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Saturday, March 05, 2005

Ari Fleischer, portavoce di Bush jr


















di Mauro Suttora

Il Foglio, 5 marzo 2005

New York. "Tedioso, tendenzioso, tristissimo, inutile, affrettato, totalmente banale". Non capita spesso che la 'politically correct' critica letteraria del New York Times, la 50enne Michiko Kakutani, stronchi così nettamente un libro. Il bersaglio della severa sacerdotessa del giornalismo è Ari Fleischer, 45enne ex portavoce della Cada Bianca, che sicuramente è stato piuttosto prevedibile nello scrivere il solito libro di memorie dopo aver lasciato lo staff presidenziale due anni fa - lo fanno tutti, e neanche lui ci ha risparmiato 381 pesanti pagine di amarcord.

Thursday, January 20, 2005

Famiglia cristiana sgozzata nel New Jersey

L'AMERICA TEME UN CASO VAN GOGH

Gli Armanious erano egiziani copti di Luxor. Il padre aveva contraddetto in internet alcuni fanatici islamici

da New York, Mauro Suttora

Il Foglio, 20 gennaio 2005



Siamo a Jersey City, la seconda città del New Jersey, lo stato più industrializzato d'America. Villette di legno in stile Soprano, la serie tv sui mafiosi nei sobborghi di New York. Immigrati, operai, milioni di pendolari che ogni mattina attraversano il fiume Hudson, vanno a Manhattan per farla funzionare, ma alla sera devono tornare in periferia perché non hanno i soldi per permettersela: "Living for the City", cantava Stevie Wonder trent'anni fa.

Comunque un sogno per la famiglia Armanious, immigrata da Luxor (Egitto) nel 1997. Una casa verde oliva di due piani a Oakland Avenue, comprata tre anni dopo con un mutuo di 85mila dollari. Sala e due stanze da letto, una per le due figlie: Sylvia di 15 anni e Monica di otto. Nomi americani, visto che il sogno è americano. Era. Perché la famiglia Armanious è stata sterminata, in perfetto stile Charles Manson. O Al Zarkawi, dato che il metodo è stato lo sgozzamento.

Da due giorni nessuno li aveva più visti uscire di casa. Non rispondevano al telefono. Il cognato Ayman Garas, preoccupatissimo, è andato a vedere di persona cos'era successo, verso mezzanotte di giovedì scorso, ma non è riuscito a entrare: porte e finestre chiuse. Così si è precipitato in commissariato e alla fine ha convinto i poliziotti a sfondare la porta principale, verso le quattro del mattino. 
Man mano che avanzavano nella silenziosa casa dell'orrore, uno spettacolo atroce: i corpi delle quattro vittime, uno dopo l'altro. Prima Hossam Armanious, 47 anni, legato, imbavagliato e con la gola tagliata nella stanza da letto matrimoniale al piano terra. Poi sua moglie Amal Garas, di dieci anni più giovane, nella stanza vicina: stesso rituale di morte, anche lei in una pozza del proprio sangue ormai raggrumato. Infine Sylvia, nella sua camera da letto, e la piccola Monica, trovata nel bagno dov'era riuscita a scappare.

Il signor Armanious lavorava all'università di Princeton, sua moglie alle poste di Kearney. La loro casa aveva ancora le luci e le ghirlande rosse di Natale. Perché la famiglia Armanious era di religione cristiana. Copti d'Egitto, come il dieci per cento dei loro connazionali. Rapporti abbastanza buoni con i musulmani, un ministro degli Esteri (Boutros Boutros Ghali) diventato poi segretario dell'Onu. Ma con scontri periodici, soprattutto negli ultimi tempi: "Non pochi di noi sono emigrati in America anche per sfuggire alle persecuzioni religiose", dicono i copti del New Jersey.

Ma qui comincia la seconda parte della storia. Quella politica, o religiosa. Perchè leggendo i due maggiori quotidiani di New York, il Times e il Post, si ottengono due versioni totalmente differenti. Il Times da sei giorni continua a trattare la vicenda come un semplice fattaccio di cronaca nera da periferia. Lunghi resoconti nelle pagine interne, ma mai un richiamo in prima pagina e nessun riferimento, nei titoli, sommari e didascalie, a un possibile movente religioso della strage. Che invece viene urlato a gran voce da tutti i fedeli della comunità copta di Jersey City, i quali esasperati hanno cacciato lo sceicco islamico egiziano arrivato a presentare le condoglianze al funerale di lunedì.

"Hossam Armanious è stato ucciso perchè aveva osato contraddire dei fanatici islamici in una seguitissima chatroom religiosa su internet", accusa Rafique Iscandar, 51 anni, il migliore amico della vittima. Il New York Post crede alla pista religiosa e martedì spara in prima pagina: "Holy War", guerra santa. L'incubo di Oriana Fallaci si sta avverando nel New Jersey? Un altro sgozzamento in stile Theo Van Gogh è avvenuto a pochi chilometri da Ground Zero, moltiplicato per quattro?

La polizia è cauta. All'inizio aveva ipotizzato la vendetta di un ex affittuario della stessa casa, ma questa versione è ormai evaporata. Adesso, per esorcizzare il movente peggiore, quello di cui nessuno in America vuole sentir parlare, si sta tirando fuori la rapina, visto che dalla tasca di Armanious manca il portafogli e dalla casa qualche gioiello. Ma altri gioielli e soldi sono restati in altri cassetti, e comunque quale maniaco avrebbe inscenato una strage simile, con rituali tanto macabri quanto metodici, per i pochi denari di una famiglia di immigrati indebitati?

Ai funerali è dovuta intervenire la polizia per calmare i mille cristiani copti infuriati della chiesa di San Giorgio. Inalberando cartelli con croci nere, tutti urlavano che la famiglia è stata assassinata perchè Armanious si era esposto troppo nelle polemiche internettiane con i musulmani: "Aveva paura, ce l'aveva detto, aveva già ricevuto minacce di morte. Hanno soltanto messo in pratica quello che gli avevano promesso". 
Un copto è stato arrestato quando è salito su un'auto parcheggiata per aggredire lo sceicco Tarek Yussuf Saleh di Brooklyn, che era incautamente arrivato per calmare gli animi fra le comunità: "Siete voi i killer!", gli ha urlato, e i poliziotti hanno dovuto scortare lo sceicco in fretta lontano dal funerale.

I musulmani del New Jersey sono costernati: "Qualsiasi crimine contro i civili viola tutte le leggi delle religioni e del mondo civile", ha dichiarato Aref Assaf, presidente dell'American Arab Anti-Discrimination Committee. Ma la rabbia dei cristiani copti egiziani non si placa, e qualcuno teme che Jersey City si infiammi come negli anni Sessanta, quando la vicina Paterson venne messa a ferro e a fuoco da una violenta rivolta dei neri.

L'unica risposta, a questo punto, può arrivare dalle indagini. L'Fbi sta collaborando con la polizia locale, ma non si è impadronito del caso: segno che la pista politico-religiosa non è considerata ancora quella più probabile. Un parente della famiglia sterminata è stato traduttore nel processo contro Lynne Stewart, un'avvocatessa accusata di aver aiutato i terroristi di al Qaeda, "ma da anni non aveva contatti con Armanious", precisano gli investigatori.

Lui però il terrorismo lo conosceva bene: proprio nella sua Luxor, nel 1997, gli islamisti provocarono una delle loro stragi più sanguinose, sterminando decine di turisti in visita nei templi egizi.
Mauro Suttora

com'è andata a finire

Saturday, April 24, 2004

Il neocon Kagan fa marcia indietro

Foglio, sabato 24 aprile 2004 - prima pagina

SAPER FARE LE ALLEANZE

Il Foglio, 24 aprile 2004

di Mauro Suttora

Ora il neocon Kagan dice che Rumsfeld se ne deve andare, e che Bush sa affrontare i nemici ma non gli amici

New York. Robert Kagan, 46 anni, autore del manifesto neocon "Paradiso e potere", ribadisce la sua richiesta: "Donald Rumsfeld se ne deve andare". Ma accanto al segretario della Difesa mette pure il segretario di Stato: "Dopo l'uscita del libro di Bob Woodward anche la posizione di Colin Powell è diventata insostenibile".

Gran folla l'altra sera alla Japan Society per un dibattito fra le due K più prestigiose nella politica estera americana: Kagan e il clintoniano Charles Kupchan, autore nel 2002 di "The End o f the American Era".

"È vero", ammette subito Kagan, "Bush non sta facendo un buon lavoro in Iraq. È stato bravo nell'affermare il diritto alla difesa preventiva, nel sollecitare la riforma del mondo arabo e nell'affrontare con realismo la questione palestinese. Ma non riesce a gestire bene il nuovo mondo unipolare, una situazione confusa e senza precedenti dai tempi dell'impero romano. Occorre coltivare le alleanze, anche con accordi e compromessi, perchè la questione della legittimità conta molto in politica estera: è importante ciò che il mondo pensa di noi, non possiamo ignorarlo.  Dobbiamo riconciliare il nostro potere con l'ordine internazionale, per riassicurare coloro che normalmente starebbero dalla nostra parte".

Parole di moderazione sorprendenti in bocca a un neocon, ma anche Kagan deve fare i conti con gli scricchiolii della Coalizione dei volenterosi: dopo la Spagna, anche la Polonia si è messa a borbottare. "Gli europei comunque non si illudano", avverte, "anche con un eventuale presidente Kerry non sarà automatico trovare un accordo. Ormai fra Europa e America c'è una grande divisione. E prima o poi ci ritroveremo davanti i problemi di Iran e Corea del Nord: rimandarli non significa risolverli. Chi oggi tanto invoca Onu e Consiglio di sicurezza sa bene che questi organismi non hanno mai funzionato. Insomma, si accusa l'amministrazione Bush di aver distrutto una trama di relazioni internazionali che in realtà non era stata mai tessuta, a cominciare dall'intervento in Kosovo non autorizzato dall'Onu".

"Il più grosso equivoco nel quale si cullano gli europei", dice Kagan, "è che la politica estera americana sia improvvisamente caduta in mano a un gruppetto di estremisti. In realtà il desiderio di cacciare Saddam è enormemente condiviso, è sempre esistito un consenso bipartisan su questo. E non c'è voluto l'11 settembre per convincerci. Andate a rileggervi i discorsi di Clinton dal '97 al '99: avrebbe potuto pronunciarli chiunque, nell'attuale amministrazione. E' inutile domandarsi chi scatena le guerre, perchè la risposta non è mai univoca. Chi provocò la guerra contro la Spagna del 1898, per esempio? Teddy Roosevelt, William Randolph Hearst? No, tutti gli Stati Uniti la volevano, non era solo l'isteria di qualcuno, e il presidente William McKinley era popolarissimo. Stesso discorso su Pearl Harbor o il Vietnam, che non fu certo un'avventura solitaria di Robert McNamara".

