Antropologia degli abitanti e autori di un labirinto
RITRATTO DEGLI INSTANCABILI FUNZIONARI DELLE NAZIONI UNITE, CHE DA 58 ANNI COSTRUISCONO GROVIGLI BUROCRATICI
di Mauro Suttora
Il Foglio, 7 maggio 2003
New York. Benvenuti fra gli onusiani. Non sono gli abitanti di un altro pianeta, bensì i rappresentanti di tutti gli Stati del nostro (pianeta), impegnati da 58 anni a realizzare un labirinto burocratico finora immaginato soltanto in letteratura, da Nikolaj Gogol’ a Franz Kafka, da George Orwell ad Aldous Huxley.
Già nel 1973 il IX Congresso internazionale delle Scienze antropologiche ed etnologiche a Oshkosh (Wisconsin) stabilì ufficialmente che una delle principali cause del mancato sviluppo del Terzo mondo è la burocrazia delle agenzie Onu. Verdetto imbarazzante, visto che nelle Nazioni Unite il 90 per cento delle risorse umane (oggi arrivate a 65 mila dipendenti fissi, più decine di migliaia di consulenti) e finanziarie (circa dieci miliardi di euro all’anno) sono destinate proprio al Terzo mondo.
Da allora le cose non sono migliorate. La crescita dell’Onu è stata impetuosa e inarrestabile: nel 1946 le sue agenzie erano tre (Fao, Unesco e Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro), oggi sono 27. Per raccapezzarsi, nel 2001 è nato un comitato di coordinamento, l’United Nations System Chief Executives Board (Ceb), assistito a sua volta da due altri comitati l’High Level Committee on Programmes (Hlcp) e l’High Level Committee on Management (Hlcm).
Tuttavia, chi vuole esaminare scientificamente la struttura delle Nazioni Unite si trova di fronte a grosse difficoltà “Nonostante la proliferazione di organismi e conferenze”, spiegano David Pitt e Thomas Weiss, curatori del libro “The nature of UN bureaucracies” (ed. Croom Helm, Londra), gli archivi interni Onu sono chiusi agli studiosi, i dipendenti e anche gli ex hanno l’obbligo di riservatezza, i consulenti non parlano perché sono ricattabili”.
Johann Galtung, già rettore dell’università dell’Onu a Tokyo, spiega qual è l’ethos, la cultura che sta alla base dell’organizzazione: “Vengono prodotte a volte ricerche eccellenti per esempio, gli studi epidemiologici dell’Oms o quelli sulla storia mondiale dell’Unesco. Ma l’approccio dell’Onu è necessariamente ‘statocratico’, mentre gran parte della vita del mondo sta fuori dagli Stati. Le Nazioni Unite si comportano come un sindacato di governi è sacrilego che un dirigente Onu critichi uno Stato con nome e cognome, soprattutto il proprio, ed è impossibile che lo faccia se si tratta di uno Stato privo di libertà politiche. Così, data la ricchezza di sapere ed esperienza accumulata da molti funzionari, prevale una frustrazione diffusa che si supera soltanto quando un organismo è guidato da un personaggio capace di muoversi al di là dei governi”.
Questo capita durante rari periodi di grazia ma anche di conflitto, come quelli della irlandese Mary Robinson commissaria per i Diritti umani o del volitivo francese Bernard Kouchner in Kosovo. Eccezioni decisioniste presto riassorbite dal grigiore del funzionariato basta scorrere la lista degli attuali capi delle 27 agenzie e programmi Onu per notare la mancanza di personalità politiche di rilievo, con l’eccezione del placido ex premier olandese Ruud Lubbers commissario per i Profughi, e della diafana norvegese Gro Harlem Brundtland all’Oms.
“I dirigenti Onu – accusa Galtung – si guardano bene dall’esercitare una qualsiasi leadership. Preferiscono adagiarsi in una routine di mediatori che cercano di galleggiare alleviando tensioni, e vengono ottimamente ricompensati per questo io, ad esempio, guadagnavo il triplo del premier del mio paese, la Norvegia. In più, i capi Onu godono di prerogative prenapoleoniche, quasi feudali comando assoluto sullo staff che lavora e pubblica documenti a loro nome, organizzazione verticale, contesto autoritario… Ai dipendenti Onu non è neppure permesso ricorrere ai tribunali per le cause di lavoro. In caso di doglianze esiste un foro interno che sembra funzionare più per gentile grazia che tramite regole di diritto”.
La sociologia interna delle Nazioni Unite tratteggiata da Galtung è spietata: “Il funzionario medio è il cosiddetto Mamu Middle Aged Man University educated. A 60 anni scatta inesorabile la pensione. Cosicché quando qualche agenzia Onu proclama l’Anno o il Decennio dell’Anziano, del Giovane o della Donna, si tratta veramente di un’esperienza esotica per l’apparato, composto per lo più da cinquantenni con le idee di trent’anni fa. I capi desiderano solo sopravvivere per essere confermati alla scadenza del mandato. Nelle lotte interne per la carriera hanno cinque scelte: giocare i governi contro il segretario generale, oppure un governo forte contro i piccoli, oppure molti piccoli contro un grande minacciando di togliere voti, oppure appoggiarsi alle Ong, le Organizzazioni non governative, oppure allearsi col segretario generale.
Le tre ultime manovre vanno effettuate congiuntamente, pena l’inutilità. Per soddisfare ogni appetito si frammentano le competenze e si moltiplicano gli organismi nelle Nazioni Unite non soltanto una mano non sa cosa fa l’altra, ma neppure un dito cosa fa l’altro dito. Ecco quindi innumerevoli riunioni di ‘coordinamento’, il passatempo preferito dei burocrati. Ma raramente uno di loro legge qualche studio che ha commissionato i documenti servono soltanto come incentivi per ulteriori documenti, sono sempre ‘esploratori’, per non esaurire la possibilità di confezionarne altri”.
Per evitare la leggendaria accidia dei dipendenti a tempo indeterminato (ma anche per vantare riduzioni di staff nelle proprie statistiche ufficiali), l’Onu ricorre sempre di più ad assunzioni temporanee. Il risultato è che tutti, per farsi rinnovare il contratto, si conformano al presunto volere del capo. Rimangono memorabili certi rapporti spediti dal Kosovo a New York, che quasi non menzionavano i guerriglieri albanesi del Kla diventati i reali padroni del territorio.
Precari o stabili, i ranghi si allargano comunque a un certo punto nei villaggi Ujama della Tanzania si contavano più ricercatori delle Nazioni Unite che abitanti. E si allungano i titoli dei seminari. Il record, segnalato da Geoffrey Steves sul giornale canadese Globe and Mail, appartiene all’“United Nations Seminar on the Existing Unjust International Economic Order of the Economics of the Developing Countries and the Obstacle that this represents for the Implementation of Human Rights and Fundamental Freedoms”, tenuto negli anni Ottanta dopo una trattativa serrata su ogni singola parola.
Il problema è che fino al crollo del comunismo il gioco era semplice e ovvio dentro l’Onu Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiavano, e i non allineati propendevano più per l’orbita sovietica che per il mondo libero. Ma oggi, se è inevitabile che tutti i membri dell’Onu siano Stati, non è detto che tutti gli Stati ne debbano essere membri. L’Oas (Organizzazione degli Stati americani) dal 1962 ha sospeso Cuba, in quanto dittatura. L’Avana partecipa alle riunioni, ma senza diritto di voto. “Le Nazioni Unite, invece, sono la nuova Bisanzio”, denuncia il professor Pitt, già dirigente e consulente Onu, Oms, Fao, Unesco e Oil. “La disillusione nei confronti del multilateralismo è ampia anche nel Terzo mondo, non soltanto a Washington. E infatti molti paesi preferiscono gli aiuti bilaterali. Quanto agli Stati Uniti, provano ora la stessa sensazione ben descritta da Lord Robert Cecil, ministro britannico, Nobel della Pace nel 1937, che pure era un grande sostenitore della Società delle Nazioni Ginevra è uno strano posto dove funziona una nuova macchina che permette ad alcuni stranieri di influenzare e perfino controllare la nostra azione internazionale’”.
Se poi questi stranieri si rivelano fallimentari quando si occupano dei loro due compiti principali, pace e sviluppo, la nuova superburocrazia perde le qualità descritte da Max Weber e assume invece le sembianze di una patologia sociale alla Robert Merton. Nel Palazzo di Vetro a New York e in quello della Pace a Ginevra ogni documento dev’essere approvato da dieci o più persone. Qualche centesimo in più di tariffa postale dev’essere autorizzato a livello di direttore generale. In compenso, le Nazioni Unite si autoinvestono di poteri quasi biblici (“sradicare la fame, le malattie, l’analfabetismo”) e orizzonti d’oro (“entro cinque anni, dieci, venti”).
Di solito, dopo aver stabilito scintillanti traguardi, tutto si riduce a un costosissimo e affollatissimo congresso in qualche località pittoresca tipo Alma Ata, Rio o Durban, dove vengono annunciati ulteriori euforici obiettivi. Peccato che i dati Onu siano a volte selvaggiamente sbagliati: in un rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Program) la stima sul legno usato come combustibile nell’Himalaya varia di un fattore 67. “Il grave di queste mitologie”, ironizza Pitt, “non è che siano false o sospette, ma che vengano così ampiamente accettate”.
Un esempio? La cantilena no global sui miliardi di persone che sarebbero “costrette a sopravvivere con un solo dollaro al giorno”. Senza specificare che in parecchie zone rurali del Terzo mondo un dollaro al giorno permette di vivere decentemente.
Vivono ottimamente, in ogni caso, i funzionari Onu. “Un mediocre tecnico indiano, che potrebbe essere utile per le sue competenze qui da noi”, spiega Hari Mohan Mathur, antropologo di Jaipur, “viene assunto dall’Onu e spedito in Sierra Leone a guadagnare uno stipendio dieci volte superiore a quello che prenderebbe a casa sua, per un lavoro che esegue male. Contemporaneamente, un ‘esperto’ Onu della Sierra Leone viene mandato in India. Risultato: si sviluppano soltanto i salari di questi due signori. Inoltre, i loro alti livelli di vita li alienano completamente dalle società in cui lavorano e, se provengono dal Terzo mondo, anche da casa propria non ci vorranno mai più tornare. Diventano come fiori senza radici che appassiscono. La soluzione? Abolire le quote nazionali nelle assunzioni Onu, e organizzare corsi e concorsi locali, basati sul merito. Con lo stipendio pagato a un esperto Onu, ne possiamo assumere trenta indiani”.
Mauro Suttora
(4. continua)
Wednesday, May 07, 2003
Tuesday, April 29, 2003
Onu/3: disastro Kosovo
Il fallimento delle Nazioni Unite in Kosovo, e i motivi per cui non se ne vogliono andare
Il Foglio, 29 aprile 2003
New York. Molti vorrebbero che l’Onu amministrasse l’Iraq. Ma qual è il bilancio della missione di peacekeeping (“mantenimento della pace”) delle Nazioni Unite in Kosovo?
“Poveri iracheni, se l’Onu arriverà anche da loro”, commenta Beqe Cufaj, 33 anni, giornalista e scrittore kosovaro. Dopo quattro anni di protettorato Onu, infatti, il Kosovo ha ancora l’economia a pezzi. Anzi, con la diminuzione degli aiuti internazionali la situazione sta peggiorando. Ogni giorno l’elettricità manca per ore, anche se le centrali elettriche kosovare non erano state bombardate dalla Nato quattro anni fa. “Prima esportavamo la nostra energia elettrica in Macedonia e Grecia, ora siamo al buio”, ha denunciato il 23 aprile Nexhat Daci, presidente del Parlamento.
Finora l’amministrazione delle Nazioni Unite ha speso nove miliardi di euro per ricostruire il Kosovo. Ma molti soldi sono finiti nel nulla sta per iniziare il processo contro Joseph Trutschler, un tedesco 36enne nominato presidente della società elettrica kosovara, accusato per tangenti da quattro milioni e mezzo di euro.
A capo della missione Unmik (United Nations Mission Kosovo) c’è da un anno il 53enne tedesco Michael Steiner, un diplomatico succeduto all’altrettanto opaco danese Hans Haekkerup, che resistette solo pochi mesi. Prima di loro si era misurato con il Kosovo il francese Bernard Kouchner.
Questo turbinio di capi si aggiunge a quello delle sigle. L’Onu ha infatti delegato alla Ue la ricostruzione e lo sviluppo economico, mentre il compito di riorganizzare la vita politica è stato subappaltato all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), ente dalla dubbia utilità con sede a Vienna è un’ossificazione della Conferenza di Helsinki del 1975, sopravvissuto alla fine del loro la guerra fredda.
L’Osce ha in qualche modo portato a termine il suo compito, con i suoi 1.500 dipendenti ha organizzato le elezioni locali e poi le politiche nel 2001, che hanno eletto presidente Ibrahim Rugova. Presidente di che cosa, però, non si sa bene, perché lo status del Kosovo è ancora tutto da decifrare in teoria fa ancora parte della federazione Serbia-Montenegro, ma nella realtà è ormai indipendente. Resta la questione della minoranza serba nella zona settentrionale di Mitrovica, bubbone che l’Onu si guarda bene dall’affrontare.
Nella vita quotidiana, le Nazioni Unite gestiscono direttamente polizia, giustizia e amministrazione civile. Ma nessuno osa fare più previsioni sulla durata del mandato Onu. Il partito di Rugova continua a litigare con quello del rivale Hashim Thaci, e non si sa che cosa succederebbe se partissero i 30 mila soldati Nato (fra i quali settemila statunitensi e quattromila italiani) e i 4.389 poliziotti Onu ancora stanziati in Kosovo.
La composizione della polizia è esoticissima: fra gli altri, ci sono 84 agenti del Bangladesh, 500 indiani, 426 giordani, 16 senegalesi, 124 polacchi, 62 filippini, quattro kirghisi, cinque vengono addirittura dall’isola di Mauritius e ben 34 dalle isole Figi. Gli italiani sono 58. Un unico belga. Insomma, un vero e proprio Palazzo di Vetro trasferito sul campo.
Gli indiani sembrano andare d’accordo con i 182 pakistani. L’arruolamento, visti gli stipendi, è particolarmente attraente per i poliziotti del terzo mondo. I 522 statunitensi e gli altri europei occidentali, invece, provengono soprattutto dalla pensione. In che lingua riescano a comunicare fra di loro, non è dato sapere. Quanto alla loro efficacia, le rudi bande del leggendario crimine organizzato balcanico e i contrabbandieri albanesi sembrano abbastanza soddisfatti dell’attuale situazione.
Nel suo ultimo rapporto del 14 aprile, fatto proprio da Kofi Annan, il povero Steiner ammette che nei primi tre mesi del 2003 la criminalità è aumentata difficile parlare di Stato di diritto, gli assalti con granate contro la polizia sono all’ordine del giorno anche a Pec, nel settore in teoria sotto il controllo italiano. Nei 57 nuovi tribunali si è già accumulato un arretrato di 13 mila cause civili e 11 mila penali. Anche perché ogni documento dev’essere tradotto in quattro lingue inglese, albanese, serbo e turco. “Riusciamo a punire il 21 per cento dei reati contro la proprietà, una quota maggiore rispetto a molti paesi europei”, si consola l’Onu.
L’arresto di alcuni membri del Kla (Esercito di liberazione del Kosovo) da parte del Tribunale dell’Aia ha provocato nelle settimane scorse dimostrazioni di protesta in tutto il paese. Il partito di Thaci è un’emanazione del Kla, e tuttora il vero potere locale resta nelle mani dei suoi uomini, armati. Il partito di Rugova si oppone al disegno di Thaci di far arruolare in blocco gli ex partigiani del Kla nell’esercito regolare kosovaro e nella polizia. Così non c’è verso di far decollare un esercito accettato da tutti.
Gli ex guerriglieri continuano a controllare 59 caserme e postazioni, contro un piano quinquennale che si proponeva di ridurle a 27. Quanto al sogno di un “esercito multietnico” coltivato dalle ingenue Nazioni Unite, non se ne vedrà mai l’ombra a nessun serbo passa per la testa di arruolarsi nelle forze armate dei nemici.
