ERO IO L'IMPERATORE DELL'HOLLYWOOD
Oggi, 4 agosto 2010
Lele Mora, l’imperatore dell’Hollywood era lei.
«Per dieci anni, alla domenica sera, stavo seduto nel privé su una poltrona a forma di trono».
Perché?
«Un po’ per scherzo, un po’ perché venendo dalla campagna la cosa mi piaceva. Ma la vera ragione era un’altra».
Quale?
«Ricevo 500 mail al giorno di giovani che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo. Impossibile trovare il tempo di incontrarli tutti».
E allora?
«Venivano loro lì. Così non c’era bisogno del richiamo di nomi famosi per riempire il locale. Bastavo io».
Le serate con coca di cui parlano Belen e la Ribas.
«Mai vista, la cocaina. Io sono assolutamente contro la droga. Neanche fumo e bevo».
Ha fatto tre mesi di carcere per cocaina nel 1989.
«Completamente prosciolto. Fu terribile».
Mai vista, allora, la coca?
«Vedo chi la vende e chi la prende, come tutti. Ti fermano addirittura per dartela, qui sotto in viale Monza come in corso Como».
Dilaga.
«È la piaga di questi anni. Ormai la prendono tutti, anche gli operai al sabato».
E quindi?
«Se chiudono l’Hollywood, dovrebbero chiudere tutti i locali del mondo».
Battaglia persa?
«Mai darsi per vinti. Io aiuto don Mazzi».
Erano complici anche vigili e poliziotti.
«Ci sono sempre gli insospettabili».
Tanto vale legalizzare.
«Non saprei prendere posizione, non sono un politico».
Almeno non ci guadagnano i mafiosi.
«È come per l’alcol».
Cioé?
«Vogliono chiudere le discoteche alle due. Ma i ragazzi bevono lo stesso, nei baracchini».
E attorno a lei?
«Ho allontanato dalla mia agenzia personaggi come la Ribas, la Lodo, la Fabiani».
Perché?
«Non c’era più feeling».
Diplomatico.
«Io ai miei ragazzi ho fatto solo del bene. Ma non tutti sono riconoscenti».
Corona?
«Ai figli si perdona sempre. Anche a quelli più ribelli».
Lo hanno beccato per la terza volta senza patente.
«Non è quello che vuol far credere di essere».
E cos’è, allora?
«Buono, furbo. E malato di denaro».
Siete accusati di Iva evasa su 17 milioni.
«Lui non so. Io per fatture di poche centinaia di migliaia».
Come vanno gli affari?
«Non tanto bene».
Dopo Vallettopoli del 2007?
«Ero crollato da 50 a uno. Trent’anni di lavoro distrutti».
L’hanno abbandonata in tanti?
«No. Molti li ho lasciati io. Ora curo 80 artisti».
Gli addii più dolorosi?
«Simona Ventura e Valter Nudo. Lei dopo 14 anni. Lui mi ha tradito tre volte».
In che senso?
«Se n’è andato, non ha combinato niente, è tornato, l’ho ripreso in agenzia, l’ho rilanciato, mi ha mollato di nuovo».
Chi le è stato fedele?
«Tanti: la Ferilli, Ornella Muti, De Sica, D’Eusanio, Yespica. E poi Casalegno, Caldonazzo, Platinette, Remo Girone...»
Ora come va l’agenzia?
«Ci stiamo riprendendo, ma che fatica».
Questo suo ufficio brilla sempre.
«Lavoro come un matto. L’altra sera ho inaugurato un casinò ad Abbazia, in Croazia. Dodici ore d’auto. Ieri a Verona e poi a Bari».
Stanno finendo gli anni Zero. Lei, con Briatore, è stato il simbolo del decennio.
«Ho creato e lanciato tanti sconosciuti. A Belen ho dato il permesso di soggiorno, era clandestina. E poi la Falchi...»
Metà dei personaggi tv erano suoi.
«Anche tre quarti».
Si pente di qualcosa?
«Ho gonfiato anche “fenomeni” che non sanno fare niente. Senza talento e cultura».
Lei invece colleziona lauree ad honorem, le vedo appese lì dietro.
«Due in Scienza della comunicazione. Un'altra me la stanno per dare a Perugia. E poi la mia».
In?
«Economia e commercio, a Bologna».
Era uno degli uomini più potenti d’Italia.