"Quella del Kosovo fu una guerra illegale ma legittima, questa in Iraq è legale ma illegittima", ribatte Kupchan, "e mi spiego: avrei voluto che l'asticella del livello di pericolo necessario per attaccare preventivamente l'Iraq fosse messa più in alto. La minaccia non era così imminente. Insomma, il concetto di guerra preventiva è giusto, ma è stato sbagliato inaugurarlo con l'Iraq, discreditandolo. Ci siamo bruciati le dita, e ora sarebbe molto più difficile attaccare, che so, la Corea del Nord. Gli Stati Uniti non sono più visti come la soluzione ma come il problema, perchè l'unipolarismo funziona solo se il polo unico è considerato legittimo. La nostra arma principale non sono le  portaerei o gli aerei F16, ma il prestigio. Non è vero che è meglio essere temuti che amati".

Anche Kupchan converge al centro e ammette: "Bush ha fatto cose buone, per esempio l'antiterrorismo non militare: è notevole che da due anni e mezzo non ci siano attentati negli Stati Uniti, anche se prima o poi mi sembra inevitabile che qualcosa accada. Un altro punto su cui Bush ha ragione è che l'Onu limita il nostro potere. È vero, ma è esattamente questo il motivo per cui al resto del mondo l'Onu piace. Cosa ci costava, per esempio, avvertire preventivamente Xavier Solana del nostro sì all'ultimo piano di pace di Ariel Sharon? Dimostriamo una straordinaria assenza di tatto... Ma dò ragione a Kagan: con Kerry non cambierà molto. L'internazionalismo liberal del nordest è ormai tramontato, negli Stati Uniti. E dall'Iraq non possiamo andarcene".
Mauro Suttora

Monday, November 03, 2003

Vagina rejuvenation

SMALL, MEDIUM, EXTRALARGE: QUALI SONO LE DIMENSIONI DESIDERABILI DELLA VAGINA?
SULLE MISURE IDEALI DEL PENE, SAPPIAMO TUTTO E DI BRUTTO. PERCHÈ NESSUNO PARLA DELLE TAGLIE DIVERSE DELLE DONNE?

Mauro Suttora per Il Foglio

3 novembre 2003

New York. Nel 1969 Mario Puzo inseri' nel suo "Il Padrino" la surreale descrizione dell'amante di un mafioso ucciso la quale si fece ridurre la vagina da un chirurgo plastico: temeva che la grossezza dell'organo sessuale del defunto l'avesse sformata a tal punto da renderla inappetibile per il futuro. E' uno dei tanti episodi che rimasero fuori dal film di Francis Ford Coppola, tre anni dopo.

E' passato un terzo di secolo, e negli Stati Uniti si sono moltiplicati i Laser Vaginal Rejuvenation Institute: tutto è migliorabile artificialmente, anche laggiù, al prezzo medio di settemila dollari. Ma ora l'indicibile approda sul prestigioso settimanale "New York Observer", che dedica un'intera, disinibita, esilarante seconda pagina all'argomento: quali sono le misure desiderabili della vagina? A rispondere al quesito è George Gurley, penna fine del giornale: memorabile la sua lunga intervista a Oriana Fallaci dello scorso gennaio, sempre sull'"Observer", uno dei rari articoli usciti in America su "The Rage and the Pride".

Questa volta Rabbia e Orgoglio delle femministe Usa vengono sfidate da un'inchiesta quasi entomologica, titolata provocatoriamente "My Vagina Monologue". Gurley parte dalla banale constatazione che ciascuno di noi, uomo o donna, può fare ogni mattina aprendo la posta elettronica: decine di e-mail ci propongono di aumentare la misura del pene. "Volete un'enorme bestia dentro ai vostri pantaloni?", chiedono gli spammer. E' diventata un'ossessione. Ma perchè nessuno parla invece delle misure delle donne?

"Eppure", scrive Gurley, "tutti sappiamo che anche le confezioni delle signore offrono taglie diverse". E la taglia conta eccome, giura il romanziere Marc Spitz. No, non conta niente, replica la sua collega Francine Maroukian: "Non mi sono mai posta il problema, mi interessa solo se è troppo grande o troppo piccolo quel che mi entra dentro". La pornostar australiana Cherie Lamour difende gli uomini: "Tutte a discutere fino alla morte delle dimensioni del pene, e mai una parola sulla vagina... Eppure la sua larghezza non dipende dal numero degli uomini con cui siamo andate a letto, o dal numero dei figli che abbiamo avuto".

L'attrice Chloe Sevigny partecipa al dibattito: "Ci sono forme e calibri di ogni tipo. Sfortunatamente ora va di moda il molto stretto. Mi hanno raccontato che Greta Garbo era preoccupata di averla troppo larga". "La verità è che non ci poniamo il problema", dice Dian Hanson, che lavora per i libri Taschen a Los Angeles, "perchè da sempre i maschi sono così contenti di avere avuto il permesso di entrare lì dentro che, se le pareti sono un po' rilassate, non si lamentano. Anche perchè temono, sollevando il problema, di essere loro ad averlo troppo piccolo".

Pare che, contrariamente a ciò che sembrerebbe naturale, siano le donne più sottili ad avere gli interni maggiormente cavernosi. Conferma Tad Low del canale musicale VH1: "Sono stato con una modella supermagra, e non sentivo niente". Il chirurgo plastico David Matlock dice che la maggioranza delle sue pazienti sono mamme con muscoli vaginali rilassati: "Le faccio tornare diciottenni. La gratificazione sessuale è collegata direttamente alla forza frizionale generata durante il rapporto".

"Piccolo è bello, questa è la tendenza", aggiunge il dottor Edward Jacobson, "gli interventi stanno aumentando. E' un po' come l'aumento dei seni negli anni '70". L'attrice Jackie Clarke ricorda che suo padre si lamentava: "Le donne americane arrivano a trent'anni con baffi rasati e vagine molli ed enormi, diceva. Beh, ora io ho 28 anni, ma nessuno si è mai lamentato. E se qualcuno osasse, concluderei che ce l'ha lui troppo piccolo".

"E invece ogni uomo, prima o poi, si è imbattuto nella spiacevole sensazione di annegare in un abisso", replica l'attore tv Dean Winters, "anche se non è detto che le mamme debbano preoccuparsi. Una signora con due figli aveva paura di far brutta figura, invece fu piacevolissimo: per alcuni minuti mi sembrò di stare con una diciassettenne."

L'unica a rifiutarsi di partecipare all'inchiesta è stata Glenn Close, incontrata da Gurley alla festa di compleanno newyorkese per l'attrice Naomi Watts: "Quando le ho chiesto se pensava che la misura della vagina rappresentasse un problema, mi ha guardato con disgusto". Eppure proprio la Close fu quella che nel 2001, interpretando i "Monologhi della vagina" al Madison Square Garden, fece alzare in piedi e urlare ripetutamente "Cunt!" ("Figa") ben 18 mila spettatori.

Mauro Suttora

Saturday, October 18, 2003

Ann Coulter

USA: ANN COULTER, NUOVA DESTRA IN TACCHI A SPILLO 
di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 ottobre 2003
New York. Bella, bionda, brillante, intelligente. Ann Coulter, 41 anni, è la nuova star della destra americana. Da tre mesi il suo ultimo libro, "Treason" ("Tradimento"), è nella top ten dei bestseller statunitensi. Lei vive praticamente accampata negli studi televisivi, tutti la vogliono perchè garantisce ascolto. 
E' una specie di Vittorio Sgarbi o Giuliano Ferrara al femminile, adora scandalizzare e ha la battuta pronta. "Da quando è uscito il libro ho dovuto dare duecento interviste", fa finta di lamentarsi all'uscita degli studi Fox (la tv di Rupert Murdoch) sulla Sesta Avenue di Manhattan, dove le chiedono un parere su tutto un giorno sì e uno no.
Ormai con le royalties è diventata miliardaria, beniamina dei conservatori anche perchè intellettualmente non così sofisticata come certi "neocon" (Paul Wolfowitz, Robert Kagan, Amin Taheri). Ma lei si fa un vanto proprio di questo suo volare terra terra "Mi trovo in perfetta sintonia non con l'Upper East Side, il quartiere di New York dove vivo, ma con i veri americani che stanno a Queens e che non temono di esporre la bandiera sulla porta di casa".
Patriottismo, religione, valori tradizionali. "Dio, patria, famiglia: una fascistona", la liquidano a sinistra. Non per nulla Al Franken, primo nella classifica della saggistica con il suo "Lies and the Lying Liars Who Tell Them A Fair and Balanced Look at the Right" ("Bugie e i bugiardi matricolati che le dicono uno sguardo equo e obiettivo sulla destra"), le dedica due interi capitoli uno intitolato "Ann Coulter, un caso da manicomio", e quello successivo che non lascia spazio a dubbi: "Sapete chi proprio non mi piace? Ann Coulter". La sua definizione più gentile è: "Per coloro che sono così fortunati da non averla ancora conosciuta, si tratta della diva della destra isterica", che "scrive pornografia politica".
Nelle liti lei ci sguazza, si diverte come una pazza quando la attaccano anche selvaggiamente "Franken, Joe Conason e tutti quelli che scrivono libri di successo contro i conservatori dovrebbero ringraziarmi riescono a vendere soltanto grazie a me, dove sarebbero se non mi avessero scelta come bersaglio? Darò loro da mangiare per i prossimi trent'anni".
 In effetti, una polarizzazione netta caratterizza ormai la saggistica politica degli Stati Uniti i bestseller sono quelli dei personaggi più estremi. A sinistra trionfano Michael Moore (autore di "Stupid White Men" e del film premio Oscar "Bowling for Columbine") e Gore Vidal.
 A destra rispondono senza far prigionieri, con la Coulter ma anche con Bill O'Reilly (autore di "Spinning Zone" e presentatore ogni sera di un talk show sulla tv Fox) e il terribile John Savage (di nome e di fatto, anch'egli personaggio tv licenziato dalla Nbc dopo aver auspicato in diretta che i gay si pigliassero l'Aids).
La Coulter è un'Oriana Fallaci con maggiore sarcasmo. I suoi nemici, più che i fondamentalisti musulmani dell'11 settembre, sono i "liberals" (cioè la sinistra Usa): "Neppure i terroristi islamici odiano l'America quanto i nostri liberali. Non hanno abbastanza forza. Se avessero la loro energia, in tutto questo tempo sarebbero almeno riusciti a costruirsi le toilette in casa", dice.
 Di ritorno da una presentazione del libro nell'Ohio, ha subìto una perquisizione in aeroporto. E' furibonda: "Quegli imbecilli di agenti, invece di infilarmi le mani sotto il reggipetto, farebbero meglio a prendere di mira certi maschi mediorientali con il fumo che gli esce dai pantaloni..."
Elegante, la Coulter ha uno stile eccentrico fatto di minigonne e cuoio nero che eccita i fans. Nel suo sito Internet (www.anncoulter.org) ha piazzato un'intera "gallery" di proprie immagini in pose provocanti. In una appare con l'ex presidente Ronald Reagan, in un'altra imbraccia virilmente un fucile. Le manca solo il frustino, e poi il suo lettore medio (maschio militarista del Midwest) sarebbe soddisfatto. 
Il fatto che Ann risulti single e si dichiari disponibile al "dating", agli appuntamenti con uomini ("Ma devono essere alti, divertenti, buoni sciatori e soprattutto di destra"), aggiunge fascino al personaggio. Il tocco finale al gioco della seduzione è dato dal club per cuori solitari "conservatori" ospitato dal sito.
In realtà, l'apparentemente populista Ann nuota come un pesce, perfettamente a proprio agio, negli ambienti liberal-chic di Manhattan. Frequenta i ristoranti alla moda dell'Upper East e West Side, dal Baraonda al Bella Blu al Cafè Luxemburg, col suo orologio Cartier e i braccialetti di diamanti.
 Altro che "America profonda", altro che camiciazze spiegazzate a quadrettoni, stile camionista del New Jersey. D'estate migra con tutti i ricchi agli Hamptons, e d'inverno se ne va a sciare sulle montagne Catskill o in Colorado. Il suo posto preferito tuttavia è Miami, Florida "Perchè è pieno di esuli cubani anticomunisti", scherza ma non troppo.
Potrebbe ormai permettersi anche di più dell'appartamento in affitto newyorkese, grazie ai pingui diritti d'autore. Il suo primo successo è stato, nel 1998, "High Crimes and Misdemeanors The Case Against Bill Clinton". L'anno scorso ha sfondato con "Slander, Liberal Lies About the American Right" ("Calunnia, bugie liberali sulla destra americana"), cosicchè l'editore le ha subito chiesto un altro libro. "E io ho lavorato come una pazza da ottobre, anche i venerdì e i sabato sera".
 Il suo ultimo volume è una difesa del senatore Joe McCarthy, quello che negli anni Cinquanta scatenò la caccia alle streghe contro i marxisti negli Stati Uniti. Un'impresa impossibile, apparentemente riabilitare il personaggio che ha dato il proprio nome al "maccartismo", il persecutore che tolse il lavoro a tanti attori e scrittori di Hollywood, il simbolo di uno dei periodi più bui e bigotti della storia d'America?
Ann Coulter non chiedeva di meglio più la sfida è grossa, più lei si lancia a testa bassa per demolire quelli che ritiene stereotipi e luoghi comuni spacciati dagli odiati "liberals". E in questa battaglia delle idee in cui lei si sente perennemente in prima linea è riuscita a dimostrare che tutto sommato alcune delle vittime di McCarthy erano veramente spie dei sovietici, e che comunque in periodo di guerra (seppur solo fredda) quasi tutti i mezzi sono leciti. Così come oggi difende a spada tratta l'intervento in Iraq: "I liberali vorrebbero che i nostri soldati fossero sconfitti, perchè è l'unica possibilità che hanno di poter cacciare Bush dalla Casa Bianca l'anno prossimo".
 Un'altra frase detta dopo l'11 settembre 2001 le è costata il posto alla Msnbc (tv in joint venture fra Microsoft e Nbc): "Invadiamo i Paesi amici dei terroristi, uccidiamo i loro capi e convertiamo tutti al cristianesimo!".
Ghiotta di salmone e ravioli d'aragosta, questa sirena della destra è nata in uno dei luoghi più ricchi del mondo New Canaan (Connecticut), rifugio nel verde dei miliardari newyorkesi. Università di Cornell, specializzazione in legge nel Michigan, primo lavoro nel Center for Individual Rights a Washington, think tank conservatore, poi portaborse del senatore Spencer Abraham, oggi ministro dell'Energia un curriculum di rispetto. 
Ma appena ha sfondato in tv coi denti da pescecane che sfodera assieme al sorriso, Ann ha capito che esagerando si può costruire una lucrosa carriera.
Detesta gli attori pacifisti come Tim Robbins, Susan Sarandon e Ed Norton, mentre adora Bruce Willis e Andy Garcia. "Con quelle sue borsette rosa e i tacchi a spillo sembra un personaggio uscito da 'Sex and the City'", commenta Matt Drudge, il Dagospia statunitense, principe del gossip politico on line, "e invece è la voce principale della nuova generazione conservatrice americana lo dimostrano le tirature dei suoi libri". Per settimane quello della Coulter ha lottato contro le Memorie di Hillary Clinton "Ma lei come peso mi batte tre a uno... Anche come peso del libro, voglio dire".
 "Ha la stessa affabilità di Eva Braun", l'ha stroncata Katie Couric, massima presentatrice tv d'America. O la amano o la odiano, insomma. Ma Ann Coulter gode in ogni caso.
Mauro Suttora

