore.
Ci mette qualche giorno Gaspare Barbiellini Amidei, vicedirettore del Corsera e sponsor - lui cattolico - delle provocazioni di Pasolini, per convincere il direttore Piero Ottone a dare il via libera all'articolo. E il 'volantino' di PPP ha l'effetto di una bomba: la tv di stato, sotto ferreo controllo dc, è costretta a trasmettere un'intervista al leader radicale, in cui per la prima volta gli italiani ascoltano parole come 'aborto', 'omosessuali', 'lesbiche'.

Il cattocomunista eretico Pasolini e il laicissimo Pannella non potrebbero essere culturalmente più lontani, seppure entrambi libertari. Ma la loro simpatia nasce già nel 1963, quando il primo firma l'appello del secondo per un voto a sinistra in nome dei valori radicali. Il Pr non si presenta a quelle elezioni, però raccoglie l'adesione di intellettuali come Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini, Nelo Risi, Roberto Roversi, Massimo Mila - oltre a Pasolini.
Nel 1969 i due s'incrociano di nuovo, in difesa dell'anarchico omosessuale Aldo Braibanti condannato a nove anni per plagio. E nel 1971 entrambi sono incriminati come direttori responsabili del giornale Lotta Continua: prestano la loro firma come parafulmine alle numerose denunce per diffamazione, vilipendi e altri reati d'opinione.

L'amore politico scoppia due anni dopo, quando Pasolini si entusiasma per la prefazione di Pannella a un libro di Andrea Valcarenghi di Re Nudo, 'Underground a pugno chiuso': "Queste dieci pagine sono finalmente il testo di un manifesto del radicalismo italiano. Rappresentano un avvenimento nella cultura di questi anni, non si può non conoscerle".

Ecco il testo pannelliano che appassionò PPP: "(...) Io amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione.
"Amo speranze antiche come la donna e l'uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni rafforzamento dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se 'rivoluzionario'. Credo ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuole essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive.
"Credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello 'spirituale': alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più 'privati' mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti. (...)

"Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Voi di Re Nudo dite: 'Erba e fucile'. Non mi va. Lo sai, non sono d'accordo. Fumare erba non m'interessa, per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un'autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi è facile impegnarmi per disarmare i tenutari di quel casino che chiamano l'Ordine, i quali per sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, arrestare, assolvere. Ma fare dell'erba un segno positivo di speranza mi par poco e sbagliato".

Quanto alla violenza, Pannella la considera "un'arma suicida per chi speri ragionevolmente di edificare una società (un po' più) libertaria. Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il 'nemico', per pensare ad eliminarlo. La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni esercito. E poi, basta con questa sinistra grande solo ai funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste. Quando vedo, nell'ultimo numero di Re nudo, il 'recupero' di un'Unità del '43 in cui si invita ad ammazzare il fascista, ho voglia di darti dell'imbecille... Come puoi non comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come noi radicali, voi renudisti sostenete che non esistono dei 'perversi', ma dei 'diversi'.
Come possiamo recuperare allora, proprio in politica, il concetto di 'male', di 'demonio', di 'perversione'? Quel che voi chiamate 'fascista' si chiama 'obiettore di coscienza', 'abortista', 'depravato' per altri".
Conclude Pannella: "Per noi la fantasia è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta. Così abbiamo parlato come abbiamo potuto, con i piedi nelle marce, con i sederi nei sit-in, con gli happening continui, con erba e digiuni, con 'azioni dirette' di pochi, con musica e comizi. Le battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il vostro Movimento: un rozzo paleomarxismo ha fatto strage soprattutto a Milano".

Nel biennio 1974-75 la sintonia fra Pasolini e Pannella è totale. Sul settimanale Il Mondo appare una lunga intervista. La prima domanda di Pasolini è quasi poetica: "Parla, e dì quello che più ti interessa dire questa sera". Risponde Pannella: "Noi diciamo che il regime si chiude. L'insensibilità della stampa al nostro caso ne è la dimostrazione. Quando si può dire che un regime è tale? Che un regime è fascista? Quando esso non ha più bisogno della violenza perché i suoi valori siano accolti da tutti. Oggi la violenza dello stato coincide con la violenza del dovere del consumo, come tu dici... Ma consumo significa in definitiva consumare se stessi: si vive consumando, e non creando. Si consuma cioè la propria vita".

In quell'estate '74 si respira l'aria che porterà all'avanzata delle sinistre nel '75-'76. Eppure questi due protagonisti degli anni '70 sono pessimisti. E a ragione. Pannella sente contro di sé un 'regime' che sarebbe in effetti durato ancora a lungo. Pasolini sta elaborando le idee sullo 'sviluppo che non è progresso', sulla 'scomparsa delle lucciole' e sul 'processo al Palazzo'. Ma anche per il pasoliniano 'processo alla Dc' si dovrà aspettare il 1993, con Tangentopoli.

Pannella riprende la polemica contro la sinistra "subalterna e collaborazionista": "I 'compagni' si comportano come la maggioranza silenziosa sotto il fascismo nei riguardi dei miseri duemila antifascisti che c'erano in Italia, fatti passare per 'pazzi'. Oggi i pazzi siamo noi. 'A Marco gli si è spappolata la testa', dicono i miei amici dell'Espresso, e anche mia sorella. Ma il loro è un giornale fatto tutto di pubblicità: da una parte quella canonica della lavapiatti o della macchina di lusso, dall'altra quella scandalistica del Sid o del Sifar o di Fanfani. Contro questo, la parola d'ordine dei radicali è 'irragionevolezza'. L'uomo non è libero oggi se davanti alla tv, dinanzi alla creazione coatta dei bisogni, non sregola i sensi...".

Musica, per le orecchie dell'anticonsumista Pasolini. Che domanda a Pannella: "Che differenza c'è fra il fascismo classico e il nuovo fascismo di oggi?". Risposta: "I vecchi fascisti chiedevano un'astensione dalla politica. Il fascismo è abolizione del dibattito, che per noi invece è tutto. Solo nella piazza, nel foro, nel letto, a casa, l'uomo e la donna possono essere presenti in tutta la loro integrità. Considerati solo in quanto lavoratori (vecchio fascismo) o consumatori (nuovo fascismo), sono decapitati".