Naturalmente anche il Kosovo, come ogni area di crisi umanitaria, ha subìto un’invasione da parte delle Ong (Organizzazioni non governative) se ne sono registrate ben 2.292, di cui 381 straniere. Tutte alla costante ricerca di fondi – per lo più pubblici – con i quali far funzionare il proprio apparato. Intanto l’Onu, invece di esercitare una salubre autocritica sui suoi fallimenti, se la prende con i giornalisti locali sono stati comminati 51 mila euro di multa ai giornali che hanno pubblicato articoli sgraditi (“Titoli infiammatori e sensazionalisti”, accusa la censura del Minculpop onusiano, e speriamo che la sua giurisdizione non si estenda anche al Foglio…).
L’economia kosovara non si risolleva. L’amministrazione Onu-Ue, invece di favorire una rapida privatizzazione che valorizzi l’innato spirito d’iniziativa individuale della gente locale, mette i bastoni fra le ruote finora ha privatizzato solo sei aziende sulle 480 lasciate in eredità dal comunismo jugoslavo. “I burocrati internazionali sono rimasti gli ultimi nostalgici dell’economia pianificata”, accusa il giornale di Pristina Koha Ditore.
La principale preoccupazione dell’Onu sembra quella di garantire la non discriminazione della minoranza serba, invece di affrontare alla radice un problema insolubile e proporre uno scambio territoriale alla Serbia è evidente, infatti, che la provincia di Mitrovica non ne vuole sapere di rimanere in un Kosovo dominato dagli albanesi. I serbi rifiutano perfino le nuove targhe automobilistiche kosovare preferiscono tenere quelle vecchie con la stella rossa, che permettono loro di viaggiare liberamente in Serbia (oltre che di risparmiare sull’assicurazione).
Per tutti gli anni Novanta i kosovari perseguitati da Slobodan Milosevic avevano sviluppato una rete di resistenza clandestina formata da istituzioni parallele scuole e università in lingua albanese, ambulatori, servizi di assistenza. Ora i serbi kosovari si vendicano, e praticano a loro volta il boicottaggio delle istituzioni ufficiali. L’Onu deve così tollerare uffici serbi in teoria vietati dalla risoluzione 1244 del 1999 che pose fine al conflitto, con dodici impiegati delle Poste nel paese di Kamenica i quali prendono ancora lo stipendio dalla Serbia, e altri dipendenti pubblici di uffici di collocamento e dell’anagrafe che continuano imperterriti a obbedire a Belgrado invece che a Pristina.
Quanto ai politici kosovari, rifiutano tuttora ogni contatto diretto con il governo serbo. Il presidente del Parlamento kosovaro Daci è durissimo: “L’Onu vorrebbe restare qui ancora per un secolo. Perché dovrebbero andarsene? Prendono stipendi molto più alti che nei loro paesi, le nostre donne sono belle e abbiamo i migliori ristoranti della regione. All’Occidente avevamo chiesto professionisti, e invece loro ci hanno mandato politici e burocrati del diciannovesimo secolo. Non vogliamo che l’Onu se ne vada domani, ma che acceleri il trasferimento delle competenze e riduca drasticamente il suo staff. Dicono che i nostri politici litigano fra di loro? E ci mancherebbe altro non è proprio questa, la democrazia?"
Continua Daci: "Non abbiamo bisogno né di zar né di dei calati dall’esterno. E che i diecimila dipendenti Onu in Kosovo la smettano di spedire a New York rapporti falsi, per farsi belli. Abbiamo bisogno soltanto di poche centinaia di esperti tecnici, non di decine di migliaia di funzionari il cui unico contributo alla nostra economia è quello di drogarla ormai il trenta per cento delle nostre entrate dipende dagli aiuti internazionali. Il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi donna delle pulizie pagata dall’Onu per lavorare nei suoi uffici di Pristina. E i giovani assunti come traduttori dalle Nazioni Unite guadagnano 750 dollari al mese, mentre un professore universitario ne prende cento”.
(3. continua)
Mauro Suttora
Il Foglio, 29 aprile 2003
New York. Molti vorrebbero che l’Onu amministrasse l’Iraq. Ma qual è il bilancio della missione di peacekeeping (“mantenimento della pace”) delle Nazioni Unite in Kosovo?
“Poveri iracheni, se l’Onu arriverà anche da loro”, commenta Beqe Cufaj, 33 anni, giornalista e scrittore kosovaro. Dopo quattro anni di protettorato Onu, infatti, il Kosovo ha ancora l’economia a pezzi. Anzi, con la diminuzione degli aiuti internazionali la situazione sta peggiorando. Ogni giorno l’elettricità manca per ore, anche se le centrali elettriche kosovare non erano state bombardate dalla Nato quattro anni fa. “Prima esportavamo la nostra energia elettrica in Macedonia e Grecia, ora siamo al buio”, ha denunciato il 23 aprile Nexhat Daci, presidente del Parlamento.
Finora l’amministrazione delle Nazioni Unite ha speso nove miliardi di euro per ricostruire il Kosovo. Ma molti soldi sono finiti nel nulla sta per iniziare il processo contro Joseph Trutschler, un tedesco 36enne nominato presidente della società elettrica kosovara, accusato per tangenti da quattro milioni e mezzo di euro.
A capo della missione Unmik (United Nations Mission Kosovo) c’è da un anno il 53enne tedesco Michael Steiner, un diplomatico succeduto all’altrettanto opaco danese Hans Haekkerup, che resistette solo pochi mesi. Prima di loro si era misurato con il Kosovo il francese Bernard Kouchner.
Questo turbinio di capi si aggiunge a quello delle sigle. L’Onu ha infatti delegato alla Ue la ricostruzione e lo sviluppo economico, mentre il compito di riorganizzare la vita politica è stato subappaltato all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), ente dalla dubbia utilità con sede a Vienna è un’ossificazione della Conferenza di Helsinki del 1975, sopravvissuto alla fine del loro la guerra fredda.
L’Osce ha in qualche modo portato a termine il suo compito, con i suoi 1.500 dipendenti ha organizzato le elezioni locali e poi le politiche nel 2001, che hanno eletto presidente Ibrahim Rugova. Presidente di che cosa, però, non si sa bene, perché lo status del Kosovo è ancora tutto da decifrare in teoria fa ancora parte della federazione Serbia-Montenegro, ma nella realtà è ormai indipendente. Resta la questione della minoranza serba nella zona settentrionale di Mitrovica, bubbone che l’Onu si guarda bene dall’affrontare.
Nella vita quotidiana, le Nazioni Unite gestiscono direttamente polizia, giustizia e amministrazione civile. Ma nessuno osa fare più previsioni sulla durata del mandato Onu. Il partito di Rugova continua a litigare con quello del rivale Hashim Thaci, e non si sa che cosa succederebbe se partissero i 30 mila soldati Nato (fra i quali settemila statunitensi e quattromila italiani) e i 4.389 poliziotti Onu ancora stanziati in Kosovo.
La composizione della polizia è esoticissima: fra gli altri, ci sono 84 agenti del Bangladesh, 500 indiani, 426 giordani, 16 senegalesi, 124 polacchi, 62 filippini, quattro kirghisi, cinque vengono addirittura dall’isola di Mauritius e ben 34 dalle isole Figi. Gli italiani sono 58. Un unico belga. Insomma, un vero e proprio Palazzo di Vetro trasferito sul campo.
Gli indiani sembrano andare d’accordo con i 182 pakistani. L’arruolamento, visti gli stipendi, è particolarmente attraente per i poliziotti del terzo mondo. I 522 statunitensi e gli altri europei occidentali, invece, provengono soprattutto dalla pensione. In che lingua riescano a comunicare fra di loro, non è dato sapere. Quanto alla loro efficacia, le rudi bande del leggendario crimine organizzato balcanico e i contrabbandieri albanesi sembrano abbastanza soddisfatti dell’attuale situazione.
Nel suo ultimo rapporto del 14 aprile, fatto proprio da Kofi Annan, il povero Steiner ammette che nei primi tre mesi del 2003 la criminalità è aumentata difficile parlare di Stato di diritto, gli assalti con granate contro la polizia sono all’ordine del giorno anche a Pec, nel settore in teoria sotto il controllo italiano. Nei 57 nuovi tribunali si è già accumulato un arretrato di 13 mila cause civili e 11 mila penali. Anche perché ogni documento dev’essere tradotto in quattro lingue inglese, albanese, serbo e turco. “Riusciamo a punire il 21 per cento dei reati contro la proprietà, una quota maggiore rispetto a molti paesi europei”, si consola l’Onu.
L’arresto di alcuni membri del Kla (Esercito di liberazione del Kosovo) da parte del Tribunale dell’Aia ha provocato nelle settimane scorse dimostrazioni di protesta in tutto il paese. Il partito di Thaci è un’emanazione del Kla, e tuttora il vero potere locale resta nelle mani dei suoi uomini, armati. Il partito di Rugova si oppone al disegno di Thaci di far arruolare in blocco gli ex partigiani del Kla nell’esercito regolare kosovaro e nella polizia. Così non c’è verso di far decollare un esercito accettato da tutti.
Gli ex guerriglieri continuano a controllare 59 caserme e postazioni, contro un piano quinquennale che si proponeva di ridurle a 27. Quanto al sogno di un “esercito multietnico” coltivato dalle ingenue Nazioni Unite, non se ne vedrà mai l’ombra a nessun serbo passa per la testa di arruolarsi nelle forze armate dei nemici.
Naturalmente anche il Kosovo, come ogni area di crisi umanitaria, ha subìto un’invasione da parte delle Ong (Organizzazioni non governative) se ne sono registrate ben 2.292, di cui 381 straniere. Tutte alla costante ricerca di fondi – per lo più pubblici – con i quali far funzionare il proprio apparato. Intanto l’Onu, invece di esercitare una salubre autocritica sui suoi fallimenti, se la prende con i giornalisti locali sono stati comminati 51 mila euro di multa ai giornali che hanno pubblicato articoli sgraditi (“Titoli infiammatori e sensazionalisti”, accusa la censura del Minculpop onusiano, e speriamo che la sua giurisdizione non si estenda anche al Foglio…).
L’economia kosovara non si risolleva. L’amministrazione Onu-Ue, invece di favorire una rapida privatizzazione che valorizzi l’innato spirito d’iniziativa individuale della gente locale, mette i bastoni fra le ruote finora ha privatizzato solo sei aziende sulle 480 lasciate in eredità dal comunismo jugoslavo. “I burocrati internazionali sono rimasti gli ultimi nostalgici dell’economia pianificata”, accusa il giornale di Pristina Koha Ditore.
La principale preoccupazione dell’Onu sembra quella di garantire la non discriminazione della minoranza serba, invece di affrontare alla radice un problema insolubile e proporre uno scambio territoriale alla Serbia è evidente, infatti, che la provincia di Mitrovica non ne vuole sapere di rimanere in un Kosovo dominato dagli albanesi. I serbi rifiutano perfino le nuove targhe automobilistiche kosovare preferiscono tenere quelle vecchie con la stella rossa, che permettono loro di viaggiare liberamente in Serbia (oltre che di risparmiare sull’assicurazione).
Per tutti gli anni Novanta i kosovari perseguitati da Slobodan Milosevic avevano sviluppato una rete di resistenza clandestina formata da istituzioni parallele scuole e università in lingua albanese, ambulatori, servizi di assistenza. Ora i serbi kosovari si vendicano, e praticano a loro volta il boicottaggio delle istituzioni ufficiali. L’Onu deve così tollerare uffici serbi in teoria vietati dalla risoluzione 1244 del 1999 che pose fine al conflitto, con dodici impiegati delle Poste nel paese di Kamenica i quali prendono ancora lo stipendio dalla Serbia, e altri dipendenti pubblici di uffici di collocamento e dell’anagrafe che continuano imperterriti a obbedire a Belgrado invece che a Pristina.
Quanto ai politici kosovari, rifiutano tuttora ogni contatto diretto con il governo serbo. Il presidente del Parlamento kosovaro Daci è durissimo: “L’Onu vorrebbe restare qui ancora per un secolo. Perché dovrebbero andarsene? Prendono stipendi molto più alti che nei loro paesi, le nostre donne sono belle e abbiamo i migliori ristoranti della regione. All’Occidente avevamo chiesto professionisti, e invece loro ci hanno mandato politici e burocrati del diciannovesimo secolo. Non vogliamo che l’Onu se ne vada domani, ma che acceleri il trasferimento delle competenze e riduca drasticamente il suo staff. Dicono che i nostri politici litigano fra di loro? E ci mancherebbe altro non è proprio questa, la democrazia?"
Continua Daci: "Non abbiamo bisogno né di zar né di dei calati dall’esterno. E che i diecimila dipendenti Onu in Kosovo la smettano di spedire a New York rapporti falsi, per farsi belli. Abbiamo bisogno soltanto di poche centinaia di esperti tecnici, non di decine di migliaia di funzionari il cui unico contributo alla nostra economia è quello di drogarla ormai il trenta per cento delle nostre entrate dipende dagli aiuti internazionali. Il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi donna delle pulizie pagata dall’Onu per lavorare nei suoi uffici di Pristina. E i giovani assunti come traduttori dalle Nazioni Unite guadagnano 750 dollari al mese, mentre un professore universitario ne prende cento”.
(3. continua)
Mauro Suttora
Tuesday, April 22, 2003
Onu/2: disastro Unesco
L’Unesco colleziona critiche, sprechi e quintali di carta griffata Onu. Tornano gli Stati Uniti. Basterà?
Il Foglio, 22 aprile 2003
di Mauro Suttora
New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.
La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).
Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.
L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.
Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.
Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.
L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.
Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.
Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).
Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.
Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.
L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.
L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.
“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora
Il Foglio, 22 aprile 2003
di Mauro Suttora
New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.
La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).
Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.
L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.
Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.
Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.
L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.
Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.
Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).
Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.
Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.
L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.
L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.
“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora
Friday, April 18, 2003
Answers in the Straits Times
The Straits Times (Singapore)
Is UN irrelevant?
April 18, 2003 Friday
MR MAURO Suttora ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16) sounds like an apologist for the United States action in Iraq.
He cited instances of the ineffectiveness of the United Nations, corruption and high salaries of its officials.
Even if those charges were true, his implicit proposition that the US is doing a better job is unacceptable. To use an analogy, just because democratic governments can become ineffective and corrupt does not mean that the concept of a democratic government is irrelevant. The alternative to a democratically elected government is dictatorship.
So whether it is an individual government or a world body, progress should be measured according to the implementation of democratic processes. Democracy encompasses as far as possible non-violent resolution of issues, consensus forging, will of the majority and respect for the minority and many more principles.
However, what has happened in Iraq shows that there is a retrogression of democracy in settling international issues.
If there are areas of weakness in the UN operations, member governments must suggest ways to tackle them. This is their responsibility to their own citizens and all citizens of the world.
It is not good enough if they are treating the UN principally as a forum for settling issues. They must look at how it is run at the bureaucratic level. The writer's accusations have certainly given us cause for concern.
Without an improved UN, big brother will likely usurp its role in policing the world. We can see how small the UN appears after the collapse of the regime in Iraq. If this trend continues, very soon more and more people will begin to believe the US is a better solution.
But that is depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere. This is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
In any case, I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it. He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.
But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel? Let's support the UN and urge member governments to treat it with more respect by improving its functions, checks and balances.
CHIA HERN KENG
NO
Depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it.
He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.
But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel?
YES
I AM pleased to finally see an honest and gutsy article ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16). Mr Mauro Suttora is right on the dot and if anyone disputes his report, they only have to look at the way Saddam Hussein and his regime have been living with the blessings of the United Nations' oil-for-food programme, while the Iraqi population lived in abject poverty.
The U in United Nations should read more like 'Useless' than anything else. I hope we have more articles like the above rather than the everyday wishy-washy ones that we see from AP, AFP, CNN and the gang. The credit goes to Newsweek and Mr Suttora.
WILMA ELIZABETH CHAI (MRS)
Is UN irrelevant?
April 18, 2003 Friday
MR MAURO Suttora ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16) sounds like an apologist for the United States action in Iraq.
He cited instances of the ineffectiveness of the United Nations, corruption and high salaries of its officials.
Even if those charges were true, his implicit proposition that the US is doing a better job is unacceptable. To use an analogy, just because democratic governments can become ineffective and corrupt does not mean that the concept of a democratic government is irrelevant. The alternative to a democratically elected government is dictatorship.
