Tuesday, June 03, 2008

Mr. Mugabe non gradito

Il dittatore dello Zimbabwe arriva a Roma grazie all'extraterritorialità. Il sistema dell'Onu è impotente

Il Foglio, 3 giugno 2008

Roma. Non dite a Robert Mugabe che il palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie fascista, prima di essere regalato alle Nazioni Unite nel 1951. L’84enne dittatore dello Zimbabwe c’è affezionato, non mancò neanche al precedente vertice del 2005 per il sessantennale dell’agenzia Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un Paese innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chavez si alzò per abbracciarlo.

Come userà Mugabe questa volta il podio planetario graziosamente messogli a disposizione dalla Fao? Allora come oggi era «persona non grata» in Europa, dopo il voto truccato in Zimbabwe del 2002. Crea casi diplomatici ovunque vada, come a Lisbona lo scorso dicembre quando la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown.

Oggi anche la sua legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, solo altri brogli gli hanno permesso il ballottaggio col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni. E proprio in queste ore, come sempre, i suoi sgherri sono scatenati nel bastonare gli esponenti del partito d’opposizione Mdc (Movement for a democratic change). Settanta di loro sono finiti in prigione negli ultimi giorni. Cinquanta sono stati uccisi nelle scorse settimane. Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni, il secondo grande oppositore di Mugabe, è in carcere da sabato notte solo per avere scritto in un articolo quello che tutto il mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla fame il proprio Paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.

La presenza di Mugabe a Roma rischia quindi d’essere perfino più imbarazzante di quella dell’iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il dittatore africano venne a Roma anche per i funerali del Papa tre anni fa: è infatti cattolico, scuole dai gesuiti. Allora si invocò l’extraterritorialità del Vaticano, oggi quella della Fao. Roma uguale a New York, insomma: dittatori di tutto il mondo, da Fidel Castro in giù, hanno potuto recarsi a Manhattan perché accolti dall’Onu al Palazzo di vetro. Anche la Fao oggi si affanna a precisare che gli inviti a tutti i capi dei 191 Paesi membri erano «dovuti».

Ed è proprio questo è il problema: che il sistema Onu non ha, ma soprattutto non vuole vuole avere, i mezzi giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha avuto il coraggio di dire la verità, al di là dei diplomatismi, è il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith, che rappresenta il proprio Paese al vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo. Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici. Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente osceno”.

C’è chi è ancora più sincero di Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao dovrebbe essere smantellata. Non serve a niente, anzi è proprio lei una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’ uno spreco di soldi, un doppione di altre agenzie Onu più efficienti come l’Ifad, l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame. Ma ora dico: aboliamola”.

Parole pesanti, anche perché provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per periodi lunghissimi alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa è stato confermato per il terzo mandato di sei anni. Resterà quindi in carica fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese Edouard Saouma, che resistette dal ’76 al ’93.

Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di interventi, mancanza di comunicazione e coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”. A Roma i figli dei funzionari frequentano, a spese Fao, un liceo da 12 mila euro l’anno. E il 90% delle uscite paga gli stipendi dei funzionari.

Mauro Suttora

Friday, May 30, 2008

No sex, siamo in the City

DA SPARARSI

Un italiano a Manhattan: le americane godono solo con lo shopping. Da oggi nei cinema 'Sex in the City'

Libero, 30 maggio 2008

di Mauro Suttora

«Scusa Mauro, questo tuo articolo è ben scritto e divertente, ma non pubblichiamo vendette private. E poi parole come "frigidità" e "clitoride" rimangono ancora off limits per noi».

Così il vicedirettore del settimanale Newsweek bocciò una delle column che avevo scritto per loro. Era il 2004. Come sempre d’estate a New York faceva un caldo umido brutale, e io ero disperato perché la mia fidanzata americana mi aveva mollato. Di colpo, con un'e-mail. Non voleva più vedermi, né sentirmi al telefono. Eliminato senza discussioni dopo tre mesi di amore (un periodo medio-lungo, per i ritmi nevrastenici di Manhattan).
Mi sembrava di essere improvvisamente piombato dentro una puntata di "Sex and the City". Anche perché la mia Liza, trentenne imperiosa dai lunghi capelli lisci e tacchi a spillo, assomigliava a quelle quattro. Anzi, ne era la fusione: sexy come Samantha, dolce come Charlotte, abrasiva come Miranda, brillante come Carrie. E drogata di shopping come tutt'e quattro.

Per due notti dormii poco, per tre giorni mangiai pochissimo. Mentre andavo a lavorare alla Rizzoli, sulla 57esima Strada, mi veniva da vomitare per i miasmi provenienti dai ristoranti cinesi. Poi, avendo il triplo degli anni di un adolescente, vidi il lato comico della tragedia. E cominciai a scrivere. Da allora non ho più smesso. E sono diventato uno dei massimi esperti mondiali di quella inimitabile specie animale che sono le donne di Manhattan. Ho perfino scritto un libro su di loro: «No Sex in the City» (Cairo, 2a edizione 2007).

Cestinandomi l'articolo il caporedattore di Newsweek mi fornì un consiglio prezioso: «Perché non lo proponi al New York Observer? Quelli sì che lo apprezzerebbero». L'Observer: il settimanale in carta rosa dei radical-chic newyorkesi. Sessantamila copie vendute quasi tutte nell'Upper East Side, dove vivono i miliardari, e d'estate negli Hamptons, dove i Rockefeller e i Vanderbilt svacanzano sempre assieme, in gregge, fin dai tempi di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby.

Quattro cose sono rimaste uguali da quei clamorosi anni Venti: il colore assurdamente giallo canarino e verde smeraldo dei vestiti estivi, le donne ridanciane e vogliose di parties, le auto veloci e il tasso alcolico.

Manhattan è, dopo la Carnia, il posto al mondo dove si beve di più. Per un motivo semplice: quando si smette non occorre prendere l’auto per tornare a casa, basta gettarsi in un taxi o in un vagone del metrò. Ma anche perché le donne di Sex and the City hanno bisogno di un bicchiere per cominciare a parlare, del secondo per sorridere e del terzo per disinibirsi. Al quarto però crollano, quindi la «finestra di opportunità» (come la chiamano gli americani, in marketinghese) per noi maschietti è molto stretta.

All’Observer sono stati felici di pubblicare il mio articolo, in cui descrivevo da entomologo la frigidità della mia apparentemente sexyssima (pantaloni aderenti color leopardo) ma in realtà anoressica e anorgasmica Liza, e la tendenza sua e di tante newyorkesi (statistiche alla mano) a soddisfarsi da sole, accarezzandosi il (la?) clitoride. Infatti il motto delle femmine di Sex and the City è: «Perché accontentarsi di un uomo, quando si può avere un intero dito (il proprio)?»

Sia chiaro: come tutti gli italiani, ero e continuo a essere perdutamente innamorato dell’America e di New. Ma un conto è divertirsi osservando le traversie delle quattro smandrappate di Sex and…, un conto è viverci dentro. Un inferno.

Liza (ma poi anche Marsha, mia fidanzata per un anno) smetteva di lavorare alle sei, e mi invitava a qualche «evento»: un aperitivo, l’inaugurazione di un negozio, la vernice di una galleria d’arte, la presentazione di un libro. Poi il ristorante. Le «ragazze» di Manhattan (si fanno pateticamente chiamare «girls» anche a 50 anni) si atteggiano a superfemministe, ma accettano svelte il conto pagato dal maschio. Dappertutto: dal cocktail al ristorante, dal taxi alla discoteca. Se poi gli lasci la tua carta di credito in un negozio di scarpe, borse o vestiti, ti sposano subito.

Tornavamo a casa dal Soho Club (di moda quattro anni fa) dopo mezzanotte. In taxi ci baciavamo, lei era focosa, ma arrivati su si lanciava sotto la doccia. Io la aspettavo speranzoso a letto. Però alla fine mi diceva: «Sono distrutta. Dormiamo, dai».

Al mattino di svegliava alle sei. Si metteva la tuta, le scarpe da ginnastica, e scendeva a far jogging a Central Park. Se pioveva o faceva troppo freddo o caldo, tapis roulant in palestra. Tornava a casa accaldata, rossa in viso, sensualissima. Io ero pronto, ma lei mi sgusciava via: doccia. E dopo era ormai «troppo tardi, devo correre al lavoro». Usciva di casa alle otto senza aver fatto neppure colazione: comprava un bicchierone sotto da Starbucks, e se lo portava in metro.

«Sono stressata, ho bisogno di relax», mi diceva per giustificare questa sua riluttanza all’accoppiamento. Io cercavo di spiegarle che il sesso serve appunto a rilassarsi. Ma lei non capiva: per gli americani il sesso è una specie di ginnastica, un’ulteriore attività pratica che si aggiunge alle tante altre. E in caso di problemi c’è sempre una guida che in 12 step li risolve.

Si rilassava nei wek-end, questo sì. Quindi facevamo regolarmente l’amore al sabato. «Come gli svizzeri», le ho detto. «Adoro il cioccolato svizzero», ha risposto, ignara del mio sarcasmo. Nonostante le scollature e il leopardume, a letto era più fredda del monte Bianco. «Non vengo mai la prima volta», mi disse Liza dopo un deludente debutto. Aspettai con trepidazione la seconda volta, e mi diedi un sacco da fare. Niente. «Vengo raramente», annunciò distrattamente. «Ma mi piace anche così», precisò subito, per non fare la figura della «loser», la perdente.

Ecco, questo è il vero Sex nella city. Certo, non si può generalizzare. New York resta la capitale del mondo gaudente, e ha il più alto tasso di single del pianeta. Quindi a letto ci si arriva facilmente. Ma è sul materasso che cominciano i dolori. Perché Carrie e amiche raggiungono molto più facilmente la soddisfazione comprando sandali Manolo Blahnik (la mia Liza preferiva il negozio Jimmy Choo di Madison Avenue, da me soprannominato «dai 200 ($) in su»). No Sex in the City.