Poi Pasolini scrive sul Corsera: "È molto tempo ormai che i cattolici si sono dimenticati di essere cristiani. Il partito radicale e Pannella sono i reali vincitori del referendum sul divorzio. Ed è questo che non viene loro perdonato da nessuno. Anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, Pannella e i suoi vengono ricusati come intoccabili. La volgarità del realismo politico non trova alcun punto di connessione col candore di Pannella. Le sue sono richieste di garanzia di una normalissima vita democratica. Ma il disprezzo teologico lo circonda".
Anche Giorgio Bocca, nella sua rubrica sull'Espresso, difende Pannella e attacca il "compromesso storico già operante" fra Pci e Dc.

Nel 1975 i radicali raccolgono le firme per il referendum sull'aborto, e il cattolico Pasolini dissente. Ma appena Pannella finisce in prigione per aver fumato una canna di marjuana ne chiede la scarcerazione, assieme ad Alberto Moravia ed Eco.
L'ultimo appuntamento di PPP con i radicali è drammatico. Nel senso che è un incontro mancato: avrebbe dovuto pronunciare un discorso al loro congresso annuale proprio il giorno dopo il suo assassinio, il 3 novembre 1975. Ma aveva già preparato il testo, che fu letto da Vincenzo Cerami.

Vale la pena riprodurlo ampiamente. Pasolini esordisce prendendo apparentemente le distanze da Pannella: "Non sono qui come radicale. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti, almeno come spera nei radicali".
Poi però Pasolini entra in medias res e diventa profetico, come così spesso gli accade. Denuncia "la borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia. Da questo punto di vista le prospettive del capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal nuovo capitalismo sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Il consumismo può creare dei 'rapporti sociali' immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clericofascismo un nuovo tecnofascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi antifascismo), sia creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili".

Lo scrittore si rende conto che sta criticando le migliori conquiste della sinistra negli anni '70 proprio a casa dei loro massimi alfieri, i radicali. Ma li assolve: "Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti come santi, e quindi anche con me: bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura. È ciò che avete fatto voi in tutti questi anni, specialmente negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche – ed è tutto dire – di fascisti.

"I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Nella vostra mitezza e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una osservazione va fatta. C’è un’alterità che riguarda la maggioranza e un’alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema dell’aborto è un problema che riguarda la maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i padri e le madri costituiscono la maggioranza.
"A proposito della difesa generica dell’alterità, a proposito del divorzio, a proposito dell’aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò – e voi lo sapete benissimo – costituisce un grande pericolo. Per voi – e voi sapete benissimo come reagire – ma anche per tutto il paese che invece, specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti, reagisce regolarmente male. Cosa voglio dire con questo? Attraverso l’adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti… Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, comunisti, cattolici di sinistra, degli intellettuali generici (…)

"La massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo di sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità".

Attenzione: col suo linguaggio complicato Pasolini mezzo secolo fa sta già preconizzando il "partito radicale di massa" in cui si è via via trasformato il Pci-Pds-Ds-Pd fino ad oggi, fino all'evaporazione della classe operaia e alla sua incapacità di proteggere i diritti economici dei nuovi proletari. Una previsione allora condivisa soltanto dal filosofo cattolico conservatore Augusto Del Noce.
Conclude lo scrittore friulano: "Il potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione.

Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare".

Pannella e i radicali sono stati ben felici, nei decenni successivi, di seguire questo consiglio di Pasolini. Fino all'autolesionismo di abbandonare battaglie vincenti una volta raggiunto l'obiettivo, senza capitalizzarne elettoralmente i successi. 
Sono quindi rimasti partito di estrema minoranza, incuranti dell'impopolarità di alcune nuove cause (diritti dei deputati durante Tangentopoli, no ai populismi, carcerati) e testardi nel portare avanti quelle potenzialmente maggioritarie (antiproibizionismo sulle droghe, oggi l'eutanasia con l'associazione Coscioni), ma bloccate da pregiudizi difficili da scalfire. Anche perché sono scomparsi pensatori controcorrente come Pasolini, capaci di scardinare luoghi comuni e idee ricevute.

Wednesday, October 29, 2025

I maranza nel marasma: sono di destra o di sinistra?

Fascisti o comunisti? Dopo i maranzapal e i maranzanazi, debutteranno i maranzalib (corrente moderata del centrodestra), i maranzalab (corrente moderata del campo largo), i maranzaeuropeisti (per contare anche a Bruxelles) e i maranzanonviolenti (proBarghouti, il Mandela palestinese)

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 29 ottobre 2025

Riassunto degli ultimi giorni. Una banda di maranzanazi devasta un liceo a Genova, pitturando svastiche sui muri. L'indomani un gruppo di fratellini d'Italia cerca di volantinare davanti a un liceo di Torino, ma è aggredito da studenti di sinistra. Il volantino dice 'No alla cultura maranza'. Il vicepresidente pd della regione Piemonte accusa i fratellini di diffondere un 'messaggio d'odio'. Forse però doveva congratularsi con loro, visto che la cultura maranza oltre che propal di sinistra ora è diventata anche nazi, ed è quindi commendevole che la destra meloniana si distanzi dall'estrema destra. O al massimo poteva sgridarli per avere elevato a cultura la subcultura maranza. 

Poi a Venezia un gruppo di propal impedisce a un ebreo pacifista del pd di parlare all'università. Non sono maranza: inalberano falce e martello, noto simbolo comunista. Però l'ebreo di sinistra definisce 'fascisti' i suoi persecutori. Il presidente ex fascista del senato protesta: non sono fascisti. Tuttavia non dice neanche che sono comunisti.

Ora i maranza sono nel marasma: siamo di destra o di sinistra? Fascisti o comunisti? Nel dubbio, hanno deciso di moltiplicarsi per confondere le tracce. Quindi, dopo i maranzapal e i maranzanazi, debutteranno i maranzalib (corrente moderata del centrodestra), i maranzalab (corrente moderata del campo largo), i maranzaeuropeisti (per contare anche a Bruxelles) e i maranzanonviolenti (proBarghouti, il Mandela palestinese).