So whether it is an individual government or a world body, progress should be measured according to the implementation of democratic processes. Democracy encompasses as far as possible non-violent resolution of issues, consensus forging, will of the majority and respect for the minority and many more principles.
However, what has happened in Iraq shows that there is a retrogression of democracy in settling international issues.
If there are areas of weakness in the UN operations, member governments must suggest ways to tackle them. This is their responsibility to their own citizens and all citizens of the world.
It is not good enough if they are treating the UN principally as a forum for settling issues. They must look at how it is run at the bureaucratic level. The writer's accusations have certainly given us cause for concern.
Without an improved UN, big brother will likely usurp its role in policing the world. We can see how small the UN appears after the collapse of the regime in Iraq. If this trend continues, very soon more and more people will begin to believe the US is a better solution.
But that is depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere. This is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
In any case, I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it. He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.
But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel? Let's support the UN and urge member governments to treat it with more respect by improving its functions, checks and balances.
CHIA HERN KENG
NO
Depending on one nation to decide the fate of the world and the lives of citizens everywhere is going for a form of international dictatorship willingly. Do we want that to happen?
I see no serious fault in the current procedure used by the Security Council to approve military action on a member country. If the writer sees anything amiss with it, he should suggest better and democratic ways to improve it.
He may also recommend any alternative global forum to settle international issues.
But in the end the alternative will more or less be similar in purpose and role. Why re-invent the wheel?
YES
I AM pleased to finally see an honest and gutsy article ('The UN is the last thing the Iraqis need'; ST, April 16). Mr Mauro Suttora is right on the dot and if anyone disputes his report, they only have to look at the way Saddam Hussein and his regime have been living with the blessings of the United Nations' oil-for-food programme, while the Iraqi population lived in abject poverty.
The U in United Nations should read more like 'Useless' than anything else. I hope we have more articles like the above rather than the everyday wishy-washy ones that we see from AP, AFP, CNN and the gang. The credit goes to Newsweek and Mr Suttora.
WILMA ELIZABETH CHAI (MRS)
Wednesday, April 16, 2003
Iraq and the U.N.
THE LAST THING IRAQIS NEED
Newsweek, April 21, 2003
Keeping luxury hotels occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising
by Mauro Suttora
http://www.newsweek.com/last-thing-iraqis-need-134083
Unfortunately, I am a lousy tennis player. Otherwise I would have had a great time in Sao Tome, a wonderful equatorial island off the Atlantic coast of Africa. My friend, a United Nations employee, played every day, early in the morning and at twilight, when the temperature was bearable. The tennis courts belonged to the only five-star hotel in the capital. The rest of the hot day, he retreated into the air-conditioned hotel, where he sometimes held meetings. I was the only 'normal' guest. All the others belonged to one U.N. agency or another, and I found this to be true for many of the luxury hotels in Africa. Keeping them occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising.
I am amazed that as Saddam Hussein statues were toppled all over Iraq last week, all my fellow Europeans could talk about was the importance of U.N. rule in the country, and the danger of a long-term American occupation. They've got it backward. Wherever the United Nations goes, it tends to stay forever, and to perpetuate problems. It's been in Bosnia for eight years now, in Kosovo and East Timor for four, in the Palestinian territories since '48. In Gaza the U.N. agency running the refugee camps is the main purveyor of jobs. I am a refugee's son myself: my father fled the territories that Italy lost to Yugoslavia in 1945. After a few months all 350,000 refugees had found jobs, houses, new lives. There was no U.N. presence, which was perhaps their good fortune.
Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia or Kosovo. No solution for Cyprus after almost 30 years. Nevertheless, 'U.N.' has become a magic phrase, the last redoubt for pacifists. Even my paper - the largest Italian weekly, normally quiet and middle-of-the-road - has turned pacifist: for Christmas it published an article by a Catholic bishop against the war, and as counterbalance an article by a former communist against the war.
I was once a pacifist demonstrator myself, fighting the placement of U.S. nuclear cruise missiles in Sicily. But now I don't mind anybody getting rid of Saddam, by any means necessary. We Italians should know: Rome invented the word 'dictator', the first modern dictator was Italian (Adolf Hitler was a pupil of Benito Mussolini) and even Silvio Berlusconi, our current premier, has been called by his adversaries the model of the postmodern media dictator. Nevertheless, Europeans don't care anymore about dictators (or freedom). They rave about peace. They crave the United Nations.
Now, pardon my bluntness, but why should we condemn the poor Iraqis to be governed by lazy and incompetent bureaucrats? It's no secret that the United Nations has more tolerance than most for petty despots: Libya currently holds the presidency of the U.N. Human Rights Commission. The U.N. bureaucracy is a Gogolian monster with 65,000 employees and a budget of $2.6 billion a year. For each problem the United Nations has set up a special agency, and this week in Vienna the UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - the longer the name, the more wasteful the body) is discussing how the war on drugs is going. It's a disaster, actually: halfway through a 10-year effort to eradicate drug cultivation, production has soared. Is the agency closing down because of this failure? No, it's asking for new funds.
The system is corrupt. When I give money for the hungry, I send it directly to the missionaries instead of UNICEF or the World Food Program or anyone else whose first-class air-travel budget could feed tens of thousands. UNESCO is a successful Paris job-creation program for sociologists and intellectuals, famous for overhead expenses that eat up as much as 80 percent of some programs. Officials of the Human Rights Commission have been sent home for allegedly trafficking women and young girls for prostitution in Bosnia. At the U.N. High Commissioner for Refugees (yearly budget: $740 million), four officials have been arrested for smuggling refugees. The U.N. apparatus has grown so much that in 1994 a new Office for Internal Oversight Services was established to keep track of everyone. It promptly hired 180 more people, at an extra cost of $18 million a year.
Has the United Nations really proved its competence in dealing with Iraq? Past experience says no: not only did the Oil-for-Food Program allow Saddam and his cronies to pocket large sums, but an audit found the program had overpaid $1 million for services. U.N. officers are well paid: six-digit tax-free salaries in dollars, plus innumerable allowances. Most of them are decent people, frustrated by their own red tape. But why on earth should they go to Baghdad? Let them play tennis elsewhere.
Suttora is U.S. bureau chief for Oggi (Rizzoli Corriere della Sera) in New York.
© 2003 Newsweek, Inc.
Newsweek
May 26, 2003, Atlantic Edition
SECTION: LETTERS; Pg. 16
Mail Call
Mauro Suttora's April 21 piece on the U.N.'s ineptitude ignited a heated debate among readers. "A great article!" cheered one. "The U.N. has proven weak and useless," chimed another. But the U.N.'s defenders accused us of "tabloid journalism." One reader simply urged that the U.N. be rehabilitated.
The U.N. Under Attack
I was disappointed to see NEWSWEEK descend to tabloid journalism with Mauro Suttora's "The Last Thing Iraqis Need" (April 21)--a farrago of gossip, unsubstantiated assertions and outright falsehoods masquerading as reportage. Allow me to rebut the most egregious of his misstatements. He says, "Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia," but we have already left. The U.N. troops have been gone since 1996, and we closed down our civilian mission last year. The U.N.'s role in East Timor changed with that country's independence in 2002; we are now there only at the government's request, to assist the authorities, not supplant them. The U.N. has 9,600 employees, not 65,000; even counting every international organization in the U.N. system--including the World Health Organization and the International Labor Organization--Suttora's calculation is excessive. U.N. staff do not fly first class; only the secretary-general does. Suttora twists facts to substantiate his prejudices: he even criticizes the establishment of a tough audit mechanism, the Office of Internal Oversight Services, whose effectiveness is acknowledged by the U.N.'s major contributors. The U.N. may not be perfect, but its record needs to be examined with more accuracy and integrity than in this article that is unworthy of your magazine.
Shashi Tharoor
Under Secretary-General for Communications and Public Information
United Nations
New York, N.Y.
It was a pleasure reading Mauro Suttora's article on the United Nations. The fact that the U.N. is inefficient, inadequate and ineffective is, of course, not a closely guarded secret, but it is important for those who fund it, or perceive it to be a sort of savior, to be aware of this and of some of the reasons behind the U.N.'s blatant ineffectiveness.
Morris Kaner
Givatyim, Israel
What a great article! It's time someone spoke out against the United Nations with a few home truths. Anyone who follows international affairs knows that the U.N. has proved weak and useless in most cases. You can't blame America and England for not paying their U.N. dues when they are the ones invariably forced to do the work the U.N. is incapable of completing, thanks to its incompetence. The last vestige of respect was gone when the U.N. backed down, under pressure from Israel, from sending a committee to investigate the atrocities and damage caused by the Israeli invasion of refugee camps in the Palestinian territories. There may be many dedicated, well-meaning workers in the U.N., but the organization has lost its credibility as an effective operation. If Iraq is to get on its feet again, don't let it fall into the hands of the U.N.
Kaye Krieg
Inzlingen, Germany
As a Vietnamese refugee, I personally experienced the incompetence of the United Nations High Commissioner for Refugees. Coming to Britain, I've seen the corrupt nepotism and cronyism of charity/voluntary organizations. There are too many bosses, no one can assert authority and there's no competition for them whatsoever. The U.N. needs to be rehabilitated.
Thong V. Lam
Newcastle-Upon-Tyne, England
As a U.N. official with a 25-year career in many refugee-crisis situations in the world, I'm shocked by Suttora's vicious article. He singles out some shortcomings of the U.N. and blows them out of proportion. This is a body that can be only as good as the individual entities that constitute it. Not only have I never flown first class, but my colleagues and I often work under unbearable conditions--lacking both basic amenities and physical safety. U.N. salaries are comfortable but not competitive with those in the private sector or some foreign services. "Staff assessment," equivalent to our nations' income tax, is deducted from our gross salary. We take pride in our humanitarian work and serve without political bias in accordance with the U.N. Charter. We help innocent civilians who have suffered persecution or violence to rebuild their lives. Those of us who work in the field often have to live without electricity, running water or heating. Many U.N. workers have been taken hostage, sustained injuries, even lost their lives while performing their duty. As for the UNHCR, the yearly budget cited by Suttora would hardly cover the support we offer to 21 million refugees and other similarly displaced people. The UNHCR has twice won the Nobel Peace Prize; we're proud to have repatriated millions of people, enabling them to live normal lives. Yes, there are shortcomings in the U.N. system. But the last thing the world needs is the denigration of the one international humanitarian body that gives states a forum where differences can be reconciled. What the United Nations needs is for all--individuals, states and the media--to help us best fulfill our humanitarian task. If we fail, there is no substitute.
Marion Hoffmann
Representative of the United Nations High Commissioner for Refugees in Albania
Tirana, Albania
The United Nations' presence in Iraq is an issue that cannot be dealt with in an ironic, one-sided op-ed piece like Mauro Suttora's. It is true that the U.N. system is not run efficiently and that its peacekeeping operations have rarely managed to facilitate peace. What Europeans want is not U.N. "rule" in Iraq, as Suttora says, but its "role" in international legality. This opens up important issues that transcend the functioning of the United Nations and go to the very core of the debate on American imperialism. It's reductive to rule them out with the sarcastic comments of an Italian tabloid journalist.
Fabrizio Tassinari
Copenhagen, Denmark
© 2003 Newsweek
Newsweek, April 21, 2003
Keeping luxury hotels occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising
by Mauro Suttora
http://www.newsweek.com/last-thing-iraqis-need-134083
Unfortunately, I am a lousy tennis player. Otherwise I would have had a great time in Sao Tome, a wonderful equatorial island off the Atlantic coast of Africa. My friend, a United Nations employee, played every day, early in the morning and at twilight, when the temperature was bearable. The tennis courts belonged to the only five-star hotel in the capital. The rest of the hot day, he retreated into the air-conditioned hotel, where he sometimes held meetings. I was the only 'normal' guest. All the others belonged to one U.N. agency or another, and I found this to be true for many of the luxury hotels in Africa. Keeping them occupied is perhaps the main contribution of U.N. officials to the local economies they are unsuccessfully advising.
I am amazed that as Saddam Hussein statues were toppled all over Iraq last week, all my fellow Europeans could talk about was the importance of U.N. rule in the country, and the danger of a long-term American occupation. They've got it backward. Wherever the United Nations goes, it tends to stay forever, and to perpetuate problems. It's been in Bosnia for eight years now, in Kosovo and East Timor for four, in the Palestinian territories since '48. In Gaza the U.N. agency running the refugee camps is the main purveyor of jobs. I am a refugee's son myself: my father fled the territories that Italy lost to Yugoslavia in 1945. After a few months all 350,000 refugees had found jobs, houses, new lives. There was no U.N. presence, which was perhaps their good fortune.
Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia or Kosovo. No solution for Cyprus after almost 30 years. Nevertheless, 'U.N.' has become a magic phrase, the last redoubt for pacifists. Even my paper - the largest Italian weekly, normally quiet and middle-of-the-road - has turned pacifist: for Christmas it published an article by a Catholic bishop against the war, and as counterbalance an article by a former communist against the war.
I was once a pacifist demonstrator myself, fighting the placement of U.S. nuclear cruise missiles in Sicily. But now I don't mind anybody getting rid of Saddam, by any means necessary. We Italians should know: Rome invented the word 'dictator', the first modern dictator was Italian (Adolf Hitler was a pupil of Benito Mussolini) and even Silvio Berlusconi, our current premier, has been called by his adversaries the model of the postmodern media dictator. Nevertheless, Europeans don't care anymore about dictators (or freedom). They rave about peace. They crave the United Nations.
Now, pardon my bluntness, but why should we condemn the poor Iraqis to be governed by lazy and incompetent bureaucrats? It's no secret that the United Nations has more tolerance than most for petty despots: Libya currently holds the presidency of the U.N. Human Rights Commission. The U.N. bureaucracy is a Gogolian monster with 65,000 employees and a budget of $2.6 billion a year. For each problem the United Nations has set up a special agency, and this week in Vienna the UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - the longer the name, the more wasteful the body) is discussing how the war on drugs is going. It's a disaster, actually: halfway through a 10-year effort to eradicate drug cultivation, production has soared. Is the agency closing down because of this failure? No, it's asking for new funds.
The system is corrupt. When I give money for the hungry, I send it directly to the missionaries instead of UNICEF or the World Food Program or anyone else whose first-class air-travel budget could feed tens of thousands. UNESCO is a successful Paris job-creation program for sociologists and intellectuals, famous for overhead expenses that eat up as much as 80 percent of some programs. Officials of the Human Rights Commission have been sent home for allegedly trafficking women and young girls for prostitution in Bosnia. At the U.N. High Commissioner for Refugees (yearly budget: $740 million), four officials have been arrested for smuggling refugees. The U.N. apparatus has grown so much that in 1994 a new Office for Internal Oversight Services was established to keep track of everyone. It promptly hired 180 more people, at an extra cost of $18 million a year.
Has the United Nations really proved its competence in dealing with Iraq? Past experience says no: not only did the Oil-for-Food Program allow Saddam and his cronies to pocket large sums, but an audit found the program had overpaid $1 million for services. U.N. officers are well paid: six-digit tax-free salaries in dollars, plus innumerable allowances. Most of them are decent people, frustrated by their own red tape. But why on earth should they go to Baghdad? Let them play tennis elsewhere.
Suttora is U.S. bureau chief for Oggi (Rizzoli Corriere della Sera) in New York.
© 2003 Newsweek, Inc.
Newsweek
May 26, 2003, Atlantic Edition
SECTION: LETTERS; Pg. 16
Mail Call
Mauro Suttora's April 21 piece on the U.N.'s ineptitude ignited a heated debate among readers. "A great article!" cheered one. "The U.N. has proven weak and useless," chimed another. But the U.N.'s defenders accused us of "tabloid journalism." One reader simply urged that the U.N. be rehabilitated.