«I veri potenti sono altri: politici, industriali, banchieri».
Lei no?
«Ho solo lavorato tanto, cominciando da Patty Pravo e Loredana Berté negli anni ‘70».
Un drogato di lavoro.
«Ecco. Questa è la mia unica droga. Vivo per lavorare, invece di lavorare per vivere».
Si vede che le piace.
«Sì, ma ho trascurato la famiglia».
Se l’è portata dietro: sua figlia lavora con lei.
«Anche mio figlio e mio genero».
Quindi non si è mai sentito importante? Neppure sul trono?
«Una volta la mia faccia non la conosceva nessuno. Ora che è nota, non posso fare più nulla».
Cioé?
«Appena faccio pipì fuori dal vasino mi segnalano».
L’hanno segnalata con Berlusconi fra le guglie del Duomo, due settimane fa.
«Sono andato per il concerto di Aznavour. Mi ha invitato un mio amico imprenditore di Roma, anche perché costava duemila euro a biglietto».
Che fa, prende le distanze?
«Assolutamente no. Amo Berlusconi come imprenditore, politico e uomo di parola».
Vota Pdl?
«Politicamente sono mussoliniano, perché lo erano i miei genitori».
Quindi ha votato Storace.
«No. Mussoliniano, non fascista».
L’hanno vista a un comizio Pdl.
«Ho aiutato la campagna di due amici: Podestà per la provincia di Milano, e Giorgio Pozzi a Como».
Insomma, è di destra.
«Ma solo personalmente. Sul lavoro niente politica».
Bipartisan.
«Sì. Infatti la Ferilli è di sinistra».
Oggi è il 2 agosto. Vacanze?
«Detesto il sole. Per questo sono bianco come un latticino»
Mauro Suttora
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Wednesday, August 11, 2010
Wednesday, April 02, 2008
Toglietevi dalla testa il posto fisso
PER MILIONI DI GIOVANI IL LAVORO E' UN MIRAGGIO
Stipendi da fame, zero diritti,nessuna certezza per il futuro. È il precariato made in Italy.
Lo raccontano un film e un libro. La ricerca di un’occupazione non coinvolge solo ragazzi e neolaureati, ma anche i loro genitori. E la politica che cosa pensa di fare?
di Mauro Suttora
Roma, 28 marzo 2008
«Sette anni fa vinco un concorso per responsabile tecnico audio e luci di un teatro. Lo stipendio era di 19 mila euro a stagione, non male. Ma il direttore di palcoscenico ha fatto di tutto per screditarmi. Da tre anni, con la scusa che il teatro è in deficit, ha affidato le responsabilità audio e luci a due dipendenti di una sua società. Io sono stato degradato a semplice tecnico. E i 19 mila euro diventano ottomila, contratto a progetto. Con questa miseria non posso far vivere la mia famiglia. Alla fine, con le trattenute a mio carico, sono settemila euro per nove mesi. Ho chiesto a un avvocato, ma dice che con questo tipo di contratto non posso fare nulla».
Storie di ordinario precariato. Questo è Paco, ex «ragazzo» ormai trentenne di una città del Sud. Dove la piaga picchia forte, perché mentre nel resto d’Italia la media è del 12 per cento, in meridione ogni cento lavoratori dipendenti sono ben 25 quelli a termine. Che salgono a 30 fra i ragazzi e a 40 fra le ragazze.
Un’incertezza che si propaga al resto della vita, che uccide i sogni delle nuove generazioni, e che ora è entrata anche nel dibattito politico, dopo il consiglio di Silvio Berlusconi a una precaria: «Lei è così carina, potrebbe risolvere i suoi problemi sposando il figlio di un miliardario». Era una battuta scherzosa, ma ha fatto arrabbiare molti.
Nominati ed esclusi
Venerdì 28 marzo debutta nei cinema italiani il nuovo film di Paolo Virzì: 'Tutta la vita davanti'. Racconta le vicende dei precari in un call center: grottesche, divertenti, amare.
«I ragazzi vengono selezionati», racconta Virzì, «e poi, come nei reality show,”nominati” ed “esclusi”. Sembrano accettare questa drammaturgia da programma televisivo, dove nel rito è previsto il momento dell’espulsione, che anzi in Tv fa il picco di ascolto. Sono cambiate perfino le parole, non si parla più di assunzioni e licenziamenti… Troppo spesso oggi il mondo del lavoro per i giovani è o precariato o privilegio, cioè raccomandazione. I figli dei privilegiati agguantano i lavori “fichi”, mentre ai figli degli operai restano i call center a quattro ore al giorno per 400 euro al mese».