Wednesday, October 15, 2025

Il cannone Vannacci. Virtù fumogene e allucinogene della politica italiana

Nessuno come noi è capace di costruire illusioni ottiche di un’Italia che non esiste. Ma i miraggi non esistono solo a destra e solo qui: da Sartre a Trump passando per Mussolini e Albanese, breve catalogo psicotropo

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it,15 ottobre 2025


 

Puff, tutto finto, tutto finito. Svanito nel suo 4%. Anzi, 2%, calcolando gli astenuti. Roberto Vannacci travolto dal crollo della Lega alle regionali in Toscana. Lui è di Viareggio, quindi avrebbe dovuto mietere un successone nel suo territorio. Molti lo temevano, dopo il mezzo milione di preferenze ramazzate alle europee l’anno scorso. Giorgia Meloni ha indurito i toni del suo ultimo comizio toscano proprio per fargli concorrenza a destra. 

E invece niente. Il generalone si è rivelato solo un altro episodio, l’ennesimo, di una certa politica allucinogena che da qualche tempo avvolge l’Italia. Come il fumo di una canna, anzi di un cannone nel suo caso. 

Si crea il mostro Vannacci, ben felice di essere creato, si fa di un’illusione ottica lo spauracchio di un’Italia che non esiste. E alla prima prova vera i suoi legionari svaniscono come i soldati italiani a Caporetto

Attenti, però. Perché le allucinazioni non riguardano soltanto la Lega, decimata dalla decima Mas di cartone del simpatico generalone. Basta accomodarsi davanti ai talk tv per entrare in un magico mondo di irrealtà, come quello di Alverman nella tv dei ragazzi di mezzo secolo fa.

Tutti sembrano adorare i “fantocci polemici”, secondo la definizione scientifica dei politologi. M’invento un avversario, un problema, poi mi ci scaglio contro e lo distruggo. Con estrema facilità, visto che è inesistente. Come Giorgia con la flottiglia, e la flottiglia con Giorgia. I flottanti venivano da 44 Paesi, ma la premier faceva finta che fossero tutti coalizzati contro di lei. Quelli ce l'avevano con Israele, però eccoli criticare il nostro governo che li ha protetti con ben due navi militari ma doveva fare di più, e comunque è troppo amico di Bibi. 

E il fantastico trip della premier continua: ora è sinceramente persuasa di avere fornito un grande contributo alla tregua con Hamas, anche se nella foto di Sharm-el-Sheikh i maschiacci l’hanno relegata in fondo a destra. Dall'altra parte, ecco avanzarsi la nuova madonna pellegrina, Francesca Albanese, adorata dai più. La quale come un Dibba qualsiasi riesuma nemici freschissimi: colonialismo, apartheid, capitalismo, terzomondismo, razzismo. Marxisti immaginari.

La politica trasformata in fantasia c’è sempre stata: dal militarismo jingoista di Theodore Roosevelt a Jean Paul Sartre credente nelle meraviglie dello stalinismo con buona parte dell’intellighenzia europea, o dall’Impero di Benito Mussolini all’Ucraina nazista di Vladimir Putin. 

Ma in Italia molto prima di Donald Trump abbiamo fatto passi da gigante verso l’Lsd collettivo: il pericolo comunista sventolato da Silvio Berlusconi proprio dopo il crollo del comunismo; quello fascista ora impersonato da una piccola donna bionda, bellissima secondo il presidente Usa. La povertà sconfitta dai grillini grazie alla manna di cittadinanza, i migranti che ci invadono anche se ridotti del 70% rispetto al 2023, le auto da abolire anche se tir, aerei low-cost e crociere inquinano cento volte di più e sono raddoppiati negli ultimi 15 anni.

Insomma, siamo circondati e sopraffatti da esagerazioni e mitomanie. Fortunatamente, i politici che le agitano vengono puniti alla velocità della luce che li sgonfia come soufflé in pochi anni: Renzi, grillini, leghisti ridotti dal 30 al 4%. 

Però noi insistiamo. L’altro ieri guerriglia in piazza della Scala perché i ProPal volevano togliere il gemellaggio Milano-Tel Aviv. Dimenticando che la città israeliana è una delle più a sinistra, libertarie, noBibi e gayfriendly del mondo, governata da 25 anni da un sindaco socialista, uno dei pochi rimasti in Israele.

Dimmi quale competitor t'inventi e ti dirò chi sei, quale sostanza psicotropa hai inalato. Non hai letto Molière né Cervantes né Italo Calvino. Ma il malato immaginario che si scaglia contro i mulini a vento sei tu. 

Tuesday, September 23, 2025

Ciro Grillo condannato un’era geologica dopo

Allora suo padre furoreggiava, ora non più. Conte era al governo, ora non più. Lui era un ragazzino, ora è laureato in legge. Ha senso una sentenza sei anni dopo? E qulla definitiva arriverà quando avrà 30 anni? Intanto per il ponte Morandi, sette anni dopo, non c'è ancora la sentenza di primo grado

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 23 settembre 2025 

Ere geologiche. È passata un’epoca dal 2019, quando Ciro Grillo fu denunciato per stupro collettivo. Sei anni fa era tutto diverso: politicamente, privatamente, giudiziariamente. Beppe Grillo furoreggiava come padre padrone del più grande partito italiano, 32,68%, undici milioni di voti, e governava indifferentemente con la Lega o con il Pd

Negli stessi giorni agostani della violenza nella sua villa al Pevero di Porto Cervo, Matteo Salvini faceva harakiri al Papeete di Milano Marittima. E il premier grillino Giuseppe Conte si produceva in uno dei più strabilianti salti della quaglia nella storia italiana, da destra a sinistra in poche ore ma rimanendo in sella.

Il “povero del Pevero”, velenoso soprannome del comico genovese, si lasciò andare a un imbarazzante videosfogo in favore del figlio quando fu incriminato, giustificabile solo dalla cecità dell’amore paterno. Ora Grillo senior non conta più nulla in politica. Cancellato da Conte.

Anche privatamente siamo in un altro mondo. Ciro, oggi 24enne, decise di iscriversi a legge dopo il primo interrogatorio, e l’anno scorso si è laureato a Genova con 110 e lode. Tesi in procedura penale, discussa sotto gli occhi dell’orgoglioso papà. Praticante nello studio del suo avvocato difensore, a palazzo di giustizia ha conosciuto una collega dalla quale aspetta un figlio a dicembre. Forse farà il concorso per magistrato.