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Tuesday, August 12, 2003

Il nuovo film di Bob Dylan

MASKED AND ANONIMOUS

di Mauro Suttora

Il Foglio, 12 agosto 2003 

New York. Sei anni fa impressionò il mondo intero, con uno di quei suoi Twist of fate, scherzi del destino che sono ormai l'unica caratteristica che accetta. Bob Dylan andò a esibirsi di fronte al Papa, durante il Congresso eucaristico internazionale di Bologna.

Vestito come un buzzurro texano, non si tolse il cappello da cowboy quando si avvicinò a Giovanni Paolo II per salutarlo. Però l'omaggio del Santo padre della controcultura al Santo padre vero c'era tutto.

Ne è passato di tempo, da quel settembre '97. A 61 anni, dopo che il cuore lo ha portato a un passo dalla morte e i critici a un passo dal premio Nobel, il più grande cantautore americano torna a fare l'iconoclasta. 
Nel suo ultimo film appena uscito negli Stati Uniti, Masked and Anonymous, si aggira infatti un bianco sosia del Papa, assieme a un finto Gandhi e a una copia di Abramo Lincoln. 

La presa in giro è evidente, anche se questi personaggi storici nel film non fanno né dicono alcunché: si limitano a salire silenziosi nella scalcinata roulotte backstage di un concerto di Dylan.

L'effetto spiazzamento è notevole: sembra una scena di allucinazione surreale tratta dal periodo di Desolation Row a metà anni '60, quando Dylan scriveva lunghissimi testi assurdi che facevano impazzire il traduttore Fabrizio De Andrè.

Il film, come molta produzione dylaniana, è tutto e niente. Rolling Stone ne è entusiasta, il New York Post gli ha dato zero. L'intera Hollywood, però, ha fatto a gara per apparire almeno con un cameo non pagato: Jessica Lange, Mickey Rourke, Penelope Cruz, Val Kilmer, Chris Penn, Ed Harris, Angela Bassett...

Il Luke Wilson di fama Tenenbaumiama interpreta la parte del fan stupido e devoto, John Goodman è un sudatissimo promoter truffatore, Jeff Bridges fa il solito giornalista rompiballe che infastidisce Dylan con domande tipo: "Dicci la vera ragione per cui non sei andato a Woodstock". 

Lui non può che rispondere col silenzio, come fa da quarant'anni. E nel film interpreta se stesso, cantante che esce di prigione e alla fine ci ritorna senza bene capire perchè, accusato di un delitto che non ha commesso. Docile, mingherlino e stralunato come nella realtà.

Nel '73 il regista Sam Peckimpah lo diresse in un memorabile western, Pat Garrett & Billy the Kid. La sua fu una semplice comparsata, ma compose un capolavoro per la colonna sonora: Knocking on Heaven's Door.

Saturday, August 09, 2003

Benjamin Franklin

BOOM DELLE BIOGRAFIE SUL PADRE DELLA NAZIONE

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2003

New York. “Niente è sicuro nella vita, tranne la morte e le tasse”. Chi l’ha detto? Benjamin Franklin. Formidabile aforista, ma anche giornalista, editore, scienziato, imprenditore e soprattutto padre fondatore degli Stati Uniti. Assieme a Thomas Jefferson, George Washington e John Adams, certo, “ma lui è l’unico che 250 anni dopo ci sembra ancora in carne e ossa, e non di marmo”.
Parola di Walter Isaacson, presidente dell’Aspen Institute, già direttore della Cnn e del settimanale Time nonché fortunato autore dell’ultima biografia di Franklin (ne esce in media una all’anno), che è fulmineamente salita in sole cinque settimane al secondo posto dei bestseller Usa, superata solo da quella di Katharine Hepburn. Stracciata Hillary Clinton. 

Un successo incredibile, anche perchè non si stanno festeggiando particolari anniversari: l’inventore del parafulmine nacque nel 1706 e morì nel 1790. Pure nei paperbacks Franklin spopola: dopo appena tre settimane la biografia dell’anno scorso, scritta dal professore di storia di Yale Edmund Morgan, ha conquistato il settimo posto in edizione economica.

“Era il più moderno dei Founding fathers”: così spiega l’exploit lo storico Arthur Schlesinger. In un momento in cui l’America si interroga profondamente sul proprio ruolo e la propria essenza, a quasi due anni dall’11 settembre e dopo due guerre, la vita del “rivoluzionario riluttante” (come l’ha brillantemente definito Morgan) serve a capire l’attuale riluttanza a sobbarcarsi un ruolo imperiale. 

Perchè “Ben”, com’è familiarmente conosciuto Franklin, è stato soprattutto il portavoce della classe media: quella che nel 1770 era disposta a un onorevole compromesso con Londra invece di muoverle guerra, e che oggi si sente umiliata dal crollo delle pensioni della New economy, oltre che da quello delle due Torri. Osama, Saddam? Certo, pericolosi terroristi da eliminare. Ma, come ammoniva il filosofo pratico di Filadelfia, “un penny risparmiato è un penny guadagnato”. Perciò oggi l’impiegato, già nervoso perchè fatica a pagare l’università del figlio, comincia a irritarsi ascoltando le notizie dall’Iraq: un nostro ragazzo ammazzato ogni giorno, al costo di un miliardo di dollari ogni settimana.

Franklin è sempre stato schifato dai romantici, racconta Isaacson, per chè era il piccolo borghese fiero della propria aurea mediocrità che nel suo annuale “Almanacco del povero Richard” proclamava: “I grandi distruttori del genere umano sono tre: la peste, la carestia e l’eroe. Non eroi ma scienziati servono all’umanità”. 

Grande impresa, quella del calendario. Per ben 26 anni, fino al 1758, Franklin ne vendette diecimila all’anno. La Pennsylvania, dov’erano concentrati gli abbonati, aveva soltanto 50mila abitanti (600mila il totale delle colonie). Quindi, se si escludono gli schiavi e gli analfabeti (metà della popolazione), l’almanacco entrava in ogni famiglia, era letto da tutti, e si era imposto come il più importante strumento di (in)formazione in una società dove l’influenza della chiesa stava declinando.

Il geniale ventenne, che era anche editore-direttore della Pennsylvania Gazette, aveva insomma in mano l’opinione pubblica del proprio stato. E guadagnò tanti di quei soldi che a 42 anni si ritirò dagli affari per dedicare la seconda metà della propria vita alla scienza e alla politica. George Washington combattè la rivoluzione sui campi di battaglia, ma fu Franklin a permettergli di vincerrla andando a Parigi a farsi dare i soldi dai francesi. 
E fu anche l’unico a firmare tutti e quattro i documenti che segnarono la nascita degli Stati Uniti: la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, l’alleanza con la Francia due anni dopo, il trattato di pace con l’Inghilterra nell’82 e la Costituzione nell’87.

Il figlio di poveri immigrati, costretto a crescere in due stanze con tredici fratelli, finì a pranzo con tutti i re d’Europa. Voltaire lo abbracciò da pari a pari (“Oggi di fronte all’Academie Royale è come se si fossero incontrati Solone e Sofocle”, annotò Condorcet). Ma il poliedrico Franklin diresse anche un ufficio postale, fondò i pompieri di Filadelfia, escogitò l’assicurazione antincendio, inventò gli occhiali bifocali, organizzò il primo servizio di vigilantes e propose l’ora legale. 