Nel film l’attore Valerio Mastandrea è il sindacalista che tenta di far prendere coscienza ai ragazzi dei loro diritti. Ma viene respinto perché tutti hanno paura di perdere il posto, e deriso perché considerato uno «sfigato».
«In questi nuovi posti di lavoro», dice Virzì, «i ragazzi sono ignari delle battaglie secolari di genitori e nonni per conquistare diritti. Sono soggetti a tecniche di selezione del personale ispirate ai provini dei casting, ne accettano le regole selvagge. Dove una volta c’era la formazione al lavoro e alla solidarietà, oggi resta solo una competizione dove vince il più forte, e i più deboli sono sopraffatti».
Gli schiavi moderni
La protagonista Isabella Ragonese, filosofa disoccupata e telefonista, si trova immersa in un mondo dove è un valore sapere tutto del Grande Fratello, mentre non conta niente avere studiato Heidegger. Il capo dell’azienda è interpretato da Massimo Ghini, mentre Sabrina Ferilli è la responsabile delle telefoniste. Tutti immersi in un mondo assurdo di «telemarketing» truffaldino.
«Milioni di ragazzi intorno a noi tutte le mattine si infilano dentro questa giungla», spiega Virzì, «dentro al mondo della sottoccupazione, nelle lande dei senza diritti, a cercare di strappare qualche soldo per campare. Con Tutta la vita davanti non pretendiamo di proporre soluzioni, ma di comunicare attenzione, tenerezza, sgomento e inquietudine. Una speranza il film l’affida alle donne, alle diverse generazioni di donne ferite che forse, con la loro spontanea solidarietà, possono ricostruire un linguaggio di civiltà».
Tutta colpa della legge Treu e poi della Biagi del 2003, che prende il nome dal professore di Diritto del lavoro ucciso dai terroristi due anni prima? «I provvedimenti che hanno reso possibili il lavoro flessibile ed i contratti a progetto erano anche animati da buone intenzioni, ma da soli non bastano», dice Virzì, «perché andrebbero accompagnati da una politica sociale, da una scuola che funziona, da un’università che premia i capaci».
Garanzie e flessibilità
Se a sinistra ci si preoccupa dei precari, a destra si risponde che il lavoro dev’essere flessibile, e che i giovani pagano con la precarietà le eccessive garanzie dei lavoratori più anziani, i quali una volta conquistato il posto fisso sono licenziabili con grande difficoltà.
«La chiave della contrapposizione generazionale, con i giovani non garantiti che bussano alla porta e i vecchi che non vogliono uscire dal mondo del lavoro, non serve a spiegare la realtà», dichiara a Oggi Enrico Letta del Pd, sottosegretario uscente alla Presidenza del consiglio. «Oggi si può essere precari anche a 50 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di vita. Alla flessibilità necessaria e inevitabile del nostro tempo devono accompagnarsi salari adeguati e ammortizzatori sociali per i momenti di difficoltà».
E voi cos’avete fatto? «Il governo Prodi ha messo in campo novità importanti, come la totalizzazione dei contributi, introdotta con la legge 247 del 2007: questo significa che anche periodi lavorativi intermittenti serviranno a costruire una pensione. Non è una novità da poco».
Ma è proprio vero che l’Italia negli ultimi anni si è trasformata in un Paese di precari? «No, non è vero», dice l’ex ministro del Welfare Roberto Maroni per difendere la legge Biagi, «che prevedendo contratti a termine e interinali ha semplicemente favorito l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dato la possibilità di trovare un’occupazione stabile, scongiurando quindi l’alternativa di lavorare in nero, e introducendo una flessibilità regolata. La Biagi non è una legge contro i lavoratori, come la sinistra vuole far credere. Infatti il governo Prodi l’ha sostanzialmente confermata. Si sventola la bandiera del precariato senza dire che l’Italia ha in realtà una percentuale bassa di lavoratori con contratto a tempo determinato: il 12 per cento, contro il 14 di Francia e Germania e il 18 della Spagna».