La sua vittima, una coetanea italonorvegese, è riuscita a difendere il proprio anonimato. Si sa solo che vive e lavora a Milano. Dopo le 1.675 domande cui ha dovuto rispondere nell'aula di Tempio Pausania la aspetta il calvario del processo d’appello.

Giudiziariamente, possiamo congratularci con tutti. Tranne che con magistrati. Quasi nessun politico e giornalista, infatti, ha usato le disgrazie familiari di Grillo junior per attaccare il senior. Niente replay delle speculazioni che atterrarono Attilio Piccioni, erede di Alcide De Gasperi, o il presidente Giovanni Leone. E che hanno logorato, a parti invertite, Matteo Renzi e Maria Elena Boschi per le accuse ai loro padri.

Complimenti a Giulia Bongiorno, difensore della vittima, la quale allarga il valore dei 30 anni complessivi (8 per Grillo) comminati ai quattro ragazzi a tutto il genere femminile: “Spero che questa sentenza stimoli le ragazze che non hanno il coraggio di denunciare le violenze subìte”. Neanche lei, senatrice leghista, l’ha buttata in politica per attaccare Grillo. Chissà se la famiglia della sua assistita dovrà accendere un mutuo per ricompensarla.

I magistrati, invece. Sia quelli dell’accusa che i giudicanti. Sei anni per una sentenza di primo grado sono troppi. Ma il punto non è neanche questo. Il vero problema è che ormai ci siamo tutti assuefatti ai tempi biblici dei nostri tribunali. Nessuno protesta. Ci sembra quasi normale, siamo abituati. Ciro Grillo avrà 30 anni quando arriverà la sentenza definitiva di Cassazione? Potrà fare il concorso di magistratura?

A Genova c’è un altro processo che grida vendetta: quello sul ponte Morandi. Sette anni dopo il crollo, non abbiamo neanche uno straccio di sentenza di primo grado. A Renzo Piano ne sono bastati due per ricostruire il ponte. 

Sunday, September 21, 2025

Le corna di Benito raccontate da lui stesso a Claretta

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 21 settembre 2025 

Benito Mussolini fu tradito dalla moglie Rachele. Lo racconta Alessandra Mussolini nel libro 'Benito, le rose e le spine' (ed. Piemme) in uscita il 23 settembre. L'episodio fu rivelato già da Edda
 Ciano, figlia del dittatore, nel suo libro-intervista a Domenico Olivieri 'La mia vita' del 2002. Ma il resoconto più colorito del tradimento, che si protrasse per ben quattro anni mentre Benito viveva da solo a Roma nel 1923-27, è di Mussolini stesso, che ne parlò con l'amante Claretta il 25 ottobre 1937. Ecco come la Petacci lo trascrisse nel suo diario ('Mussolini segreto', ed. Rizzoli 2009).

Pomeriggio al mare. Andiamo a passeggio. Arriviamo ad una duna, sediamo. Lui pensa al discorso [per il 28, anniversario della Marcia su Roma].

[...] “Se tu mi dessi noia o fastidio come tante altre, ti avrei già allontanato. Invece tu comprendi, non sei come mia moglie che non si è mai resa conto della mia grandezza. Con lei non c’è stato quasi mai amore, solo una cosa fisica. Perché era effettivamente una bella ragazza, prosperosa, ben fatta, quello che si dice un bel pezzo di figliuola. Solo sensi, soltanto. E infatti non c’è stata mai comprensione né comunicativa. 

L’ho perduta dopo notti e giorni tragici, in cui lei non faceva che piangere, negare. L'Edda sbottò in un gran pianto dicendo: ‘Non credo, non posso credere che mia madre abbia fatto questo...’ Ma con le lagrime rivelava ciò che aveva sofferto di ciò. L’Edda sa tutto, ha visto tutto, l’odiava a morte quell’uomo, Dio come l’odiava. Certo ha negato... è la madre. L’ho perdonata, per i figli, per non fare scandalo. Ho voluto credere, ma da allora l’ho odiata, così come la odio in questo momento. Gli anni dal '23 al ‘27 mia moglie non può davvero guardarli senza arrossire, e provare una profonda vergogna di sé. Devi impedirmi di parlare di ciò, ti prego fermami”. 

Si ferma e si tocca l’ulcera.

“Vedi, ahi! Mi fa male l’ulcera ora. Credi, ho delle fitte qui, mi fa male proprio dove sono stato male, e del resto mi sono ammalato proprio la sera che la Ceccato [Bianca Ceccato, amante di Mussolini quand’era segretaria del Popolo d’Italia, ndr] mi fece la rivelazione dicendomi: ‘Fai tante scenate di gelosia, ma potresti guardare tua moglie invece che me!’ Erano scene per modo di dire, non ero geloso, no là per quel Di Castro...”.

Claretta: “Non riparare, ormai l’hai detto”.


“Non sono mai stato geloso. Oltre che di te sono stato e sono geloso di mia moglie, ma è soltanto dignità e orgoglio. Te, sarebbe stata una delusione veramente grave, dolorosa. [Mia moglie] non mi ha mai considerato un grand’uomo, né ha mai preso parte alla mia vita. Si è disinteressata completamente di me in tutto. Ma sì, mi ha tradito, è inutile mentire. Tutti lo dicevano, era una voce generale. Non si fa dormire un uomo in casa se non c’è il motivo. Faceva l’amministratore, l’aiuto dei bimbi, questa era la scusa. Ed era sempre con mia moglie. Tanti elementi confermano il sospetto, lei ha sempre negato, naturalmente, ma perché era a [..?] con lei e dormiva lì? Perché la notte si tratteneva a Villa Carpena [residenza della famiglia Mussolini a Forlì, ndr] quando non c’erano che tre chilometri e la macchina per portarlo? Pioveva, disse lei, pioveva. Ma non erano trenta chilometri, erano tre. E la madre, perché la mise a dormire in una dipendenza? Non voleva che vedesse le cose poco pulite che faceva. Poveretta, è morta di crepacuore”.

È eccitato. Parla a scatti. Il ricordo lo avvelena.

“[Ti dico] uno degli episodi. Il 25 di Natale si era seduti a tavola,
eravamo una bella tavolata e c’era anche mia sorella Edvige. Non so come, ad un tratto uno dei ragazzi fa il nome di questo signore: Corrado Valori [in realtà Varoli]. Non è ministro, lo sanno tutti.