The U.N. Under Attack
I was disappointed to see NEWSWEEK descend to tabloid journalism with Mauro Suttora's "The Last Thing Iraqis Need" (April 21)--a farrago of gossip, unsubstantiated assertions and outright falsehoods masquerading as reportage. Allow me to rebut the most egregious of his misstatements. He says, "Today there is no sign that the United Nations will leave Bosnia," but we have already left. The U.N. troops have been gone since 1996, and we closed down our civilian mission last year. The U.N.'s role in East Timor changed with that country's independence in 2002; we are now there only at the government's request, to assist the authorities, not supplant them. The U.N. has 9,600 employees, not 65,000; even counting every international organization in the U.N. system--including the World Health Organization and the International Labor Organization--Suttora's calculation is excessive. U.N. staff do not fly first class; only the secretary-general does. Suttora twists facts to substantiate his prejudices: he even criticizes the establishment of a tough audit mechanism, the Office of Internal Oversight Services, whose effectiveness is acknowledged by the U.N.'s major contributors. The U.N. may not be perfect, but its record needs to be examined with more accuracy and integrity than in this article that is unworthy of your magazine.
Shashi Tharoor
Under Secretary-General for Communications and Public Information
United Nations
New York, N.Y.
It was a pleasure reading Mauro Suttora's article on the United Nations. The fact that the U.N. is inefficient, inadequate and ineffective is, of course, not a closely guarded secret, but it is important for those who fund it, or perceive it to be a sort of savior, to be aware of this and of some of the reasons behind the U.N.'s blatant ineffectiveness.
Morris Kaner
Givatyim, Israel
What a great article! It's time someone spoke out against the United Nations with a few home truths. Anyone who follows international affairs knows that the U.N. has proved weak and useless in most cases. You can't blame America and England for not paying their U.N. dues when they are the ones invariably forced to do the work the U.N. is incapable of completing, thanks to its incompetence. The last vestige of respect was gone when the U.N. backed down, under pressure from Israel, from sending a committee to investigate the atrocities and damage caused by the Israeli invasion of refugee camps in the Palestinian territories. There may be many dedicated, well-meaning workers in the U.N., but the organization has lost its credibility as an effective operation. If Iraq is to get on its feet again, don't let it fall into the hands of the U.N.
Kaye Krieg
Inzlingen, Germany
As a Vietnamese refugee, I personally experienced the incompetence of the United Nations High Commissioner for Refugees. Coming to Britain, I've seen the corrupt nepotism and cronyism of charity/voluntary organizations. There are too many bosses, no one can assert authority and there's no competition for them whatsoever. The U.N. needs to be rehabilitated.
Thong V. Lam
Newcastle-Upon-Tyne, England
As a U.N. official with a 25-year career in many refugee-crisis situations in the world, I'm shocked by Suttora's vicious article. He singles out some shortcomings of the U.N. and blows them out of proportion. This is a body that can be only as good as the individual entities that constitute it. Not only have I never flown first class, but my colleagues and I often work under unbearable conditions--lacking both basic amenities and physical safety. U.N. salaries are comfortable but not competitive with those in the private sector or some foreign services. "Staff assessment," equivalent to our nations' income tax, is deducted from our gross salary. We take pride in our humanitarian work and serve without political bias in accordance with the U.N. Charter. We help innocent civilians who have suffered persecution or violence to rebuild their lives. Those of us who work in the field often have to live without electricity, running water or heating. Many U.N. workers have been taken hostage, sustained injuries, even lost their lives while performing their duty. As for the UNHCR, the yearly budget cited by Suttora would hardly cover the support we offer to 21 million refugees and other similarly displaced people. The UNHCR has twice won the Nobel Peace Prize; we're proud to have repatriated millions of people, enabling them to live normal lives. Yes, there are shortcomings in the U.N. system. But the last thing the world needs is the denigration of the one international humanitarian body that gives states a forum where differences can be reconciled. What the United Nations needs is for all--individuals, states and the media--to help us best fulfill our humanitarian task. If we fail, there is no substitute.
Marion Hoffmann
Representative of the United Nations High Commissioner for Refugees in Albania
Tirana, Albania
The United Nations' presence in Iraq is an issue that cannot be dealt with in an ironic, one-sided op-ed piece like Mauro Suttora's. It is true that the U.N. system is not run efficiently and that its peacekeeping operations have rarely managed to facilitate peace. What Europeans want is not U.N. "rule" in Iraq, as Suttora says, but its "role" in international legality. This opens up important issues that transcend the functioning of the United Nations and go to the very core of the debate on American imperialism. It's reductive to rule them out with the sarcastic comments of an Italian tabloid journalist.
Fabrizio Tassinari
Copenhagen, Denmark
© 2003 Newsweek
Onu/1: a che cosa serve?
ONU DE' NOANTRI - SPRECHI, INEFFICIENZE, BILANCI IMBARAZZANTI: ECCO PERCHE' L'ULTIMA COSA DI CUI HANNO BISOGNO GLI IRACHENI E' UN PALAZZO DI VETRO.
16 aprile 2003
Dopo Oriana Fallaci sul Wall Street Journal e Beppe Severgnini sull'Economist, un altro giornalista italiano scrive le proprie opinioni direttamente in inglese sui giornali anglosassoni: Mauro Suttora, corrispondente da New York del settimanale Oggi. Su Newsweek di questa settimana - e oggi su Il Foglio - appare un suo commento sull'Onu in Iraq, dal titolo esplicito: "The last thing Iraqis need" ("L'ultima cosa di cui gli iracheni hanno bisogno").
Suttora si scaglia contro le Nazioni Unite, accusandole di essere un "mostro gogoliano" con 65mila dipendenti e un bilancio di 2,6 miliardi di dollari, "pieno di burocrati pigri e incompetenti che perpetuano i problemi invece di risolverli". Esamina alcuni casi di amministrazione Onu (Palestina, Bosnia, Kosovo) e si stupisce che l'Onu, nonostante abbia gia' dato prova di inefficienza anche in Iraq, sia diventata "l'ultimo ridotto" dei pacifisti che la invocano "come se fosse una parola magica".
Mauro Suttora per Il Foglio
New York. L'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, vuole l'Onu in Iraq: lo detto domenica sera davanti a tredici milioni di telespettatori americani durante il programma "60 Minutes" della Cbs. Anche il furbo Joe Biden, capo dei Democratici alla commissione Esteri del Senato, favorevole all'Onu: "Perché dobbiamo rischiare le vite dei nostri ragazzi agli incroci di Baghdad? E perché i contribuenti statunitensi dovrebbero continuare a pagare tutto intero il conto del mantenimento dell'ordine in Iraq? Che ci vadano anche i peace-keepers dell'Onu, o almeno quelli della Nato".
Argomenti concreti, che fanno breccia nell'americano medio ormai saziato dalla vittoria su Saddam Hussein. Quindi Onu sarà, lo ha deciso anche l'Amministrazione Bush. Ma la supervisione delle operazioni resterà saldamente in mano agli angloamericani.
Questa volta gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di farsi scippare controllo della situazione. Anche perché bilancio delle altre operazioni Onu in giro per il mondo oscilla fra l'inutile e il disastroso. Altro che "nation rebuilding": ovunque vadano, i funzionari delle Nazioni Unite sembrano posseduti dall'irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.
L'atto d'accusa di Terzani sulla Cambogia
"Dopo il fallimento degli interventi in Somalia e nell'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia viene citata come straordinario successo', indicata come modello da seguire e usata per riscattare reputazione di un organismo le cui strutture andrebbero rimesse in discussione.
In realtà, l'operazione si è rivelata carissima (due miliardi e mezzo di dollari, ventiduemila uomini) ed è stata segnata sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti: quattrocento milioni di dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari - alcuni di altissimo livello - i quali avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione materiali che non venivano mai consegnati o venivano pagati a loro complici a prezzi fuori mercato (...).
Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh erano pieni, le ville affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokyo o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu.
Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole strade si svuotano perché diventano dominio di ombre senza scrupoli - spesso soldati o poliziotti in borghese - che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, soldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande amore per tutto ciò che è Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire - visto come un tradimento - si esprime ora in una crescente ostilità verso tutto ciò che è occidentale".
Questo è il bilancio imbarazzante che Tiziano Terzani tracciava qualche anno fa dell'intervento in Cambogia, uno dei primi esperimenti di amministrazione Onu. Ciononostante, oggi "Nazioni Unite" sembra essere diventata una parola magica, l'ultima trincea per i pacifisti sconfitti anch'essi, assieme a Saddam, dalle tre settimane di guerra di Donald Rumsfeld.
Ma che cosa sono in realtà, oggi, le Nazioni Unite? Un mostro burocratico con 65 mila dipendenti fissi con decine di migliaia di collaboratori e consulenti superpagati, che costano 2,6 miliardi di dollari l'anno. Vanno calcolati a parte i costosissimi programmi di "peacekeeping" (mantenimento della pace), pagati direttamente dai paesi che inviano i contingenti, e i sei miliardi annui di dollari in aiuti al Terzo mondo.
Sbaglia chi identifica l'Onu esclusivamente con la sua sede centrale di New York, il grattacielo costruito nel 1952 da Le Corbusier su un terreno regalato dai Rockefeller. Lì hanno sede il segretariato, guidato attualmente da Kofi Annan, l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e l'Ecosoc, il pletorico organismo di consulenza economica e sociale.
Ma la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, Ufficio antidroga), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l'Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program), Gaza (Agenzia profughi palestinesi).
Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c'è l'Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l'Upu (Unione postale universale), a Londra l'Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l'Icao (International Civil Aviation Organization).
Chi si occupa dei Diritti umani?
Gli Stati membri sono 191. Gli ultimi due arrivati sono Timor Est e la Svizzera, che hanno aderito nel settembre del 2002. Dopo il crollo del comunismo la maggioranza degli Stati non appartiene più alle dittature, le quali tuttavia riescono tuttora a impedire il funzionamento di organismi delicati, come la commissione per i Diritti umani. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Ginevra, in avenue de la Paix, l'annuale sessione dell'inutile Commissione, alla cui presidenza quest'anno è stata eletta la Libia.
Fino al 2002, Alto commissario per i Diritti umani era la combattiva ex presidente irlandese Mary Robinson, che per cinque anni ha denunciato l'opera ostruzionistica portata avanti da Cina, Siria, Sudan, Cuba e Vietnam. Quando se n'è andata, consumata dalla frustrazione, Kofi Annan l'ha sostituita con l'assai più malleabile Sergio Vieira de Mello, placido burocrate 55enne, brasiliano con carriera tutta interna all'Onu, reduce da Timor Est. Geoffrey Robertson, avvocato londinese, uno dei massimi esperti mondiali di Diritti umani, è drastico: "Per decenza, l'Onu farebbe meglio ad abolire l'Alto commissariato".
Il fallimento del piano Arlacchi
Un altro organismo dalla dubbia utilità è l'Unodccp (acronimo di stile sovietico che sta per United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention), anch'esso attualmente riunito a Vienna in una di quelle conferenze Onu ormai leggendarie per spreco di risorse (si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo).
Questo Ufficio antidroga, presieduto da un anno da quella brava persona che è Antonio Maria Costa (fratello dell'eurodeputato Raffaele di Forza Italia), è reduce dal disastroso mandato di Pino Arlacchi, il quale cinque anni fa aveva avventatamente promesso di sradicare le coltivazioni di droga nel mondo entro il 2008. Siamo a metà del programma, ma la produzione di sostanze stupefacenti invece di diminuire è aumentata. E invece di chiudere per missione fallita, l'Agenzia Onu chiede nuovi fondi.
E' normale che i funzionari pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All'Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungono anche l'80 per cento del bilancio totale, tre anni fa i dipendenti si sono messi in sciopero della fame quando il nuovo segretario voleva tagliare certi sprechi.
Ma i più abili sono i dirigenti dell'Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l'Agenzia che da ben 55 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono quasi quattro milioni. Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 350 mila profughi istriani e dalmati dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza da parte dell'Onu.
Tre generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l'assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l'economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall'Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi.
Ma anche in Bosnia, dopo otto anni, e in Kosovo, dopo quattro, le Nazioni Unite non danno alcun segno di volersene o potersene andare. La criminale omissione di intervento nel 1995 da parte dei soldati Onu provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica: settemila morti. I pacifisti vogliono che in Iraq si ripetano altri vergognosi episodi come questo? Un governo è caduto, in Olanda, per le responsabilità di un comandante olandese a Srebrenica. Ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera. Anzi, quello di mettere tutto a tacere sembra un bel vizietto, nel sistema delle Nazioni Unite.
Sempre in Bosnia, quattro anni fa accuse inequivocabili avevano scoperchiato uno scandalo di notevoli proporzioni: funzionari dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a Sarajevo erano stati coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà. L'imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori.
Un personale sovrabbondante
Alla Commissione Onu dei Rifugiati, che spende ogni anno 740 milioni di dollari, escluse le emergenze, si era andati più in là: quattro suoi funzionari arrestati a Nairobi avevano inventato una specie di programma "Sex for food". Nei campi africani dove sono raccolti gli sventurati scampati alle stragi del Ruanda (anche lì: Onu, dov'eri?) donne e bambine venivano violentate, sfruttate e ricattate in permanenza. Vuoi mangiare? Vieni a letto.
Casi estremi, certo. Ma in tutte le Agenzie Onu l'inefficienza e la pigrizia regnano sovrane. Nel Palazzo di Vetro a New York l'attività principale della maggior parte del sovrabbondante personale diplomatico (in città vivono alla grande ben 35 mila diplomatici) è quella di partecipare a banchetti e gala. Si distinguono in questa attività frenetica i funzionari dei regimi del Terzo mondo, quasi sempre parenti, figli, amici o clienti del dittatorello locale. Non è un mistero: in molti paesi sottosviluppati il posto di ambasciatore all'Onu, che permette di vivere permanentemente negli Stati Uniti con gli agi dell'indennità diplomatica, vale più della carica di ministro degli Esteri.
(1. continua)
Dagospia.com 16 Aprile 2003
16 aprile 2003
Dopo Oriana Fallaci sul Wall Street Journal e Beppe Severgnini sull'Economist, un altro giornalista italiano scrive le proprie opinioni direttamente in inglese sui giornali anglosassoni: Mauro Suttora, corrispondente da New York del settimanale Oggi. Su Newsweek di questa settimana - e oggi su Il Foglio - appare un suo commento sull'Onu in Iraq, dal titolo esplicito: "The last thing Iraqis need" ("L'ultima cosa di cui gli iracheni hanno bisogno").
Suttora si scaglia contro le Nazioni Unite, accusandole di essere un "mostro gogoliano" con 65mila dipendenti e un bilancio di 2,6 miliardi di dollari, "pieno di burocrati pigri e incompetenti che perpetuano i problemi invece di risolverli". Esamina alcuni casi di amministrazione Onu (Palestina, Bosnia, Kosovo) e si stupisce che l'Onu, nonostante abbia gia' dato prova di inefficienza anche in Iraq, sia diventata "l'ultimo ridotto" dei pacifisti che la invocano "come se fosse una parola magica".
Mauro Suttora per Il Foglio
New York. L'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, vuole l'Onu in Iraq: lo detto domenica sera davanti a tredici milioni di telespettatori americani durante il programma "60 Minutes" della Cbs. Anche il furbo Joe Biden, capo dei Democratici alla commissione Esteri del Senato, favorevole all'Onu: "Perché dobbiamo rischiare le vite dei nostri ragazzi agli incroci di Baghdad? E perché i contribuenti statunitensi dovrebbero continuare a pagare tutto intero il conto del mantenimento dell'ordine in Iraq? Che ci vadano anche i peace-keepers dell'Onu, o almeno quelli della Nato".
Argomenti concreti, che fanno breccia nell'americano medio ormai saziato dalla vittoria su Saddam Hussein. Quindi Onu sarà, lo ha deciso anche l'Amministrazione Bush. Ma la supervisione delle operazioni resterà saldamente in mano agli angloamericani.
Questa volta gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di farsi scippare controllo della situazione. Anche perché bilancio delle altre operazioni Onu in giro per il mondo oscilla fra l'inutile e il disastroso. Altro che "nation rebuilding": ovunque vadano, i funzionari delle Nazioni Unite sembrano posseduti dall'irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.
L'atto d'accusa di Terzani sulla Cambogia
"Dopo il fallimento degli interventi in Somalia e nell'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia viene citata come straordinario successo', indicata come modello da seguire e usata per riscattare reputazione di un organismo le cui strutture andrebbero rimesse in discussione.
In realtà, l'operazione si è rivelata carissima (due miliardi e mezzo di dollari, ventiduemila uomini) ed è stata segnata sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti: quattrocento milioni di dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari - alcuni di altissimo livello - i quali avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione materiali che non venivano mai consegnati o venivano pagati a loro complici a prezzi fuori mercato (...).
Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh erano pieni, le ville affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokyo o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu.
Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole strade si svuotano perché diventano dominio di ombre senza scrupoli - spesso soldati o poliziotti in borghese - che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, soldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande amore per tutto ciò che è Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire - visto come un tradimento - si esprime ora in una crescente ostilità verso tutto ciò che è occidentale".
Questo è il bilancio imbarazzante che Tiziano Terzani tracciava qualche anno fa dell'intervento in Cambogia, uno dei primi esperimenti di amministrazione Onu. Ciononostante, oggi "Nazioni Unite" sembra essere diventata una parola magica, l'ultima trincea per i pacifisti sconfitti anch'essi, assieme a Saddam, dalle tre settimane di guerra di Donald Rumsfeld.
Ma che cosa sono in realtà, oggi, le Nazioni Unite? Un mostro burocratico con 65 mila dipendenti fissi con decine di migliaia di collaboratori e consulenti superpagati, che costano 2,6 miliardi di dollari l'anno. Vanno calcolati a parte i costosissimi programmi di "peacekeeping" (mantenimento della pace), pagati direttamente dai paesi che inviano i contingenti, e i sei miliardi annui di dollari in aiuti al Terzo mondo.
Sbaglia chi identifica l'Onu esclusivamente con la sua sede centrale di New York, il grattacielo costruito nel 1952 da Le Corbusier su un terreno regalato dai Rockefeller. Lì hanno sede il segretariato, guidato attualmente da Kofi Annan, l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e l'Ecosoc, il pletorico organismo di consulenza economica e sociale.
Ma la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, Ufficio antidroga), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l'Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program), Gaza (Agenzia profughi palestinesi).
Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c'è l'Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l'Upu (Unione postale universale), a Londra l'Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l'Icao (International Civil Aviation Organization).
Chi si occupa dei Diritti umani?
Gli Stati membri sono 191. Gli ultimi due arrivati sono Timor Est e la Svizzera, che hanno aderito nel settembre del 2002. Dopo il crollo del comunismo la maggioranza degli Stati non appartiene più alle dittature, le quali tuttavia riescono tuttora a impedire il funzionamento di organismi delicati, come la commissione per i Diritti umani. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Ginevra, in avenue de la Paix, l'annuale sessione dell'inutile Commissione, alla cui presidenza quest'anno è stata eletta la Libia.
Fino al 2002, Alto commissario per i Diritti umani era la combattiva ex presidente irlandese Mary Robinson, che per cinque anni ha denunciato l'opera ostruzionistica portata avanti da Cina, Siria, Sudan, Cuba e Vietnam. Quando se n'è andata, consumata dalla frustrazione, Kofi Annan l'ha sostituita con l'assai più malleabile Sergio Vieira de Mello, placido burocrate 55enne, brasiliano con carriera tutta interna all'Onu, reduce da Timor Est. Geoffrey Robertson, avvocato londinese, uno dei massimi esperti mondiali di Diritti umani, è drastico: "Per decenza, l'Onu farebbe meglio ad abolire l'Alto commissariato".
Il fallimento del piano Arlacchi
Un altro organismo dalla dubbia utilità è l'Unodccp (acronimo di stile sovietico che sta per United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention), anch'esso attualmente riunito a Vienna in una di quelle conferenze Onu ormai leggendarie per spreco di risorse (si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo).
Questo Ufficio antidroga, presieduto da un anno da quella brava persona che è Antonio Maria Costa (fratello dell'eurodeputato Raffaele di Forza Italia), è reduce dal disastroso mandato di Pino Arlacchi, il quale cinque anni fa aveva avventatamente promesso di sradicare le coltivazioni di droga nel mondo entro il 2008. Siamo a metà del programma, ma la produzione di sostanze stupefacenti invece di diminuire è aumentata. E invece di chiudere per missione fallita, l'Agenzia Onu chiede nuovi fondi.
E' normale che i funzionari pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All'Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungono anche l'80 per cento del bilancio totale, tre anni fa i dipendenti si sono messi in sciopero della fame quando il nuovo segretario voleva tagliare certi sprechi.
Ma i più abili sono i dirigenti dell'Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l'Agenzia che da ben 55 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono quasi quattro milioni. Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 350 mila profughi istriani e dalmati dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza da parte dell'Onu.
Tre generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l'assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l'economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall'Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi.
Ma anche in Bosnia, dopo otto anni, e in Kosovo, dopo quattro, le Nazioni Unite non danno alcun segno di volersene o potersene andare. La criminale omissione di intervento nel 1995 da parte dei soldati Onu provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica: settemila morti. I pacifisti vogliono che in Iraq si ripetano altri vergognosi episodi come questo? Un governo è caduto, in Olanda, per le responsabilità di un comandante olandese a Srebrenica. Ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera. Anzi, quello di mettere tutto a tacere sembra un bel vizietto, nel sistema delle Nazioni Unite.
Sempre in Bosnia, quattro anni fa accuse inequivocabili avevano scoperchiato uno scandalo di notevoli proporzioni: funzionari dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a Sarajevo erano stati coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà. L'imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori.
Un personale sovrabbondante
Alla Commissione Onu dei Rifugiati, che spende ogni anno 740 milioni di dollari, escluse le emergenze, si era andati più in là: quattro suoi funzionari arrestati a Nairobi avevano inventato una specie di programma "Sex for food". Nei campi africani dove sono raccolti gli sventurati scampati alle stragi del Ruanda (anche lì: Onu, dov'eri?) donne e bambine venivano violentate, sfruttate e ricattate in permanenza. Vuoi mangiare? Vieni a letto.
Casi estremi, certo. Ma in tutte le Agenzie Onu l'inefficienza e la pigrizia regnano sovrane. Nel Palazzo di Vetro a New York l'attività principale della maggior parte del sovrabbondante personale diplomatico (in città vivono alla grande ben 35 mila diplomatici) è quella di partecipare a banchetti e gala. Si distinguono in questa attività frenetica i funzionari dei regimi del Terzo mondo, quasi sempre parenti, figli, amici o clienti del dittatorello locale. Non è un mistero: in molti paesi sottosviluppati il posto di ambasciatore all'Onu, che permette di vivere permanentemente negli Stati Uniti con gli agi dell'indennità diplomatica, vale più della carica di ministro degli Esteri.
(1. continua)
Dagospia.com 16 Aprile 2003
Thursday, March 27, 2003
Paolo Mieli sull'Iraq
Corriere della Sera, 27 marzo 2003
Amministrazione Onu per l' Iraq: le ragioni di Blair
LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli
Davvero non comprendo, caro Mieli, perché lei creda che l' Onu possa e debba amministrare il dopo in Iraq, non avendo saputo e voluto far nulla prima. Mentre nelle tombe di Al-Najaf le truppe anglo-americane trovano gli agenti chimici invano cercati dagli ispettori delle Nazioni Unite...
Luigi Castaldi
Napoli
Caro Castaldi,
ho già detto che non è prematuro discutere adesso del dopo Saddam. E, dal momento che ho ricevuto svariate lettere su questo tema (alcune di consenso a quel che avevo scritto, anche se ho preferito dar conto di due scelte tra quelle sfavorevoli), forse è bene spendere ancora due parole sull' argomento. Due parole per spiegare perché ritengo sensata la proposta di un' amministrazione Onu sull' Iraq avanzata molte settimane fa da intellettuali europei oltreché dai radicali italiani e che ora è diventata motivo di tensione tra il primo ministro inglese Tony Blair, il quale l' ha fatta sua, e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.
Io non tengo le Nazioni Unite in maggior considerazione di quanto le teniate voi. Ma penso che, stavolta, all' origine di ciò che ha messo in crisi il Palazzo di Vetro non siano state un' incertezza o un passo falso di Kofi Annan. E che perciò (cioè per il fatto di non avere colpe particolari nella degenerazione in guerra della situazione preesistente) l' Onu, pur con tutti i suoi difetti, possa tornare utile per una gestione del dopo Saddam condivisa dal consesso internazionale. Tra l' altro il fatto che su questo vi sia diversità di vedute tra il laburista europeo Blair e il conservatore americano Bush potrebbe offrire un' opportunità di rientrare utilmente nel gioco a molti Paesi del nostro continente. E a parti della sinistra che hanno fin qui avversato l' uso delle armi come strumento per dirimere il contenzioso con il dittatore di Bagdad.
Ma c' è dell' altro. Da tempo seguo con grande attenzione quel che dicono in proposito gli arabi riformisti e gli islamici non fondamentalisti. Tutti o quasi concordano con questa proposta. Amir Taheri, un iraniano che ora scrive per i più importanti quotidiani degli Stati Uniti, sostiene che l' America deve guardarsi dall' imporre all' Iraq di domani «questo o quel leader in virtù dei suoi legami con qualche esponente di Washington», che gli Stati Uniti dovranno mantenersi «neutrali e amici di tutti» e che l' epurazione dovrà essere più che cauta: «gli attuali parlamentari iracheni, tranne una settantina, sono riciclabili; si tratta di opportunisti, certo, ma un' amnistia generale dovrebbe esentare soltanto qualche dozzina di criminali, gli esecutori diretti degli ordini di Saddam Hussein» ha dichiarato a Mauro Suttora del Foglio.
L' imam iracheno di New York, Sheikh Fadehl Al-Sahlani, ha ribadito allo stesso Suttora che «un' amministrazione delle Nazioni Unite invece che statunitense sarebbe auspicabile perché gli iracheni la digerirebbero più facilmente: l' Iraq è un paese musulmano e l' Onu viene accettata perché comprende tutti i Paesi musulmani».
Un altro esule iracheno, Kanan Makiya, oggi docente ad Harvard, si è spinto più in là e ha suggerito che il nuovo Iraq, libero, sia «federale, non arabo e demilitarizzato». E ha precisato: «L' Iraq non è l' Afghanistan; è piuttosto ricco e sviluppato, possiede le risorse umane per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo e musulmano proprio come è stata una grande forza per l' autocrazia e la distruzione».
Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola: gli intellettuali che vengono da quell' area geografica sono pressoché unanimi nel ritenere che la prospettiva indicata da Blair sia più saggia di quella di Bush. E io, pur rinnovando le mie riserve su scelta dei tempi e modalità di questa guerra, nell' augurarmi adesso che si concluda al più presto con la deposizione del despota, ritengo che abbiano ragione.
Amministrazione Onu per l' Iraq: le ragioni di Blair
LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli
Davvero non comprendo, caro Mieli, perché lei creda che l' Onu possa e debba amministrare il dopo in Iraq, non avendo saputo e voluto far nulla prima. Mentre nelle tombe di Al-Najaf le truppe anglo-americane trovano gli agenti chimici invano cercati dagli ispettori delle Nazioni Unite...
Luigi Castaldi
Napoli
Caro Castaldi,
ho già detto che non è prematuro discutere adesso del dopo Saddam. E, dal momento che ho ricevuto svariate lettere su questo tema (alcune di consenso a quel che avevo scritto, anche se ho preferito dar conto di due scelte tra quelle sfavorevoli), forse è bene spendere ancora due parole sull' argomento. Due parole per spiegare perché ritengo sensata la proposta di un' amministrazione Onu sull' Iraq avanzata molte settimane fa da intellettuali europei oltreché dai radicali italiani e che ora è diventata motivo di tensione tra il primo ministro inglese Tony Blair, il quale l' ha fatta sua, e il presidente degli Stati Uniti George W. Bush.
Io non tengo le Nazioni Unite in maggior considerazione di quanto le teniate voi. Ma penso che, stavolta, all' origine di ciò che ha messo in crisi il Palazzo di Vetro non siano state un' incertezza o un passo falso di Kofi Annan. E che perciò (cioè per il fatto di non avere colpe particolari nella degenerazione in guerra della situazione preesistente) l' Onu, pur con tutti i suoi difetti, possa tornare utile per una gestione del dopo Saddam condivisa dal consesso internazionale. Tra l' altro il fatto che su questo vi sia diversità di vedute tra il laburista europeo Blair e il conservatore americano Bush potrebbe offrire un' opportunità di rientrare utilmente nel gioco a molti Paesi del nostro continente. E a parti della sinistra che hanno fin qui avversato l' uso delle armi come strumento per dirimere il contenzioso con il dittatore di Bagdad.
Ma c' è dell' altro. Da tempo seguo con grande attenzione quel che dicono in proposito gli arabi riformisti e gli islamici non fondamentalisti. Tutti o quasi concordano con questa proposta. Amir Taheri, un iraniano che ora scrive per i più importanti quotidiani degli Stati Uniti, sostiene che l' America deve guardarsi dall' imporre all' Iraq di domani «questo o quel leader in virtù dei suoi legami con qualche esponente di Washington», che gli Stati Uniti dovranno mantenersi «neutrali e amici di tutti» e che l' epurazione dovrà essere più che cauta: «gli attuali parlamentari iracheni, tranne una settantina, sono riciclabili; si tratta di opportunisti, certo, ma un' amnistia generale dovrebbe esentare soltanto qualche dozzina di criminali, gli esecutori diretti degli ordini di Saddam Hussein» ha dichiarato a Mauro Suttora del Foglio.
L' imam iracheno di New York, Sheikh Fadehl Al-Sahlani, ha ribadito allo stesso Suttora che «un' amministrazione delle Nazioni Unite invece che statunitense sarebbe auspicabile perché gli iracheni la digerirebbero più facilmente: l' Iraq è un paese musulmano e l' Onu viene accettata perché comprende tutti i Paesi musulmani».
Un altro esule iracheno, Kanan Makiya, oggi docente ad Harvard, si è spinto più in là e ha suggerito che il nuovo Iraq, libero, sia «federale, non arabo e demilitarizzato». E ha precisato: «L' Iraq non è l' Afghanistan; è piuttosto ricco e sviluppato, possiede le risorse umane per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo e musulmano proprio come è stata una grande forza per l' autocrazia e la distruzione».
Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola: gli intellettuali che vengono da quell' area geografica sono pressoché unanimi nel ritenere che la prospettiva indicata da Blair sia più saggia di quella di Bush. E io, pur rinnovando le mie riserve su scelta dei tempi e modalità di questa guerra, nell' augurarmi adesso che si concluda al più presto con la deposizione del despota, ritengo che abbiano ragione.
Wednesday, March 19, 2003
E' sparito il diario di Claretta
Il furto dell' epistolario Mussolini Petacci ha ragioni politiche?
"Quel carteggio scotta. Mia zia sapeva che gli inglesi avevano chiesto aiuto a Mussolini per l' armistizio con Hitler", rivelò un mese fa a Oggi il nipote della Petacci, Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Hanno rubato i documenti che potevano mettere in imbarazzo gli inglesi", dice lo storico Luciano Garibaldi
di Mauro Suttora
Oggi 19/03/2003
Il giallo si complica. E i misteri sulla morte di Benito Mussolini, invece di dissolversi, si infittiscono. Il nuovo soprintendente dell' Archivio di Stato, Maurizio Fallace, ha denunciato ai carabinieri il furto di tutta l' annata 1937 del carteggio fra il dittatore fascista e la sua amante, Claretta Petacci, e del diario di quest' ultima. L' unico erede della Petacci, il nipote sessantenne Ferdinando che vive a Phoenix, in Arizona, un mese fa aveva lanciato proprio dalle colonne del nostro giornale, in un' intervista esclusiva, l' allarme sul destino degli scottanti documenti: "Qualcuno non vuole che la verità esca fuori" (Oggi n. 6, 5 febbraio 2003). E adesso la notizia che diario e lettere sono già stati saccheggiati da mani ignote fa lievitare i sospetti.
Ma cosa contiene di così esplosivo il carteggio Mussolini Petacci?
"In teoria, nessuno dovrebbe saperlo", risponde lo storico Luciano Garibaldi, uno dei massimi esperti di quel periodo e autore di molti libri (gli ultimi: La pista inglese, edizioni Ares, e Un secolo di guerre, ed. White Star), "perché da 58 anni tutti i governi lo hanno coperto con il segreto di Stato. Che però per legge dura solo cinquant' anni. Cosicché alla sua scadenza, nel 1995, chiesi di esaminarlo. Ma l' Archivio mi impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent' anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell' epoca, Giorgio Napolitano, specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell' Archivio, soltanto alcune pagine dei diari fra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945".