I vecchi costano troppo
Insomma, niente problemi se anche i giovani d’oggi, come tutti, passano attraverso qualche anno di gavetta e di collaborazioni prima di conquistare un posto fisso. Il problema nasce quando il precariato si prolunga troppo, diventando cronico. «Oppure quando colpisce i quaranta-cinquantenni che vengono espulsi dal mondo produttivo perché costano troppo», avverte Luigi Furini, autore del libro Volevo solo lavorare (ed. Garzanti), in cui racconta le deprimenti vicende di navigati manager sostituiti da giovanotti malleabili che prendono la metà dei loro stipendi. È la «precarietà di ritorno» cui accennava Letta.
«Sono migliaia ormai i casi di lavoratori di grande capacità ed esperienza che incappano in qualche crisi aziendale o piano di ristrutturazione», dice Furini, «e magari accettano con entusiasmo buonuscite anche consistenti, di parecchie decine di migliaia di euro, per dare le dimissioni. Ma poi non trovano più un altro lavoro, i soldi finiscono, e la pensione arriva soltanto a 65 anni per i maschi e a 60 per le donne».
Come quell’ex dirigente Fiat che a 54 anni ha ricevuto la lettera di licenziamento con annesso il «regalo» dei contributi pagati per arrivare alla pensione. Lui ha accettato, ma ha speso tutta la liquidazione per integrare i contributi mancanti. E adesso è ridotto ad aspettare che il tempo passi, e che arrivi presto la vecchiaia. «Altri ex dirigenti si sono messi in proprio, hanno creato un’attività», racconta Furini, «ma alcuni sono finiti dietro al bancone di un bar a servire cappuccini. Certi indossano la divisa del bar, con la scritta “staff” sulla schiena. “Sto dando una mano a un amico”, spiegano, “mi diverto”. Non confesseranno mai che hanno un disperato bisogno di soldi».
Mauro Suttora
Stipendi da fame, zero diritti,nessuna certezza per il futuro. È il precariato made in Italy.
Lo raccontano un film e un libro. La ricerca di un’occupazione non coinvolge solo ragazzi e neolaureati, ma anche i loro genitori. E la politica che cosa pensa di fare?
di Mauro Suttora
Roma, 28 marzo 2008
«Sette anni fa vinco un concorso per responsabile tecnico audio e luci di un teatro. Lo stipendio era di 19 mila euro a stagione, non male. Ma il direttore di palcoscenico ha fatto di tutto per screditarmi. Da tre anni, con la scusa che il teatro è in deficit, ha affidato le responsabilità audio e luci a due dipendenti di una sua società. Io sono stato degradato a semplice tecnico. E i 19 mila euro diventano ottomila, contratto a progetto. Con questa miseria non posso far vivere la mia famiglia. Alla fine, con le trattenute a mio carico, sono settemila euro per nove mesi. Ho chiesto a un avvocato, ma dice che con questo tipo di contratto non posso fare nulla».
Storie di ordinario precariato. Questo è Paco, ex «ragazzo» ormai trentenne di una città del Sud. Dove la piaga picchia forte, perché mentre nel resto d’Italia la media è del 12 per cento, in meridione ogni cento lavoratori dipendenti sono ben 25 quelli a termine. Che salgono a 30 fra i ragazzi e a 40 fra le ragazze.
Un’incertezza che si propaga al resto della vita, che uccide i sogni delle nuove generazioni, e che ora è entrata anche nel dibattito politico, dopo il consiglio di Silvio Berlusconi a una precaria: «Lei è così carina, potrebbe risolvere i suoi problemi sposando il figlio di un miliardario». Era una battuta scherzosa, ma ha fatto arrabbiare molti.
Nominati ed esclusi
Venerdì 28 marzo debutta nei cinema italiani il nuovo film di Paolo Virzì: 'Tutta la vita davanti'. Racconta le vicende dei precari in un call center: grottesche, divertenti, amare.
«I ragazzi vengono selezionati», racconta Virzì, «e poi, come nei reality show,”nominati” ed “esclusi”. Sembrano accettare questa drammaturgia da programma televisivo, dove nel rito è previsto il momento dell’espulsione, che anzi in Tv fa il picco di ascolto. Sono cambiate perfino le parole, non si parla più di assunzioni e licenziamenti… Troppo spesso oggi il mondo del lavoro per i giovani è o precariato o privilegio, cioè raccomandazione. I figli dei privilegiati agguantano i lavori “fichi”, mentre ai figli degli operai restano i call center a quattro ore al giorno per 400 euro al mese».