Anche a Parigi, dove stampavano in prima pagina, e i giornali ce li ho ancora, 'Chi è lo stallone di casa Mussolini? Corrado Valori'. Villa Carpena era la villa Valori, capisci. Così un bambino fece il nome di costui, e mia moglie diventò rossa, ma rossa in modo tale che imbarazzò tutti. Io già sapevo qualcosa, ma non credevo ancora. Poi, entrando per caso nel boudoir di mia moglie, trovai profumi, cosmetici, tinture: tutta una raffinatezza che mia moglie non si era mai sognata, perché era una contadina sempliciona e rozza”.

Wednesday, September 17, 2025

Anche la mamma di Furlani è d'oro

Perfino dopo la sicurezza del primo posto Kathy Seck, madre e allenatrice della prima medaglia d'oro italiana ai Mondiali di salto in lungo, non si è scomposta. Perché Furlani è uno dei pochi esempi di atleti che non hanno rotto il cordone ombelicale, ma ne traggono la propria forza

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 17 settembre 2025 
È stata l'unica nello stadio di Tokyo a esultare poco, dopo il balzo di 8 metri e 39 che ha regalato al figlio Mattia Furlani l'oro del salto in lungo ai Mondiali. Perché Kathy Seck, 54 anni, è anche la sua allenatrice. E subito dopo l'impresa si è alzata per indicare a Mattia, che si era avvicinato alla tribuna, come migliorare nel salto successivo.
 
Perfino dopo la sicurezza del primo posto non si è scomposta. Anzi, ha urlato severa al figlio esultante di non togliersi il numero dalla maglia, per non rischiare sanzioni. Mamma coach e chiocch. Caso unico al mondo. Non sono pochi gli atleti famosi ad essere allenati dai genitori. Basta ricordare le sorelle Williams, Larissa Iapichino, Gianmarco Tamberi, l'astista Greg Duplantis. Ma un campione maschio seguito dalla mamma ha un solo precedente. E non a caso anch'esso appartiene all'Italia, dove la mamma regna sovrana: Andrew Howe, predecessore di Furlani nelle glorie del salto in lungo, che solo a 29 anni si è emancipato dalla madre allenatrice.
 
Figlia di un diplomatico senegalese, la signora Seck è nata a Cartagine (Tunisia). Trasferitasi in Italia da adolescente, a 16 anni conosce il futuro marito, Marcello Furlani. Stanno assieme da 38 anni. A Colleferro (Roma) sono nati Mattia, suo fratello e sua sorella.
 
Una famiglia di campioni dell'atletica: lei nei 100 e 200, il marito nell'alto, i figli in vari sport. E ora la vetta mondiale per il giovanissimo Mattia, dopo il bronzo olimpico l'anno scorso a Parigi, 19enne. Una famiglia unitissima. Memorabile il video in cui Furlani la presenta al completo: in prima fila lui con mamma e papà, dietro il fratello, la sorella col fidanzato, e anche la fidanzata di Mattia.
 
Intervistato da Elisabetta Caporale in tv dopo l'oro, Mattia si è espresso al plurale: "Ringraziamo chi ci ha supportato, abbiamo fatto un buon lavoro", ecc. Non era un plurale maiestatis. È che lui si sente proprio così, un'unica cosa con la sua squadra famigliare. 
Insomma, un vero esempio anche per il generale Vannacci: su Dio non sappiamo, ma per la Patria il tricolore è stato sventolatissimo da Furlani, che poi lo ha indossato a mantello. E la Famiglia è super.

Wednesday, September 10, 2025

Sabaudi vs neoborbonici. La grottesca disfida monarchica sul Ponte sullo Stretto

A chi propone di intitolare a Giuseppe Garibaldi l'opera più annunciata della storia italica, replicano indignati i neoborbonici che propongono che sia piuttosto "delle due Sicilie"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 settembre 2025

I monarchici sabaudi propongono con largo anticipo di dedicare il ponte sullo Stretto a Giuseppe Garibaldi. I neoborbonici, altrettanto monarchici, si dichiarano fieramente contrari: "Meglio chiamarlo ponte delle Due Sicilie, Garibaldi era un invasore colonialista". Ognuno ha le guerre civili che si merita. Almeno le nostre sono nonviolente, senza battaglioni Azov, flottiglie globali e Smotrich. Ma i paroloni volano lo stesso

Esaminiamo allora le cospicue forze in campo. La garibaldina Umi (Unione monarchica italiana) vanta 70mila iscritti. Però il suo presidente, l'avvocato (napoletano!) Alessandro Sacchi, ha racimolato solo 2.677 preferenze alle ultime Europee nella circoscrizione sud: maglia nera di Forza Italia, che invece ha regalato 144mila voti all'ex monarchico Antonio Tajani. 

I neoborbonici sono un variegato mondo di buontemponi, cresciuti online nell'ultimo ventennio assieme a complottisti e grillini. Che qualcosa non quadrasse nel racconto fiabesco del Risorgimento propinatoci dai sussidiari delle elementari ce ne accorgemmo appena sfogliammo le pagine di Gaetano Salvemini, Piero Gobetti o Antonio Gramsci. Poi sono arrivate le pregevoli opere di Gigi Di Fiore e Pino Aprile (padre di Marianna). Il problema, come sempre, sono i seguaci. 

I neoborbonici, a discuterci su Facebook, si rivelano spesso gran pezzi di reazionari. Letteralmente: nati in reazione alla Lega Nord degli anni '80 e '90, quella della secessione. Ma vandeani anche contro due secoli di storia. Basta ricordar loro le gloriose vicende della Repubblica napoletana di Eleonora de Fonseca Pimentel, impiccata nel 1799. E soprattutto il 1848: rivoluzione europea nata a Palermo, mesi prima che a Milano (le Cinque Giornate), Roma e Venezia. I meridionali dovrebbero semmai andare orgogliosi di questa loro primazia patriottica continentale.

Poi c'è l'argomento cardine: ferrovia Napoli-Portici, prima in Italia. Vero, battuta di misura la Milano-Monza. Peccato che i Borboni si siano fermati lì. Nel 1861, all'Unità d'Italia, i treni del Nord erano cinquanta volte più estesi di quelli del Sud. E chi vanta qualche altro merito per il Regno delle Due Sicilie può utilmente visitare le masserie pugliesi, dove i servi della gleba sopravvivevano sottoterra (però lì faceva più fresco, brontolano i neoborbon). 