Mauro Suttora

Friday, May 16, 2008

Mauro of Manhattan

New York Observer

April 29, 2008

by Mauro Suttora

“Why do you keep replying, ‘Thank you, but we already have plans for that evening,’ Marsha, when you know we’re free?”
“It’s just an excuse, Mauro. I just want to avoid an invitation by boring people.”
“Yes, but it sounds too … How can I say? Grandiose to me. In Italy we don’t make plans. I mean, not normal people. The government, maybe, sometimes. At least they boast it, to impress voters and pretend they are in charge. But ordinary people …”
“We are not ordinary. We’re supposed to have plans in our life. They can’t invite us like that, on the snatch, impromptu, with only a few days’ notice.”
Marsha, my Upper East Side girlfriend, can’t understand how Italians can survive always improvising—without inviting, nor making theater reservations or booking restaurants one month in advance.
“Come on, Marsha, don’t play it big. Don’t act precious. If one of my Italian friends calls us to go out on that same evening, we don’t have to invent ‘plans’ for fear of showing that our life is empty. You know we love to spend most of our evenings here, sitting in front of the TV. Actually, upgrading our cable TV menu has flooded us with wonderful movies, and improved my English, although it has almost killed our social life…”
“That was your idea.”
“No, no, no, darling, my idea was just to replace a crummy old little TV set with something civilized.”
“Yes, but then you invaded our sitting room with a monster, this humongous 42 inches plasma. Where the hell am I supposed to place food and beverage for our next parties?”
“Actually, I haven’t finished yet.”
“I know. Don’t come up with that again. No way. Don’t get me started on your freaking sound system with wires all over the place. Don’t even raise the subject.”
“But Marsha, that’s the normal consequence of buying a large-screen TV. What do we make of it, if the sound is not comparable to the vision, at the same excellence level?”
“It’s already stereo.”
“We’re talking ‘home cinema’ here, milady. … ‘Dolby Surround system.’ Remember the private screening we were invited to by the Italian distributor of Woody Allen’s Scoop in his luxurious Palazzo Borghese apartment in Rome?”
“Gee, but that was another planet. They are professionals, that’s their field. We are not movie geeks. Come on.”
“I just saw a five channels 400 dollars sound system in the store near my Rizzoli Bookstore office, on 57th Street.”
“I told you: I don’t want any of your ‘surround’ sound around here. Not that I don’t appreciate your will for improvement, but the only thing I’ll be surrounded by will be wires. See this? They’re already mushrooming all over: the TV cable, the connection to the DVD, the wire for the pay-TV box, the high-speed Internet, the telephone ... There’s such an intricated bush under the plasma screen. It was supposed to save room, but now it’s invading us.”
“It’s wireless.”
“What?”
“Yes, wireless.”
“You mean the five speakers come without wires?”
“Yeah … kind of.”
“Kind of what? The last time we had something wireless around, it was that pirate neighbor of us who stole from our wi-max, getting connected for free and making us pay for his all-night porno browsing and wanderings around the Net.”
“We discovered that almost immediately.”
“Yes, after some wonderful astronomical bills … You don’t like flat rates, do you?”
“The sound system is almost totally wireless, Marsha, I swear.”
“What do you mean ‘almost’? ‘Almost totally’ sounds sooo Italian. Like ‘Almost pregnant’.”
“The rear speakers are wireless.”
“You mean two out of five.”
“Yes ... But that’s the crucial problem we have overcome here, Marsha. Three speakers stay on the wall in front, connected by small threads we can easily disguise along the baseboard. And on this side of the room, behind the sofa, we place the other three pieces.”
“Three? Why one more? For a total of six speakers?”
“One is just a little box getting the radio signal from the other side, and distributing it to the rear speakers.”
“And that horrible big thing you showed me, what’s its name?”
“The bass subwoofer?”
“It’s too big. Where are we going to place it?”
“Did you prefer the old way, when all the speakers where huge?”
“At least they were only two, not six.”
“I love you, Marsha.”
“You stress me, Mauro. Do we have plans for tonight?”
“…”
“Don’t …”
“…”
“Come on, don’t start and touch me, I have to shower, been working all day.”
“I llloove your sexy smell.”
“I know what your plans are, regarding me. They are always the same, when we sit alone on the sofa. You only have sex in your mind.”
“I do have plans for you. I always have plans. I am a natural-born planner, my love. I wouldn’t have ventured in Iraq without a plan, like your president did, my sweet bushie …”

Mauro Suttora

wiki

Thursday, May 15, 2008

Emergenza sicurezza

Rom, clandestini e criminali: tutti in riga

"Colpiremo solo chi viola la legge", assicura il ministro Ronchi, "e per loro non saremo più un Paese disarmato". Ma c' è chi dice: attenzione ai facili capri espiatori

di Mauro Suttora

Roma, 28 maggio 2008

"La nostra priorità è garantire ai cittadini la necessaria protezione. Le azioni previste dal pacchetto puntano a combattere la paura entrata nelle nostre famiglie. La verità è che ormai non ci sentiamo sicuri neanche tra le mura di casa. È ora che gli italiani percepiscano un' inversione di tendenza nella lotta contro l' immigrazione clandestina".

Mentre da molti settori della politica, dell' impegno sociale e della Chiesa si sollevano allarmi sul rischio che la lotta alla criminalità si trasformi in una "criminalizzazione del diverso", Andrea Ronchi, neoministro per le Politiche comunitarie, spiega a Oggi il contenuto del decreto legge sulla sicurezza in approvazione dal Consiglio dei ministri riunito a Napoli mercoledì 21 maggio.

Non avete paura di alimentare razzismo e xenofobia?
"Episodi come quelli avvenuti a Ponticelli, il quartiere di Napoli dove la folla ha assaltato un campo Rom dopo il tentato rapimento di un neonato, non devono più accadere. Ci stiamo muovendo proprio per evitare questo rischio. Il decreto non combatte lo straniero in quanto tale, ma solo quello che non vuole essere identificato per evitare l' espulsione. Vogliamo punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che delinquono sul nostro territorio. Negli ultimi anni siamo diventati il ventre molle del Mediterraneo, la porta d' accesso all' Europa. Adesso questa porta deve essere chiusa e deve cambiare la percezione di lassismo spesso accostata al nostro Paese".

Quali sono le misure previste dal decreto ?
"Il pacchetto è in linea con la legge Bossi Fini sull' immigrazione del 2002, e coniuga solidarietà e legalità. Puntiamo a rendere il meccanismo delle espulsioni più efficace. Deve essere chiaro che chi varca la frontiera può restare soltanto se dimostra di avere un posto di lavoro e quindi un reddito. Gli altri saranno espulsi, con alcune eccezioni come le badanti cui è scaduto il permesso di soggiorno e i rifugiati politici. Inoltre puntiamo a garantire la piena operatività dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt), assicurandone la ricettività ma anche l' umanità del trattamento. In questo senso è importante allungare il limite di permanenza nei Cpt fino a 18 mesi".

C' è il rischio che questo provvedimento possa entrare in contrasto con le leggi europee e gli accordi di Schengen? "Il nostro intento non è certo quello di chiudere le porte ai cittadini europei. D' altra parte il problema non è sentito soltanto dal nostro Paese. Si tratta di una partita delicata, tant' è che le stesse istituzioni europee proprio in questi giorni si avviano a ridiscutere alcune direttive in materia".

Riuscirete a introdurre il reato di immigrazione clandestina ? "Il discorso è aperto, ma punire la clandestinità e la permanenza irregolare degli stranieri che commettono reati sul nostro territorio ritengo sia nel pieno diritto di uno Stato sovrano. Inoltre introdurre questo reato avrebbe un effetto deterrente molto forte sui trafficanti di esseri umani: farebbe capire che l' Italia ha davvero cambiato rotta".

Sì, il governo Berlusconi vuole esordire con un segnale di rigore. Dopo l' indulto (votato da partiti di entrambi gli schieramenti) e l' entrata della Romania in Europa, infatti, i reati sono aumentati. Ed è un fatto che i due terzi degli stranieri nelle nostre carceri oggi abbiano passaporto rumeno (semplici cittadini rumeni, o rom, ovvero zingari).

"Ma non si può fare di tutta l' erba un fascio", si accalora con Oggi da Lanciano (Chieti) il professor Santino Spinelli, docente di cultura rom nelle università di Trieste, Torino e Chieti, e artista con il nome di Alexian, "perché soltanto il 20 per cento dei 130 mila rom che vivono in Italia vengono dalla ex Jugoslavia o dalla Romania. Il resto sono cittadini italiani di antico insediamento. E non è neanche vero che siamo nomadi per cultura. I campi nomadi andrebbero smantellati, sono una forma di apartheid. Ma esistono troppe organizzazioni italiane che percepiscono soldi per "assistere gli zingari". Dateci case normali, piuttosto".

"Io le case le devo dare innanzitutto a chi ne ha diritto, e cioé ai 17 mila residenti anche stranieri che sono regolarmente in graduatoria", ribatte Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano. "Il problema è molto semplice: nei nostri campi rom ci sono duemila posti, ma ultimamente dalla Romania sono arrivate parecchie migliaia di persone. Per questi non c' è spazio, devono andarsene. Anche perché la situazione sta diventando insostenibile: solo a maggio, a Milano nove donne sono state violentate". A Milano non è questione di destra o sinistra: il presidente della Provincia Filippo Penati del Partito democratico dice che bisogna mandar via tutti i 23 mila rom accampati alla bell' e meglio. Quanto a Roma, il nuovo sindaco Gianni Alemanno (Pdl) vuole armare i vigili urbani.

Non è questione neppure di quantità delle forze dell' ordine: fra poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili e guardie forestali, l' Italia è di gran lunga il Paese più presidiato d' Europa. Per lo meno in teoria. Nella realtà, sono troppi gli agenti e i militari che non scendono per strada. Il capo della Polizia Antonio Manganelli chiede: "Dateci personale civile per sbrigare le pratiche burocratiche". Ma bisognerebbe anche snellirle, queste pratiche. Non è possibile, per esempio, che sia ancora in vigore la legge d' emergenza promulgata trent' anni fa, subito dopo il sequestro Moro, che obbliga chiunque vende o affitta una casa a denunciarlo subito in commissariato.

Sette anni dopo gli attentati dell' 11 settembre, la residenza privata dell' ambasciatore statunitense a Roma è ancora presidiata giorno e notte da una pantera della polizia, con due agenti sottratti a compiti più utili. Per non parlare di tutte le scorte ai politici. Poi, c' è tutto il capitolo della giustizia che non funziona. Perché le leggi possono anche diventare più severe, e la polizia ancora più efficiente (a Milano, per esempio, l'80 per cento dei violentatori viene arrestato). Ma se anche i recidivi godono di sconti prima di aver espiato metà della pena, e se la permanenza media in cella per un furto è di sette mesi, qualsiasi successo delle forze dell' ordine viene vanificato dall' eccessivo garantismo delle leggi e della loro interpretazione da parte dei giudici.

Per questo, accanto al ministro Ronchi (perché ormai l' immigrazione è una questione europea) e a quello dell' Interno Roberto Maroni, anche il nuovo ministro della Giustizia Angelino Alfano ha messo a punto nuove norme. L' articolo 656 del codice di procedura penale, per esempio, dovrebbe ora consentire ai plurirecidivi sconti di pena solo nell' ultimo anno. I reati su donne, anziani e bambini avranno minimi di pena più alti. Ed è stata introdotta anche l' aggravante della rapina in casa.

Più in generale, però, c' è la situazione di un Paese come il nostro dove l' immigrazione, contrariamente ad altri Paesi europei come Francia, Inghilterra e Germania, non è stata graduale e "assorbibile". In Italia gli immigrati erano un milione nel 1997, e oggi sono quattro milioni. Un aumento impressionante, che non può non dare luogo a problemi. "I politici italiani sapevano da anni che con l' entrata della Romania in Europa le frontiere si sarebbero aperte automaticamente. La colpa degli attuali rigurgiti razzisti è loro", accusa il professor Spinelli. Che paragona le bombe molotov contro i rom ai pogrom nazisti: "Siamo sempre noi un ottimo capro espiatorio".

Certo, in un Paese che da Roma in giù è controllato dalle mafie nostrane, sarebbe assurdo imputare tutto ai rom o ai rumeni. La grande criminalità è ben altra. Ma purtroppo è quella spicciola a dare più fastidio alla gente comune. In certi quartieri come l' Esquilino a Roma a volte basta anche lo sguardo un po' pesante di uno straniero a far crescere l' insofferenza fra le donne italiane impossibilitate a uscir di casa col buio. "Ma chiamarci razzisti no, questo non lo accetto", dice De Corato, lui stesso emigrato dalla Puglia: "A Milano vivono e lavorano tranquillamente 200 mila stranieri su un milione e 300 mila abitanti: il 15 per cento, quasi come a New York".

Mauro Suttora

Daniela Cardinale e Barbara Mannucci

Per noi la politica è un gioco da ragazze

Parlano le due baby deputate elette nel nuovo Parlamento

Barbara Mannucci (Pdl) e Daniela Cardinale (Pd) hanno solo 26 anni. In questa intervista spiegano di avere idee in comune. E la prima è aiutare i coetanei a non essere più "bamboccioni"

di Mauro Suttora

Roma, 14 maggio 2008

Cos'è la politica ? Barbara Mannucci: "Il mezzo per organizzare la vita pubblica".
Daniela Cardinale: "Lo strumento della democrazia per governare le istituzioni e dare risposte ai problemi dei cittadini".
Cos'è la Casta ? B: "Una classe che si attribuisce privilegi non dovuti".
D: "Una distorsione della democrazia, che permette privilegi ad alcune categorie di cittadini".

Apre il nuovo Parlamento, i volti più freschi sono i loro. E in questa intervista doppia provano a convincerci di essere sì baby onorevoli, ma capaci già di pensare in grande.