Nel film l’attore Valerio Mastandrea è il sindacalista che tenta di far prendere coscienza ai ragazzi dei loro diritti. Ma viene respinto perché tutti hanno paura di perdere il posto, e deriso perché considerato uno «sfigato».
«In questi nuovi posti di lavoro», dice Virzì, «i ragazzi sono ignari delle battaglie secolari di genitori e nonni per conquistare diritti. Sono soggetti a tecniche di selezione del personale ispirate ai provini dei casting, ne accettano le regole selvagge. Dove una volta c’era la formazione al lavoro e alla solidarietà, oggi resta solo una competizione dove vince il più forte, e i più deboli sono sopraffatti».
Gli schiavi moderni
La protagonista Isabella Ragonese, filosofa disoccupata e telefonista, si trova immersa in un mondo dove è un valore sapere tutto del Grande Fratello, mentre non conta niente avere studiato Heidegger. Il capo dell’azienda è interpretato da Massimo Ghini, mentre Sabrina Ferilli è la responsabile delle telefoniste. Tutti immersi in un mondo assurdo di «telemarketing» truffaldino.
«Milioni di ragazzi intorno a noi tutte le mattine si infilano dentro questa giungla», spiega Virzì, «dentro al mondo della sottoccupazione, nelle lande dei senza diritti, a cercare di strappare qualche soldo per campare. Con Tutta la vita davanti non pretendiamo di proporre soluzioni, ma di comunicare attenzione, tenerezza, sgomento e inquietudine. Una speranza il film l’affida alle donne, alle diverse generazioni di donne ferite che forse, con la loro spontanea solidarietà, possono ricostruire un linguaggio di civiltà».
Tutta colpa della legge Treu e poi della Biagi del 2003, che prende il nome dal professore di Diritto del lavoro ucciso dai terroristi due anni prima? «I provvedimenti che hanno reso possibili il lavoro flessibile ed i contratti a progetto erano anche animati da buone intenzioni, ma da soli non bastano», dice Virzì, «perché andrebbero accompagnati da una politica sociale, da una scuola che funziona, da un’università che premia i capaci».
Garanzie e flessibilità
Se a sinistra ci si preoccupa dei precari, a destra si risponde che il lavoro dev’essere flessibile, e che i giovani pagano con la precarietà le eccessive garanzie dei lavoratori più anziani, i quali una volta conquistato il posto fisso sono licenziabili con grande difficoltà.
«La chiave della contrapposizione generazionale, con i giovani non garantiti che bussano alla porta e i vecchi che non vogliono uscire dal mondo del lavoro, non serve a spiegare la realtà», dichiara a Oggi Enrico Letta del Pd, sottosegretario uscente alla Presidenza del consiglio. «Oggi si può essere precari anche a 50 anni, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di vita. Alla flessibilità necessaria e inevitabile del nostro tempo devono accompagnarsi salari adeguati e ammortizzatori sociali per i momenti di difficoltà».
E voi cos’avete fatto? «Il governo Prodi ha messo in campo novità importanti, come la totalizzazione dei contributi, introdotta con la legge 247 del 2007: questo significa che anche periodi lavorativi intermittenti serviranno a costruire una pensione. Non è una novità da poco».
Ma è proprio vero che l’Italia negli ultimi anni si è trasformata in un Paese di precari? «No, non è vero», dice l’ex ministro del Welfare Roberto Maroni per difendere la legge Biagi, «che prevedendo contratti a termine e interinali ha semplicemente favorito l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e dato la possibilità di trovare un’occupazione stabile, scongiurando quindi l’alternativa di lavorare in nero, e introducendo una flessibilità regolata. La Biagi non è una legge contro i lavoratori, come la sinistra vuole far credere. Infatti il governo Prodi l’ha sostanzialmente confermata. Si sventola la bandiera del precariato senza dire che l’Italia ha in realtà una percentuale bassa di lavoratori con contratto a tempo determinato: il 12 per cento, contro il 14 di Francia e Germania e il 18 della Spagna».