E Garibaldi? Lui è uscito indenne dal revisionismo antirisorgimentale. Tutti ammettono che è l'eroe più grande della storia d'Italia. Se non altro perché combatteva in prima fila, contrariamente a quasi tutti i nostri generali. E allora, merita l'Eroe dei due mondi la titolazione del Ponte sullo Stretto? Forse no. Per un piccolo particolare: non lo ha mai attraversato. Geniale come sempre, per evitare le navi di Franceschiello nell'agosto 1860 sbarcò in Calabria più a sud, partendo da Giardini Naxos (Messina) per approdare a Melito di Porto Salvo. E issando una bandiera degli Stati Uniti per far fessi i borbonici (dove mai l'avesse trovata, è ulteriore materia per cospirazionisti: poteri forti di Wall Street?). 

Il quesito fondamentale, infine. Chi sta a destra e chi a sinistra, in questa buffa disputa sul Ponte che non c'è? Il Regno delle Due Sicilie (1815-1861) fu una monarchia assoluta, e soprattutto una fregatura per Palermo rispetto alla capitale Napoli. Quindi, da quella parte, nulla di progressista.  

E men che meno fra i monarchici dell'Umi, che si appropriano di Garibaldi con gli stessi diritti del Pci nel 1948: pochi. Perché si sono sempre opposti alla repubblica antifascista, fino ad apparentarsi con i neofascisti del Msi. E le roccaforti dei nostalgici sabaudi erano non Torino e il Piemonte, ma Napoli e Catania. Per il grande scorno dei loro cugini neoborbonici. 

Thursday, September 04, 2025

Recensione Green di Archiviostorico.info

Mauro Suttora

Green

Da Celentano a Greta, storia avventurosa degli ecologisti

Neri Pozza, pagg.256, € 20

 https://www.archiviostorico.info/libri-e-riviste/10802-green 

Con "Green" Mauro Suttora compie un tentativo riuscito di articolare una narrazione storica complessiva del movimento ambientalista con particolare riferimento all'evoluzione italiana, pur in costante dialogo con il contesto internazionale. Giornalista di lungo corso con esperienza diretta sui principali fronti geopolitici e ambientali dell'ultimo quarantennio, Suttora adotta una prospettiva dichiaratamente "popolare", che tuttavia non pregiudica la qualità documentaria dell'opera, né la sua coerenza analitica. Il volume si propone come una sintesi storica accessibile ma metodologicamente sorvegliata, capace di restituire la complessità di un movimento eterogeneo, mobile e attraversato da profonde trasformazioni culturali e politiche.

  Il racconto si apre nel 1966, con il riferimento simbolico al brano "Il ragazzo della via Gluck", interpretato da Adriano Celentano al Festival di Sanremo: una scelta che, al di là del valore aneddotico, segna l'ingresso della sensibilità ecologica nella cultura di massa italiana. Pochi mesi più tardi, la fondazione della sezione italiana del WWF a opera di Fulco Pratesi costituirà un punto di svolta più formalizzato nella nascita di un ambientalismo organizzato. Già nel 1955, tuttavia, l'associazione Italia Nostra si era posta l'obiettivo di difendere il patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, anticipando alcuni degli assunti metodologici del successivo movimento ecologista, con un'attenzione particolare alla pianificazione urbanistica e alla conservazione del territorio.

  Il percorso tracciato da Suttora si sviluppa secondo una scansione cronologica che copre oltre sei decenni di storia ambientale, mantenendo una costante attenzione al nesso fra crisi ecologica, mutamenti economici globali e rappresentanza politica. Centrale, in questo senso, è la riflessione sul Rapporto "The Limits to Growth" (1972), commissionato dal Club di Roma e realizzato da un'équipe del MIT sotto la direzione di Donella e Dennis Meadows. L'autore ne coglie la portata paradigmatica: non solo in termini di diffusione dell'idea di "limiti biofisici" alla crescita economica, ma anche per il suo ruolo nel riformulare l'intero impianto epistemologico delle politiche di sviluppo.

  Il volume prosegue con l'analisi delle diverse fasi di istituzionalizzazione dell'ambientalismo, a partire dalla formazione dei primi partiti verdi europei. In Italia, la nascita delle Liste Verdi nel 1987 rappresenta un episodio cruciale, benché il consenso elettorale non abbia mai superato la soglia del 6% a livello nazionale (elezioni europee del 1989). Suttora non elude le criticità strutturali che hanno ostacolato il radicamento dell'ecologismo politico nel panorama italiano: l'eccessiva frammentazione organizzativa, l'incapacità di elaborare una proposta coerente oltre la dimensione protestataria, la tendenza alla subalternità nei confronti di coalizioni maggiori.

  Il disastro di Černobyl' del 1986 viene correttamente individuato come catalizzatore di un'opposizione al nucleare che in Italia trovò una traduzione politica diretta nel referendum abrogativo del 1987, il cui esito sancì il progressivo disimpegno del Paese dall'energia atomica. L'autore ricostruisce con precisione il contesto internazionale, inserendo il caso italiano all'interno di una più ampia ondata antinucleare che ha attraversato l'Europa negli anni Ottanta. Similmente, la Conferenza di Rio del 1992 viene analizzata come momento di passaggio verso una nuova fase dell'ambientalismo, sempre più orientata al problema delle emissioni climalteranti e del riscaldamento globale, con il conseguente spostamento dell'attenzione dal localismo originario alla dimensione planetaria della crisi ecologica.

  Degna di nota è la parte dedicata ai riconoscimenti istituzionali ottenuti da figure simboliche del nuovo ambientalismo globale. La keniota Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace (2004), incarna un'ecologia profondamente intrecciata con le istanze di giustizia sociale e di emancipazione femminile. Similmente, il Nobel assegnato ad Al Gore nel 2007, in seguito alla diffusione del documentario "An Inconvenient Truth" (2006), segnala l'emersione di una sensibilità ecologista nel cuore stesso delle élite transnazionali.