La prima legge che proporrai?
B: "Meritocrazia: master postuniversitari gratis per i laureati fra 100 e 110 e lode. Mantenendo i livelli di eccellenza".
D: "Defiscalizzazioni e incentivi per i giovani del Sud che aprono attività artigianali, commerciali o di piccola imprenditoria".

Il tuo incubo ?
B: "Perdere le persone care".
D: "Non riuscire a essere all' altezza di questa nuova e grande responsabilità".
Il tuo sogno ? B: "Sposarmi e avere tre figli". D: "Poter vedere la mia Sicilia nelle stesse condizioni economiche e sociali della Lombardia".
Il giorno migliore della vita ? B: "Quand' è nata mia nipote Francesca, che ha dieci anni". D: "L' elezione a deputata".
Il giorno peggiore ? B: "Quando abbiamo perso le elezioni del 2006 per pochi voti". D: "Da bambina: cadendo da cavallo mi sono procurata una deviazione del setto nasale".
Il politico che ammiri di più ? B: "Berlusconi, ovviamente". D: "Franco Marini: carica umana oltre alle capacità politiche".
Quello che senti più lontano ? B: "Veltroni". D: "Bossi".
Un avversario che ammiri ? B: "Bertinotti, lo stimo molto". D: "Giulia Bongiorno, è seria".
Sei fidanzata ? B: "Sì, da due anni". D: "Sì, da tre e mezzo".
Vuoi fare carriera politica ? B: "Sì". D: "Sì, ma senza sconti".
L' ultimo libro letto ? B: "Me l' ha regalato Tito Boeri: Contro i giovani. Lo ha scritto lui, con Vincenzo Galasso". D: "I Viceré di De Roberto".
Lo scrittore preferito ? B: "Isabel Allende". D: "Leonardo Sciascia".
Il cantante ? B: "Eros e Vasco". D: "Nannini e Antonacci".
L' attore ? B: "Raoul Bova". D: "Michael Douglas".
Il politico straniero preferito ? B&D: "Barack Obama".
Il personaggio storico ? B: "L' imperatrice Sissi". D: "Giulio Cesare".
Se avessi la bacchetta magica... B: "Ridurrei la disoccupazione". D: "Darei lavoro ai tanti giovani che me l' hanno chiesto".
Hai comprato un vestito per il debutto alla Camera ? B: "Sì, un tailleur da 180 euro". D: "No, lo avevo già".
Lo Stato risparmia se... D&B: "Chiude enti inutili".
Lo spreco che aboliresti ? B: "Costose consulenze". D: "Auto blu".
Il privilegio da deputata cui rinunceresti ? B: "Treni e autostrade gratis". D: "Tutti quelli che ci mettono in cattiva luce".
Quello a cui non rinunceresti ? B: "Il permesso per l' auto in centro. Per me è una svolta". D: "L' immunità per i reati d' opinione".
Il film più bello ? B: "Arancia meccanica". D: "Nuovo Cinema Paradiso".
La canzone preferita ? B: "Albachiara, Vasco Rossi". D: "Donna cannone, De Gregori".
Il tuo hobby ? B: "Romanzi sudamericani". D: "Il nuoto".
La tua passione ? B: "La pastasciutta". D: "Il mare".
Sei religiosa ? B&D: "Praticante".
Il personaggio più antipatico ? B: "Michele Santoro". D: "Tremonti. Troppo freddo".
Il più simpatico ? B: "Ezio Greggio". D: "Berlusconi".
Il primo giorno alla Camera com' è stato ? B: "Emozionante". D: "Esaltante, preoccupante".
Il politico italiano più bello ? B: "Giorgio Jannone del Pdl". D: "Casini".
Ti senti raccomandata ? B: "No, faccio politica da 12 anni". D: "Non più di tanti altri".
Fortunata ? B&D: "Sì, senza dubbio".
Che farai con i 14 mila euro di stipendio da deputata ? B: "Così tanti ? Davvero ? Non lo sapevo, giuro...". D: "Tolte le spese, i contributi al partito e per l' assistente, ne rimarranno cinquemila: potrò avere una vera indipendenza dalla famiglia".
Il tuo primo bacio? B: "A ricreazione, 14 anni". D: "Fatemi fare la siciliana...".
Lo slogan che preferisci ? B: "Carpe diem". D: "Si può fare, e si farà prima o poi".
Il politico più elegante ? B: "Barbareschi". D: "D' Alema".
Uno sfizio che ora ti toglierai ? B&D: "Mi compro l' auto nuova".
Il momento peggiore della campagna elettorale ? B: "I primi exit poll, sbagliati". D: "Una mia finta intervista nell' inserto satirico dell' Unità".
Quello migliore ? B: "In Puglia con Gabriella Carlucci, lei mi ha insegnato tanto". D: "Il comizio conclusivo nel mio paese, Mussomeli".
Vivi in famiglia ? B&D: "Sì".
Ti senti "bambocciona" ? B: "No, ho sempre studiato e lavorato. Uscirò di casa solo per sposarmi". D: "No, sono sempre stata impegnata con studio e lavoro".
Che lavoro hai fatto ? B: "Call center, commessa, animatrice nei villaggi turistici". D: "Collaboratrice di un parlamentare regionale".
I tuoi amici sono invidiosi ? B: "Un po' ". D: "No".
Il viaggio dei tuoi sogni ? B&D: "Stati Uniti, in auto".
Una donna politica modello ? B: "Condi Rice". D: "Finocchiaro".
Programma tv imperdibile ? B: "Striscia". D: "Ballarò".
Amore, arte, politica, religione: in ordine di importanza... B&D: "Amore, religione, politica, arte".
Cosa rispondi a chi dice che la politica è sempre sporca ? B: "Sarà mio compito ribaltare questo giudizio". D: "Sporchi sono alcuni politici, ma non la politica".
Beppe Grillo è... B&D: "Un bravissimo comico".
La sorpesa più grande entrando a Montecitorio ? B: "L' aula è più piccola di quel che sembra in televisione". D: "Il palazzo invece è enorme, è una piccola città".
Volete aggiungere qualcosa ? B: "Sono entrati in Parlamento molti giovani. Speriamo di fare politica in modo serio e pulito". D: "A chi pensa che mio padre mi condizionerà, rispondo che gli chiederò consigli. Ma alla fine deciderò da sola".

Mauro Suttora

L'Ici va via (ma poi torna)

Lo Stato rimborsa ai sindaci la tassa sulla casa

Scompare l' imposta più odiata d' Italia. I Comuni, però, non possono rinunciare a quei soldi. Quindi continueremo a pagare in altri modi. E addio federalismo...

di Mauro Suttora

Roma, 14 maggio 2008

Sindaci di estrema sinistra che vogliono abolire l'Ici, d' accordo con Silvio Berlusconi. Sindaci di centrodestra i quali, invece, vorrebbero mantenerla. La promessa del nuovo premier di cancellare l'Imposta comunale sugli immobili scompagina gli schieramenti. "Chi è tornato al Paese dopo quarant'anni in miniera all'estero, e si è costruito la casa da solo impastando il cemento col proprio sudore, non dev'essere colpito da una tassa sulla propria abitazione", dice a Oggi Ippazio Stefàno, sindaco di Taranto, Sinistra Arcobaleno.

"Ma senza l' Ici addio federalismo, e non si possono più premiare i comuni che non sprecano", obietta Attilio Fontana, sindaco di Varese, Lega Nord. Su una cosa però tutti gli 8.100 sindaci d' Italia, destra o sinistra, sono d' accordo: quando il governo toglierà l' Ici sulle prime case, dovrà rimborsare ai comuni una cifra equivalente a quella finora incassata.

"Altrimenti non riusciamo ad andare avanti, perché l' Ici rappresenta più della metà delle nostre tasse e il venti per cento delle nostre entrate", ci spiega Graziano Vatri, Udc, sindaco di Varmo (Udine), uno dei 5.800 comuni italiani con meno di cinquemila abitanti. E così sarà. Lo ha promesso il ministro dell' Economia in pectore, Giulio Tremonti, al sindaco di Firenze Leonardo Domenici, Pd, presidente dell' Anci (Associazione nazionale comuni italiani): i due miliardi e 200 milioni annui di euro sulle prime case che i Comuni riscuotevano direttamente da quindici anni verranno sostituiti da trasferimenti statali.
Non cambia nulla, quindi. Quel che pagavamo ai Comuni due volte l' anno, a giugno e a dicembre, ci verrà tolto con l' Ire (Imposta sui redditi, ex Irpef) e con le altre tante tasse, dall' Iva alle accise sulla benzina.

Dal calderone dei soldi finiti a Roma, lo Stato poi aumenterà di due miliardi i trasferimenti ai Comuni. Cambierà soltanto la nostra percezione: non dovremo più mettere direttamente mano al portafogli. E i lavoratori dipendenti, che non pagano di persona l' Ire perché le tasse vengono loro trattenute automaticamente in busta paga, non si accorgeranno dell' aggravio sulla fiscalità generale. A ben pensarci, l' unica categoria che ci perderà è quella di chi non possiede la casa in cui abita. Anche i non proprietari, infatti, saranno costretti indirettamente a colmare il buco causato dalla scomparsa dell' Ici.

Si ritorna, insomma, a prima del 1992. In quell' anno il governo Amato, sull' orlo della bancarotta, oltre a un prelievo diretto sui conti correnti, si inventò l' Isi (Imposta straordinaria immobili) del 3 per mille sul valore di tutti i fabbricati. L' anno dopo la tassa divenne fissa e, per apparire meno odiosa, la riscossione fu delegata ai Comuni, in nome del federalismo. Ogni Comune da allora può decidere quale aliquota applicare, dal 4 al 7 per mille (8 per gli appartamenti sfitti in città ad "alta tensione abitativa").

Ora rimarrà l' Ici soltanto sulle seconde case e su quelle di lusso, che forniscono un introito di 800 milioni di euro circa all' anno.le conferme di tremonti "L' Ici", spiega il sindaco Domenici, "è la prima entrata dei comuni, dal quale dipendono gran parte dei servizi ai cittadini. È quindi necessario, come confermato da Tremonti, che un suo sgravio trovi una compensazione congrua, adeguata e precisa. Per noi il federalismo fiscale è una priorità assoluta".

L' esenzione dall' Ici avverrà con le stesse modalità che il governo Prodi aveva già previsto, allargando l'esonero dal 40 per cento concesso dal governo di centrosinistra al 100 per cento previsto dal nuovo governo per la prima casa a uso abitativo. Uno studio realizzato da Anci Cittalia dimostra che il 56 per cento dei comuni riscuote direttamente l' Ici, mentre il 38 per cento (quelli medio piccoli) utilizza concessionari. Il 60 per cento dei comuni italiani possiede dati aggiornati della banca dati catastale, con picchi maggiori nel Nord Est. Ma c' è anche un 25 per cento di comuni, equamente distribuiti sul territorio nazionale, che opera su dati non aggiornati, e quindi incassa meno del dovuto.

Clamoroso è il caso di alcune case nei centri storici delle grandi città accatastate come "popolari" invece che "di lusso". "Si parla anche di una riforma della fiscalità sugli affitti", dice Domenici, "con la proposta della tassazione con una cedolare secca del 20 per cento: ecco, chi sarebbe il beneficiario di quel gettito? Il rischio è di tornare a un sistema di finanza derivata, togliendoci autonomia fiscale e finanziaria. E questo è assolutamente contrario al federalismo fiscale".

Non è un mistero che il governo Berlusconi voglia tagliare la spesa pubblica. Togliendo l' Ici ai comuni, e riprendendo il controllo del rubinetto dei soldi, il governo può costringere gli enti locali a risparmiare, semplicemente negando loro i finanziamenti. "Ma per noi spendere di meno è impensabile", ci dice il sindaco leghista di Varese, Fontana. E mostra il suo bilancio, tipico di una città di 80 mila abitanti: una settantina di milioni di euro, venti dei quali coperti con l' Ici.