Perché questa autolimitazione ?
"Perché ero venuto in possesso delle trascrizioni delle telefonate fra Mussolini e Claretta, intercettate dai tedeschi che controllavano tutto. Da quei colloqui emergono i contatti segreti che il Duce aveva con emissari inglesi di Winston Churchill. "Riuscirò a convincere Hitler", dice Mussolini alla sua amante, che in quel periodo drammatico era diventata anche la sua confidente politica. Lui si sfogava con lei perché ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno".
Cosa voleva Churchill da Mussolini?
"Bloccare l' Unione Sovietica che stava dilagando troppo velocemente in Europa, mentre gli occidentali erano ancora fermi sul Reno".
E lei cosa voleva scoprire nei diari segreti di Claretta?
"Quello che scrisse, almeno nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate intercettate dai nazisti. Lei ascoltava tutto, e durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, sul lago di Garda, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Miriam".
E perché Napolitano non le ha permesso di consultarli, visto che il periodo del segreto di Stato è scaduto e il suo lavoro è di tipo storico scientifico, non certo alla ricerca di pettegolezzi privati ?
"La sua è stata una risposta curiosa. Sosteneva che i funzionari dell' Archivio avevano già provveduto a consultare i diari e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava".
Quindi qualcuno ha già letto e studiato i documenti segreti. E come mai è sparito proprio l' anno 1937 ?
"Le lettere di quell' anno non dovrebbero contenere rivelazioni importanti dal punto di vista politico. Con tutta probabilità si tratta veramente di corrispondenza d' amore e di lamentele da parte dell' amante di un uomo che faceva ancora il galletto e si concedeva altre avventure galanti. Magari saranno state vendute a caro prezzo a qualche collezionista privato miliardario. Ce ne sono tanti, in giro per il mondo".
Il valore commerciale del carteggio e del diario, quindi, potrebbe essere alto. È per questo che il nipote Ferdinando chiede di riaverli ?
"Petacci ha tutto il diritto di rientrarne in possesso, come unico erede vivente. Scaduto il termine dei cinquant' anni di segreto di Stato, se non gli vengono restituiti è un furto".
Ferdinando Petacci aveva soltanto tre anni quando l' auto su cui si trovava assieme alla zia Claretta, al padre Marcello Petacci, alla madre e al fratellino venne bloccata a Dongo, sulla riva del lago di Como, nell' aprile 1945. Suo padre venne fucilato, nonostante avesse dichiarato di essere in contatto con gli inglesi (o forse proprio per questo), la mamma violentata dai partigiani e il fratello non si riprese più dallo choc. Ora vive in Arizona e pretende che i suoi diritti vengano rispettati. Anche quello alla privacy: come si fa, infatti, a opporlo proprio ai parenti più stretti ?
Ma l' Archivio di Stato ha intenzioni differenti: "Quest' anno, trascorsi settant' anni, renderemo consultabili i primi atti del carteggio e del diario, quelli relativi al 1933", annuncia il sovrintendente Fallace. Ed è stato proprio durante una riunione preparatoria per questa pubblicazione che è stato scoperto il furto.
Luciano Garibaldi avverte però: "Già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in un baule nel giardino della villa dei conti Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di fuggire da Gardone, qualcuno si premurò di purgarli delle parti più compromettenti. D' altra parte, questo è stato il destino subito da tutti i documenti che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Quelli che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka per esempio: vent' anni fa gliene chiedemmo conto, e lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch' esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla sono poi le copie fotografiche che Mussolini consegnava al ministro Carlo Alberto Biggini".
Ma siamo sicuri che esistano le prove dei contatti fra Mussolini e Churchill?
"Non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano "Caro Winston" o "Caro Benito", ma sui rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l' autista del Duce, mi ha rivelato nel ' 94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa al confine con la Svizzera per incontrarli. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta hanno cominciato a incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che catturò sia Mussolini che Marcello Petacci, ha scritto due libri. Peccato che l' Istituto Storico della Resistenza di Pavia non permetta ancora l' ascolto delle cassette con la testimonianza di un altro partigiano, ormai deceduto".
Insomma, i misteri sull' oro di Dongo (il tesoro sparito dei gerarchi fascisti) e sulle uccisioni dei partigiani che non accettarono la versione ufficiale continuano. Dureranno ancora per dodici anni, se il governo non si decide a togliere il segreto (che negli Stati Uniti dura solo trent' anni). E forse per sempre, se malauguratamente si verificherà qualche altro strano "furto".
Mauro Suttora
"Quel carteggio scotta. Mia zia sapeva che gli inglesi avevano chiesto aiuto a Mussolini per l' armistizio con Hitler", rivelò un mese fa a Oggi il nipote della Petacci, Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Hanno rubato i documenti che potevano mettere in imbarazzo gli inglesi", dice lo storico Luciano Garibaldi
di Mauro Suttora
Oggi 19/03/2003
Il giallo si complica. E i misteri sulla morte di Benito Mussolini, invece di dissolversi, si infittiscono. Il nuovo soprintendente dell' Archivio di Stato, Maurizio Fallace, ha denunciato ai carabinieri il furto di tutta l' annata 1937 del carteggio fra il dittatore fascista e la sua amante, Claretta Petacci, e del diario di quest' ultima. L' unico erede della Petacci, il nipote sessantenne Ferdinando che vive a Phoenix, in Arizona, un mese fa aveva lanciato proprio dalle colonne del nostro giornale, in un' intervista esclusiva, l' allarme sul destino degli scottanti documenti: "Qualcuno non vuole che la verità esca fuori" (Oggi n. 6, 5 febbraio 2003). E adesso la notizia che diario e lettere sono già stati saccheggiati da mani ignote fa lievitare i sospetti.
Ma cosa contiene di così esplosivo il carteggio Mussolini Petacci?
"In teoria, nessuno dovrebbe saperlo", risponde lo storico Luciano Garibaldi, uno dei massimi esperti di quel periodo e autore di molti libri (gli ultimi: La pista inglese, edizioni Ares, e Un secolo di guerre, ed. White Star), "perché da 58 anni tutti i governi lo hanno coperto con il segreto di Stato. Che però per legge dura solo cinquant' anni. Cosicché alla sua scadenza, nel 1995, chiesi di esaminarlo. Ma l' Archivio mi impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent' anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell' epoca, Giorgio Napolitano, specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell' Archivio, soltanto alcune pagine dei diari fra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945".
Perché questa autolimitazione ?
"Perché ero venuto in possesso delle trascrizioni delle telefonate fra Mussolini e Claretta, intercettate dai tedeschi che controllavano tutto. Da quei colloqui emergono i contatti segreti che il Duce aveva con emissari inglesi di Winston Churchill. "Riuscirò a convincere Hitler", dice Mussolini alla sua amante, che in quel periodo drammatico era diventata anche la sua confidente politica. Lui si sfogava con lei perché ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno".
Cosa voleva Churchill da Mussolini?
"Bloccare l' Unione Sovietica che stava dilagando troppo velocemente in Europa, mentre gli occidentali erano ancora fermi sul Reno".
E lei cosa voleva scoprire nei diari segreti di Claretta?
"Quello che scrisse, almeno nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate intercettate dai nazisti. Lei ascoltava tutto, e durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, sul lago di Garda, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Miriam".
E perché Napolitano non le ha permesso di consultarli, visto che il periodo del segreto di Stato è scaduto e il suo lavoro è di tipo storico scientifico, non certo alla ricerca di pettegolezzi privati ?
"La sua è stata una risposta curiosa. Sosteneva che i funzionari dell' Archivio avevano già provveduto a consultare i diari e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava".
Quindi qualcuno ha già letto e studiato i documenti segreti. E come mai è sparito proprio l' anno 1937 ?
"Le lettere di quell' anno non dovrebbero contenere rivelazioni importanti dal punto di vista politico. Con tutta probabilità si tratta veramente di corrispondenza d' amore e di lamentele da parte dell' amante di un uomo che faceva ancora il galletto e si concedeva altre avventure galanti. Magari saranno state vendute a caro prezzo a qualche collezionista privato miliardario. Ce ne sono tanti, in giro per il mondo".
Il valore commerciale del carteggio e del diario, quindi, potrebbe essere alto. È per questo che il nipote Ferdinando chiede di riaverli ?
"Petacci ha tutto il diritto di rientrarne in possesso, come unico erede vivente. Scaduto il termine dei cinquant' anni di segreto di Stato, se non gli vengono restituiti è un furto".
Ferdinando Petacci aveva soltanto tre anni quando l' auto su cui si trovava assieme alla zia Claretta, al padre Marcello Petacci, alla madre e al fratellino venne bloccata a Dongo, sulla riva del lago di Como, nell' aprile 1945. Suo padre venne fucilato, nonostante avesse dichiarato di essere in contatto con gli inglesi (o forse proprio per questo), la mamma violentata dai partigiani e il fratello non si riprese più dallo choc. Ora vive in Arizona e pretende che i suoi diritti vengano rispettati. Anche quello alla privacy: come si fa, infatti, a opporlo proprio ai parenti più stretti ?
Ma l' Archivio di Stato ha intenzioni differenti: "Quest' anno, trascorsi settant' anni, renderemo consultabili i primi atti del carteggio e del diario, quelli relativi al 1933", annuncia il sovrintendente Fallace. Ed è stato proprio durante una riunione preparatoria per questa pubblicazione che è stato scoperto il furto.
Luciano Garibaldi avverte però: "Già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in un baule nel giardino della villa dei conti Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di fuggire da Gardone, qualcuno si premurò di purgarli delle parti più compromettenti. D' altra parte, questo è stato il destino subito da tutti i documenti che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Quelli che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka per esempio: vent' anni fa gliene chiedemmo conto, e lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch' esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla sono poi le copie fotografiche che Mussolini consegnava al ministro Carlo Alberto Biggini".
Ma siamo sicuri che esistano le prove dei contatti fra Mussolini e Churchill?
"Non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano "Caro Winston" o "Caro Benito", ma sui rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l' autista del Duce, mi ha rivelato nel ' 94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa al confine con la Svizzera per incontrarli. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta hanno cominciato a incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che catturò sia Mussolini che Marcello Petacci, ha scritto due libri. Peccato che l' Istituto Storico della Resistenza di Pavia non permetta ancora l' ascolto delle cassette con la testimonianza di un altro partigiano, ormai deceduto".
Insomma, i misteri sull' oro di Dongo (il tesoro sparito dei gerarchi fascisti) e sulle uccisioni dei partigiani che non accettarono la versione ufficiale continuano. Dureranno ancora per dodici anni, se il governo non si decide a togliere il segreto (che negli Stati Uniti dura solo trent' anni). E forse per sempre, se malauguratamente si verificherà qualche altro strano "furto".
Mauro Suttora
Thursday, March 13, 2003
Vietnam a New York
UNA MOSTRA NEWYORKESE GLORIFICA IL VIETNAM (E TACE SULLE LIBERTÀ VIOLATE)
Due dittature, due misure?
Il Foglio
13 marzo 2003
di Mauro Suttora
New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.
Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.
Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.
La repressione dei Montagnards
Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.
“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.
Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.
Due dittature, due misure?
Il Foglio
13 marzo 2003
di Mauro Suttora
New York. Negli stessi giorni in cui gli Stati Uniti vanno in guerra contro una dittatura, l’American Museum of Natural History (una delle istituzioni culturali più importanti degli Usa, seconda solo allo Smithsonian di Washington) inaugura, sabato 15 marzo, una mostra sulla “vita quotidiana” in Vietnam, altra dittatura che viene però smerciata agli ingenui newyorkesi come simpatica meta vacanziera, dove esoticamente scontare insensati complessi di colpa per la guerra persa 30 anni fa. I ricchi liberal di Manhattan peggio di Chirac? Sembra di sì, a sentire la presidente del Museo Ellen Futter che ha presentato la mostra (visitabile fino al gennaio 2004) in anteprima ai giornalisti: “Vi invitiamo alla più grande esibizione sul Vietnam mai organizzata negli Stati Uniti, in collaborazione con il Museo Etnologico di Hanoi. Vogliamo introdurvi alla conoscenza di una cultura vibrante e della vita quotidiana di una nazione composta da ben 54 gruppi etnici”.
Nella mostra e nei discorsi non si fa il minimo accenno alla desolante situazione delle libertà in Vietnam. A più di dieci anni dalle prime riforme economiche del regime comunista, il bilancio della liberalizzazione politica è nullo. Le speranze di chi si illudeva che alle timide privatizzazioni sarebbero seguite aperture nel campo delle libertà personali sono andate completamente deluse. “Anche l’ultimo anno ha visto nuove repressioni in Vietnam, con decine di persone condannate a lunghe pene in carcere, molte delle quali per reati d’opinione”, scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto.
Il prigioniero del mese indicato da Amnesty per il febbraio 2003 è Le Chi Quang, laureato 32enne, condannato a quattro anni soltanto per aver osato criticare su Internet il recente accordo sui confini con la Cina. E’ stato arrestato in un Internet cafè il 21 febbraio 2002, e, al processo dell’8 novembre, durato meno di quattro ore, è apparso distrutto fisicamente e moralmente. E’ malato ai reni. “Ma Le Chi Quang è soltanto uno dei numerosi dissidenti nonviolenti arrestati e condannati nel 2002”, avverte Amnesty, “e il governo di Hanoi continua a impedire agli osservatori internazionali di assistere ai processi. Anzi, a nessuna organizzazione per la difesa dei diritti umani è concesso di entrare in Vietnam”.
Lo scorso 20 dicembre il professore di matematica Nguyen Khac Toan, 47 anni, è stato condannato a 12 anni in un altro processo a porte chiuse durato meno di un giorno: accusato di spionaggio solo per aver passato il testo di petizioni a organizzazioni di profughi vietnamiti all’estero.
La repressione dei Montagnards
Tutti gli altri organismi internazionali, da Freedom House a Human Rights Watch, concordano nel definire il Vietnam una dittatura senza libertà di alcun tipo (associazione, espressione, stampa, riunione) e con violazioni dei diritti umani fondamentali. Ma questo non impedisce a molti volonterosi americani di schierarsi dalla parte dei gerarchi comunisti. Lo stesso direttore del Museo Etnologico vietnamita, Nguyen Van Huy, altro non è che un funzionario governativo, e il suo Museo (come la mostra di New York) propaganda un quadro idilliaco di regime.
“La repressione più feroce la stanno subendo i Montagnards”, avverte Marco Perduca, rappresentante del partito radicale all’Onu, “una popolazione che abita gli altipiani del Vietnam centrale. Più di 200 di loro sono stati arrestati negli ultimi mesi, quasi 100 ci risultano attualmente detenuti e picchiati in prigione, e migliaia di loro vengono costretti a fuggire in Cambogia”. Alla faccia della “vibrante diversità” esaltata dalla ignara (o connivente) presidente Futter del Museo di New York, le minoranze vietnamite subiscono una vera e propria deportazione, con tanto di campi profughi oltre confine.
Se i Montagnards (o Dega) hanno la colpa di essere cristiani protestanti, anche i buddisti vietnamiti non se la passano bene. “L’86enne Thich Huyen Quang, patriarca della Chiesa buddista unificata, è detenuto senza processo dal 1982, senza conoscere nemmeno le ragioni del suo arresto”, denuncia l’eurodeputato radicale Olivier Dupuis, che nel 2001 è stato arrestato durante una sua visita in Vietnam. “Ma tutti i membri delle Chiese non riconosciute ufficialmente dal governo vengono perseguitati”. Il quotidiano New York Post e la televisione Fox hanno criticato la mostra. Ma i liberal newyorkesi di sinistra sembrano felici di assolvere il regime di Hanoi.
Wednesday, March 05, 2003
parla Joe Biden
INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO
Il Foglio, 5 marzo 2003
di Mauro Suttora
New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".
Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".
Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."
Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo
Iraq: è guerra
Durerà 3 giorni, e sarà un inferno veramente intelligente
Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica
Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam
dal nostro corrispondente Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003
Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.
Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.
Guerra di tre giorni.
Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.
Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.
Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.
In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.
La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.
Guerra di tre settimane.
Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".
Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.
Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.
Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.
"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".
Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.
Guerra di tre mesi.
È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.
Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.
Guerra di tre anni.
Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.
Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.
Mauro Suttora
Scenari di guerra: il conflitto con l' Iraq segnerà una svolta nella storia militare, per l' uso massiccio di nuove armi e dell' elettronica
Tra le tre opzioni, nel caso gli sforzi per la pace siano vani, è questa l' ipotesi più realistica. "I combattimenti saranno guidati dalla rivoluzionaria Rete centrale informativa" "Perciò serviranno meno soldati e meno tempo che nel 1991", prevedono gli strateghi. L' esordio delle E Bomb, che con le onde magnetiche "accecheranno" Saddam
dal nostro corrispondente Mauro Suttora
New York (Stati Uniti), 5 marzo 2003
Durerà tre giorni, tre settimane, tre mesi o tre anni ? "Solo una cosa è sicura: non sapremo nemmeno che è iniziata", dice della guerra in Iraq il generale Lewis McKenzie. Lui, canadese, ha comandato le truppe Onu nell' ex Jugoslavia. Ma l' attacco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein, se ci sarà, questa volta difficilmente verrà condotto in nome delle Nazioni Unite. Come accadde già nel 1999, quando la Russia mise il veto alla guerra in Kosovo. Il presidente statunitense George Bush jr, quindi, dovrà combattere da solo la Seconda guerra del Golfo.
Suo padre vinse la prima, 12 anni fa. E anche questa volta la vittoria è sicura: il primo esercito del mondo, che costa 380 miliardi di dollari l' anno (più di tutte le altre forze armate del pianeta messe assieme) e che allinea armi segrete di inaudita potenza, non si farà certo sconfiggere dagli iracheni, che hanno la metà degli armamenti rispetto al ' 91 e sono indeboliti da dieci anni di sanzioni. Ma è proprio la solitudine degli Stati Uniti a rendere importante il fattore tempo. Perché se Saddam se ne andrà dopo tre giorni, per Washington sarà un trionfo. Mentre se si supereranno i tre mesi diventerà un disastro. Ecco quindi i vari scenari, dal più ottimista al più pessimista.
Guerra di tre giorni.
Improvvisamente, ai 19 milioni di iracheni non arriveranno più notizie. A questo si riferisce il generale McKenzie, parlando dell' incertezza sull' inizio del conflitto. Le tv smetteranno di funzionare e le radio nelle case capteranno solo qualche emittente estera, sulle onde medie. Poi però, dopo qualche ora, la voce di Saddam inviterà tutti a deporre le armi e a non opporre resistenza. Attenzione: la "voce" del dittatore iracheno, non lui. Perché, una volta messi fuori uso i media del regime, gli americani trasmetteranno falsi comunicati già confezionati dalla Cia con la voce "campionata" di Saddam.
Nel frattempo i commandos penetrati in Iraq da settimane (non è un mistero che già adesso incursori e 007 angloamericani stiano operando nel Nord, controllato dai curdi) si impadroniranno dei principali pozzi petroliferi. O comunque impediranno agli iracheni di farli saltare in aria. Il primo attacco, come sempre, arriverà dall' aria e di notte. Dopo che gli aerei a stelle e strisce EA 6B avranno neutralizzato i radar nemici, gli F 16 modello CJ si occuperanno di distruggere metodicamente le batterie antiaeree.
Per ironia della sorte, molte delle tremila spedizioni aeree che gli Stati Uniti sono in grado di far partire nelle prime 48 ore di guerra proverranno dalla base Principe Sultan. Cioè proprio dall' installazione militare che Osama Bin Laden odia di più, perché si trova sul suolo "sacro" della sua Arabia Saudita. Gli altri velivoli (in particolare i Super Hornet, i nuovi caccia della Marina che dispongono di sensori che inquadrano 4 bersagli alla volta) partiranno dalle portaerei, dalla Turchia e dal Qatar.
In tutto, gli Stati Uniti questa volta hanno portato nel Golfo Persico 200 mila soldati: meno della metà rispetto a quelli che combatterono nella coalizione della Prima guerra del Golfo. Come mai ? Basteranno ? "Certo", rispondono fiduciosi al Pentagono, "perché quello fu un conflitto pianificato ancora con la mentalità della guerra fredda: grandi quantità di mezzi corazzati che avanzano lentamente nel deserto, a 15 chilometri l' ora.
La prossima, invece, sarà la prima E war, la prima guerra elettronica". "Una battaglia basata sull' uso delle più moderne tecnologie dell' informazione", prevede il generale dell' esercito italiano Carlo Jean, "in cui sarà regina la rivoluzionaria Rete centrale informativa basata sulla fusione dei dati forniti dai vari "sensori", dai satelliti ai ricognitori non pilotati". Questi ultimi sono gli ormai noti Predator, già usati in Afghanistan.
Guerra di tre settimane.
Si tratta dell' ipotesi più probabile: gli stessi strateghi americani ammettono che la guerra potrebbe durare di meno solo se Saddam fuggisse o fosse rovesciato con un golpe. Ma sarebbe comunque una durata ridotta rispetto alle altre guerre degli ultimi dieci anni: sia nel Golfo che in Kosovo e in Afghanistan, infatti, i bombardamenti aerei sono durati più di un mese prima che le truppe di terra si arrischiassero ad attaccare. "Questa volta, invece, 9 bombe su 10 saranno teleguidate", assicura il generale Robert Scales, "rispetto a una proporzione di 1 su 10 che avevamo nel ' 91. Quindi gli obiettivi saranno raggiunti assai più in fretta".
Su quanto le bombe (dalla Bat alla Blackout alle CBU 97) possano essere "intelligenti" è lecito restare scettici, dopo i numerosi "danni collaterali" subiti dai civili in Serbia quattro anni fa. Certo è che negli ultimi 24 mesi il presidente Bush ha concesso alle sue gerarchie militari un aumento di spesa del 25 per cento, fatto senza precedenti in tempo di pace (unica eccezione, il regime di Hitler), proprio per sviluppare al massimo le armi sofisticate.
Alcuni esempi ? Il sistema Longbow che, montato sui vecchi elicotteri Apache, permette di mirare contemporaneamente a 16 carri armati nemici. O la bomba Jdam, ordigno supertecnologico a guida satellitare (l' 80 per cento delle armi americane usano ormai il sistema di posizionamento Gps collegato ai satelliti), capace di colpire l' obiettivo con uno scarto di errore di appena 5 metri: il Pentagono ha ordinato alla Boeing di Saint Charles (Missouri) ben 174 mila di questi ordigni, dal modello "light" (227 kg) alle taglie più forti (450 e 1.000 kg). O la cosiddetta E bomb, un ordigno digitale a microonde in grado di far saltare i bunker di comando iracheni spegnendo luci, mettendo fuori uso telefoni, radio e tv, sciogliendo computer: in sostanza la E bomb, progettata per "uccidere i computer risparmiando uomini", porterà ad "accecare" Saddam, e gli impedirà qualsiasi comunicazione coi suoi comandi.
Sarà importante, per vincere in fretta, impedire alle divisioni dell' esercito iracheno (che Saddam, temendo colpi di Stato, tiene da sempre lontane da Baghdad) di convergere sulla capitale in caso di estrema resistenza. In realtà, calcolano gli statunitensi, anche la tanto declamata fedeltà della Guardia al dittatore è tutta da dimostrare. Pare che il nucleo duro degli irriducibili non sia composto da più di tremila soldati: quelli che comunque non sopravviverebbero alle vendette personali dopo tutti i crimini commessi, e che quindi combatterebbero fino alla morte non avendo nulla da perdere.
"L' aspetto psicologico di questa guerra sarà importantissimo", conferma il comandante in capo americano Tommy Franks, "noi dobbiamo riuscire a far capire, in pochi giorni, che non combattiamo contro l' Iraq ma solo contro Saddam e i suoi fedeli. Per tutti gli altri ci sarà un posto nel nuovo Iraq liberato e democratico, com' è avvenuto a Kabul".
Parole di speranza. Ma paradossalmente tanto più facile sarà raggiungere questo obiettivo di pacificazione quanto più tremenda e rapida sarà la prima ondata di bombardamenti, che deve servire a demoralizzare i fedeli di Saddam. Dopodiché gli americani mirano a "redimere" quanti più soldati nemici possibile, per arruolarli subito in un esercito alleato, utile per mantenere l' ordine in una situazione che sarà comunque difficile. E perfino a Saddam lasciano aperta una porta, per non spingerlo a una vendetta estrema del tipo "muoia Sansone con tutti i filistei": in caso di fuga, gli garantirebbero (malvolentieri) un esilio come quello concesso al caudillo panamense Manuel Noriega nel 1989.
Guerra di tre mesi.
È lo scenario pessimista. Saddam non cede, i bombardamenti mirati fanno flop, ma soprattutto si avvera uno dei seguenti due incubi. Primo: gli iracheni usano le armi di distruzione di massa chimiche e batteriologiche che giuravano di non avere più. Contro gli americani o contro la propria popolazione civile, non importa: la tattica criminale della terra bruciata è stata già usata troppo ampiamente da Saddam contro i "fratelli musulmani" curdi e iraniani negli Anni ' 80 per non considerarlo capace di simili atrocità. I soldati americani, soldati tutti "nuovi" (ultraletali, ultraspietati, intessuti di tecnologie come un cyborg, un vero superguerriero), hanno tute e maschere antigas, anche se di dubbio funzionamento, ma il vero dramma sarebbe dover soccorrere decine di migliaia di civili iracheni agonizzanti, e contemporaneamente combattere.
Secondo incubo: gli irriducibili si trincerano dentro Baghdad, si proteggono con "scudi umani" occidentali (pacifisti, ostaggi), si nascondono in basi militari sotto o accanto a chiese, scuole, ospedali, musei, siti archeologici. E anche Saddam può confondere le onde radio delle comunicazioni americane. Senza contare che più i congegni tecnologici sono avanzati, più si rivelano fragili. E, in un deserto, i granelli di sabbia capaci di bloccare un mirabile ingranaggio abbondano.
Guerra di tre anni.
Significherebbe, per gli Stati Uniti, aver perso la guerra. Una resistenza endemica, come quella già subita dagli americani in Vietnam o dai sovietici in Afghanistan, metterebbe a dura prova i nervi delle opinioni pubbliche occidentali. Gli stessi elettori statunitensi non sono teneri con i propri presidenti che perdono: lo dimostrarono contro Jimmy Carter nel 1980, dopo la crisi degli ostaggi in Iran. Per questo Condoleezza Rice, la consigliera più ascoltata da Bush, non prevede in ogni caso per gli Stati Uniti un impegno oltre i 18 mesi in Iraq.
Ma disastri come un missile chimico di Saddam che colpisce Israele, e Sharon che si vendica con un' atomica su Baghdad, potrebbero far sfuggire la situazione di mano perfino alla potenza più forte del pianeta dai tempi dell' Impero romano. Per non parlare di stragi di kamikaze nel nuovo Iraq occupato, ma anche in Europa o di nuovo negli States.
L' Iraq è l' erede dei primi imperi della storia: quelli di sumeri, assiri e babilonesi che prosperarono in Mesopotamia, culla di civiltà. Sarebbe una tragica coincidenza se si candidasse a esserne anche la tomba.
Mauro Suttora
Thursday, February 13, 2003
intervista a Sandra Bullock e Hugh Grant
Grant racconta i litigi con la Bullock sul set del loro film culto
Sandra, io sono nevrotico: i pantaloni li lascio portare a te
"È anche la produttrice di "Due settimane per innamorarsi" e quindi era il mio capo, oltre che la mia partner", spiega il divo "La mattina io ero sempre di cattivo umore e lei presa da mille problemi" "Hugh mi ha insegnato un sacco di nuovi... insulti", rivela l' attrice
New York (Stati Uniti), febbraio 2003
Vogliono conquistare il titolo di coppia più romantica del cinema, e minacciano di riuscirci. Sandra Bullock e Hugh Grant sono riusciti a incassare già 100 milioni di dollari in soli due mesi in America col loro ultimo film 'Due settimane per innamorarsi', e stanno spopolando in Italia dove sono arrivati nel giorno di San Valentino. È un agguerrito testa a testa con l' 'Amore a cinque stelle' di Jennifer Lopez e Ralph Fiennes, altra grande commedia rosa che in Italia vedremo da aprile. Sandra Bullock recita la parte di una combattiva avvocata delle cause perse, militante ecologista che all' inizio del film non esita a sdraiarsi in strada contro una speculazione edilizia, per poi alla fine sdraiarsi nel letto dello speculatore. Non si capirà bene se è stata lei a conquistare, convincere e redimere lui, o viceversa. Quel che è certo è che quando due attori sono belli, affascinanti e simpatici come la Bullock e Grant, il lieto fine è doveroso. Anche se al povero Hugh toccano personaggi ripugnanti come quello del film: un figlio di papà falso, immaturo e incapace.
Peccato che poi, nella vita, questi due campioni del romanticismo non riescano a trovare l' anima gemella. E ormai, sia per Sandra che per Hugh, l' età avanza: oltre i quaranta lui (42), appena sotto lei (38). Li incontriamo entrambi al Park Lane Hotel di Manhattan per intervistarli. Chiariamo subito, intanto: sul set vi siete amati come sostengono gli esperti di gossip ? Vi siete odiati ? O siete restati indifferenti l' uno all' altra ?
"Era da tanto tempo che volevamo recitare assieme; finalmente siamo riusciti a realizzare questo desiderio...", attacca diplomaticissima Sandra. In questo film è lei che porta i pantaloni. Non solo perché il suo personaggio è più maturo del vacuo seduttore interpretato da Hugh, ma anche perché nella realtà la Bullock è pure produttrice. E in questo film non si è limitata a recitare, ma ha fatto anche il "padrone": la Warner Brothers ha subappaltato alla sua società la produzione esecutiva. "È stata un' esperienza utile e interessante, ma non la ripeterò mai più", confessa lei, "perché è da schizofrenici pensare alla propria parte, decidere se una scena va ripetuta o no, discutere col regista sui costi di questo e quello... Non voglio più sostenere il peso di queste responsabilità". Forse a causa del nervosismo per il superlavoro, pare che sul set Sandra non fosse tranquilla, e che anche nei rapporti con Hugh a volte la tensione salisse. O perlomeno, questo è ciò di cui hanno spettegolato durante i mesi delle riprese i giornali di New York.
Lei, ovviamente, nega tutto: "Hugh è la persona più charming che esista. Però è vero che entrambi siamo perfezionisti. Io pensavo di essere la più esigente del mondo sul set, e invece ho scoperto che lui è ancora più preciso di me. Se è convinto di non aver recitato bene una scena, vuole ripeterla finché non è soddisfatto. "A questo aggiungete che anche il regista è un perfezionista, e che a New York, a differenza di Los Angeles dove gli spazi sono più ampi, si gira per strada, e quindi qualsiasi passante può assistere ai retroscena... Insomma, basta una parolaccia ad alta voce per dare l' impressione che si stia litigando. La verità è che sia io che Hugh amiamo il linguaggio colorito. Anzi, lui mi ha insegnato dei nuovi insulti...".
La versione di Hugh Grant sui rapporti con Sandra è surreale: "Sì, volevo farmela da tempo, qualche anno fa eravamo finiti nello stesso albergo in due camere vicine e ho cercato di conquistarla sussurrandole oscenità rivoltanti. Da allora non ha più voluto vedermi... Scherzi a parte, il problema è che, mentre il film procedeva, lei aveva sempre più energia nel suo ruolo di produttrice, io sempre meno. La verità è che sono un nevrotico totale, e con la pressione dei soldi e del tempo divento paranoico. La parte peggiore della giornata è al mattino. Riesco a essere orribile e quando mi arrabbio il tono dei miei strilli sale fino a livelli da gallina di pollaio. Al pomeriggio va molto meglio".