  Suttora dedica particolare attenzione anche alla svolta contemporanea rappresentata dall'attivismo giovanile, con l'irruzione sulla scena pubblica di Greta Thunberg nel 2018 e la nascita del movimento Fridays for Future. La trattazione è equilibrata e scevra da entusiasmi retorici: l'autore ne riconosce la capacità di catalizzare l'attenzione mediatica e riattivare la mobilitazione collettiva, ma non tace i limiti dell'azione simbolica, né le difficoltà strutturali nel tradurre la protesta in cambiamento legislativo stabile. L'analisi tocca anche i casi controversi di disobbedienza civile e vandalismo a fini dimostrativi, collocandoli all'interno di una riflessione più ampia sulle tensioni fra urgenza climatica e legittimità democratica delle forme di lotta.

  L'ultima parte del volume affronta con competenza il quadro normativo internazionale, dal Protocollo di Kyoto (1997) all'Accordo di Parigi (2015), per giungere al Green Deal europeo, che sancisce l'impegno dell'Unione verso una transizione climatica strutturale. Suttora evidenzia con lucidità le contraddizioni di tale processo, in particolare gli effetti redistributivi della transizione energetica, che rischiano di accentuare diseguaglianze sociali e squilibri economici. Particolare rilievo è dato al fenomeno del "negazionismo di Stato", esemplificato dal ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sotto la presidenza di Donald Trump, poi revocato con l'insediamento di Joe Biden.

  L'autore attinge a una vasta gamma di materiali – documenti istituzionali, articoli giornalistici, interviste, dati statistici – selezionati con attenzione e contestualizzati criticamente. Lo stile, pur narrativo, mantiene un registro sobrio e scorrevole, adatto a una lettura colta ma non specialistica.

  Nel complesso, il volume si configura come un contributo significativo alla storiografia sull'ambientalismo, colmando una lacuna nella saggistica italiana recente.

La Redazione, 2 settembre 2025

Tuesday, September 02, 2025

Sì è genocidio. Lo hanno deciso genocidiologi autonominati

La bizzarra pronuncia della Iags, che ha votato la sentenza su Israele fra i suoi membri. Si diventa tali se ci si dichiara attivisti dei diritti umani e si paga una quota. La giuria di Ponzio Pilato dava più garanzie

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 2 settembre 2025 

Lo ha deciso la Iags, International association of genocide scholars: Israele è colpevole di genocidio a Gaza. Scansatevi, corti internazionali dell’Aia che un anno fa avete aperto inchieste e disposto l’arresto di Bibi Netanyahu, ma non avete ancora concluso niente. La sentenza è arrivata ieri, inappellabile, emessa dall’Associazione internazionale degli studiosi di genocidio. I quali ammontano a ben 500, e l’86 per cento di loro ha votato contro Israele. 

Incuriositi, siamo andati a vedere chi sono i membri di questo consesso. Definito da qualcuno “il più autorevole al mondo”. Può darsi, anche perché è l'unico a occuparsi della triste materia. 

Abbiamo così scoperto che chiunque può iscriversi all’Associazione: basta dichiararsi “attivista dei diritti umani” e pagare online una quota dai 35 dollari annui a 135, a seconda del reddito. Sconto a chi si iscrive per due anni: 50-210 dollari. L’elenco soci sul sito mostra una prevalenza di arabi e terzomondisti, studenti di materie come “studi anticoloniali”, “storia dei movimenti di liberazione in Africa e Sudamerica”, ecc.

Curioso ribaltamento, per un organismo fondato nel 1994 dallo psicologo Israel Charny, dalla sociologa ebrea americana Helen Fein e dal sopravvissuto all’Olocausto Robert Melson. Fino ad allora il dibattito era sull’equiparazione del genocidio armeno a quello ebraico, con molti studiosi trincerati sull’unicità di quest’ultimo. Difficile ottenere lo status di genocidio anche per l’Holomodor ucraino del 1933 e per quello cambogiano del 1975-78. 

Poi, con lo sterminio dei tutsi ruandesi e la strage di Srebrenica nel 1995, il concetto di genocidio si è ampliato. E si sono moltiplicate le cattedre sull’argomento nelle università di tutto il mondo. Cosicché oggi i soci dell’Associazione spaziano dai curdi che chiedono un riconoscimento per i loro supplizi agli appassionati di giustizia di transizione, riparativa, di popoli indigeni, autoritarismo, gender, terapia del trauma, diritti 2SLGBTQI+. Insomma, quel tipo di studi accademici finiti nel mirino della presidenza Trump.

Nell’elenco dei membri Iags abbiamo trovato due soli italiani: i docenti universitari Flavia Lucenti, non più attiva, e Stefano Saluzzo, che insegna diritto internazionale all’ateneo del Piemonte orientale.

Fra un mese l’Associazione terrà il suo congresso biennale in Sud Africa. Sede appropriata, visto che è stato il governo di Johannesburg a chiedere l’incriminazione di Israele per genocidio a Gaza.

Quale valore giuridico ha il pronunciamento dei “genocidiologi”? Zero. Quanto al peso politico di questa primizia di sentenza planetaria “democratica”, emessa tramite sondaggio online da studiosi autonominati, probabilmente la giuria della piazza cui Ponzio Pilato fece scegliere fra Gesù e Barabba era più equilibrata. 

Wednesday, August 20, 2025

Fatevi da parte, vi aspetta il livello 11.988 di Candy Crush!

Che cosa spinge i due cacicchi a perpetuare la loro vita politica? Non sanno che in pensione si possono leggere libri, vedere film, fare gite e appagare l’ozio come pare – e cioè tutte cose meravigliose?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 20 agosto 2025

Alcuni dogi veneziani furono accecati alla fine del loro mandato, affinché non cercassero di riconquistare il potere con la forza.

Destino meno crudele ma egualmente ingiusto per Bill Clinton e Barack Obama: costretti alla pensione a 54 e 55 anni dal limite Usa di otto anni per i presidenti. E il francese Emmanuel Macron ne avrà appena 50 quando dovrà andarsene, fra due anni.

Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, invece, sono riottosi. Non vogliono pensionarsi, dopo trenta e vent’anni rispettivamente alla guida (pare eccellente) di Salerno, Bari, Campania e Puglia.

Estirpare i cacicchi dai loro feudi un tempo era facile: bastava regalar loro un ministero a Roma o un euroseggio a Bruxelles. Ma il Pd oggi è impossibilitato a offrire tali sontuosi scivoli: non è alle viste un cambio di governo in Italia, e il prossimo voto europeo sarà nel 2029.