Fra le uscite, notiamo i tre milioni per la cultura. Ma come, sindaco, anche voi a Varese buttate i soldi pubblici nelle effimere "notti bianche" ?
"Soltanto per gli straordinari dei vigili", assicura Fontana, "tutto il resto è coperto da sponsor privati. Che ci hanno finanziato all' 88 per cento anche le tre mostre dell' ultimo anno: costavano un milione, noi abbiamo messo soltanto 120 mila euro. Quella sul Caravaggio ci è costata solo 10 mila euro. Io faccio di tutto per trovare sponsor... Dico a una banca: vengo alla vostra inaugurazione, ma in cambio sponsorizzateci per 50 mila euro...".

Problemi opposti a Taranto, prima città d' Italia a finire in bancarotta due anni fa con un debito di 637 milioni: il più alto al mondo dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Il nuovo sindaco Stefàno, pediatra prestato alla politica, ha rinunciato allo stipendio e ha dimezzato quello di assessori e consiglieri comunali. "Uno dei risparmi più grossi l' ho ottenuto eliminando le spese di "relazioni pubbliche": 200 mila euro...".

Ecco, se tutti i comuni d' Italia seguissero il suo esempio, le spese calerebbero, le tasse pure, e il nostro Paese non avrebbe il macigno di 1.600 miliardi di debito pubblico, che ci costringe a pagare 70 miliardi annui solo di interessi. Rispetto a questa cifra, i due miliardi dell' Ici abolita sono briciole.

Mauro Suttora

Il terzo genitore

E se il patrigno diventasse un PAPÀ BIS ?

Fa discutere una proposta francese sui diritti dei nuovi compagni di mamma e papà

"Ormai un bimbo su tre ha madre e padre divisi, ma estendere i doveri di paternità ai fidanzati mariti delle donne separate (e viceversa) alimenterebbe le tensioni", dicono gli esperti. Spiega la divorziata Nancy Brilli: "Niente legge, serve il buon senso"

di Mauro Suttora

Roma, 30 aprile 2008

Aiuto, un' altra legge. Non bastavano le polemiche sull' affido condiviso. Ora dalla Francia arriva la balzana idea di permettere allo Stato di intrufolarsi nelle nostre faccende private anche per quanto riguarda la figura del cosiddetto "terzo genitore". Che sarebbero poi gli antichi "patrigni" o "matrigne": personaggi detestabili in certi libri o film, ma inevitabili quando il coniuge di un matrimonio si porta appresso i figli di un legame precedente.

Statisticamente, i figli di genitori divorziati e risposati sono ormai quasi un terzo del totale. Una questione che riguarda tutti, quindi, o per esperienza personale o per le vicende di parenti stretti e amici.Ma cosa prevede, in concreto, la legge sul "terzo genitore" ? Il suo diritto a entrare in scena in casi particolari, come andare a parlare con maestri e insegnanti, accompagnare il minore a una visita medica, poter fargli fare la carta d' identità o un altro documento, portarlo in vacanza all' estero.

"Tutti problemi che si possono risolvere col buonsenso", dice a Oggi Nancy Brilli, madre di Francesco, 7 anni, frutto del suo secondo matrimonio con Luca Manfredi. Ora l' attrice convive con il chirurgo plastico Roy De Vita. "Non c' è bisogno di una nuova legge per fare l' unica cosa che i genitori separati e quelli acquisiti devono fare: mettersi nei panni dei figli, e capire che cosa li fa stare bene e cosa male".

Precisiamo subito che nelle situazioni di conflittualità fra ex lo "statuto del terzo genitore", secondo il progetto in salsa francese, non verrebbe applicato: è necessario infatti il consenso di tutte le parti in causa. "Purtroppo, però", constata Nancy Brilli, "quando i rapporti personali sono deteriorati sorgono questioni di principio di ogni tipo, con avvocati e litigi. In questi casi ottenere il consenso dell' ex è impossibile. Poi però, una volta appianati i problemi di gelosia e, diciamolo, soprattutto quelli di soldi, tutto il resto si risolve".
Anche questioni pratiche come le visite mediche ? "Ma accompagnare il bimbo dal medico non è un diritto: è un dovere di tutti i genitori, naturali o acquisiti ! Vogliamo litigare anche su questo ? Mi pare il minimo della vita", si infervora Nancy Brilli.

E invece non è tutto così semplice. Almeno per i burocrati francesi, che sembrano così ansiosi di regolamentare ogni aspetto anche minimo della nostra vita. Forse non è un caso che questa "mania normativa" si scateni proprio ora che al potere a Parigi è arrivato un presidente, Nicolas Sarkozy, la cui ex moglie Cécilia ha allevato i suoi due figli precedenti. Da un' esperienza personale, quindi, si vorrebbe arrivare a una legge valida per tutti. La scusa ufficiale è sempre la stessa: "Tutelare i diritti". Ma quali ? E di chi ?

Le famiglie allargate come quella dipinta nel serial tv I Cesaroni ci dimostrano che i problemi e le parti in causa sono innumerevoli. I padri separati e divorziati, per esempio. Che già protestano: "Concedere ulteriori diritti d' intervento ai nuovi compagni delle nostre ex ? Ma neanche per sogno", tuonano le loro associazioni, sia in Francia sia in Italia. "Noi siamo già distrutti economicamente dagli assegni di mantenimento a figli ed ex moglie, spesso ricattati da quest' ultima che ci concede i diritti di visita solo in cambio di soldi, soldi che poi vanno a mantenere in parte e certe volte perfino totalmente il suo nuovo compagno, e ora dovremmo permettergli di sostituirsi a noi anche in compiti essenziali come il rapporto con gli insegnanti e con i medici dei nostri figli ? O consentirgli di scorrazzare da solo con loro in vacanza all' estero?"

"Be' , forse in alcuni casi estremi una legge potrebbe tutelare i diritti di alcuni genitori", ci dice Simona Izzo, moglie di Ricky Tognazzi, madre di Francesco Venditti e "terza genitrice" di Sara, la figlia avuta da Ricky con la moglie precedente. "Per esempio, se un giorno la mia storia d' amore con Ricky dovesse finire, vorrei comunque poter continuare a telefonare a Sara ovunque lei sia, così come ho fatto per vent' anni...".

Ma è evidente che qui sono in gioco i diritti (e soprattutto i sentimenti) dei minori. Nel caso di un genitore biologico che vive in un' altra città, se non addirittura all' estero o in un altro continente, va da sé che gli spazi del genitore "sociale" (questa è la definizione politicamente corretta di "patrigno" oggi in Francia) aumentano.
Ancora una volta, però, tutto dipende dai rapporti fra gli ex. Se sono buoni, basterà una procura privata per permettere al nuovo marito di intervenire con insegnanti o medici, soprattutto in caso di emergenza o impossibilità della madre.
Viceversa, se i rapporti fra ex sono burrascosi, non ci sarà legge o statuto che tenga: qualsiasi intromissione del nuovo genitore verrà vista come un' invasione indebita, e anzi verrà addebitata andando a ingrossare i faldoni degli avvocati. Insomma, inutile aggrapparsi alle "praticità" della vita per far risolvere alle leggi problemi che non sappiamo dipanare fra noi.


"Di figura paterna ce n' è una sola"
La psicologa Oliverio Ferraris spiega il "no" al "terzo genitore"

"Oggi si va sempre di più verso l' affido condiviso, per responsabilizzare il genitore biologico. Quindi ampliare per legge gli spazi del "terzo genitore" rischia di aumentare i problemi, invece di risolverli". Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia all' università di Roma, è autrice del libro Il terzo genitore (Cortina, 1997). E commenta così con Oggi il progetto di una nuova legge sul tema: "Spesso i genitori biologici si attaccano molto ad aspetti concreti della vita dei figli con i quali non possono più convivere, comei rapporti con i loro insegnanti o medici, proprio per avere l' impressione di svolgere un proprio ruolo. Difficile, quindi, che ci rinuncino spontaneamente".

E qual è invece il ruolo del "terzo genitore" ? Come può trovare un' identità questa nuova figura familiare, senza usurpare quella del genitore separato ? È possibile superare i conflitti, le gelosie, le reciproche diffidenze ? "Non esistono regole universali, ma solo errori che si possono evitare", risponde la professoressa Oliverio Ferraris.

Mauro Suttora

Wednesday, May 14, 2008

Carmen Lasorella

Libro-intervista ad Aung San Suu Kyi

Roma, 14 maggio

L’immagine che le ritrae assieme risale ormai a dieci anni fa. Ma il tempo sembra essersi fermato per la povera Aung San Suu Kyi, premio Nobel della Pace, che è ancora prigioniera dei generali birmani. Come nel 1998, quando Carmen Lasorella andò a intervistarla a Rangoon. In quel periodo la leader dell’opposizione birmana (e presidente della Birmania, se la giunta avesse rispettato il risultato delle elezioni del 1990) si trovava in uno dei suoi rari momenti di semilibertà. I dittatori infatti per qualche tempo le permisero di uscire una volta al mese dalla sua casa, anche se sotto un costante e soffocante controllo. Così Lasorella potè così incontrarla nella sede di un’ambasciata occidentale, della quale però ancora oggi non vuole rivelare il nome: «Promisi discrezione allora, e la mantengo adesso».

Il testo di quella lunga e bella intervista è stato pubblicato adesso da Bompiani, nel libro Verde e zafferano. A voce alta per la Birmania (euro 16,50). Lasorella lo ha scritto sull’onda dell’emozione che ha percorso il mondo intero lo scorso settembre, quando migliaia di monaci buddisti sono scesi in piazza reclamando libertà. E sono stati massacrati dai militari. Così com’è capitato questo inverno ad altri monaci, quelli tibetani, anch’essi picchiati, incarcerati e torturati dai militari cinesi.

Cos’è che non va, in quelle parti del pianeta? Perché i dittatori e le soldataglie cinesi e birmane, in mancanza di nemici armati, se la prendono con le persone più pacifiche della Terra? La signora Aung San e il Dalai Lama sono i simboli viventi della nonviolenza, eppure vengono trattati crudelmente dai loro avversari. Sembra quasi che i gerarchi comunisti di Pechino (senza l’appoggio dei quali anche quelli di Rangoon cadrebbero) vogliano spingere il Tibet e la Birmania alla rivolta violenta e armata, magari terrorista, visti i risultati nulli di decenni di lotte gandhiane.

Per discuterne siamo andati in via Teulada, nella sede della Rai dove anche Lasorella sta subendo nel suo piccolo, da quattro anni, i suoi «arresti domiciliari» personali, un po’ come Aung San Suu Kyi. «Non scherziamo», si schermisce lei, «paragonare la mia situazione alla sua sarebbe insultante per tutti». Fatto sta che il mobbing patito dall’ex corrispondente dei Tg Rai da Berlino (fino al 2003) e poi conduttrice del programma 'Visite a domicilio' le ha lasciato tutto il tempo necessario per scrivere il libro.

La «pena» che i vertici Rai infliggono ai propri giornalisti in disgrazia per mancanza di padrini politici, infatti, è quella di non farli lavorare. Pena dolcissima, perché lo stipendio viene percepito egualmente (tanto è a carico dei contribuenti), ma allo stesso tempo crudele per una come Lasorella abituata a girare il mondo come inviata di guerra. Tutti ricordano l’imboscata che patì nel ‘95 in Somalia, e che costò la vita all’operatore che l’accompagnava, Marcello Palmisano.

Scalpita impaziente, quindi, la signora 53enne nella sua stanza-prigione dorata della Rai, proprio sopra gli studi dove ogni giorno arrivano gli ospiti per registrare il Porta a porta di Bruno Vespa. E s’immalinconiva ancor di più lo scorso settembre, quando di fronte alle notizie che arrivavano di ora in ora sul suo computer dalla rivolta birmana, lei non poteva prendere e partire.

