KALPANA CHAWLA, L’ASTRONAUTA INDIANA MORTA NEL DISASTRO SHUTTLE
di Mauro Suttora
Oggi, 12 febbraio 2003
Era nata a Karnal, un paese 130 chilometri a nord di Nuova Delhi, e fin da piccola il suo sogno era di volare nello spazio. Come quegli astronauti americani che a otto anni vide atterrare per la prima volta sulla Luna in Tv, da un apparecchio che trasmetteva traballanti immagini in bianco e nero provenienti da una lontanissima città che si chiamava Houston.
Così la piccola Kalpana Chawla cominciò a comportarsi come un maschietto: si tagliava i capelli da sola, rifiutava di indossare abiti stirati e imparò il karate. «Era la più piccola dei miei cinque figli», ricorda la mamma Sanyogita, «Io veramente mi aspettavo un altro maschietto, ma devo dire che alla fine Kalpana ha realizzato molte più cose di un maschio».
I suoi professori indiani la ricordano come un’estroversa. Una volta fece una ricerca sull’ecologia e preparò una grande mappa colorata del cielo con le sagome delle stelle. Dopo il liceo Tagore si iscrisse all’università Dayal Singh di Karna e due anni dopo fu l’unica femmina a essere accettata nel corso di ingegneria aeronautica all’università del Punjab a Chandigarh, dove si laureò.
Poi capì che per avvicinarsi al suo sogno doveva emigrare. I suoi genitori la lasciarono partire, anche se qualche parente mormorò: «Dovrebbe prima sposarsi».
Nel 1982 approdò negli Stati Uniti e si iscrisse all’università del Texas, lo Stato che a Houston ospita il quartier generale della Nasa, la leggendaria National Aeronautics and Space Administration.
«Era una studentessa brillante, eccellente, sempre fra i primi della classe», la ricordano compagni e professori, «ma anche una persona molto tranquilla, quasi umile». Alla parete della sua stanza, nella casa dello studente, aveva appeso alcune foto dello Shuttle. Vegetariana stretta, rifiutava perfino di mangiare assieme a chi preferisse la carne.
Nessuno aveva capito che sotto l’apparenza remissiva della ragazza indiana si nascondeva una volontà di ferro. Infatti dopo la specializzazione arriva il master in ingegneria aerospaziale all’università del Colorado, con la conquista del titolo di «doctor» che negli Stati Uniti è per pochissimi (ed è curioso che le uniche a potersene fregiare, fra i sette astronauti morti nel disastro del primo febbraio, siano le due donne).
Nel 1984, intanto, si è sposata con un americano: Jean Pierre Harrison, un istruttore di volo incontrato il giorno del suo arrivo negli Stati Uniti. Acquisisce così la cittadinanza statunitense. E nel 1987 prende il brevetto di pilota d’aerei.
Kalpana ha ormai le carte in regola per trasformare il suo sogno in realtà. All’inizio si indirizza verso una carriera di progettazione, e lavora al Centro di ricerche Ames della Nasa a Moffett Field in California, nel cuore della Silicon Valley, e poi come vicepresidente della società Overset Methods nella California settentrionale.
«Ma non mi illudevo proprio di poter diventare astronauta», aveva raccontato. Invece a 33 anni viene accettata dalla Nasa: diventa ufficialmente astronauta, assieme ad altri soli 19 fortunati selezionati fra ben quattromila candidati.
Dopo un’attesa e un addestramento di tre anni, finalmente il 19 novembre 1997 arriva il grande giorno: Kalpana è la prima indiana a volare nello spazio. Parte con la più vecchia delle quattro navette («shuttle»), la Columbia, progettata nel 1972, in funzione dall’81 e sopravvissuta al disastro del Challenger nel 1986. Il suo compito: deve manovrare il braccio-robot esterno della navicella spaziale.
Per un miliardo di indiani e per tutta l’Asia Kalpana è diventata un’eroina. Ma forse proprio l’enorme pressione di aspettative che si concentra su di lei la fa sbagliare, per la prima e unica volta nella sua vita: il satellite solare Spartan da 1.500 chili che dev’essere riparato le sfugge dal braccio meccanico. Ci vorranno tre giorni per recuperarlo nello spazio, e un’uscita esterna degli astronauti per compiere l’operazione.
Si può immaginare la costernazione della povera Kalpana. Con gli occhi di un intero continente puntati su di lei, sbagliare le sembra imperdonabile. È convinta che la sua carriera spaziale sia terminata. Ma gli astronauti più anziani la incoraggiano: «Non è stata colpa tua, hai fatto un ottimo lavoro. Non permettere a nessuno di dire il contrario». E infatti l’inchiesta interna della Nasa appura che si trattò di una serie di errori collettivi commessi dall’intero equipaggio.
Così, piano piano, la discreta Kalpana ha risalito la china ed è finita in lista d’attesa per un’altra missione. Non le è stato facile imbarcarsi per il secondo viaggio, quella della rivincita: la sua partenza è stata rinviata più volte, per mesi che alla fine sono diventati anni.
Le ristrettezze economiche della Nasa hanno rallentato i programmi, e per l’intero 2002 le navette Shuttle sono rimaste a terra a causa di problemi tecnici. Il personale addetto alla loro manutenzione é stato decimato: da tremila persone nel ‘95, a 1.800 quattro anni dopo.
Gli Stati Uniti spendono in missioni spaziali 15 miliardi di dollari all’anno. Niente (solo il quattro per cento) rispetto ai 370 miliardi di spese militari. Ma molto, troppo per parte dell’opinione pubblica, ormai assuefatta alle imprese degli astronauti e annoiata dalla mancanza di risultati spettacolari.
La perfezionista Kalpana era anche il simbolo della rinascita tecnologica dell’India, delle sue schiere di geniali ingegneri che hanno trasformato la zona di Bangalore in una seconda Silicon Valley dell’elettronica mondiale.
Il suo lungo sogno si è spezzato la mattina del primo febbraio, solo un quarto d’ora prima di atterrare a Capo Kennedy.
Pezzi del suo povero corpo disintegrato sono stati recuperati nei campi vicino a Houston, quella lontanissima città che nell’estate 1969 aveva cominciato a far sognare una bimba indiana dagli occhioni di brace, consegnandola al suo destino di trionfo e di morte.
Mauro Suttora