Noi prendiamo in giro Silvio Berlusconi perchè si preoccupa dei fiori durante i summit (Genova 2001), ma il perfezionista Ben a Parigi fece di peggio (o meglio): giocò a scacchi con un amico nel bagno di madame Helvetius mentre lei assisteva nuda nella vasca, per ingraziarsi la ‘haute’ e far fuori il rivale Adams. Inguaribile burlone, a 75 anni preparò uno studio scientifico sull’emissione dei gas intestinali per l’Accademia reale di Bruxelles. Morì vecchio e felice. Max Weber lo disprezzò: “La sua etica si riduce al come far soldi”. L’America invece lo adora, e compra tutti i libri su di lui.
Mauro Suttora

Friday, August 01, 2003

Riapre l'ambasciata dell'Iraq a Roma

di Mauro Suttora, da New York

Il Foglio, 13 agosto 2003

La villona dell'ex ambasciata irachena a Roma è sempre lì, in quella invidiabile posizione a metà costa di Monte Mario, via della Camilluccia 355. Domattina, per la prima volta dopo la liberazione dell'Iraq più di quattro mesi fa, un rappresentante del nuovo governo (i 25 dirigenti iracheni del Consiglio nominato dalle Potenze occupanti) visiterà quella che è destinata a diventare una delle più importanti ambasciate irachene nel mondo. 

«Non c'è dubbio che, grazie alle scelte del vostro primo ministro, l'Italia sarà uno dei Paesi più vicini al nuovo Iraq», prevede Entifadh Qanbar, 44 anni, che raggiungiamo a Washington poco prima della sua partenza per Roma. Sarà lui a prendere conoscenza della situazione pratica dell'ambasciata: «Si tratta soltanto un'ispezione preliminare, vedremo se è rimasto ancora qualche ritratto di Saddam...», scherza Qambar.

Scherza, ma non troppo. Qambar, infatti, porta ancora sul proprio corpo i segni delle torture che gli aguzzini del regime gli inflissero nel 1987, durante i 47 giorni di prigionia che patì a Bagdad. Laureato in ingegneria civile, pilota militare per cinque anni, Qambar finì nella rete dei servizi segreti iracheni verso la fine della guerra contro l'Iran. Suo fratello e altri undici persone arrestate assieme a lui furono condannate a morte e fucilate. Lui riuscì a cavarsela e nel '90, poche settimane prima dell'invasione del Kuwait, scappò negli Stati Uniti. Ottenne l'asilo politico e da dieci anni è cittadino statunitense. 

La sua vicenda è stata raccontata da Kanan Makiya, architetto del Mit, uno dei più celebri fuoriusciti iracheni, nel terzo capitolo del libro "Crudeltà e silenzio", pubblicato nel '93. Anche nel libro, però, il vero nome di Qambar non appare: per evitargli ritorsioni da parte delle spie di Saddam attivissime anche all'estero, Makiya lo cambiò in Omar.

Oggi è arrivata la rivincita. Dopo un master in ingegneria ottenuto all'università Georgetech di Atlanta (Georgia), Qambar ha cominciato a collaborare con Ahmed Chalabi, il capo dell'Iraqi National Congress. Nel novembre 2000 si è trasferito da Atlanta a Washington, ha abbandonato il lavoro ed è diventato portavoce a tempo pieno di Chalabi. Nel marzo di quest'anno è andato a Doha (Qatar) come ufficiale di collegamento fra il Centcom del generale Tommy Franks e l'Iraqi National Congress. 

"Dopo la liberazione mi sono trasferito a Bagdad. Ho accompagnato Chalabi a Roma il 17 luglio per una riunione dell'Internazionale socialista, poi a New York per il suo incontro al Consiglio di sicurezza dell'Onu. E adesso, tornando a Bagdad, farò tappa a Roma per visitare l'ambasciata. Poi spero di ottenere un passaggio su un aereo militare italiano verso l'Iraq, come ho fatto all'andata».

La «liberazione» dell'ambasciata irachena a Roma non avrà niente di dannunziano, insomma. Però sicuramente almeno quattro persone proveranno il brivido della novità: Faris Ali Al Shoker, primo segretario e console della Sezione per la tutela degli interessi iracheni in Italia dal 2000, l'altro diplomatico Karim Kadhim Aagol e le signore Ayad Mahmoud ed Eman Amjad Mohammed. Sono sopravvissuti alla guerra e al cambio di regime, anche se lo status dell'ambasciata era stato da tempo retrocesso a semplice Ufficio ospitato presso la rappresentanza del Sudan. 

«Fino all'anno scorso la sede della nostra ambasciata ospitava una scuola araba aperta non solo agli iracheni», spiega al Foglio Al Shoker, «poi abbiamo dovuto chiudere anche quella. Si', so che domani arriverà un rappresentante del nuovo governo, anche se non l'ho ancora sentito al telefono. Io sono in partenza, sono stato richiamato a Bagdad come tutto il personale diplomatico iracheno. Ma il nostro ministero degli Esteri ha sempre continuato a funzionare, gli stipendi sono regolarmente arrivati, anche se noi non possiamo svolgere alcuna attività per i cittadini iracheni residenti in Italia».
L'ambasciatore in Italia verrà nominato appena il nuovo governo iracheno sarà riconosciuto, e si saprà il nome del ministro degli Esteri. «A settembre», spera Qambar.
Mauro Suttora

Friday, May 30, 2003

Onu/5: lo scandalo Oil for Food

DAL PALAZZO DI VETRO ESCE ALLO SCOPERTO LO SCANDALO MAZZETTARO "PETROLIO IN CAMBIO DI CIBO": ECCO PERCHE' FRANCIA E RUSSIA HANNO CHINATO LA TESTA A USA E GB.

Mauro Suttora per Il Foglio

da New York, 30 maggio 2003

Come mai francesi e russi hanno chinato così docilmente la testa? Dopo la fine della guerra contro Saddam Hussein, Parigi e Mosca avevano negato per un mese e mezzo a Stati Uniti e Gran Bretagna ogni legittimazione Onu sull'Iraq occupato. La risoluzione approvata il 22 maggio, invece, non solo ha cancellato le sanzioni contro Baghdad, ma ha anche affidato il controllo del petrolio iracheno alle potenze vincitrici, ponendo fine al programma "Oil for Food" gestito dalle Nazioni Unite.

L'Oip (Office of the Iraq Program), nato nel 1997 e guidato a New York dal cipriota Benon Sevan, chiuderà entro sei mesi. Il miliardo di dollari che gli rimane in cassa andrà al nuovo Idf (Iraq Development Fund), e i contratti ancora aperti saranno rivisti. Il loro valore ammonta a dieci miliardi di dollari, di cui quasi la metà con società russe e francesi (3,7 miliardi le prime, un miliardo le seconde).

Seguono società giordane, egiziane e turche, coinvolte solo per ragioni di prossimità geografica. Durante i sei anni del programma le società russe hanno incassato in totale 7,3 miliardi di business. Secondo l'Egitto con 4,3 miliardi, poi la Francia con 3,7, quindi Giordania, Emirati Arabi e Cina con tre miliardi ciascuna. La Gran Bretagna ha avuto contratti per soli 200 milioni di dollari, quasi tutti nel settore sanitario.

L'ammissione: "Tutti lo sapevano"

L'imbarazzo che ha indebolito l'opposizione franco-russa alla risoluzione Onu, fino a liquefarla, deriva dalle rivelazioni delle ultime settimane: le Nazioni Unite avevano tollerato tangenti per miliardi di dollari a Saddam e ai suoi gerarchi. Così, mentre per dieci anni no global e "pacifisti" di tutto il mondo strillavano di bimbi iracheni che sarebbero stati affamati e uccisi dalle sanzioni, i soldi che dovevano sfamarli e curarli venivano intascati dal dittatore e dalla sua famiglia: "Tutti lo sapevano - ammette oggi perfino Sevan - e quelli che erano nella posizione di poter fare qualcosa non hanno fatto nulla. Io stesso non avevo i poteri necessari".

Secondo il programma Oil for Food tutti gli introiti della vendita del petrolio iracheno sarebbero dovuti confluire sul conto bancario Onu gestito dalla Banque Nazionale de Paris, per poi essere utilizzati in acquisti di derrate alimentari e attrezzature umanitarie. Invece le società estere prima pagavano Saddam e i suoi figli per ottenere i contratti, poi versavano loro tangenti fisse sul valore del grezzo estratto. La quota era di 15-25 cent al barile, che in alcuni casi salivano fino a 75 cent. Mezzo miliardo di dollari all'anno, per un totale di tre miliardi.

"Scoprimmo presto che dovevamo 'ungere' parecchia gente", denuncia l'uomo d'affari britannico Swara Khadir, "conservo ancora i documenti iracheni con le istruzioni su come depositare le tangenti in conti bancari giordani e svizzeri. I dirigenti iracheni non dovevano neppure fare la fatica di nascondere la propria corruzione, perché tanto i funzionari dell'Onu facevano finta di non vedere".

Un intermediario petrolifero russo si lamentò con l'Onu per aver dovuto pagare 60 mila dollari a Uday Hussein, figlio di Saddam, senza aver poi ottenuto il contratto: la somma fu versata in una banca di Amman, su un conto privato di Uday, i documenti furono inviati all'Onu, ma il Consiglio di sicurezza non ne tenne mai conto. Anche perché, incredibilmente, proprio le Nazioni Unite avevano affidato all'Iraq, e non ai propri amministratori, il compito di selezionare le società partecipanti al programma Oil for Food.

"Ovviamente molte di queste erano sospette - spiega John Fawcett, consulente della Brookings Institution per i diritti umani - si andava dalla mafia al terrorismo al riciclaggio di denaro sporco, fino a chiunque volesse fare un po' di soldi in fretta. Due società avevano soltanto un ufficio di facciata nel Liechtenstein". Come ha potuto l'Onu non accorgersi di questo verminaio? "Non siamo l'Fbi, il nostro non è un ufficio investigativo", si giustifica Sevan.

Quando le inchieste si fanno, sono dolori

Quando le inchieste si fanno, per le Nazioni Unite sono dolori. La settimana scorsa un rapporto del General Accounting Office (Gao) al Congresso americano ha rivelato che milioni di donne e bambini, cioè l'80 per cento dei venti milioni di profughi censiti nel mondo, finiscono in campi dove gli abusi sessuali sono diffusissimi: "L'Onu non fa abbastanza per controllare la situazione e addestrare il proprio personale", accusa il Gao, braccio investigativo del Congresso Usa. Vengono citati in particolare i campi profughi di Birmania, Congo e Liberia.

Attenzione: a puntare il dito non è l'amministrazione Bush, ma un convinto multilateralista e sostenitore dell'Onu come il senatore Joe Biden, massima autorità del partito democratico in fatto di politica estera (è capogruppo della commissione Esteri): "Donne e bambine, dopo aver sofferto le ingiurie della guerra e dei disastri naturali ed essere state costrette a fuggire dalle proprie case, finiscono in campi dove invece di essere protette vengono brutalizzate e qualche volta violentate". Per questo Biden ha proposto che gli Stati Uniti stanzino 90 milioni di dollari nei prossimi due anni per rendere sicuri i campi dei rifugiati e addestrare il personale.