«Ma partire per dove, poi?», ragiona adesso a voce alta. Perché quando i dittatori massacrano, chiudono immediatamente le frontiere. Nessun giornalista può testimoniare le stragi. Tuttora quella cinese di piazza Tian an men, a quasi vent’anni di distanza, non ha un numero preciso di morti: centinaia? Migliaia? Decine di migliaia? Nessuna immagine, nessun resoconto.

E allora ben venga questa testimonianza della signora più dolce della Terra, quella Aung San Suu Kyi ormai 62enne che vent’anni fa tornò da Londra nella sua Birmania, e da allora si batte eroicamente per la libertà. Il 10 maggio i generali birmani hanno organizzato un referendum su una nuova costituzione, ma sembra solo l’ennesimo trucco di una giunta sanguinaria per mantenere il potere.

«La solidarietà dei popoli per la Birmania è diventata una ciclopica onda anomala», commenta Lasorella nel libro, «ha attraversato tutti i continenti. Ma la reazione politica rimane arenata nelle secche della retorica. Nei palazzi di vetro, a Washington come a Bruxelles, il cinismo degli interessi costruisce gli alibi all’impotenza. Anche di fronte ai bagni di sangue». E fa notare come tutti gli embarghi economici decretati dall’Onu contro la Birmania non riguardino gas e petrolio. Infatti la francese Total in Birmania è di casa. Ma la vera chiave per la liberazione della Birmania è la Cina: finché a Pechino comanderanno i dittatori, i militari di Rangoon saranno protetti.

«Li rivedo, i generali impettiti nelle parate che a Rangoon la tv trasmetteva con sussiego», racconta Lasorella. «Vietato filmare le loro caserme e i loro palazzi perfino dall’esterno, perfino i tassisti sono terrorizzati quando vedono la cinepresa di una turista, come io avevo finto di essere per potere entrare in Birmania».

La giornalista italiana e il suo operatore arrivano a Rangoon su due aerei diversi e in due giorni diversi. Durante l’intervista Aung San si dimostra ispirata, carismatica, convincente, paziente, ma anche pragmatica e a volte perfino sbrigativa. Ha studiato e insegnato nelle università inglesi, quindi inorridisce davanti alla retorica. Lasorella ha avuto il permesso di parlarle un’ora, ma poi pranza con lei, conversa in privato a telecamere spente, e va via dopo un intero pomeriggio dall’ambasciata.

«Com’è giovane!», la descrive la giornalista: «Magra e minuta, vestita con studiata semplicità: un corpetto grigio stile coreano a quadretti, gonna lunga color zafferano, una fascia ricamata larga sui fianchi, i sandali scuri, come la borsa di panno a sacchetto».

La Rai ha trasmesso solo parte dell’intervista, nel programma Prima donna dieci anni fa. Nel libro c’è invece il testo completo, emozionante. Anche perché da anni ormai intervistare la Signora della Birmania è impossibile, e questa rimane una delle rare interviste concesse ai giornalisti del mondo intero. Un documento quasi storico, quindi.

La domanda forse più importante che Lasorella rivolge ad Aung San Suu Kyi è: «Lei, come Gandhi e Martin Luther King, ha scelto la via della nonviolenza. Ma ha di fronte un regime dittatoriale, feroce. Come pensa di rovesciarlo?»
E la signora, pacata: «Come ho detto più volte, da sola non posso ottenere alcun risultato. È necessario l’aiuto di tutti. Abbiamo scelto la nonviolenza perché riteniamo che, diversamente, non renderemmo un buon servizio al nostro Paese. Non vogliamo cambiare regime con la violenza».

Tempi lunghi, quindi. Come Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, rimasto in carcere per 28 anni prima di essere liberato nel 1990 (in curiosa staffetta con Aung San, che quell’anno venne arrestata), e di diventare infine presidente di un Sud Africa libero dall’apartheid.
Non resta che sperare che la Birmania non debba aspettare così tanto.

Mauro Suttora

Thursday, April 24, 2008

Anne Hathaway

Povera Anne, il diavolo veste Prada e Raffaello

Dopo gli ultimi guai, crolla la reputazione del compagno della Hathaway

Lui, Follieri, il giovane italiano che aveva conquistato New York e il cuore dell' attrice (segretaria di Meryl Streep nel famoso film), è stato arrestato per assegni a vuoto. Dopo la scarcerazione dice: "È un equivoco". Ma convincerà almeno la fidanzata ?

di Mauro Suttora

New York, 23 aprile 2008

Padre Pio lo ha protetto pure questa volta, il 29enne Raffaello Follieri da San Giovanni Rotondo (Foggia). Ha fatto in modo che la sua celebre fidanzata, Anne "occhi di cerbiatto" Hathaway, 25 anni, non fosse vicino a lui quando è stato arrestato a New York per emissione di assegni a vuoto. E che assegno: 250 mila dollari, mentre il conto che avrebbe dovuto coprirlo ne aveva soltanto 37. "Uno spiacevole fraintendimento", ha spiegato il legale di Follieri dopo essere riuscito a farlo liberare, "quell' assegno non doveva andare all' incasso, era una semplice garanzia emessa dal mio assistito".

Anne Hathaway è una delle giovani attrici più in voga d' America. L' avevamo intervistata sei anni fa nell' Essex House di Manhattan, quando uscì il suo film Nicholas Nickleby, tratto da un celebre romanzo di Charles Dickens. Non aveva ancora vent' anni, e ci era sembrata una ragazzina indifesa e abbastanza impreparata per la fama che le era appena cascata addosso grazie all' interpretazione di Mia in 'Pretty Princess', il successone planetario targato Walt Disney del 2001.

Poi l' intervista non uscì, perché Nicholas Nickleby non riuscì neppure ad arrivare nei cinema italiani (fu visto in dvd e alla tv). Comunque la stoffa c' era, e da allora la delicatissima Anne di strada ne ha fatta parecchia: il sequel della principessa (Principe azzurro cercasi) nel 2005, ma soprattutto la segretaria della tremenda Meryl Streep in Il Diavolo veste Prada l' anno seguente, e il premio Oscar 'Brokeback Mountain'.

Nel frattempo, la dolce Anne conosce un intraprendente giovanotto italiano appena sbarcato a New York dalla Puglia, se ne innamora e da allora - sono ormai cinque anni - non lo lascia più. Lui sembra molto ricco, e la riempie di attenzioni: viaggi in jet privato, vacanze da sogno negli alberghi più lussuosi del mondo (l' anno scorso al Cala di Volpe di Porto Cervo e a Capri), un appartamentone a due piani nel grattacielo Olympic di Aristotele Onassis sulla Quinta Avenue.

Insomma, per la giovane attrice tendente alla malinconia sembrava essersi avverata una di quelle favole che aveva interpretato sullo schermo. Il principe azzurro si chiamava Raffaello ed era entrato come un caldo uragano latino nella sua vita algida e compassata. "Mi ha salvato lui dalla depressione", ha confessato Anne in un' intervista.

L' anno scorso, però, sono apparse le prime crepe nella vita apparentemente brillante e sopra le righe di Follieri. Che sosteneva di avere fatto fortuna grazie a intermediazioni immobiliari per conto della ricca Chiesa cattolica statunitense. Il suo socio americano, il potentissimo re californiano dei supermercati Ron Burkle, lo denuncia, accusandolo di "finanziare illecitamente la sua vita da re con soldi aziendali".

E pensare che solo pochi mesi prima aveva conquistato la prima pagina del Wall Street Journal. Gestiva infatti un impero immobiliare di qualche centinaio di milioni e finanziava generosamente le iniziative umanitarie dei Clinton ("Bill e Hillary sono amici", si vantava). Il socio Burkle era addirittura impegnato in un braccio di ferro con Rupert Murdoch per la conquista proprio del Wall Street Journal.

Ma l' enfant prodige di San Giovanni Rotondo questa volta fa notizia sulla prima pagina del più autorevole quotidiano finanziario del mondo come protagonista (in negativo) di una presunta truffa: la Yucaipa, la finanziaria di Burkle, lo ha denunciato per avere "coscientemente e sistematicamente" utilizzato a fini personali almeno 1,3 milioni stornati dalle casse della società.

I soldi sarebbero stati usati tra l' altro per "viaggi in jet privato con la fidanzata, per una suite a New York, per cure mediche per i familiari e persino per quelle del labrador di casa". Follieri nega tutti gli addebiti sostenendo che la joint venture con Burkle controlla "diversi immobili di prestigio" e che l' opposizione del finanziere Usa a diverse operazioni ne ha danneggiato i conti "ben più dei presunti reati segnalati dalla denuncia".

Eppure l' idillio tra il raider a stelle e strisce e l' imprenditore pugliese sembrava essere iniziato sotto i migliori auspici. I due si erano conosciuti a metà 2005. Burkle era rimasto folgorato dai piani di Raffaello: comprare terreni e immobili dalla Chiesa (grazie ai buoni uffici di Andrea Sodano, nipote dell' ex segretario di Stato del Vaticano cardinale Angelo Sodano, definito nella denuncia vicepresidente del Follieri group) e trasformarli in abitazioni per i meno abbienti o centri sociali e comunitari.

Burkle aveva messo a disposizione sull' unghia 150 milioni per il progetto. Non si era preoccupato delle accuse di una parte della stampa cattolica Usa, che da tempo aveva messo nel mirino la straordinaria e improvvisa fortuna messa assieme da Follieri. Anzi, aveva rafforzato l' asse con il socio unendo le forze anche sul fronte della filantropia: nel 2006 i due si erano presentati assieme al galà della Clinton Global initiative, dove l' ex presidente americano aveva chiamato sul palco Raffaello, ringraziandolo per il milione donato per vaccinare bambini in Nicaragua. Poi però le cose si sono messe male. I rappresentanti di Burkle si sono stupiti per le continue richieste di capitale di Follieri. E quando hanno messo il naso nei conti sono saltate fuori "stravaganze personali e spese fuori controllo". Due settimane fa, ecco la seconda tegola per Raffaello.

A questo punto tutta New York si chiede: Anne lo mollerà ? Lei ora è a Boston, dove sta girando un film con Candice Bergen e Kate Hudson. Ma neanche lei è più la santarellina di una volta. Ha fatto scandalo apparendo nuda l' anno scorso nel film 'Havoc Fuori Controllo'. E fuori controllo, oltre ai conti del fidanzato Raffaello, sembrano essere anche alcune sue bevute: è stata infatti sorpresa poche settimane fa dai paparazzi del New York Post mentre se ne tornava a casa con ben cinque bottiglie di assenzio acquistate in un negozio di alcolici di Park Avenue. L' assenzio, la droga dei poeti maledetti come Baudelaire, vietata fino all' anno scorso negli Stati Uniti. Che per Anne adesso il Diavolo vesta Raffaello ?

Mauro Suttora

Il Baratto per Santoro

IL VELTRUSCONI DELL'84 CHE PORTO' SANTORO TRA LE BRACCIA DELLA RAI

Michele torna a cavalcare l'antiberlusconismo. In un libro la storia dello scambio Walter-Silvio che fece la sua fortuna

di Mauro Suttora

Libero, 24 aprile 2008

Questa sera Michele Santoro si occuperà di camorra. Non potrà quindi ripetere il clamoroso 4-1 della scorsa settimana, quando nel suo 'Anno Zero' invitò ben quattro ospiti per il centrosinistra (Di Pietro, l'architetto Fuksas, il professor Sartori e il fisso Travaglio) contro il povero Filippo Facci, unico simpatizzante del centrodestra e fra l’altro più bravo a scrivere che a interloquire in tv.

Ma certamente quanto ad antiberlusconismo Santoro si rifarà nelle prossime settimane. Peccato, perché invece il conduttore Rai dovrebbe essere immensamente grato a Silvio Berlusconi. E non solo ricordando il triennio passato alle sue dipendenze (1996-'99), godendo di assoluta libertà per il proprio programma 'Moby Dick' (Santoro, offeso perché il presidente Rai Enzo Siciliano fece finta di non conoscerlo pronunciando la memorabile domanda "Michele chi?", migrò a Mediaset da un giorno all'altro).