Non è un segreto che il finale del film abbia dovuto essere girato di nuovo, dopo che le riprese erano finite. "Sì", conferma la Bullock, "ma non è avvenuto perché la Warner, come ha scritto qualcuno, era scontenta. Al contrario, erano talmente soddisfatti da concederci aumenti di budget nel caso ci fosse stata qualsiasi cosa da fare per migliorare ulteriormente il film. Così abbiamo preferito rifare la scena finale in un ambiente più intimo". Sandra e Hugh vanno sull' intimo varie volte nel film. A un certo punto, lei si ubriaca sul suo yacht e lo bacia con foga. "Mi è sembrato il bacio più lungo che abbia mai dato a chiunque, anche nella vita vera", scherza lei, una delle zitelle più ambite degli Stati Uniti. E lui: "Sandra è davvero attraente, ma con alcune donne, per quanto mi piacciano, non riesco a flirtare. Sono quelle troppo intelligenti. Mi trovo più a mio agio con quelle meno brillanti".
Hugh Grant, dopo la disavventura del 1995 con la prostituta di colore Divine Brown (venne arrestato per atti osceni in auto a Los Angeles) e la separazione da Liz Hurley, è uno degli scapoli d' oro più attivi di Hollywood. Da anni svolazza di party in party, ogni sera alle prese con nuove splendide ma sconosciute modelle e starlette. Pochi giorni fa si è favoleggiato di un' ulteriore impresa nel campo del sesso non convenzionale, quando l' ascensore su cui erano saliti lui e una bella ragazza in un albergo di Los Angeles è rimasto a lungo bloccato fra un piano e l' altro. Ma tutto ciò che riusciamo a strappargli, come commento serio sulla sua instancabile e volubile attività di rubacuori, è un laconico: "Ammetto di non essere molto paziente in questo periodo con le donne". E subito dopo si rifugia nella battuta: "Riconosco che il figlio di cui Sandra è attualmente incinta è mio". Un riferimento ironico alla vicenda della sua ex, Liz Hurley, che è dovuta ricorrere in tribunale per far riconoscere il figlio Damian al playboy Steve Bing.
Anche Sandra Bullock da anni non va oltre le avventure più o meno fugaci. Ora sta con l' attore Ryan Gosling, 22, coprotagonista nel suo penultimo film. Non ha problemi ad affrontare seriamente l' argomento amore: "Le mie relazioni non sono mai state facili, e ammetto che è avvenuto per colpa mia. Il problema sono io. Ho bisogno di qualcuno che mi faccia sentire piccola quando gli sto vicino. Qualcuno a cui non debba chiedere nulla quando ho bisogno d' aiuto, perché l' aiuto me l' ha già dato lui spontaneamente". La seconda fidanzata d' America (il primo posto lo detiene sempre Julia Roberts) ha scandalizzato tutti confessando pochi giorni fa di avere fatto una volta l' amore in taxi ("Però è successo prima di diventare famosa"). Nel film ci mette due settimane per innamorarsi di Hugh Grant. Quante gliene occorreranno per trovare l' amore della sua vita ?
Sandra, io sono nevrotico: i pantaloni li lascio portare a te
"È anche la produttrice di "Due settimane per innamorarsi" e quindi era il mio capo, oltre che la mia partner", spiega il divo "La mattina io ero sempre di cattivo umore e lei presa da mille problemi" "Hugh mi ha insegnato un sacco di nuovi... insulti", rivela l' attrice
New York (Stati Uniti), febbraio 2003
Vogliono conquistare il titolo di coppia più romantica del cinema, e minacciano di riuscirci. Sandra Bullock e Hugh Grant sono riusciti a incassare già 100 milioni di dollari in soli due mesi in America col loro ultimo film 'Due settimane per innamorarsi', e stanno spopolando in Italia dove sono arrivati nel giorno di San Valentino. È un agguerrito testa a testa con l' 'Amore a cinque stelle' di Jennifer Lopez e Ralph Fiennes, altra grande commedia rosa che in Italia vedremo da aprile. Sandra Bullock recita la parte di una combattiva avvocata delle cause perse, militante ecologista che all' inizio del film non esita a sdraiarsi in strada contro una speculazione edilizia, per poi alla fine sdraiarsi nel letto dello speculatore. Non si capirà bene se è stata lei a conquistare, convincere e redimere lui, o viceversa. Quel che è certo è che quando due attori sono belli, affascinanti e simpatici come la Bullock e Grant, il lieto fine è doveroso. Anche se al povero Hugh toccano personaggi ripugnanti come quello del film: un figlio di papà falso, immaturo e incapace.
Peccato che poi, nella vita, questi due campioni del romanticismo non riescano a trovare l' anima gemella. E ormai, sia per Sandra che per Hugh, l' età avanza: oltre i quaranta lui (42), appena sotto lei (38). Li incontriamo entrambi al Park Lane Hotel di Manhattan per intervistarli. Chiariamo subito, intanto: sul set vi siete amati come sostengono gli esperti di gossip ? Vi siete odiati ? O siete restati indifferenti l' uno all' altra ?
"Era da tanto tempo che volevamo recitare assieme; finalmente siamo riusciti a realizzare questo desiderio...", attacca diplomaticissima Sandra. In questo film è lei che porta i pantaloni. Non solo perché il suo personaggio è più maturo del vacuo seduttore interpretato da Hugh, ma anche perché nella realtà la Bullock è pure produttrice. E in questo film non si è limitata a recitare, ma ha fatto anche il "padrone": la Warner Brothers ha subappaltato alla sua società la produzione esecutiva. "È stata un' esperienza utile e interessante, ma non la ripeterò mai più", confessa lei, "perché è da schizofrenici pensare alla propria parte, decidere se una scena va ripetuta o no, discutere col regista sui costi di questo e quello... Non voglio più sostenere il peso di queste responsabilità". Forse a causa del nervosismo per il superlavoro, pare che sul set Sandra non fosse tranquilla, e che anche nei rapporti con Hugh a volte la tensione salisse. O perlomeno, questo è ciò di cui hanno spettegolato durante i mesi delle riprese i giornali di New York.
Lei, ovviamente, nega tutto: "Hugh è la persona più charming che esista. Però è vero che entrambi siamo perfezionisti. Io pensavo di essere la più esigente del mondo sul set, e invece ho scoperto che lui è ancora più preciso di me. Se è convinto di non aver recitato bene una scena, vuole ripeterla finché non è soddisfatto. "A questo aggiungete che anche il regista è un perfezionista, e che a New York, a differenza di Los Angeles dove gli spazi sono più ampi, si gira per strada, e quindi qualsiasi passante può assistere ai retroscena... Insomma, basta una parolaccia ad alta voce per dare l' impressione che si stia litigando. La verità è che sia io che Hugh amiamo il linguaggio colorito. Anzi, lui mi ha insegnato dei nuovi insulti...".
La versione di Hugh Grant sui rapporti con Sandra è surreale: "Sì, volevo farmela da tempo, qualche anno fa eravamo finiti nello stesso albergo in due camere vicine e ho cercato di conquistarla sussurrandole oscenità rivoltanti. Da allora non ha più voluto vedermi... Scherzi a parte, il problema è che, mentre il film procedeva, lei aveva sempre più energia nel suo ruolo di produttrice, io sempre meno. La verità è che sono un nevrotico totale, e con la pressione dei soldi e del tempo divento paranoico. La parte peggiore della giornata è al mattino. Riesco a essere orribile e quando mi arrabbio il tono dei miei strilli sale fino a livelli da gallina di pollaio. Al pomeriggio va molto meglio".
Non è un segreto che il finale del film abbia dovuto essere girato di nuovo, dopo che le riprese erano finite. "Sì", conferma la Bullock, "ma non è avvenuto perché la Warner, come ha scritto qualcuno, era scontenta. Al contrario, erano talmente soddisfatti da concederci aumenti di budget nel caso ci fosse stata qualsiasi cosa da fare per migliorare ulteriormente il film. Così abbiamo preferito rifare la scena finale in un ambiente più intimo". Sandra e Hugh vanno sull' intimo varie volte nel film. A un certo punto, lei si ubriaca sul suo yacht e lo bacia con foga. "Mi è sembrato il bacio più lungo che abbia mai dato a chiunque, anche nella vita vera", scherza lei, una delle zitelle più ambite degli Stati Uniti. E lui: "Sandra è davvero attraente, ma con alcune donne, per quanto mi piacciano, non riesco a flirtare. Sono quelle troppo intelligenti. Mi trovo più a mio agio con quelle meno brillanti".
Hugh Grant, dopo la disavventura del 1995 con la prostituta di colore Divine Brown (venne arrestato per atti osceni in auto a Los Angeles) e la separazione da Liz Hurley, è uno degli scapoli d' oro più attivi di Hollywood. Da anni svolazza di party in party, ogni sera alle prese con nuove splendide ma sconosciute modelle e starlette. Pochi giorni fa si è favoleggiato di un' ulteriore impresa nel campo del sesso non convenzionale, quando l' ascensore su cui erano saliti lui e una bella ragazza in un albergo di Los Angeles è rimasto a lungo bloccato fra un piano e l' altro. Ma tutto ciò che riusciamo a strappargli, come commento serio sulla sua instancabile e volubile attività di rubacuori, è un laconico: "Ammetto di non essere molto paziente in questo periodo con le donne". E subito dopo si rifugia nella battuta: "Riconosco che il figlio di cui Sandra è attualmente incinta è mio". Un riferimento ironico alla vicenda della sua ex, Liz Hurley, che è dovuta ricorrere in tribunale per far riconoscere il figlio Damian al playboy Steve Bing.
Anche Sandra Bullock da anni non va oltre le avventure più o meno fugaci. Ora sta con l' attore Ryan Gosling, 22, coprotagonista nel suo penultimo film. Non ha problemi ad affrontare seriamente l' argomento amore: "Le mie relazioni non sono mai state facili, e ammetto che è avvenuto per colpa mia. Il problema sono io. Ho bisogno di qualcuno che mi faccia sentire piccola quando gli sto vicino. Qualcuno a cui non debba chiedere nulla quando ho bisogno d' aiuto, perché l' aiuto me l' ha già dato lui spontaneamente". La seconda fidanzata d' America (il primo posto lo detiene sempre Julia Roberts) ha scandalizzato tutti confessando pochi giorni fa di avere fatto una volta l' amore in taxi ("Però è successo prima di diventare famosa"). Nel film ci mette due settimane per innamorarsi di Hugh Grant. Quante gliene occorreranno per trovare l' amore della sua vita ?
Wednesday, February 12, 2003
Kalpana, l'astronauta indiana
KALPANA CHAWLA, L’ASTRONAUTA INDIANA MORTA NEL DISASTRO SHUTTLE
di Mauro Suttora
Oggi, 12 febbraio 2003
Era nata a Karnal, un paese 130 chilometri a nord di Nuova Delhi, e fin da piccola il suo sogno era di volare nello spazio. Come quegli astronauti americani che a otto anni vide atterrare per la prima volta sulla Luna in Tv, da un apparecchio che trasmetteva traballanti immagini in bianco e nero provenienti da una lontanissima città che si chiamava Houston.
Così la piccola Kalpana Chawla cominciò a comportarsi come un maschietto: si tagliava i capelli da sola, rifiutava di indossare abiti stirati e imparò il karate. «Era la più piccola dei miei cinque figli», ricorda la mamma Sanyogita, «Io veramente mi aspettavo un altro maschietto, ma devo dire che alla fine Kalpana ha realizzato molte più cose di un maschio».
I suoi professori indiani la ricordano come un’estroversa. Una volta fece una ricerca sull’ecologia e preparò una grande mappa colorata del cielo con le sagome delle stelle. Dopo il liceo Tagore si iscrisse all’università Dayal Singh di Karna e due anni dopo fu l’unica femmina a essere accettata nel corso di ingegneria aeronautica all’università del Punjab a Chandigarh, dove si laureò.
Poi capì che per avvicinarsi al suo sogno doveva emigrare. I suoi genitori la lasciarono partire, anche se qualche parente mormorò: «Dovrebbe prima sposarsi».
Nel 1982 approdò negli Stati Uniti e si iscrisse all’università del Texas, lo Stato che a Houston ospita il quartier generale della Nasa, la leggendaria National Aeronautics and Space Administration.
«Era una studentessa brillante, eccellente, sempre fra i primi della classe», la ricordano compagni e professori, «ma anche una persona molto tranquilla, quasi umile». Alla parete della sua stanza, nella casa dello studente, aveva appeso alcune foto dello Shuttle. Vegetariana stretta, rifiutava perfino di mangiare assieme a chi preferisse la carne.
Nessuno aveva capito che sotto l’apparenza remissiva della ragazza indiana si nascondeva una volontà di ferro. Infatti dopo la specializzazione arriva il master in ingegneria aerospaziale all’università del Colorado, con la conquista del titolo di «doctor» che negli Stati Uniti è per pochissimi (ed è curioso che le uniche a potersene fregiare, fra i sette astronauti morti nel disastro del primo febbraio, siano le due donne).
Nel 1984, intanto, si è sposata con un americano: Jean Pierre Harrison, un istruttore di volo incontrato il giorno del suo arrivo negli Stati Uniti. Acquisisce così la cittadinanza statunitense. E nel 1987 prende il brevetto di pilota d’aerei.
Kalpana ha ormai le carte in regola per trasformare il suo sogno in realtà. All’inizio si indirizza verso una carriera di progettazione, e lavora al Centro di ricerche Ames della Nasa a Moffett Field in California, nel cuore della Silicon Valley, e poi come vicepresidente della società Overset Methods nella California settentrionale.
«Ma non mi illudevo proprio di poter diventare astronauta», aveva raccontato. Invece a 33 anni viene accettata dalla Nasa: diventa ufficialmente astronauta, assieme ad altri soli 19 fortunati selezionati fra ben quattromila candidati.
Dopo un’attesa e un addestramento di tre anni, finalmente il 19 novembre 1997 arriva il grande giorno: Kalpana è la prima indiana a volare nello spazio. Parte con la più vecchia delle quattro navette («shuttle»), la Columbia, progettata nel 1972, in funzione dall’81 e sopravvissuta al disastro del Challenger nel 1986. Il suo compito: deve manovrare il braccio-robot esterno della navicella spaziale.
Per un miliardo di indiani e per tutta l’Asia Kalpana è diventata un’eroina. Ma forse proprio l’enorme pressione di aspettative che si concentra su di lei la fa sbagliare, per la prima e unica volta nella sua vita: il satellite solare Spartan da 1.500 chili che dev’essere riparato le sfugge dal braccio meccanico. Ci vorranno tre giorni per recuperarlo nello spazio, e un’uscita esterna degli astronauti per compiere l’operazione.
Si può immaginare la costernazione della povera Kalpana. Con gli occhi di un intero continente puntati su di lei, sbagliare le sembra imperdonabile. È convinta che la sua carriera spaziale sia terminata. Ma gli astronauti più anziani la incoraggiano: «Non è stata colpa tua, hai fatto un ottimo lavoro. Non permettere a nessuno di dire il contrario». E infatti l’inchiesta interna della Nasa appura che si trattò di una serie di errori collettivi commessi dall’intero equipaggio.
Così, piano piano, la discreta Kalpana ha risalito la china ed è finita in lista d’attesa per un’altra missione. Non le è stato facile imbarcarsi per il secondo viaggio, quella della rivincita: la sua partenza è stata rinviata più volte, per mesi che alla fine sono diventati anni.
Le ristrettezze economiche della Nasa hanno rallentato i programmi, e per l’intero 2002 le navette Shuttle sono rimaste a terra a causa di problemi tecnici. Il personale addetto alla loro manutenzione é stato decimato: da tremila persone nel ‘95, a 1.800 quattro anni dopo.
Gli Stati Uniti spendono in missioni spaziali 15 miliardi di dollari all’anno. Niente (solo il quattro per cento) rispetto ai 370 miliardi di spese militari. Ma molto, troppo per parte dell’opinione pubblica, ormai assuefatta alle imprese degli astronauti e annoiata dalla mancanza di risultati spettacolari.
La perfezionista Kalpana era anche il simbolo della rinascita tecnologica dell’India, delle sue schiere di geniali ingegneri che hanno trasformato la zona di Bangalore in una seconda Silicon Valley dell’elettronica mondiale.
Il suo lungo sogno si è spezzato la mattina del primo febbraio, solo un quarto d’ora prima di atterrare a Capo Kennedy.
Pezzi del suo povero corpo disintegrato sono stati recuperati nei campi vicino a Houston, quella lontanissima città che nell’estate 1969 aveva cominciato a far sognare una bimba indiana dagli occhioni di brace, consegnandola al suo destino di trionfo e di morte.
Mauro Suttora
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