Le stesse Nazioni Unite, in una loro inchiesta del 2001, avevano ammesso che lo sfruttamento sessuale dei profughi da parte di alcuni dei propri dipendenti era "un problema serio". Ciononostante, i dirigenti dell'Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), guidata dall'ex premier olandese Ruud Lubbers, hanno dichiarato agli investigatori del Gao di non considerare necessari cambiamenti radicali: l'agenzia non nega l'esistenza del problema, ma assicura di avere già compiuto un significativo sforzo che "mira specificatamente a migliorare la capacità da parte del nostro staff di prevenire e rispondere alla violenza sessuale". La replica del Gao è drastica: "Mezze misure e cambiamenti parziali non risolveranno nulla".

Come quasi sempre capita quando un'agenzia Onu è accusata di inefficienza, si sollecitano nuovi finanziamenti piangendo miseria. L'anno scorso l'Unhcr ha dovuto tagliare il proprio bilancio (di 730 milioni di dollari annui) del 10 per cento, perché alcuni paesi non hanno versato le cifre promesse. Non è questo il caso dei tanto deprecati Stati Uniti, che hanno contribuito per 265 milioni di dollari, circa un terzo del bilancio.

La verità è che il problema, più che nei fondi, sta nella loro distribuzione: l'Onu non manda i propri funzionari dove ce n'è più bisogno. Per esempio, soltanto il quattro per cento dei profughi sono in Europa, ma il 22 per cento del personale è stanziato qui, in uffici relativamente comodi. Viceversa, l'Africa "produce" l'80 per cento dei rifugiati, ma soltanto il 55 per cento del personale dell'agenzia Onu lavora sul campo in quel continente disagiato.

"Tutti gli esperti di assistenza internazionale - accusa il Gao - spiegano invece che una presenza visibile di dirigenti in loco è il deterrente più efficace contro gli abusi". Anche l'Organizzazione non governativa Save the Children ha pubblicato questo mese un rapporto in cui chiede più sicurezza per donne e bambini nei campi profughi.

Per la verità, la sicurezza nell'Onu manca perfino attorno al Consiglio di sicurezza. Un fatto increscioso è infatti accaduto pochi giorni fa nel Palazzo di Vetro. Un episodio piccolo, ma incredibile proprio per essere avvenuto nella sede dell'Onu, e per di più negli stessi giorni in cui il mondo assisteva ai saccheggi nelle strade di Baghdad. "Non credevo ai miei occhi: una folla di persone si è impadronita di qualsiasi cosa capitasse sottomano, fino a lasciare la sala completamente vuota", ha raccontato un testimone, non dall'Iraq ma dalla sede delle Nazioni Unite.

E' successo questo: la società Restaurant Associates ha perso la gara d'appalto per i cinque ristoranti, mense e bar interni dell'Onu che gestiva da 17 anni. Nell'ultimo giorno di servizio prima del subentro della nuova società il sindacato ha proclamato uno sciopero "selvaggio", per la mancata corresponsione dell'indennità di licenziamento ad alcuni dipendenti. Così a mezzogiorno, improvvisamente, tutto il personale dei ristoranti ha smesso di lavorare. Il segretario generale Kofi Annan aveva già convocato per l'una in una sala privata un pranzo di lavoro con i 15 membri del Consiglio di sicurezza, che ha quindi dovuto svolgersi a self service, senza camerieri (solo alcuni si sono offerti, per pura cortesia, di servire il caffè).

Sparite anche le suppellettili e l'argenteria

Frattanto la grande "cafeteria", che serve 5 mila pasti al giorno al personale Onu, era rimasta incustodita. E si è verificata una razzia colossale: tutti si sono serviti gratis delle porzioni del giorno (polli, insalate, tacchini, soufflé), ma sono sparite anche tutte le suppellettili, fra cui vassoi e posate d'argento. Stesse scene allo snack-bar "Viennese cafè", nel centro conferenze e nell'elegante sala da pranzo dei delegati, proprio accanto a quella dove Kofi stava mangiando.

Poi ai saccheggiatori è venuta sete. Perché non servirsi gratis al bar? Lì è stato beccato un diplomatico statunitense che, alla domanda su quanto avesse bevuto, ha risposto: "Non so, ho smesso di contare le bottiglie". Un rappresentante della nuova ditta appaltatrice, Aramark, ha valutato in 9 mila dollari il valore dei furti nella sola cafeteria, argenti esclusi. Molti frigobar privati negli uffici del palazzo, invece, rigurgitano. I guardiani Onu che avrebbero dovuto sorvegliare le sale si sono comportati come i Caschi blu in questi giorni nel Congo, o nel '95 a Srebrenica: inerti.

Mauro Suttora

Wednesday, May 07, 2003

Onu/4: gli onusiani

Antropologia degli abitanti e autori di un labirinto

RITRATTO DEGLI INSTANCABILI FUNZIONARI DELLE NAZIONI UNITE, CHE DA 58 ANNI COSTRUISCONO GROVIGLI BUROCRATICI

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 maggio 2003

New York. Benvenuti fra gli onusiani. Non sono gli abitanti di un altro pianeta, bensì i rappresentanti di tutti gli Stati del nostro (pianeta), impegnati da 58 anni a realizzare un labirinto burocratico finora immaginato soltanto in letteratura, da Nikolaj Gogol’ a Franz Kafka, da George Orwell ad Aldous Huxley.

Già nel 1973 il IX Congresso internazionale delle Scienze antropologiche ed etnologiche a Oshkosh (Wisconsin) stabilì ufficialmente che una delle principali cause del mancato sviluppo del Terzo mondo è la burocrazia delle agenzie Onu. Verdetto imbarazzante, visto che nelle Nazioni Unite il 90 per cento delle risorse umane (oggi arrivate a 65 mila dipendenti fissi, più decine di migliaia di consulenti) e finanziarie (circa dieci miliardi di euro all’anno) sono destinate proprio al Terzo mondo.

Da allora le cose non sono migliorate. La crescita dell’Onu è stata impetuosa e inarrestabile: nel 1946 le sue agenzie erano tre (Fao, Unesco e Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro), oggi sono 27. Per raccapezzarsi, nel 2001 è nato un comitato di coordinamento, l’United Nations System Chief Executives Board (Ceb), assistito a sua volta da due altri comitati l’High Level Committee on Programmes (Hlcp) e l’High Level Committee on Management (Hlcm).

Tuttavia, chi vuole esaminare scientificamente la struttura delle Nazioni Unite si trova di fronte a grosse difficoltà “Nonostante la proliferazione di organismi e conferenze”, spiegano David Pitt e Thomas Weiss, curatori del libro “The nature of UN bureaucracies” (ed. Croom Helm, Londra), gli archivi interni Onu sono chiusi agli studiosi, i dipendenti e anche gli ex hanno l’obbligo di riservatezza, i consulenti non parlano perché sono ricattabili”.

Johann Galtung, già rettore dell’università dell’Onu a Tokyo, spiega qual è l’ethos, la cultura che sta alla base dell’organizzazione: “Vengono prodotte a volte ricerche eccellenti per esempio, gli studi epidemiologici dell’Oms o quelli sulla storia mondiale dell’Unesco. Ma l’approccio dell’Onu è necessariamente ‘statocratico’, mentre gran parte della vita del mondo sta fuori dagli Stati. Le Nazioni Unite si comportano come un sindacato di governi è sacrilego che un dirigente Onu critichi uno Stato con nome e cognome, soprattutto il proprio, ed è impossibile che lo faccia se si tratta di uno Stato privo di libertà politiche. Così, data la ricchezza di sapere ed esperienza accumulata da molti funzionari, prevale una frustrazione diffusa che si supera soltanto quando un organismo è guidato da un personaggio capace di muoversi al di là dei governi”.

Questo capita durante rari periodi di grazia ma anche di conflitto, come quelli della irlandese Mary Robinson commissaria per i Diritti umani o del volitivo francese Bernard Kouchner in Kosovo. Eccezioni decisioniste presto riassorbite dal grigiore del funzionariato basta scorrere la lista degli attuali capi delle 27 agenzie e programmi Onu per notare la mancanza di personalità politiche di rilievo, con l’eccezione del placido ex premier olandese Ruud Lubbers commissario per i Profughi, e della diafana norvegese Gro Harlem Brundtland all’Oms.

“I dirigenti Onu – accusa Galtung – si guardano bene dall’esercitare una qualsiasi leadership. Preferiscono adagiarsi in una routine di mediatori che cercano di galleggiare alleviando tensioni, e vengono ottimamente ricompensati per questo io, ad esempio, guadagnavo il triplo del premier del mio paese, la Norvegia. In più, i capi Onu godono di prerogative prenapoleoniche, quasi feudali comando assoluto sullo staff che lavora e pubblica documenti a loro nome, organizzazione verticale, contesto autoritario… Ai dipendenti Onu non è neppure permesso ricorrere ai tribunali per le cause di lavoro. In caso di doglianze esiste un foro interno che sembra funzionare più per gentile grazia che tramite regole di diritto”.

La sociologia interna delle Nazioni Unite tratteggiata da Galtung è spietata: “Il funzionario medio è il cosiddetto Mamu Middle Aged Man University educated. A 60 anni scatta inesorabile la pensione. Cosicché quando qualche agenzia Onu proclama l’Anno o il Decennio dell’Anziano, del Giovane o della Donna, si tratta veramente di un’esperienza esotica per l’apparato, composto per lo più da cinquantenni con le idee di trent’anni fa. I capi desiderano solo sopravvivere per essere confermati alla scadenza del mandato. Nelle lotte interne per la carriera hanno cinque scelte: giocare i governi contro il segretario generale, oppure un governo forte contro i piccoli, oppure molti piccoli contro un grande minacciando di togliere voti, oppure appoggiarsi alle Ong, le Organizzazioni non governative, oppure allearsi col segretario generale.
Le tre ultime manovre vanno effettuate congiuntamente, pena l’inutilità. Per soddisfare ogni appetito si frammentano le competenze e si moltiplicano gli organismi nelle Nazioni Unite non soltanto una mano non sa cosa fa l’altra, ma neppure un dito cosa fa l’altro dito. Ecco quindi innumerevoli riunioni di ‘coordinamento’, il passatempo preferito dei burocrati. Ma raramente uno di loro legge qualche studio che ha commissionato i documenti servono soltanto come incentivi per ulteriori documenti, sono sempre ‘esploratori’, per non esaurire la possibilità di confezionarne altri”.

Per evitare la leggendaria accidia dei dipendenti a tempo indeterminato (ma anche per vantare riduzioni di staff nelle proprie statistiche ufficiali), l’Onu ricorre sempre di più ad assunzioni temporanee. Il risultato è che tutti, per farsi rinnovare il contratto, si conformano al presunto volere del capo. Rimangono memorabili certi rapporti spediti dal Kosovo a New York, che quasi non menzionavano i guerriglieri albanesi del Kla diventati i reali padroni del territorio.

Precari o stabili, i ranghi si allargano comunque a un certo punto nei villaggi Ujama della Tanzania si contavano più ricercatori delle Nazioni Unite che abitanti. E si allungano i titoli dei seminari. Il record, segnalato da Geoffrey Steves sul giornale canadese Globe and Mail, appartiene all’“United Nations Seminar on the Existing Unjust International Economic Order of the Economics of the Developing Countries and the Obstacle that this represents for the Implementation of Human Rights and Fundamental Freedoms”, tenuto negli anni Ottanta dopo una trattativa serrata su ogni singola parola.