In realtà Santoro è una vera e propria "creatura" di Berlusconi. Infatti, se nell'86 Raitre non fosse stata data al Pci in cambio del via libera ai canali Fininvest, lui non sarebbe mai stato chiamato a fare 'Samarcanda'. Sarebbe rimasto un oscuro giornalista-funzionario del Pci.

Ce lo ricorda un bel libro appena pubblicato: 'Il Baratto' di Michele De Lucia (ed. Kaos). È il documentatissimo resoconto di come le intese più o meno larghe fra l'allora comunista Walter Veltroni e Berlusconi siano iniziate già 24 anni fa. Nell'autunno '84, infatti, mentre ufficialmente il Pci strepitava contro lo "strapotere del piduista", Achille Occhetto e Veltroni incontrarono segretamente Berlusconi. Da un anno l'appena 28enne Walter era stato nominato capo della sezione Comunicazioni di massa del Dipartimento propaganda e informazione, che per il Pci erano un tutt'uno. E Occhetto era il suo diretto superiore.
Nell'agosto '84 la Fininvest aveva comprato per 135 miliardi dalla Mondadori il terzo dei suoi canali, Retequattro, salvandola dal fallimento. E Veltroni aveva tuonato: "Stiamo assistendo a un pesante attacco che tende a consegnare l'intero settore dell'emittenza privata nelle mani di uomini implicati nella P2 come Berlusconi".

Indignazione pubblica, ma trattative private. De Lucia infatti ricorda che lo stesso Occhetto rivelerà, anni dopo, l'abboccamento segreto con Berlusconi: "L'incontro - un po' carbonaro - avviene in un'imprecisata 'sera settembrina' del 1984, in un salotto di piazza Navona non meglio specificato, né si sa chi sia l'organizzatore-padrone di casa". Lo staff di Berlusconi è al completo. "Bravi, svegli e manager", li definisce Occhetto.
Il Pci ha appena effettuato il suo primo (e ultimo) sorpasso sulla Dc alle europee: 33,3 per cento contro il 33. "Walter e io siamo gli esponenti del più forte gruppo politico d'opposizione", racconta Occhetto. "Non che non li conoscessimo. Walter ha avuto dei contatti con un esponente del gruppo Fininvest presente all'incontro, ma li ha interrotti perché diffidavamo".
La Fininvest propone: "Si potrebbe affidare alle reti pubbliche tutta l'informazione, mentre noi trasmetteremmo e produrremmo spettacolo. Ci interessa soprattutto la fiction". Occhetto guarda Veltroni e dice: "Ma questa, Walter, è la tua proposta o sbaglio?" "Sì, in realtà è proprio quella".

Nell’ottobre ’84 i pretori di Torino, Roma e Pescara ordinano il sequestro degli impianti Fininvest perché una norma del Codice postale vieta ai privati trasmissioni tv a livello nazionale. Il presidente del Consiglio Bettino Craxi vara un decreto legge per autorizzare provvisoriamente le trasmissioni.

“Il Pci”, scrive De Lucia, “vuole approfittare della situazione per ottenere la Terza rete Rai, con annesso Tg3. (…) Nel gennaio 1985 viene raggiunto un accordo fra il governo e l’opposizione comunista sul decreto Berlusconi. Il 31 gennaio il decreto viene approvato con 262 voti favorevoli e 240 contrari. Il Pci, assicuratosi che il provvedimento avesse la maggioranza, vota no esercitando un’opposizione definita ‘duttile e morbida’.
Falce, martello, coltello, forchetta e bavaglino, nella più pura tradizione consociativa. Il 4 febbraio anche il Senato approva in extremis (il decreto sta per scadere) con 137 voti contro 15. Dopo avere garantito il numero legale durante la discussione, al momento del voto i senatori comunisti lasciano l’aula: una plateale sceneggiata per salvare le apparenze”.

Nel dicembre ’85 il Tribunale di Roma assolve in appello la Fininvest perché le trasmissioni nazionali tv non costituiscono reato. “Il 12 settembre ’86 a Milano, al Festival nazionale dell’Unità”, scrive De Lucia, “si svolge un dibattito cui partecipano Veltroni, Berlusconi, il presidente Rai Sergio Zavoli e l’editore Mario Formenton della Mondadori.
È un minuetto Pci-Fininvest, una corrispondenza di amorosi sensi. Il compagno Veltroni avverte: ‘Non ha giovato al gruppo Fininvest l’eccessivo padrinato politico dato da uno e un solo partito [il Psi, ndr]’”
Insomma: mollate Craxi, e smetteremo di attaccarvi. Berlusconi ringrazia: “Mi fa caldo al cuore l’idea che il Partito comunista, da tempo ormai, si apra alla considerazione di queste realtà con tanto senso concreto, con tanto senso pragmatico…”

Il 5 marzo ’87, infine, il nuovo consiglio d’amministrazione Rai (in cui siedono fra gli altri per la Dc Marco Follini e il futuro presidente Sergio Zaccaria) paga la cambiale promessa a Veltroni: consegna la Terza rete e il Tg3 al Pci, nominando direttore di Raitre Angelo Guglielmi e alla guida del Tg3 il comunista di lungo corso Alessandro Curzi.
Pochi mesi dopo Guglielmi affida a Santoro un programma di approfondimento: ‘Samarcanda’. L’ex maoista di Salerno, poi funzionario del Pci (“Ma litigava con tutti”, ricorda il dirigente Isaia Sales), poi giornalista del quindicinale comunista ‘La Voce della Campania’ (che dirige per un anno fino alla chiusura nell’80), poi redattore all’Unità (“Ma non ha mai scritto una riga”, ha raccontato l’ex collega Antonio Polito), infine rifugiatosi in Rai, ha successo e va avanti fino al ’92.
Poi cambia nome al programma: Rosso e Nero, Tempo Reale. Dopo la parentesi Mediaset ecco Circus, Sciuscià, ora Anno Zero. Si chiama “debrandizzazione”: un vortice di nomi, così alla fine tutti dicono: “da Santoro”. Lo stipendio lievita: 660 mila euro e rotti l’anno scorso. Ma se non ci fosse stato quel baratto Berlusconi-Veltroni 22 anni fa… Ingrato Michele.

Mauro Suttora

Thursday, April 10, 2008

Il caso Valter Vecellio

IN RAI IL PRIMO LOTTIZZATO PUBBLICO

di Mauro Suttora

Libero, 10 aprile 2008

Basta con l’ipocrisia. Tutti sappiamo che (quasi) tutti i giornalisti Rai sono lottizzati. Quindi tanto vale che ciascun partito, capocorrente o padrino si batta pubblicamente per i propri protetti. Senza sotterfugi, senza i «bigliettini» di raccomandazione che costarono il posto di direttore del Tg1 a Gad Lerner. Apertamente, anzi clamorosamente. A infrangere riti e finzioni di Bisanzio è Marco Pannella, che ora digiuna per Valter Vecellio. Il quale passerà così alla storia come il primo giornalista raccomandato ufficiale d’Italia.

Mentre tutti nascondono i propri «referenti» politici, 102 militanti e dirigenti radicali addirittura si affamano per fare avere a Valter, 54enne bravo e burbero vicecaporedattore del Tg2, un programma tutto suo. Anzi un «format», come dicono i fichissimi. Naturalmente il tema di questo programma è all’altezza dei radicali: planetario. Si dovrà occupare nientedimenoche della «violazione dei diritti umani nel mondo e delle lotte messe in atto per affermarli», spiega Rita Bernardini, segretaria dei Radicali italiani.

Insomma, cose come Tibet, Cina, Birmania, Darfur. Sarà quindi un programma sui radicali stessi, che da decenni si battono per cause come queste, e altre ancora più dimenticate come gli uiguri del Turkestan orientale, o i montagnard del Vietnam. Ma tutta questa benemerita attività umanitaria transnazionale ora si concentra in un obiettivo ‘ad personam’ italianissimo, anzi romanissimo, anzi saxarubrissimo: «Chiediamo che si ponga fine alla conventio ad excludendum nei confronti dei radicali, e per questo indichiamo con chiarezza il nome di chi potrebbe dirigere il settore di riforma: un professionista capace e stimato come Vecellio», specifica la Bernardini.

Evviva la sincerità. Vent’anni fa Pannella scandalizzò il mondo eleggendo Cicciolina, e oggi un altro tabù è rotto: quello del cosiddetto ‘servizio pubblico’. In realtà servizio di fazioni privatissime. E allora anche i radicali dopo mezzo secolo di dolente verginità si adeguano. Reclamando, buoni ultimi, il proprio brandello di Libano.

Il bello è che il povero Vecellio, simbolo di questa surreale lotta nonviolenta, ha una sua dignitosissima storia giornalistica. Profugo dalla Libia, cacciato da Gheddafi, dal ’74 lavora a Notizie radicali, l’organo del partito. Negli anni ’70 inventa le prime rassegne stampa d'Italia su Radio radicale, ma nell’82 tradisce Pannella per Craxi assieme al direttore della Radio Lino Jannuzzi, l’ex segretario Geppi Rippa e Marco Boato. Si rifugia all’Avanti! dove per una decina d’anni verga editoriali di fuoco contro i radicali esibendo l’odio degli ex, finché nel ’91 approda al Tg2 in quota Psi.

Poi, anche grazie al comune amore per Leonardo Sciascia (Vecellio è stato presidente dell’«Associazione degli amici» dello scrittore e deputato radicale), è tornato all’ovile. Pannella, come tutti quelli che si sentono un po’ Gesù, adora i figlioli prodighi. Così gli ha affidato la direzione di Notizie radicali. Che Valter firma italianizzando il proprio nome: Gualtiero.

Mauro Suttora

Magdi Allam

LA CONVERSIONE DI ALLAM, CRISTIANO SCOMODO

Nato in Egitto e, da ragazzo, praticante musulmano, il vicedirettore del «Corriere della Sera» ha scelto pubblicamente il cattolicesimo. Afef lo accusa: «Incita all’odio». E anche alcuni cattolici disapprovano. Ecco perché

di Mauro Suttora

Roma, 9 aprile 2008

È stata una settimana di passione, per Magdi Allam. Non quella ufficiale, prima di Pasqua: quella dopo. Dopo la sua conversione dall’islam al cattolicesimo nella notte della veglia pasquale, con battesimo, cresima e comunione impartiti dal Papa in persona, nella basilica di San Pietro. E tanto di riprese tv e foto che hanno fatto subito il giro del mondo, esponendo Magdi Cristiano Allam (questo il nuovo nome che si è scelto), 55 anni, vicedirettore del Corriere della Sera, a nuove critiche e minacce sanguinose da parte di fanatici islamici.

Non che non ci sia abituato, Allam, alle condanne a morte (fatwa). A causa dei suoi articoli da cinque anni vive sotto scorta: tre agenti lo seguono ovunque e stazionano sotto casa. Da pochi mesi è diventato padre, e anche la moglie Valentina Colombo, islamista e traduttrice dall’arabo, deve condividere la sua vita blindata. Si sono sposati un anno fa, si risposeranno in chiesa il 22 aprile (giorno del compleanno di Magdi).

Dopo il suo clamoroso gesto è arrivato anche qualche applauso. Quello del quotidiano progressista israeliano Haaretz, per esempio, che lo definisce «uno degli intellettuali più brillanti e coraggiosi d’Europa». Ma forse è solo riconoscenza, per il libro che Allam ha scritto l’estate scorsa: 'Viva Israele' (ed. Mondadori).

In Italia il centrodestra appoggia Allam. Ma neanche Michele Brambilla, vicedirettore (cattolico) del Giornale di Berlusconi, rinuncia a impartirgli una lezione: «Non si passa da una fede all’altra per motivazioni culturali o sociali o politiche. Si passa a un’altra religione per il solo motivo che la si ritiene vera. Si diventa cristiani non perché si crede che l’occidente sia meglio del mondo islamico, ma perché si crede che Cristo sia risorto. La scoperta di questo avvenimento avrebbe dovuto suggerire ad Allam di manifestare più la sua gioia per la nuova vita che una polemica nei confronti della religione da cui proviene».