I vecchi costano troppo
Insomma, niente problemi se anche i giovani d’oggi, come tutti, passano attraverso qualche anno di gavetta e di collaborazioni prima di conquistare un posto fisso. Il problema nasce quando il precariato si prolunga troppo, diventando cronico. «Oppure quando colpisce i quaranta-cinquantenni che vengono espulsi dal mondo produttivo perché costano troppo», avverte Luigi Furini, autore del libro Volevo solo lavorare (ed. Garzanti), in cui racconta le deprimenti vicende di navigati manager sostituiti da giovanotti malleabili che prendono la metà dei loro stipendi. È la «precarietà di ritorno» cui accennava Letta.
«Sono migliaia ormai i casi di lavoratori di grande capacità ed esperienza che incappano in qualche crisi aziendale o piano di ristrutturazione», dice Furini, «e magari accettano con entusiasmo buonuscite anche consistenti, di parecchie decine di migliaia di euro, per dare le dimissioni. Ma poi non trovano più un altro lavoro, i soldi finiscono, e la pensione arriva soltanto a 65 anni per i maschi e a 60 per le donne».
Come quell’ex dirigente Fiat che a 54 anni ha ricevuto la lettera di licenziamento con annesso il «regalo» dei contributi pagati per arrivare alla pensione. Lui ha accettato, ma ha speso tutta la liquidazione per integrare i contributi mancanti. E adesso è ridotto ad aspettare che il tempo passi, e che arrivi presto la vecchiaia. «Altri ex dirigenti si sono messi in proprio, hanno creato un’attività», racconta Furini, «ma alcuni sono finiti dietro al bancone di un bar a servire cappuccini. Certi indossano la divisa del bar, con la scritta “staff” sulla schiena. “Sto dando una mano a un amico”, spiegano, “mi diverto”. Non confesseranno mai che hanno un disperato bisogno di soldi».
Mauro Suttora
Saturday, September 08, 2007
intervista ad Albertazzi
Oggi, 17 agosto 2007
È nato un nuovo sodalizio artistico: Giorgio Albertazzi-Sabrina Ferilli. Lui regista, lei nel ruolo di produttrice. Assieme mettono in scena a teatro nel prossimo autunno (debutto in settembre al festival di Benevento) la commedia Sunshine, con Benedicta Boccoli e Sebastiano Somma (vedere il riquadro).
Racconta Albertazzi, 83 anni: «Sono sempre state le donne a cercarmi, nella mia vita. E anche questa volta è stata Sabrina a propormi Sunshine. Credo che da tempo pensasse a me come qualcuno con cui voleva avere a che fare, per creare qualcosa di intelligente. E penso che volesse anche interpretare il ruolo della protagonista, oltre a produrre questa commedia che io avevo già portato al festival di Spoleto verso la fine degli anni Ottanta, con Mariangela D’Abbraccio. È un bel testo dell’italoamericano William Mastrosimone, la tipica commedia brillante statunitense. Fatto sta che Sabrina non può farlo, probabilmente ha troppi impegni. Così ho incontrato Benedicta Boccoli, che cercava un’evasione dai suoi soliti ruoli. Sunshine è una quasi prostituta, lavora in un peep-show. Sono quegli spettacolini dove l’uomo, da dietro un vetro, ordina alla donna di spogliarsi e di mimare a pagamento tutte le sue fantasie erotiche, anche le più spinte, comprese masturbazioni o coiti virtuali. Ma lei, come Nastassia Kinski nel film Paris, Texas di Wim Wenders, è una ragazza tenera e appassionata. È un personaggio che mi piace molto: non è esplicito, mai patetico, ha allo stesso tempo qualcosa d’intenso e leggero».
«Benedicta va benissimo per questo ruolo, possiede un fascino freddo...»
Come parecchie delle attrici che vanno per la maggiore in questo decennio degli anni Zero, da Gwyneth Paltrow a Nicole Kidman.
«Sì. Ho doppiato la voce recitante in un film di due anni fa con la Kidman, Dogville di Lars Von Trier. Ora, durante le prove, cerco di scaldare Benedicta, vorrei metterle il fuoco sotto i piedi. La provoco, la faccio spogliare completamente e rivestire... Perché il tipo di sesso che pratica lei in questo lavoro, stando dietro al vetro, è avulso dall’amore: quasi solo ginnastica, e infatti Benedicta ha fatto acrobazie al circo in passato. Sunshine ama in modo straordinario non poter essere toccata dai suoi spettatori, si sente una diva. Un professore suo cliente le legge poesie, un ragazzino s’innamora schizzando sperma sul vetro... E a me piace sciogliere il suo personaggio, scomporlo e decomporlo, finché alla fine Sunshine lascerà il marito perché lui ha osato uccidere un’aragosta, che lei considerava un animale domestico. E si innamora di Sebastiano Somma».