Il problema è che fino al crollo del comunismo il gioco era semplice e ovvio dentro l’Onu Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiavano, e i non allineati propendevano più per l’orbita sovietica che per il mondo libero. Ma oggi, se è inevitabile che tutti i membri dell’Onu siano Stati, non è detto che tutti gli Stati ne debbano essere membri. L’Oas (Organizzazione degli Stati americani) dal 1962 ha sospeso Cuba, in quanto dittatura. L’Avana partecipa alle riunioni, ma senza diritto di voto. “Le Nazioni Unite, invece, sono la nuova Bisanzio”, denuncia il professor Pitt, già dirigente e consulente Onu, Oms, Fao, Unesco e Oil. “La disillusione nei confronti del multilateralismo è ampia anche nel Terzo mondo, non soltanto a Washington. E infatti molti paesi preferiscono gli aiuti bilaterali. Quanto agli Stati Uniti, provano ora la stessa sensazione ben descritta da Lord Robert Cecil, ministro britannico, Nobel della Pace nel 1937, che pure era un grande sostenitore della Società delle Nazioni Ginevra è uno strano posto dove funziona una nuova macchina che permette ad alcuni stranieri di influenzare e perfino controllare la nostra azione internazionale’”.

Se poi questi stranieri si rivelano fallimentari quando si occupano dei loro due compiti principali, pace e sviluppo, la nuova superburocrazia perde le qualità descritte da Max Weber e assume invece le sembianze di una patologia sociale alla Robert Merton. Nel Palazzo di Vetro a New York e in quello della Pace a Ginevra ogni documento dev’essere approvato da dieci o più persone. Qualche centesimo in più di tariffa postale dev’essere autorizzato a livello di direttore generale. In compenso, le Nazioni Unite si autoinvestono di poteri quasi biblici (“sradicare la fame, le malattie, l’analfabetismo”) e orizzonti d’oro (“entro cinque anni, dieci, venti”).

Di solito, dopo aver stabilito scintillanti traguardi, tutto si riduce a un costosissimo e affollatissimo congresso in qualche località pittoresca tipo Alma Ata, Rio o Durban, dove vengono annunciati ulteriori euforici obiettivi. Peccato che i dati Onu siano a volte selvaggiamente sbagliati: in un rapporto dell’Unep (United Nations Environmental Program) la stima sul legno usato come combustibile nell’Himalaya varia di un fattore 67. “Il grave di queste mitologie”, ironizza Pitt, “non è che siano false o sospette, ma che vengano così ampiamente accettate”.
Un esempio? La cantilena no global sui miliardi di persone che sarebbero “costrette a sopravvivere con un solo dollaro al giorno”. Senza specificare che in parecchie zone rurali del Terzo mondo un dollaro al giorno permette di vivere decentemente.

Vivono ottimamente, in ogni caso, i funzionari Onu. “Un mediocre tecnico indiano, che potrebbe essere utile per le sue competenze qui da noi”, spiega Hari Mohan Mathur, antropologo di Jaipur, “viene assunto dall’Onu e spedito in Sierra Leone a guadagnare uno stipendio dieci volte superiore a quello che prenderebbe a casa sua, per un lavoro che esegue male. Contemporaneamente, un ‘esperto’ Onu della Sierra Leone viene mandato in India. Risultato: si sviluppano soltanto i salari di questi due signori. Inoltre, i loro alti livelli di vita li alienano completamente dalle società in cui lavorano e, se provengono dal Terzo mondo, anche da casa propria non ci vorranno mai più tornare. Diventano come fiori senza radici che appassiscono. La soluzione? Abolire le quote nazionali nelle assunzioni Onu, e organizzare corsi e concorsi locali, basati sul merito. Con lo stipendio pagato a un esperto Onu, ne possiamo assumere trenta indiani”.
Mauro Suttora
(4. continua)

Wednesday, March 05, 2003

parla Joe Biden


INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Foglio, 5 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".

Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".

Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."

Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo

Tuesday, December 10, 2002

il bisnipote della Ford

Il Foglio, 10 dicembre 2002

di Mauro Suttora, da New York

Povero William Clay Ford junior, 45 anni, bisnipote del fondatore del colosso di Detroit. Un anno fa aveva preso in mano l'azienda, cacciando Jacques Nasser che con una sola mossa - l'avventato acquisto di Kwik-Fit, catena europea di centri di riparazione - aveva fatto perdere alla Ford piu' di un miliardo di dollari. Un altro miliardo si era volatilizzato a causa delle speculazioni sul palladio, il metallo usato per i dispositivi antinquinamento delle auto.

Cosi' arriva il Bisnipote, che esattamente undici mesi fa - l'11 gennaio 2002 - annuncia un piano lacrime e sangue: 23 mila licenziati (senza cassa integrazione, sconosciuta negli Usa), quattro fabbriche chiuse, prestito di cinque miliardi per coprire le perdite. Ma oggi il bilancio e' misero: le azioni sono crollate di un ulteriore 50%, toccando i minimi decennali; difetti di produzione hanno costretto al piu' vasto e costoso richiamo di vetture della storia; Standard and Poor's ha retrocesso il rating del debito Ford fin quasi al livello di junk, spazzatura.

In novembre le vendite di auto negli Usa sono diminuite del 13%, ma Ford e' riuscita a far peggio crollando del 20% rispetto a un anno fa. Così la sua quota di mercato si e' ridotta dal 23 al 21%, mentre le giapponesi avanzano inesorabili. Quindi il 2003, invece di essere anno di festa per il centenario, sara' un altro periodo di incubi e cinghia stretta. Scenario tanto piu' drammatico in quanto inaspettato: solo tre anni fa Ford era la societa' automobilistica che guadagnava di piu' al mondo, oltre sette miliardi di dollari di utile nel '99.

Il Bisnipote (con la famiglia Ford) non controlla una grossa percentuale del capitale societario: ai prezzi attuali il suo investimento in azioni ordinarie non vale piu' di una cinquantina di milioni di dollari. Ma grazie alle azioni con diritto di voto rinforzato (e lui ne ha 3,2 milioni) la sua parola conta molto. Peccato che, come ha rivelato il New York Times domenica, con uno di quegli articoli di "investigative journalism" alla Watergate che scorticano piu' di una requisitoria, nella Ford conti molto anche la parola di un suo vecchio amico.

Lo scandalo, l'ennesimo negli Usa in quest'anno di "enronite", ha un nome e cognome: si chiama John Thornton, ha 48 anni, e ha frequentato lo stesso collegio del Bisnipote: la prep school per figli di papa' di Lakeville nel Connecticut, dove William Ford junior approdo' nel 1971, esattamente come fecero suo padre e suo zio. Grandi amici e poi, mentre il bisnipote se ne va a Princeton a laurearsi in storia, Thornton passa per Harvard, Oxford, Yale, piu' uno stage estivo nell'ufficio di Ted Kennedy a Washington (dove pero', secondo i maligni, il suo compito principale era quello di giocare a tennis col senatore).

Il curriculum impeccabile di Thornton gli apre le porte della banca Goldman Sachs, e negli anni '80 l'aggressivo ragazzo esporta nella sonnolenta Londra i metodi da squalo dei finanzieri americani. Anche il Bisnipote nel frattempo, dopo un master in management al Mit, emigra nel vecchio contineente: si fa le ossa alla Ford Europa. Cosi' i due amici, dopo aver sposato entrambi due laureate della classe 1982 a Princeton, si ritrovano. E nel 1989 Thornton assiste la Ford nello sciagurato acquisto della Jaguar: pagato due miliardi e mezzo di dollari, il marchio inglese anche nel 2002 sta perdendo mezzo miliardo.

Da allora Thornton segue per la Goldman ogni affare della Ford, incassando ogni volta laute consulenze (per un totale di 90 milioni di dollari negli ultimi sei anni). Nel '96 ne diventa consigliere d'amministrazione. Conflitto d'interessi? Finche' gli affari vanno bene, nessuno protesta. Ma Thornton incassa anche quando la Ford perde: decine di milioni sul disastro del palladio, altre commissioni per la consulenza a capocchia su Kwik-Fit. In ottobre il Congresso ha scoperto un possibile motivo: Thornton ha garantito al Bisnipote 400mila azioni di Goldman nell'ultima appetitosa offerta pubblica.

Insomma, la Ford e' sull'orlo del disastro, ma i due amici guadagnavano entrambi. Thornton ha dovuto dimettersi dal consiglio d'amministrazione Ford. Il Congresso ha proibito ai consiglieri d'amministrazione di incassare consulenze dalle societa' che guidano. E il Bisnipote trema.

Mauro Suttora

Wednesday, November 06, 2002

Bush vince il voto midterm

COSA FARA' ORA BUSH

di Mauro Suttora

Il Foglio, 6 novembre 2002

"La vittoria di George W.Bush ha un precedente: quella di John Kennedy alle elezioni di midterm esattamente quarant'anni fa, nel 1962, quando i democratici guadagnarono quattro senatori": l'ardito accostamento Bush-Kennedy (due mondi agli antipodi) è di Michael Barone, rispettato commentatore di Fox Channel, Wall Street Journal e del settimanale Us News & World Report.

Trent Lott, repubblicano del Mississippi, tornerà a essere il capo della maggoranza al Senato già dalla prossima settimana, con l'ultima sessione del Congresso uscente. Il suo motto: "Let's roll", balliamo, il grido di guerra degli eroici passeggeri del volo sulla Pennsylvania che neutralizzarono i terroristi, e della conseguente canzone patriottica di Neil Young.

Ma non c'è strafottenza, in realtà: i repubblicani hanno imparato la lezione della meteora Newt Gingrich che brillò due soli anni, dopo la vittoria del 1994. In fondo 49 senatori su cento restano sempre democratici, possono ancora fare ostruzionismo, e fra i cittadini gli astenuti sono stati la maggioranza assoluta, con il 60 per cento. Il presidente George W. Bush ha assaporato la vittoria in silenzio, telefonando con grande stile anche ai neoletti democratici per congratularsi.

I due temi predominanti resteranno l'economia e la sicurezza nazionale. Priorità assoluta all'imbrigliamento della spesa pubblica, che permetterà di rendere permanenti e irreversibili i colossali tagli di tasse da 1.350 miliardi di dollari in dieci anni promessi da Bush, e di spingersi perfino oltre (nuove riduzioni sui capital gains e detrazioni più ampie per gli investimenti).

Il piano energetico, attualmente in stallo, verrà ripreso in mano assieme al controverso via libera per le estrazioni di petrolio in Alaska. Ma su questo i democratici minacciano il filibustering. Nessun problema, invece, per gli incentivi alle industrie sugli investimenti anti-inquinamento e in risparmio energetico. Vedrà la luce un nuovo ministero, quello della sicurezza nazionale. Quanto alla Difesa, il bilancio 2003 è stato appena approvato e non sono previste novità.