Quindi il 76enne Vincenzo e il 66enne Michele si agitano, non ne vogliono sapere di abbandonare la scena. Chiedono successioni dinastiche (De Luca jr segretario campano del Pd) o una candidatura da consigliere regionale (ma così Emiliano farebbe ombra al candidato presidente Antonio Decaro).

La domanda come sempre è: cosa spinge i politici a reputarsi indispensabili? E quale horror vacui temono, una volta restituiti agli affetti familiari?

Lasciamo perdere le banalità antipolitiche e qualunquiste sull'invincibile piacere del potere, droga che trasforma in cozze. Non conosciamo il numero di nipotini del duo dinamico meridionale. Ma altri prepensionati più illustri di loro hanno dimostrato che “reinventarsi” non è solo un luogo comune per consolare gli ex, privati di risarcimento. Massimo D’Alema si è dedicato a barche, vino, consulenze belliche sudamericane e alti studi di politica estera. Walter Veltroni, fra libri, film, editoriali e interviste subìte o inflitte, risulta onnipresente.

E comunque, chi ha detto che gli anziani devono “darsi da fare”? Godersi la liquidazione significa anche andare al cinema, al teatro e al ristorante, viaggiare, guardare ottimi film in tv, leggere libri stupendi. In una parola: divertirsi.

Naturalmente consigliamo a Vincenzo e Michele di compulsare gli eterni saggi consigli sulla senectute di Cicerone e Seneca, o almeno quelli contemporanei di Beppe Severgnini. Oppure di ascoltare la canzone di Charles Aznavour Devi sapere (lasciar la tavola dopo il dessert). C’è chi si riempie la vita anche solo guardando un tramonto, per non parlare dello sport visto e praticato.

Ma la principale amica del post tfr è la pigrizia. Un ozio creativo probabilmente sconosciuto a Vincenzo&Michele, e che invece impreziosisce la vita. Questo articolo, per esempio, non lo avrei mai scritto se il direttore Mattia Feltri non me lo avesse chiesto, strappandomi alle interminabili partite di CandyCrush (in dieci anni sono arrivato allo stadio 11.988), alla lettura di HuffPost e dei giornali, e al cazzeggio colto di Facebook su Ucraina e Gaza. Ho appena postato su Instagram le foto della gita di lunedì a Sighignola, belvedere fra Como e Lugano.

Ma ora vi devo lasciare, perché mi aspetta l'ultimo film con John Malkovich e Fanny Ardant al cinema Colosseo di Milano. Alle ore 15, per usufruire dello sconto +65 al primo spettacolo dei giorni feriali. 

Friday, August 08, 2025

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it , 8 agosto 2025

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:


Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Resort a Gaza? C'era già, e io ci ho dormito

di Mauro Suttora

Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza

Huffington Post, 8 agosto 2025


Il 15 agosto di vent'anni fa, nel 2005, il premier israeliano Ariel Sharon fece sgomberare gli insediamenti ebraici di Gaza. Il più grande, Gush Katif, era enorme: si estendeva per ben dieci chilometri sulla costa sud della Striscia, dal confine egiziano di Rafah. Ci abitavano e lavoravano 7mila coloni, stretti fra le spiagge del mar Mediterraneo e il campo profughi di Khan Yunis.

Quando lo visitai nel gennaio 2001, unico giornalista italiano, Sharon aveva appena scatenato la seconda Intifada con la sua passeggiata nella spianata delle moschee a Gerusalemme. Era considerato un criminale quanto oggi Bibi Netanyahu  perché aveva permesso la strage di Sabra e Chatila nel 1982 in Libano. 

Accanto a questa provocazione, però, Sharon decise di abbandonare le colonie di Gaza. Non per fare un favore ai palestinesi: semplicemente, costava troppo proteggerle dopo la fine dell'occupazione israeliana di Gaza (1967-1994). E solo lui, duro di estrema destra, poteva permettersi una simile ritirata.

Ecco la cronaca della mia visita a Gush Katif, e in particolare al suo villaggio più grande, Neve Dekalim, assieme a Gianni Gelmi, fotografo del settimanale Oggi:

Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli. [Gli attentati in quei mesi erano all'ordine del giorno, ndr].

Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.

Accettiamo e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, sapeva già della nostra visita; promette di venire a prenderci con la sua auto.

Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (la guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1994, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano agli insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’94. [Oggi sono 350mila, ndr].

Arriva Vanunu, laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in gran maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. 

E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per poterci sparare”, si lamenta Vanunu.

Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”. 

[Notevoli quantità del latte israeliano prodotto a Gaza andava anche al Cairo, ma ci chiesero di non scriverlo per non rovinare i buoni rapporti con l'Egitto, ndr].

Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto priva di vermi. Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.

Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. I giovani israeliani vi praticavano il surf. 

Ora è protetto da soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commandos palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.

Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.

La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”

La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.

Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate quindici famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.

A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?

“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”

Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. 

A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.

E così facemmo, con il risultato che all'aeroporto di Tel Aviv, prima di imbarcarci per l'Italia, subimmo un interrogatorio di terzo grado da parte di giovani ispettori dei servizi segreti israeliani. La nostra colpa? Non aver avvisato il ministero dell'Informazione del nostro viaggio a Gaza. E, ancora peggio: essere andati a intervistare anche i palestinesi dopo i coloni ebrei.

Nel Ferragosto di quattro anni dopo, Gush Katif e Neve Dekalim furono sgomberate. I soldati israeliani rasero tutto stupidamente al suolo, affinché i palestinesi non si impossessassero di case, sinagoghe, scuole e ambulatori. 

Il presidente ebreo statunitense della Banca mondiale, James Wolfensohn, riuscì a finanziare personalmente con mezzo milione di dollari soltanto il salvataggio delle serre, per consegnarle e farle coltivare dai palestinesi. Che però finirono saccheggiate e distrutte anch'esse, perché i poliziotti dell'Anp (Autorità nazionale palestinese) non riuscirono a proteggerle da ladri e vandali. 

Due anni dopo, nel 2007, tutta la Anp fu travolta da Hamas, dopo aver perso le elezioni. E oggi alcuni dei ragazzi che surfavano sulle onde di Gush Katif, o che frequentavano il resort nelle loro vacanze, ci sono tornati come soldati della nuova, ennesima guerra.