Albertazzi gran seduttore, la lista delle donne che ha amato è infinita: da Bianca Toccafondi ad Anna Proclemer, da Aba Cercato a Pia de’ Tolomei, fino a Elisabetta Pozzi, Mariangela D’Abbraccio, Fiorella Ceccacci in arte Rubino, oggi deputata di Forza Italia.
Maestro, lei che ha conosciuto la bellezza e frequentato l’amore in tutte le sue varianti, come descriverebbe la sua nuova produttrice?
«Premesso che ormai sono au dessus de la melée, al di sopra della mischia, Sabrina Ferilli possiede il fascino irresistibile della simpatia romana. Oltre a essere bellissima, riesce a sedurre istantaneamente con la sua risata da tragedia greca, meravigliosa ma non di sollievo: con qualcosa, appunto, che sa di tragico. Sembra una riedizione giovanile di Anna Magnani, solo che quella era figlia della guerra, mentre lei lo è del dopoguerra».
Beh, il paragone rischia di non essere un gran complimento: la Magnani era così bella?
«Ma scherza? Aveva una pelle stupenda, bianchissima, oltre alla bellezza dell’intelligenza, della simpatia, della spontaneità. Ricordo che prima dei David di Donatello le feci vedere in proiezione privata il mio L’’anno scorso a Marienbad. E lei a metà mi disse: “Lo sai che non ho capito un cazzo? Quindi ora sei a cavallo: potrai fare tutti i film che vanno di moda adesso, quelli in cui non si capisce nulla...”»
Cosa le piace di più, della Ferilli?
«Nei suoi occhi c’è tutta la bellezza di Roma antica, la Roma classica. La novellistica del Novecento attribuisce una potenza misteriosa alla sguardo delle donne, e nel suo c’è tutto, perché è allo stesso tempo ridente e irridente. Sabrina potrebbe essere la figlia di un imperatore, che so, Ottaviano...»
E per fortuna non ha detto Adriano, le cui Memorie Albertazzi sta portando in scena in tutto il mondo da diciotto anni (prossimo appuntamento New York). Rischierebbe di essere una predilezione incestuosa.
«Ma no, è la castità la forma più voluttuosa di godimento possibile. Detto questo: le cosce nelle donne sono la prova dell’immortalità. Con quelle della Ferilli entriamo nell’architettura pura, materia in cui sono laureato: posseggono, come dire, un rivestimento estetico della funzione che risulta mirabile. Mi spiego meglio: il seno non riesce a nascondere la sua funzione principale, che è quella di allattare. Invece, grazie alle cosce, è prodigioso immaginare lo slittamento verso l’alto, verso qualcosa di irraggiungibile. Perché le cosce delle donne, così come le gambe, i ginocchi o i menti, entrano nello spazio, ma senza occuparlo...»
Mauro Suttora
È nato un nuovo sodalizio artistico: Giorgio Albertazzi-Sabrina Ferilli. Lui regista, lei nel ruolo di produttrice. Assieme mettono in scena a teatro nel prossimo autunno (debutto in settembre al festival di Benevento) la commedia Sunshine, con Benedicta Boccoli e Sebastiano Somma (vedere il riquadro).
Racconta Albertazzi, 83 anni: «Sono sempre state le donne a cercarmi, nella mia vita. E anche questa volta è stata Sabrina a propormi Sunshine. Credo che da tempo pensasse a me come qualcuno con cui voleva avere a che fare, per creare qualcosa di intelligente. E penso che volesse anche interpretare il ruolo della protagonista, oltre a produrre questa commedia che io avevo già portato al festival di Spoleto verso la fine degli anni Ottanta, con Mariangela D’Abbraccio. È un bel testo dell’italoamericano William Mastrosimone, la tipica commedia brillante statunitense. Fatto sta che Sabrina non può farlo, probabilmente ha troppi impegni. Così ho incontrato Benedicta Boccoli, che cercava un’evasione dai suoi soliti ruoli. Sunshine è una quasi prostituta, lavora in un peep-show. Sono quegli spettacolini dove l’uomo, da dietro un vetro, ordina alla donna di spogliarsi e di mimare a pagamento tutte le sue fantasie erotiche, anche le più spinte, comprese masturbazioni o coiti virtuali. Ma lei, come Nastassia Kinski nel film Paris, Texas di Wim Wenders, è una ragazza tenera e appassionata. È un personaggio che mi piace molto: non è esplicito, mai patetico, ha allo stesso tempo qualcosa d’intenso e leggero».