I democratici non potranno più bloccare la riforma del welfare, con la creazione di un fondo per le medicine da ricetta e l'appalto di numerosi servizi sociali alle chiese. Bush intende smantellare il costoso sistema pubblico Medicare, sostituendolo progressivamente con assicurazioni private anche per l'assistenza agli anziani. Hanno vinto tutti e tre i senatori repubblicani che più si sono battuti per la riforma della sicurezza sociale: Elizabeth Dole (moglie dell'ex vicepresidente), John Sununu e Lindsey Graham. Commenta il Wall Street Journal: "Se certi forsennati attacchi democratici in stile New deal non hanno funzionato nell'anno della Enron, non funzioneranno mai più".

Meno imminente appare un assalto alle leggi sull'aborto, richiesto dalle frange estreme dello schieramento repubblicano. Al senatore Lott stanno a cuore anche le sedici delicate nomine e conferme di giudici federali di orientamento conservatore nelle corti d'Appello finora posposte dall'amministrazione Bush, ma ribadisce che in questo campo continuerà a procedere con i piedi di piombo: "Consulteremo prima tutti nella commissione Giustizia del Senato". Quanto alla Corte Suprema, George Will sulla Washington Post ricorda che non succede dal 1811 che un nuovo giudice non venga nominato per otto anni, e poiché la nomina è a vita auspica le dimissioni del presidente William Rehnquist.

Il primo concreto risultato della vittoria di martedì in politica estera è che all'Onu Francia e Russia hanno smesso di minacciare il veto contro una nuova, dura risoluzione presentata dagli Stati Uniti sulle ispezioni in Irak alla ricerca di armi di distruzione di massa. Ormai, dopo negoziati estenuanti, siamo alla terza bozza. Si potrebbe arrivare al voto già oggi, con queste scadenze precise: entro sette giorni l'Irak deve accettare completamente la risoluzione, entro trenta deve rivelare tutti i programmi, i siti e i materiali che potrebbe utilizzare per la produzione di armamenti, entro 45 giorni gli ispettori internazionali ricominciano i loro controlli, e infine entro 105 giorni presentano il loro rapporto al Consiglio di sicurezza, ma possono denunciare subito eventuali violazioni.

Il capo degli ispettori Hans Blix andrà comunque in Irak entro due settimane, e comincerà subito le ispezioni. Ma si arriverà all'uso automatico della forza in caso di violazioni da parte dell'Irak? Francia e Russia continuano a chiedere una seconda risoluzione.

Thursday, October 31, 2002

winona la ladrona

IL CALVARIO DI WINONA RYDER, A PROCESSO PER FURTO

di Mauro Suttora, da New York

Il Foglio, 31 ottobre 2002

Ha dovuto trascorrere il suo trentunesimo compleanno in tribunale a Los Angeles "Winona la ladrona", come ormai l'hanno soprannominata i famelici giornalisti di gossip americani. Ed è finita per due giorni consecutivi in prima pagina su quotidiani cattivi come il New York Post che la stanno scorticando viva, con un'anticipazione di pena e assaggio di gogna che al confronto Cesare Previti appare fortunato.

Ma Winona Ryder, la dolcissima attrice statunitense da sempre in corsa per diventare "la nuova Audrey Hepburn", dovrebbe chiedere i danni non ai cronisti, bensì al proprio sconsiderato avvocato Mark Geragos che le ha consigliato di non patteggiare, di non abbassarsi al "guilty plea" (l'ammissione di colpa) e di tener duro affrontando un disastroso processo pubblico.

Per fortuna negli Stati Uniti la giustizia e' svelta, non piu' di una settimana di udienze, cosicché il calvario si esaurirà entro il week-end. Perché lo spettacolo che va in onda in questi giorni da Beverly Hills ha un'unica attrice protagonista, ma la sua parte è proibitiva. Il 12 dicembre 2001 la superstar rubò vestiti ai grandi magazzini Saks per un totale di 5.560 dollari e 40 cents. Un video proiettato in aula la mostra nel ruolo umiliante della taccheggiatrice beccata in flagrante dalle guardie all'uscita.

Winona si arrampica deliziosamente sui vetri, è sempre comunque eccitante ascoltare la sua soffice voce, anche quando interpreta Alice nel Paese delle meraviglie: "Il regista del film che stavo per girare miaveva chiesto di esercitarmi nella parte della ladra..." Peccato che nessun regista sia stato citato come testimone a discarico. "E' stata educatissima, appena l'abbiamo scoperta mi ha preso la mano e ha chiesto scusa", racconta il capo dei sorveglianti.

Uno di loro precisa: "Ho trovato quattro etichette col prezzo che la Ryder aveva tagliato dai capi rubati con forbici portate da casa". Per provarlo tira fuori i cartellini magnetici che la minidiva alta uno e 63 aveva neutralizzato per non far squillare i sensori all'uscita, li avvicina alle quattro refurtive (una è un vestito Dolce e Gabbana, e spiace che l'Italia abbia contribuito seppure indirettamente a questo dramma): i bordi combaciano.

E' un momento di suspense, i giurati allungano i colli oltre il loro banco per controllare coi propri occhi. Furto con l'aggravante della premeditazione, quindi. I vignettisti satirici si scatenano: "Ecco come Winona si taglia i prezzi da sola!"

La vice attorney (procuratrice della pubblica accusa) è una donna, ci mette un sovrappiù di meticolosità femminile nelle arringhette per incastrare la bella&famosa: "Praticamente si era portata un kit per furto da casa: forbici, una grossa borsa per nascondere la refurtiva, rotoli di carta in cui avvolgerla. Poi è ricorsa a un vecchio trucco: pagare quattro capi per non creare sospetti, ma assieme a quelli portarsene via altri venti". I titoloni cubitali dei tabloid vanno a nozze: "Paghi uno, prendi cinque!"

Il difensore contrattacca: "La mia cliente è rimasta vittima di guardie troppo zelanti in cerca di facile pubblicità. Una di loro ha cercato di metterle le mani sotto il top di velluto, con la scusa di dare una controllatina, prima che arrivassero i poliziotti. La signorina Ryder si è allora messa a urlare, anche perché quel giorno non indossava reggiseno".

In subordine rispetto alla tesi difensiva della prova di attrice, Winona sostiene anche di avere consegnato la carta di credito a un commesso del piano di sotto - dove aveva comprato due paia di scarpe - chiedendogli di tenere il conto aperto per ulteriori acquisti. "E' usanza comune fra le celebrità di Hollywood portarsi a casa dei vestiti per provarli e decidere con calma quali acquistare e quali far riportare indietro", aggiunge l'avvocato.

La giuria che deciderà la sorte dell'ex fidanzata di Johnny Depp e Matt Damon risulta corretta sia sessualmente (sei donne, sei uomini) sia razzialmente (posto fisso garantito per un nero, un ispanico e un asiatico). Tuttavia uno dei giurati è l'ex presidente della Sony Pictures, che ha prodotto il suo film più famoso. Titolo: "L'età dell'innocenza". Per quella parte la Ryder venne nominata all'Oscar. Però non vinse.

Mauro Suttora

Wednesday, April 10, 2002

Radicali a congresso a Ginevra

CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE TRANSNAZIONALE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 aprile 2002

Ginevra. La location non poteva essere più azzeccata: i radicali si sono riuniti a congresso in una sala a poche centinaia di metri dai palazzi della Società delle Nazioni, oggi Onu. E proprio contro lo «spirito di Monaco», quel famigerato appeasement del 1938 nei confronti di Adolf Hitler, Marco Pannella si è scagliato nel suo discorso di investitura, criticando «i pacifisti di allora e di oggi i quali manifestano in favore dei dittatori, ma che invocando la pace producono sempre la guerra».

Ci tengono, i radicali antimilitaristi e nonviolenti, a distinguersi in questi giorni dai «pacifisti» comunisti, rifondaroli o noglobal, che corrono ad abbracciare Yasser Arafat. «Per loro i palestinesi acquistano dignità umana solo se e quando vengono colpiti da una pallottola israeliana», accusa Pannella.  

Più in là c’è la sede della Croce Rossa, a destra quella dell’Agenzia Onu per i rifugiati, a sinistra quella della Commissione Onu per i diritti umani riunita proprio in queste settimane. Perciò i radicali sono qui, al seguito della loro crocerossina capa Emma Bonino che tanto ha brillato da commissaria Ue per gli aiuti umanitari. 

Ma, a differenza dei «burocrati dell’umanisteria» (come li ha bollati Milan Kundera), i radicali praticano l’azione diretta nonviolenta. Così da oggi in 400 digiunano per i ceceni sterminati dai russi, e fra i 500 congressisti c’erano i cinque reduci dal mezzo mese di carcere laotiano dello scorso novembre. «Libertà e democrazia», avevano scritto sul loro striscione. 

Lo stesso slogan riassume gli obiettivi del Partito radicale transnazionale (da non confondere con i Radicali italiani, che ne sono solo una parte). Ma poiché i satrapi nel mondo abbondano, le priorità individuate sono sette: Israele, Cecenia, Tibet, Uighuristan (o Xinjiang, o Turkestan orientale), Tunisia, Balcani e Caucaso nella Ue (come Israele). Continua inoltre la campagna per l’antiproibizionismo sulle droghe.

Programma ambizioso, per un partito del due per cento senza parlamentari italiani e quindi privo di sovvenzioni pubbliche. Dal 1996, però, i radicali riescono ad autofinanziarsi grazie a un Call center che sollecita in continuazione decine di migliaia di simpatizzanti. E’ questo, oltre a Radio radicale con le rassegne stampa mattutine del suo direttore Massimo Bordin (ritenute da molti le migliori d’Italia), il vero cuore dell’iniziativa pannelliana. 

Lo ha inventato il tesoriere Danilo Quinto, che però a Ginevra è stato al centro delle contestazioni: da una parte lui, l’eurodeputato Maurizio Turco e il segretario italiano Daniele Capezzone. Dall’altra gli europarlamentari Benedetto Della Vedova, Gianfranco Dell’Alba, Olivier Dupuis, e i due consiglieri regionali piemontesi accusati di aver «cammellato» iscritti grazie alla vicinanza con Torino. Eventualità improbabile, visto che la tessera annuale costa 200 euro.

Dopo trattative fino alle cinque del mattino, Pannella è stato costretto a scendere in campo e ad accettare la carica di primo presidente, per farne ingoiare al congresso altri quattro (Dupuis, Quinto, Marco Perduca e Marco Cappato) ed evitare clamorose spaccature fra i propri ambiziosi seguaci. 

Questa moltiplicazione delle poltrone è stata contestata dal 40 per cento dei congressisti, e c’è voluta tutta la mezzosecolare abilità dialettica del leader per placare le acque. «Marco, da mulo abruzzese ti sei trasformato in cavallo di Troia incinto di quattro presidenti», lo ha preso in giro il dirigente Michele Boselli. 

Fra i critici, anche tutti gli «eroi» del Laos: Silvja Manzi, Bruno Mellano, Massimo Lensi, Dupuis e il russo Nicolai Kramov. Promosso «dissidente» invece Adriano Sofri, con la sua gigantografia appesa accanto a quelle di prigionieri politici di tutto il mondo, come la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi. Una scelta provocatoria, che ha fatto discutere gli stessi radicali.
Mauro Suttora

Tuesday, January 15, 2002

Mappa degli euroscettici

MAPPA DEGLI EUROSCETTICI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 15 gennaio 2002

Londra. Altiero Spinelli? «Soltanto un pericoloso stalinista». La prova? «Nel suo Manifesto di Ventotene del 1941 scrisse: “La rivoluzione europea dovrà essere socialista”». 