Insomma, come nota lo stesso Brambilla, Allam ha subìto il singolare destino di vedersi criticato da tutti: cattolici, laici e musulmani. Fra questi ultimi, particolarmente dura è Afef Jnifen. La quale lo ha accusato su La Stampa: «Allam incita all’odio».

Precisando di non essere mai stata praticante, la bella moglie del presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera spiega: «Non posso più tacere sulla disinformazione riguardo al mondo musulmano che Magdi Allam porta avanti da anni. Non sono interessata alla sua conversione, e così credo la maggioranza degli italiani, ma ho ben chiaro qual è il suo obiettivo. Allam grida al genocidio contro gli ebrei e i cristiani nel mondo islamico. Ci sono stati e ci sono casi, ce lo insegna la Storia. Ma ci sono conflitti anche all’interno di una stessa religione, tra sciiti e wahabiti, tra sunniti e sciiti, tra cattolici e protestanti. Di questo, però, Allam non scrive, come non scrive dei tanti sforzi per favorire il dialogo interreligioso. Lui vuole soltanto alimentare i conflitti, infiammare lo scontro di civiltà per cercare di passare alla storia come simbolo e vittima di queste crisi. È diabolico, ma non ci riuscirà».

«Religione violenta»

Cos’ha detto di così grave, il «diavolo» Magdi ora Cristiano? «Oggi in Italia non è possibile a un musulmano convertirsi al cristianesimo in libertà e sicurezza. E questo è inaccettabile. (...) Sono condannato a morte per apostasia per aver deciso liberamente di abbandonare la mia religione di appartenza, l’islam, ereditata dai miei genitori, e di abbracciare quella cattolica».
Ma la sua frase che ha infiammato il mondo intero è stata: «Al di là del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale».

«Nessuno oserebbe dire che poiché Mussolini e Hitler erano cristiani il cristianesimo sia violento», replica Afef, «ci sono tanti esempi di tolleranza e dialogo che la gente magari non conosce, ma Allam non ne parla mai. Lui cita soltanto esempi di conflitti. Eppure nei giorni scorsi in Qatar è stata aperta la prima chiesa cristiana e negli Emirati Arabi la quinta, mentre in Oman sono quattro quelle già presenti. Ancora, in Tunisia c’è la più vecchia sinagoga di tutta l’Africa, il Marocco ha avuto un ministro del Turismo di religione ebraica così come oggi il re ha alcuni consiglieri che professano quella fede, mentre in Libano la Costituzione dice che il presidente debba essere cristiano. Allam ha troppo astio dentro di sé, mi auguro che ora dopo il battesimo trovi pace interiore».

Era per l’islam moderato

Allam non risponde agli attacchi di Afef, ma spiega: « È sconcertante il fatto che proprio chi come me si era prodigato per affermare in Italia la realtà di un islam moderato si è poi invece trovato ad essere il bersaglio prediletto di estremisti e terroristi islamici che sono attivi all’estero, ma si annidano anche tra noi e sono presenti in seno alla vasta rete di moschee in Italia».

È interessante scoprire il percorso che ha portato Allam alla conversione. Ce lo racconta lui stesso: «A quattro anni mia madre Safeya, musulmana praticante, mi affidò alle cure di suor Lavinia, comboniana. Poi sono stato in collegio dai salesiani dell’Istituto Don Bosco alle medie e al liceo al Cairo. Lì ho letto la Bibbia e i Vangeli, ero affascinato dalla figura di Gesù. Ho avuto modo di assistere alla santa messa ed è anche capitato che, una sola volta, mi avvicinai all’altare e ricevetti la comunione.

«Negli anni ’60 la presenza amorevole e lo zelo religioso di mia madre mi hanno avvicinato all’islam, che allora era una fede tollerante. Nell’Egitto di Nasser religione e politica erano separate. Laico era mio padre Mahmoud, come la maggioranza degli egiziani che avevano l’Occidente come modello. Ma il totalitarismo di Nasser, che mirò all’eliminazione di Israele, portò alla catastrofe l’Egitto e spianò la strada al panislamismo, all’ascesa al potere degli estremisti e all’esplosione del terrorismo. Dopo il mio arrivo in Italia all’inizio degli anni ’70 tra i fumi delle rivolte studentesche e le difficoltà all’integrazione, ho vissuto la stagione dell’ateismo sventolato come fede».

«Decisivo Benedetto XVI»

Laureato in sociologia, Allam diventa giornalista di Repubblica, dove resta fino al 2003. «Poi la Provvidenza mi ha fatto incontrare persone cattoliche praticanti di buona volontà, a cominciare da tanti amici di Comunione e Liberazione, fino all’abbraccio di alti prelati di grande umanità come il cardinale Tarcisio Bertone e, soprattutto, monsignor Rino Fisichella che mi ha personalmente seguito nel percorso spirituale di accettazione della fede cristiana. Ma l’incontro più significativo nella decisione di convertirmi è stato quello con il Papa Benedetto XVI».

Mauro Suttora

Wednesday, April 02, 2008

Toglietevi dalla testa il posto fisso

PER MILIONI DI GIOVANI IL LAVORO E' UN MIRAGGIO

Stipendi da fame, zero diritti,nessuna certezza per il futuro. È il precariato made in Italy.
Lo raccontano un film e un libro. La ricerca di un’occupazione non coinvolge solo ragazzi e neolaureati, ma anche i loro genitori. E la politica che cosa pensa di fare?

di Mauro Suttora

Roma, 28 marzo 2008

«Sette anni fa vinco un concorso per responsabile tecnico audio e luci di un teatro. Lo stipendio era di 19 mila euro a stagione, non male. Ma il direttore di palcoscenico ha fatto di tutto per screditarmi. Da tre anni, con la scusa che il teatro è in deficit, ha affidato le responsabilità audio e luci a due dipendenti di una sua società. Io sono stato degradato a semplice tecnico. E i 19 mila euro diventano ottomila, contratto a progetto. Con questa miseria non posso far vivere la mia famiglia. Alla fine, con le trattenute a mio carico, sono settemila euro per nove mesi. Ho chiesto a un avvocato, ma dice che con questo tipo di contratto non posso fare nulla».

Storie di ordinario precariato. Questo è Paco, ex «ragazzo» ormai trentenne di una città del Sud. Dove la piaga picchia forte, perché mentre nel resto d’Italia la media è del 12 per cento, in meridione ogni cento lavoratori dipendenti sono ben 25 quelli a termine. Che salgono a 30 fra i ragazzi e a 40 fra le ragazze.

Un’incertezza che si propaga al resto della vita, che uccide i sogni delle nuove generazioni, e che ora è entrata anche nel dibattito politico, dopo il consiglio di Silvio Berlusconi a una precaria: «Lei è così carina, potrebbe risolvere i suoi problemi sposando il figlio di un miliardario». Era una battuta scherzosa, ma ha fatto arrabbiare molti.

Nominati ed esclusi

Venerdì 28 marzo debutta nei cinema italiani il nuovo film di Paolo Virzì: 'Tutta la vita davanti'. Racconta le vicende dei precari in un call center: grottesche, divertenti, amare.

«I ragazzi vengono selezionati», racconta Virzì, «e poi, come nei reality show,”nominati” ed “esclusi”. Sembrano accettare questa drammaturgia da programma televisivo, dove nel rito è previsto il momento dell’espulsione, che anzi in Tv fa il picco di ascolto. Sono cambiate perfino le parole, non si parla più di assunzioni e licenziamenti… Troppo spesso oggi il mondo del lavoro per i giovani è o precariato o privilegio, cioè raccomandazione. I figli dei privilegiati agguantano i lavori “fichi”, mentre ai figli degli operai restano i call center a quattro ore al giorno per 400 euro al mese».

Nel film l’attore Valerio Mastandrea è il sindacalista che tenta di far prendere coscienza ai ragazzi dei loro diritti. Ma viene respinto perché tutti hanno paura di perdere il posto, e deriso perché considerato uno «sfigato».
«In questi nuovi posti di lavoro», dice Virzì, «i ragazzi sono ignari delle battaglie secolari di genitori e nonni per conquistare diritti. Sono soggetti a tecniche di selezione del personale ispirate ai provini dei casting, ne accettano le regole selvagge. Dove una volta c’era la formazione al lavoro e alla solidarietà, oggi resta solo una competizione dove vince il più forte, e i più deboli sono sopraffatti».

Gli schiavi moderni

La protagonista Isabella Ragonese, filosofa disoccupata e telefonista, si trova immersa in un mondo dove è un valore sapere tutto del Grande Fratello, mentre non conta niente avere studiato Heidegger. Il capo dell’azienda è interpretato da Massimo Ghini, mentre Sabrina Ferilli è la responsabile delle telefoniste. Tutti immersi in un mondo assurdo di «telemarketing» truffaldino.

«Milioni di ragazzi intorno a noi tutte le mattine si infilano dentro questa giungla», spiega Virzì, «dentro al mondo della sottoccupazione, nelle lande dei senza diritti, a cercare di strappare qualche soldo per campare. Con Tutta la vita davanti non pretendiamo di proporre soluzioni, ma di comunicare attenzione, tenerezza, sgomento e inquietudine. Una speranza il film l’affida alle donne, alle diverse generazioni di donne ferite che forse, con la loro spontanea solidarietà, possono ricostruire un linguaggio di civiltà».

Tutta colpa della legge Treu e poi della Biagi del 2003, che prende il nome dal professore di Diritto del lavoro ucciso dai terroristi due anni prima? «I provvedimenti che hanno reso possibili il lavoro flessibile ed i contratti a progetto erano anche animati da buone intenzioni, ma da soli non bastano», dice Virzì, «perché andrebbero accompagnati da una politica sociale, da una scuola che funziona, da un’università che premia i capaci».

Garanzie e flessibilità

Se a sinistra ci si preoccupa dei precari, a destra si risponde che il lavoro dev’essere flessibile, e che i giovani pagano con la precarietà le eccessive garanzie dei lavoratori più anziani, i quali una volta conquistato il posto fisso sono licenziabili con grande difficoltà.

«La chiave della contrapposizione generazionale, con i giovani non garantiti che bussano alla porta e i vecchi che non vogliono uscire dal mondo del lavoro, non serve a spiegare la realtà», dichiara a Oggi Enrico Letta del Pd, sottosegretario uscente alla Presidenza del consiglio. «Oggi si può essere precari anche a 50 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di vita. Alla flessibilità necessaria e inevitabile del nostro tempo devono accompagnarsi salari adeguati e ammortizzatori sociali per i momenti di difficoltà».

E voi cos’avete fatto? «Il governo Prodi ha messo in campo novità importanti, come la totalizzazione dei contributi, introdotta con la legge 247 del 2007: questo significa che anche periodi lavorativi intermittenti serviranno a costruire una pensione. Non è una novità da poco».

Ma è proprio vero che l’Italia negli ultimi anni si è trasformata in un Paese di precari? «No, non è vero», dice l’ex ministro del Welfare Roberto Maroni per difendere la legge Biagi, «che prevedendo contratti a termine e interinali ha semplicemente favorito l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dato la possibilità di trovare un’occupazione stabile, scongiurando quindi l’alternativa di lavorare in nero, e introducendo una flessibilità regolata. La Biagi non è una legge contro i lavoratori, come la sinistra vuole far credere. Infatti il governo Prodi l’ha sostanzialmente confermata. Si sventola la bandiera del precariato senza dire che l’Italia ha in realtà una percentuale bassa di lavoratori con contratto a tempo determinato: il 12 per cento, contro il 14 di Francia e Germania e il 18 della Spagna».