«Benedicta va benissimo per questo ruolo, possiede un fascino freddo...»
Come parecchie delle attrici che vanno per la maggiore in questo decennio degli anni Zero, da Gwyneth Paltrow a Nicole Kidman.
«Sì. Ho doppiato la voce recitante in un film di due anni fa con la Kidman, Dogville di Lars Von Trier. Ora, durante le prove, cerco di scaldare Benedicta, vorrei metterle il fuoco sotto i piedi. La provoco, la faccio spogliare completamente e rivestire... Perché il tipo di sesso che pratica lei in questo lavoro, stando dietro al vetro, è avulso dall’amore: quasi solo ginnastica, e infatti Benedicta ha fatto acrobazie al circo in passato. Sunshine ama in modo straordinario non poter essere toccata dai suoi spettatori, si sente una diva. Un professore suo cliente le legge poesie, un ragazzino s’innamora schizzando sperma sul vetro... E a me piace sciogliere il suo personaggio, scomporlo e decomporlo, finché alla fine Sunshine lascerà il marito perché lui ha osato uccidere un’aragosta, che lei considerava un animale domestico. E si innamora di Sebastiano Somma».
Albertazzi gran seduttore, la lista delle donne che ha amato è infinita: da Bianca Toccafondi ad Anna Proclemer, da Aba Cercato a Pia de’ Tolomei, fino a Elisabetta Pozzi, Mariangela D’Abbraccio, Fiorella Ceccacci in arte Rubino, oggi deputata di Forza Italia.
Maestro, lei che ha conosciuto la bellezza e frequentato l’amore in tutte le sue varianti, come descriverebbe la sua nuova produttrice?
«Premesso che ormai sono au dessus de la melée, al di sopra della mischia, Sabrina Ferilli possiede il fascino irresistibile della simpatia romana. Oltre a essere bellissima, riesce a sedurre istantaneamente con la sua risata da tragedia greca, meravigliosa ma non di sollievo: con qualcosa, appunto, che sa di tragico. Sembra una riedizione giovanile di Anna Magnani, solo che quella era figlia della guerra, mentre lei lo è del dopoguerra».
Beh, il paragone rischia di non essere un gran complimento: la Magnani era così bella?
«Ma scherza? Aveva una pelle stupenda, bianchissima, oltre alla bellezza dell’intelligenza, della simpatia, della spontaneità. Ricordo che prima dei David di Donatello le feci vedere in proiezione privata il mio L’’anno scorso a Marienbad. E lei a metà mi disse: “Lo sai che non ho capito un cazzo? Quindi ora sei a cavallo: potrai fare tutti i film che vanno di moda adesso, quelli in cui non si capisce nulla...”»
Cosa le piace di più, della Ferilli?
«Nei suoi occhi c’è tutta la bellezza di Roma antica, la Roma classica. La novellistica del Novecento attribuisce una potenza misteriosa alla sguardo delle donne, e nel suo c’è tutto, perché è allo stesso tempo ridente e irridente. Sabrina potrebbe essere la figlia di un imperatore, che so, Ottaviano...»
E per fortuna non ha detto Adriano, le cui Memorie Albertazzi sta portando in scena in tutto il mondo da diciotto anni (prossimo appuntamento New York). Rischierebbe di essere una predilezione incestuosa.
«Ma no, è la castità la forma più voluttuosa di godimento possibile. Detto questo: le cosce nelle donne sono la prova dell’immortalità. Con quelle della Ferilli entriamo nell’architettura pura, materia in cui sono laureato: posseggono, come dire, un rivestimento estetico della funzione che risulta mirabile. Mi spiego meglio: il seno non riesce a nascondere la sua funzione principale, che è quella di allattare. Invece, grazie alle cosce, è prodigioso immaginare lo slittamento verso l’alto, verso qualcosa di irraggiungibile. Perché le cosce delle donne, così come le gambe, i ginocchi o i menti, entrano nello spazio, ma senza occuparlo...»
Mauro Suttora
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