Il padre dell’Europa unita scomparso nel 1986 è detestato a tal punto dagli euroscettici inglesi che uno di loro, Lindsay Jenkins, autore quattro anni fa del libro «Gran Bretagna tenuta in ostaggio: l’Eurodittatura in arrivo», gli ha dedicato un lungo saggio offensivo, in cui l’antifascista italiano viene definito sprezzantemente «padrino» dell’Unione europea, nonché «lifelong communist» (comunista per tutta la vita). 

Ma Spinelli non aveva abiurato la sua fede in Stalin nel ‘37? Sì, ammette Jenkins, «perché avendo tempo per pensare, in prigione ruppe col comunismo. Ma non si è mai allontanato troppo dalle sue radici, e infatti dopo 40 anni durante i quali la sua stella fu eclissata da altri europeisti come Jean Monnet, nel 1976 tornò sulla scena come deputato e poi eurodeputato del Pci. E, con il suo Club del Coccodrillo, è stato lui negli anni Ottanta il vero artefice del trattato di Maastricht e dell’unione monetaria».
 
Siamo nel principale covo degli euroscettici: gli uffici londinesi in Regent Street del Gruppo di Bruges. Più accaniti di loro contro Bruxelles, in tutto il mondo non ce n’è. Altro che Bossi, Martino, Tremonti. È qui che si distillano le analisi più velenose contro i tecnocrati dell’Unione Europea. È qui che i nemici dell’euro gioiscono ogni volta che il dollaro guadagna un decimo di punto sulla moneta continentale. Ed è qui che aspettano con fiducia il referendum sull’adesione all’euro ipotizzato da Tony Blair: «Se mai avrà il coraggio di farlo, quello sarà il giorno della sua rovinosa caduta», prevedono sicuri.

Perché Bruges? Perché tutto cominciò in quella città belga, dove nel settembre 1988 Margaret Thatcher pronunciò uno dei suoi tanti discorsi contro l’Europa «sociale». Che risultò talmente brillante e ben argomentato da passare alla storia. Al rettore del Collegio d’Europa che l’aveva invitata disse ironica: «Farmi parlare qui è come aspettarsi da Gengis Khan un discorso sulla coesistenza pacifica». 

Per niente intimorita dal trovarsi nella tana del lupo, la Lady di ferro scolpì nel marmo la memorabile frase: «Non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato in Gran Bretagna per vedercele reimporre da un Superstato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles». 

Il duello allora era contro Jacques Delors, presidente francese della Commissione, il quale da buon socialista vagheggiava un’Europa «sociale».

«Noi europei», gli ribatteva la Thatcher, «non possiamo permetterci di sprecare le nostre energie in dispute interne e arcani dibattiti istituzionali: niente può sostituire l’azione concreta. L’Europa deve competere in un mondo dove il successo va ai Paesi che incoraggiano l’iniziativa individuale, e non a quelli che cercano di ostacolarla. Per lavorare meglio di loro non c’è bisogno di centralizzare il potere a Bruxelles, né di far prendere le decisioni a una burocrazia non eletta. E’ paradossale che proprio mentre Paesi come l’Urss, i quali hanno cercato di governare tutto centralmente, stanno imparando che il successo dipende invece dal saper distribuire il potere e le decisioni lontano dal centro, qualcuno in Europa voglia muoversi nella direzione opposta».
 
Liberali contro socialisti, quindi. Proprio come nel giugno ‘85, quando al vertice di Milano la Thatcher uscì sconfitta da Bettino Craxi. «Vogliamo indietro i nostri soldi!», aveva esordito Maggie cinque anni prima sulla scena continentale. Craxi gliene concesse un po’, e ci mise sopra pure la scappatoia dell’opt-out (la clausola grazie alla quale oggi Gran Bretagna, Danimarca e Svezia rimangono fuori dall’euro). Ma in cambio i britannici dovettero permettere l’avvio del processo che portò a Maastricht nel ‘92, e poi alla Banca centrale europea.

Contro la quale, peraltro, lord Norman Lamont, già cancelliere dello Scacchiere (ministro del Tesoro) thatcheriano e oggi vicepresidente del Gruppo di Bruges, non rinuncia a lanciare i suoi strali: «Evviva, siamo rimasti fuori dall’euro. Moneta che non ha mantenuto le promesse e aumenta il rischio di recessione in Eurolandia. La ricchezza pro capite in Gran Bretagna ha superato Francia e Germania. L’economia britannica registra risultati superiori. Abbiamo uno dei regimi monetari migliori del mondo. Sarebbe folle buttar via tutto ciò».

Se il cuore orgoglioso dell’euroscetticismo festeggia a Londra il «mancato disastro dell’euro, al quale sono bastati pochi mesi per perdere un quarto del proprio valore rispetto al dollaro», a Strasburgo sono 70 (su 626) gli eurodeputati che agiscono da quinta colonna del tempio del «nemico». 

Ai 36 conservatori inglesi (nel gruppo del Ppe) si aggiungono infatti i 18 del gruppo Edd (Europa delle democrazie e diversità) e dodici «non iscritti» francesi: metà lepenisti e metà del Mouvement pour la France fondato dall’ex giscardiano vandeano Philippe de Villiers (autore del libro «Vi sono piaciute le farine animali? Adorerete l’euro») dopo il referendum su Maastricht che vide i no al 49 per cento. Nel gruppo Uen (Unione Europa delle nazioni), assieme agli italiani di An che vorrebbero passare nel Ppe, ci sono i tre gollisti di Charles Pasqua.

Nel gruppo Edd i nove francesi anti-Ue sono a loro volta divisi fra i gollisti e quelli del partito «Caccia, pesca, natura e tradizioni» guidato da Jean Saint-Josse. Nigel Farage, ex broker 37enne, è il capo del piccolo Independence party inglese, che grazie al proporzionale ha eletto due eurodeputati nel ‘99, e che lo scorso giugno ha presentato 450 candidati anche alle politiche, ottenendo quasi 400mila voti. 

Ci sono poi i tre danesi del «Folkebevælgelsen mod Eu», il Movimento del popolo contro l’Europa fondato da Jens-Peter Bonde, che fin dagli anni ‘70 prende regolarmente il 20 per cento dei suffragi a ogni elezione europea.

Sarà dura anche per Copenhagen entrare nell’euro: dopo il referendum perduto un anno fa dagli europeisti, l’opinione pubblica non dà segni di resipiscenza. Un’altra eurodeputata anti-Ue danese è la teologa Ulla Sandbaek, del «Movimento Giugno», e contro l’euro è nata appositamente l’associazione «Euronej, keep the krone». Hanno  radice religiosa anche i tre europarlamentari euroscettici olandesi del Gpv, un partito collegato alla chiesa riformata.
 
Stessa musica in Svezia, dov’è il Centerpartiet a tenere alta la bandiera antieuropea. L’unico eurodeputato, Karl Eric Olssche, ha aderito al gruppo liberale. Il referendum sull’adesione alla Ue nel ‘94 passò a Stoccolma per il rotto della cuffia: 52 a 48%. Sulla home-page del sito internet del Partito di Centro troneggia un contatore che misura in diretta «le corone che diamo all’Europa», e che aumentano all’impressionante ritmo di cento al secondo: dall’inizio dell’anno son 120 milioni.

L’antieuropeismo trova adepti anche a sinistra. Fanno infatti parte del Team (The European Alliance of eurocritical Moments) i comunisti austriaci e tedeschi, i greci dell’Ean, i verdi polacchi e, fra i Paesi ancora in lista d’attesa per l’Ue, la Nova Stranka e il gruppo Neutro sloveno, che lo scorso settembre ha organizzato a Lubiana un campeggio giovanile antieuropeo. 

Anche a Tallinn, capitale dell’Estonia, si è svolto in ottobre un congresso euroscettico. E nella vicina Finlandia, unico Stato nordico entrato in Eurolandia, c’è il movimento «Vaihtoetho Eu» (Alternativa all’Eu) della signora Ulla Klotzer. In Irlanda il principale antieuropeista è Anthony Coughlan, professore del prestigioso Trinity College a Dublino.

Certo, agli euroscettici manca un vero leader continentale. Ma sarebbe una contraddizione in termini, un antieuropeo conosciuto in tutta Europa. Avrebbe potuto esserlo sir Jimmy Goldsmith, il brillante miliardario inglese noto in Italia soprattutto come padre dell’ex attrice Clio («La cicala»), nonché della splendida Jemina amica della principessa Diana e moglie del campione pakistano di cricket Imran Khan. Ma Goldsmith, amico di Gianni Agnelli (teneva anche lui la barca a Calvi, in Corsica), è morto di cancro al pancreas nel 1997, a soli 64 anni.

Ha visto la morte da vicino anche Jean-Pierre Chévenement, il socialista francese tre volte ministro e tre volte dimissionario che, tornato alla politica, si è smarcato dal Ps e si candida alle presidenziali di primavera con una piattaforma anti-Ue. 

Appoggiato dal famoso scrittore Max Gallo, i sondaggi gli accccreditano attualmente una popolarità del 40 per cento. Darà fastidio più a Lionel Jospin che a Jacques Chirac. A destra, oltre a Pasqua, De Villiers e Le Pen, a rastrellare gli umori chauvinisti della Francia profonda c’è sempre l’ex ministro e presidente gollista Philippe Séguin.

E in Italia? Nel ‘92 gli unici partiti anti-Maastricht furono Lega, Msi e Rifondazione. Oggi solo Bossi si permette uscite pubbliche contro Bruxelles. Antonio Martino era contrario all’euro, ma più che altro perché ne contestava l’artificialità come moneta di transizione: «O lo si fa in una sola volta, o non lo si fa affatto». 

Ma ormai è andata, l'euro ce l’abbiamo in tasca. Così, a parte qualche dubbio del più federalista di tutti, il Marco Pannella che plaude alle critiche di Ralf Dahrendorf contro l’Europa ridotta a burocrazia e chiede invano più potere per il Parlamento, l’euroscetticismo nostrano è soprattutto culturale.

Il suo principale bastione è l’associazione Italiani Liberi di Ida Magli e Giordano Bruno Guerri. Entrambi commentatori del Giornale, la prima ha un passato da ideologa femminista: «Scrivevo su Repubblica dalla fondazione, ma dopo un pezzo contro il Corano mi hanno cacciata. Stessa sorte all’Espresso: l’ultimo mio articolo, contro la Ue, non l’hanno mai pubblicato». In compenso il suo libro 'Contro l’Europa, tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht' (Bompiani, 1997) è arrivato a 30mila copie e otto edizioni. 

Un discreto successo sta avendo anche 'L’Unione fa la truffa' di Mario Giordano, direttore del tg Studio Aperto, pubblicato da Mondadori tre mesi fa. Un altro polemista anti-Ue è Alberto Mingardi, ventenne «anarcocapitalista» che scrive su Libero. Mancano all’appello i noglobal: fra i loro tanti bersagli Bruxelles figura raramente. Forse perché perché non è negli Stati Uniti.
Mauro Suttora