I vecchi costano troppo

Insomma, niente problemi se anche i giovani d’oggi, come tutti, passano attraverso qualche anno di gavetta e di collaborazioni prima di conquistare un posto fisso. Il problema nasce quando il precariato si prolunga troppo, diventando cronico. «Oppure quando colpisce i quaranta-cinquantenni che vengono espulsi dal mondo produttivo perché costano troppo», avverte Luigi Furini, autore del libro Volevo solo lavorare (ed. Garzanti), in cui racconta le deprimenti vicende di navigati manager sostituiti da giovanotti malleabili che prendono la metà dei loro stipendi. È la «precarietà di ritorno» cui accennava Letta.

«Sono migliaia ormai i casi di lavoratori di grande capacità ed esperienza che incappano in qualche crisi aziendale o piano di ristrutturazione», dice Furini, «e magari accettano con entusiasmo buonuscite anche consistenti, di parecchie decine di migliaia di euro, per dare le dimissioni. Ma poi non trovano più un altro lavoro, i soldi finiscono, e la pensione arriva soltanto a 65 anni per i maschi e a 60 per le donne».

Come quell’ex dirigente Fiat che a 54 anni ha ricevuto la lettera di licenziamento con annesso il «regalo» dei contributi pagati per arrivare alla pensione. Lui ha accettato, ma ha speso tutta la liquidazione per integrare i contributi mancanti. E adesso è ridotto ad aspettare che il tempo passi, e che arrivi presto la vecchiaia. «Altri ex dirigenti si sono messi in proprio, hanno creato un’attività», racconta Furini, «ma alcuni sono finiti dietro al bancone di un bar a servire cappuccini. Certi indossano la divisa del bar, con la scritta “staff” sulla schiena. “Sto dando una mano a un amico”, spiegano, “mi diverto”. Non confesseranno mai che hanno un disperato bisogno di soldi».

Mauro Suttora

Thursday, March 27, 2008

intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio

IN PUGLIA COSTRUIRO' UNA CENTRALE SOLARE

«Progettata dal Nobel Rubbia, è l’alternativa al nucleare», assicura il ministro dell’Ambiente. E, pressato sullo scandalo rifiuti in Campania, svicola: «Preferisco parlare della crisi dei salari»

dal nostro inviato Mauro Suttora

Taranto, 26 marzo 2008

Uno dei ministri più contestati d’Italia arriva in una delle città più inquinate d’Europa e indebitate del mondo. Alfonso Pecoraro Scanio, fondatore dei Verdi, ministro dell’Agricoltura fino al 2001 e oggi dell’Ambiente, è stato invitato a cena a Taranto dalla famiglia del viticoltore Gianfranco Fino.

La casa dei Fino sta in una bella zona di quella che, con i suoi 200 mila abitanti, è la terza città del Sud (Sicilia esclusa), dopo Napoli e Bari: la frazione Lama, in riva al mare. Qui tutte le vie portano nomi di fiori, e in questa primavera precoce già si sentono i loro profumi.

«Ma le acciaierie Ilva, il petrolchimico e la zona industriale producono il nove per cento della diossina e il dieci per cento del monossido di carbonio di tutta Europa», accusa la signora Simona Natale, moglie di Gianfranco. Le statistiche dicono anche che negli ultimi trent’anni i tumori sono raddoppiati: ora sono tre al giorno i tarantini che muoiono di cancro.

Disastro ecologico

L’Ilva (la ex Italsider passata tredici anni fa al gruppo privato Riva) è la più grande acciaieria d’Italia. I suoi impianti si vedono da molti chilometri di distanza. «Negli ultimi anni abbiamo ridotto le emissioni di diossina del 40 per cento, dopo aver chiuso un impianto», si vantano all’Ilva. Ma è tutta la zona industriale a rovinare il menù delle greggi di pecore e capre che pascolano nei verdissimi prati accanto alle ciminiere. «A Taranto sono arrivate 1.800 tonnellate di Pcb cancerogeno da Brescia», accusano i combattivi Verdi locali, che hanno fatto analizzare i formaggi del luogo trovando un po’ di diossina pure lì dentro.

Insomma, ministro, ci potrà mai essere uno «sviluppo ecosostenibile» in una zona come la nostra?

Alla domanda della signora Fino il ministro Pecoraro risponde tranquillo: «Certo. Oggi esistono tutte le tecnologie per ridurre al minimo l’inquinamento. Le emissioni di sostanze nocive devono essere abbattute, e il governo sostiene quelle che lo fanno. Anche perché non si possono chiudere dall’oggi al domani stabilimenti che a Taranto danno da mangiare a tredicimila famiglie. Quindi il lavoro e l’ambiente non sono in alternativa: bisogna salvaguardare sia il primo, sia il secondo».

Lei la fa facile, ma ora Ilva ed Enipower vogliono costruire due nuove centrali, e in più si progetta un rigassificatore. Sarebbe questo lo «sviluppo ecosostenibile»?

«La mia risposta è chiara e semplice: no. A Napoli siamo riusciti a riqualificare l’ex zona industriale di Bagnoli. All’inizio ci criticavano tutti, ma dopo una bonifica fra le più gigantesche d’Europa ci siamo riusciti. Ripeto: non si può pensare di eliminare certe produzioni. Ma, coinvolgendo i sindacati, dobbiamo proteggere la salute senza mettere a rischio il lavoro».

Pecoraro Scanio è capolista della Sinistra arcobaleno in Puglia. I suoi Verdi si sono uniti a Rifondazione comunista, ai Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e agli ex Ds Cesare Salvi e Fabio Mussi. Ne è nata una coalizione che sta a sinistra del Pd (il neonato Partito democratico di Ds e Margherita), e candida premier Fausto Bertinotti.

«Qui in Puglia abbiamo anche il presidente Nichi Vendola», dice Pecoraro, «che governa senza problemi in coalizione con il Pd. È un peccato che a sinistra si sia verificata questa frattura. Io la trovo innaturale, e dopo il voto farò di tutto per ricomporla. Altrimenti consegniamo il Paese a Silvio Berlusconi».

Ma allora perché vi siete messi con l’estrema sinistra?
«È stato il Pd a rifiutarci, noi avremmo voluto rimanere alleati. Certo che, su certe cose per noi fondamentali come il nucleare, non potevamo cedere».

Ecco, il nucleare: siamo circondati da centrali atomiche, in Slovenia e in Francia. Perché ostinarsi a rimanere senza?
«Il fatto che ne abbiano gli altri non è un buon motivo per costruirle noi. E comunque i danni, in caso d’incidente, si subiscono in proporzione alla distanza: più si viveva vicino a Chernobil, più le conseguenze sono state tremende. Il Pd oggi parla di “nucleare di quarta generazione” ma, come dice il Nobel Rubbia, anche quello è radioattivo. Il problema delle scorie non è stato risolto. E comunque il nucleare non è conveniente dal punto di vista economico. Per costruire una centrale ci vogliono 15 anni e costi immensi».

Signora Fino: «Però siete contrari anche all’eolico. A me invece, chissà perché, quei mulini a vento moderni, così alti, piacciono esteticamente».
«Alcuni impianti si possono fare. Però non dobbiamo installare torri gigantesche proprio sulle rotte degli uccelli migratori, che vengono sterminati dalle pale. L’Europa ci condannerebbe».

L’unica alternativa

Non resta che il solare?
«Quella è la vera alternativa, e sempre secondo Rubbia è proprio la Puglia la regione d’Italia più vocata per ospitare pannelli e centrali. Perché è al Sud, ha un sacco di sole, ma anche perché è pianeggiante. Come l’Andalusia in Spagna. Rubbia ha progettato una centrale solare termodinamica, con specchi che concentrano l’energia e conservano il calore anche di notte, a temperature di 500 gradi. Le stesse che ci vogliono per produrre elettricità con carbone, gasolio o nucleare. Ho stanziato venti milioni di euro per il prototipo».

Prende la parola Gianfranco, il marito viticoltore. Il suo cruccio è la burocrazia.
Signor ministro, non le sembra che le procedure burocratiche siano da alleggerire? Perché una piccola impresa deve sottoporsi a due Via (Valutazioni d’impatto ambientale), una regionale e una nazionale, e poi all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), mentre in tutti i Paesi d’Europa la procedura è unica? Io stesso non posso permettermi un ragioniere a tempo pieno, così la burocrazia mi obbliga a passare la metà del mio tempo fra le carte. E non riesco a curare la parte commerciale, che è importante quanto quella produttiva.

«Francamente, non posso che darle ragione. Mea culpa. I controlli ci vogliono, soprattutto nel settore enogastronomico dove è fondamentale garantire la qualità. Ma non devono trasformarsi in vessazioni, moltiplicandosi all’infinito».

Una domanda la vuole porre il padre di Gianfranco, Vito Fino, pensionato.
Le pensioni. Perché non rivalutarle assieme ai rinnovi contrattuali, invece dell’attuale meccanismo che non copre tutta l’inflazione, e fa perdere la metà del potere d’acquisto in pochi anni?

«Guardi, sono tre le categorie che vogliamo proteggere: pensionati, precari e salariati. Tutti devono tornare ad avere un reddito decente. Se loro in questi anni hanno perso potere d’acquisto, evidentemente altre categorie ci hanno guadagnato, perché nel suo complesso l’Italia non si è impoverita. La verità è che c’è stato uno spostamento di reddito in favore della speculazione finanziaria e delle grandi rendite parassitarie, a danno degli introiti da lavoro dipendente. E non lo dico io, ma le statistiche dell’Ocse».

Qui a Taranto abbiamo un negozio della Coldiretti dove gli agricoltori vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori. Non si può ampliare questa esperienza?
«Assolutamente sì. Ogni Comune d’Italia deve offrire almeno un negozio dove i produttori incontrano i consumatori. Così i prezzi si possono abbassare dal 30 al 50 per cento».

Per la verità rispetto a certi mercati rionali i prezzi non sono così bassi.
«La Coldiretti dice il contrario, ma mi informerò».

Riprende la parola la signora Fino: Pd e Sinistra arcobaleno si contendono come candidati gli operai della Thyssen Krupp di Torino. Anche all’Ilva di Taranto ci sono stati morti sul lavoro, ma nessuno ha mai pensato a loro.

«Non si risolve il problema della sicurezza sul lavoro candidando qualche operaio sopravvissuto, così come non si risolve il precariato facendo eleggere un precario, e non si ottengono diritti per le coppie di fatto trasformando qualche omosessuale in deputato. Berlusconi ha inaugurato la politica spettacolo, ma noi non dobbiamo andargli appresso. Non si risponde alla candidatura di un generale con un altro generale, a un industriale con un industriale, a una donna con un’altra donna...».

Record mondiale di debiti

Taranto «vanta» un record mondiale: due anni fa il Comune ha dovuto dichiarare bancarotta con un debito di 637 milioni. Il più alto del pianeta, dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Un anno fa è stato eletto sindaco a furor di popolo (71 per cento dei voti) il pediatra Ippazio Stefàno, della Sinistra democratica di Salvi e Mussi (ora alleati di Pecoraro). Stefàno ha subito rinunciato allo stipendio e dimezzato quello di assessori e consiglieri. Ma le resistenze sono molte: quattro mesi fa ha dovuto licenziare il vicesindaco. E i creditori del Comune alla fine non incasseranno più della metà delle somme loro dovute.
Qui l’ex sindaco fu condannata per un inceneritore...

Ministro, vogliamo parlare un po’ di spazzatura?
Pecoraro si sistema sulla sedia, deglutisce e risponde scherzoso (ma non troppo): «Preferirei di no, perché guastare questo buon clima conviviale? Comunque, nei paesi della Campania dove viene fatta la raccolta differenziata, il problema non esiste».

Mauro Suttora

intervista a Michela Quattrociocche

Michela Quattrociocche, la diva del momento, si racconta in un diario

SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE

«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»

di Mauro Suttora

Roma, 26 marzo 2008

'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.

Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.

Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».

Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».

Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.

M.S.

IL CANTO DELLE SIRENE

Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.

Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.

al ristorante con papà

Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».

Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore