Showing posts with label giorgio napolitano. Show all posts
Showing posts with label giorgio napolitano. Show all posts

Wednesday, July 17, 2013

Al mare con Grillo

Cronaca di una giornata al mare (Costa Smeralda) con il capo del Movimento 5 stelle

MEGLIO MIA MOGLIE DI NAPOLITANO
Il presidente lo aveva convocato al Quirinale. Ma Grillo ha preferito stare al mare con la moglie e rinviare l'appuntamento. Noi l'abbiamo incontrato in spiaggia. «Sono fiero dei nostri parlamentari», ha detto, «hanno restituito un milione e mezzo di euro. Se facessero tutti così, risparmieremmo 40 milioni l'anno».

dall'inviato Mauro Suttora

Oggi, 5 luglio 2013
«Mentre nuotavo uno mi ha fermato e mi ha chiesto: “Scusi, è questa la strada per Arbatax?” Gli ho detto: “No, guardi, deve svoltare e andare verso là, molto più a destra».

È rilassato e di buonumore Beppe Grillo mentre esce dall’acqua dopo la sua abituale nuotata giornaliera. Un’ora con pinne, occhiali, boccaglio e muta. 
Venerdì 5 luglio, Liscia Ruia, spiaggia di Porto Cervo (Olbia). In questo momento lui dovrebbe essere al Quirinale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che lo aveva convocato all’improvviso dopo che lui aveva chiesto un incontro, con i soliti toni polemici: «Il Paese sta andando a rotoli, in autunno ci sarà una crisi economica terribile, decine di piccole imprese chiudono ogni giorno. E il presidente che fa? Perché non dice la verità agli italiani?»
 Il problema è che quando è arrivato l’improvviso e inaspettato appuntamento Grillo era già sul traghetto Genova-Olbia con auto e famiglia, per una settimana di vacanza programmata da tempo. E fra la moglie Parvin e Napolitano, ha scelto la prima. Per una volta, la politica ha aspettato. 
L’incontro al Quirinale è slittato di cinque giorni. Sì, in teoria il capo dei 5 stelle avrebbe potuto prendere l’aereo da Olbia, fare un salto a Roma e tornare in giornata nella sua villetta (a schiera) al Pevero di Porto Cervo. Ma perché darla vinta al segretario generale del Quirinale Donato Marra, che l’ha invitato fissando giorno e ora con un comunicato pubblico, senza neanche una telefonata prima per chiedere se la data andava bene? Sottili questioni di galateo istituzionale. E di orgoglio personale.
Così ora Grillo se ne sta sdraiato tranquillo sotto l’ombrellone di bambù in prima fila che ha affittato per la giornata (45 euro con due lettini). In quello accanto ci sono amici con i bambini, che giocano con il figlio più piccolo del comico genovese. Parvin prende il sole vicino a un’amica, con il lettino spostato verso la battigia.
Il capo di uno dei tre partiti più importanti d’Italia non ha scorta. 
Mi avvicino, lo saluto e gli chiedo se non è imprudente. Lui la butta come sempre sullo scherzo: «Ho già mia moglie, come scorta».
Sta all’ombra, dormicchia, ogni tanto legge un libro. Nessun giornale o rivista, niente sguardi impazienti a smartphone, ipad, computer portatili. Relax completo, una sola telefonata in parecchie ore. 
Gli altri bagnanti lo riconoscono, ma nessuno va a disturbarlo. Privacy rispettata a livelli scandinavi. Penso al turbinio di scorte e segretari che circonda gli altri politici italiani del suo rango, anche in vacanza.
Gli chiedo che libro sta leggendo. Mi fa vedere la copertina: è di George Johnson, giornalista americano, divulgatore scientifico. Grillo ne parla entusiasta anche con la vicina di ombrellone: «Le grandi scoperte che hanno cambiato la storia sono avvenute quasi tutte per caso. Gutenberg adattò un torchio per schiacciare l’uva, e nacque la stampa. Anche la rete, oggi, è governata dal caso: milioni di informazioni che creano conoscenza. Spontaneamente, come il traffico di una città coreana: hanno fatto un esperimento, provando a levare tutti i semafori e i divieti. Funziona lo stesso, le auto si fermano, danno la precedenza, fanno attraversare i pedoni…»
L’unica che sembra refrattaria alle catechizzazioni è la moglie. La quale però lo aiuta con affetto quando lui si mette la muta (la stessa della traversata dello stretto di Messina, con il simbolo 5 stelle) per andare in acqua. Signora, non è preoccupata che qualche motoscafo gli vada addosso? 
«Ma no, nuota chilometri però resta sempre sottocosta». Perché non va all’arrembaggio fino alla villa di Berlusconi? È proprio lì di fronte, a Porto Rotondo…
Parvin sorride. All’amica Carla Signoris, moglie di Maurizio Crozza, nella rubrica tv Ho sposato un deficiente ha confessato di non seguire i consigli del marito per la spesa («Lui vorrebbe biologico, hard discount») e le pulizie («Un solo detersivo: l’acqua»). Ha aggiunto che, quando il marito inizia a parlare del suo blog, in casa c’è il fuggi-fuggi.
Quando Grillo torna, gli chiedo di venire a fare una foto con me e la mia compagna. Lui, gentile e disponibile, accetta subito: «Ma è sicuro che sia la sua compagna?»
Come va con i 5 stelle? 
«Bene, sono contento. Ieri abbiamo dato indietro un milione e mezzo di euro. Se lo facessero tutti i parlamentari, sarebbero quaranta milioni risparmiati all’anno». 
E le liti, gli espulsi? «Siamo giovani, stanno imparando. Nessuno si aspettava un successo simile, neanch’io. Ora ci stiamo assestando, stiamo crescendo. Se ne sono andati in pochi, quelli che forse non avevano capito la nostra novità e diversità». 
Ma è vero che fra voi ci sono anche estremisti dei centri sociali?, domanda una signora. 
«I centri sociali mi contestano ai comizi!» 
E non si stanca con tutti questi comizi?, gli chiedo. «Ma è un’intervista?» Grillo sa che sono giornalista, e lui ci detesta tutti. «Però Oggi è un bel giornale…»
Verso le sei superBeppe (gli ultimi sondaggi lo danno sempre sul 24%, a Ragusa ha conquistato il sindaco col 70%) si incammina da solo verso casa, passando per l’hotel Cala di Volpe: 300 metri a piedi fra i cespugli. Moglie, figlio e amica invece vanno all’auto nel parcheggio polveroso. Frequentano questa spiaggia da vent’anni. 
Grillo ci saluta: «Voi invece ve lo godete tutto il sole oggi, eh?» «Io non devo andare da Napolitano», gli rispondo.
Mauro Suttora

Wednesday, May 01, 2013

Pd nella polvere


NAPOLITANO SUL TRONO: I 10 ERRORI DI BERSANI

di Mauro Suttora

Oggi, 24 aprile 2013
«Ora mi incrimineranno anche per strage»: la battuta più crudele, dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi da segretario e presidente del Partito democratico, è di Silvio Berlusconi. Che calcola, allegro, di avere sepolto (politicamente) ben sedici segretari del Pd e dei partiti precedenti (Pds, Ds, Ppi, Margherita) che lo hanno avversato dal 1994 (lista completa sotto). Più la figuraccia rimediata dall’eterno rivale Romano Prodi, tradito da cento dei suoi nel segreto dell’urna.

Quel che resta di Dc e Pci, fusi nel 2007 dopo che per mezzo secolo avevano dominato l’Italia con il 70% dei voti, si è liquefatto negli ultimi giorni. Più che di una strage da parte dei berlusconiani o dei grillini, si è trattato di un suicidio di massa. «O di un’eutanasia», ammette Andrea Carugati, giornalista dell’Unità, organo ufficiale del partito.
Ma cos’è successo, esattamente? Com’è possibile che la prima formazione politica d’Italia, favorita da mesi in tutti i sondaggi, sia scivolata così malamente in poche settimane? Proviamo a individuare le possibili cause del disastro: dieci errori che hanno portato al vuoto odierno.

1) PRIMARIE BERSANI-RENZI: erano necessarie?
A norma di statuto del Pd, no. Il segretario è automaticamente candidato alla premiership. Ciononostante, Bersani in autunno ha accettato di misurarsi in una competizione interna. Pensava che sarebbe stata una passeggiata, come per Prodi nel 2006 e Veltroni nel 2008: qualche avversario pro-forma, una mobilitazione galvanizzante, tanta pubblicità gratis sui media. Invece è sbucata la stella di Matteo Renzi. All’inizio il sindaco di Firenze era accreditato di un innocuo 20%. Poi però, con il giro d’Italia in camper (come Grillo), la voglia di rottamazione lo ha fatto salire a un inquietante 40%.

2) APPARATO BUROCRATICO: perché scatenarlo contro Renzi?
La Casta politica italiana è composta da circa centomila persone stipendiate dalla politica, dagli eurodeputati ai consiglieri di zona. Di questi, quasi la metà appartengono al Pd. Di fronte alla sfida di Renzi, contrario al finanziamento pubblico ai partiti, gran parte di loro si sono schierati con Bersani. Mossa tragica: contro i burocrati dell’apparato la voglia di nuovo si è rafforzata.

3) PRIMARIE DI NATALE: comincia la rincorsa a Grillo
Per ovviare alle legge elettorale «Porcellum», che impedisce di esprimere preferenze ai singoli eletti, trasformandoli così in «nominati» dalle segreterie di partito (motivo inconfessabile per cui non è stata cambiata), a Natale il Pd ha organizzato in fretta e furia primarie anche per i candidati. Si voleva così rispondere alle primarie online di Beppe Grillo. Ma troppi raccomandati e paracadutati (più di cento) hanno avuto comunque un seggio sicuro senza passare il vaglio popolare, fra «listino del segretario», capilista decisi a Roma e deroghe alla regola del massimo di tre legislature.

4) GIA’ SICURI DI VINCERE: campagna elettorale supponente
Tutti i sondaggi danno il Pd trionfante su un Pdl sfasciato e un Grillo al 15%. Ma, poco a poco, il margine si assottiglia. Esattamente come il Pds nel 1994, il Pd è troppo sicuro di vincere, e conduce con supponenza la campagna elettorale. Circolano già elenchi dei futuri ministri. Berlusconi e i 5 stelle, invece, fanno propaganda porta a porta alla ricerca di ogni singolo voto. E rimontano, fin alla quasi parità col Pd.

5) “SIAMO PRIMI MA ABBIAMO PERSO”: e niente dimissioni
La sera del 25 febbraio appare già chiaro che il Pd non ha la maggioranza al Senato. Ma Bersani, invece di dimettersi, inventa la famosa frase: «Siamo arrivati primi, ma non abbiamo vinto». E lancia la proposta di «governo del cambiamento» strizzando l’occhio a Grillo.

6) CORTE DISPERATA A GRILLO: ma lui rifiuta
Bersani comincia una corte disperata al Movimento 5 stelle di Grillo, che però fin dall’inizio risponde picche. Di fronte al primo «Vaffa» chiunque avrebbe lasciato perdere. Lui invece va avanti, sottoponendosi all’umiliazione dello streaming con i capi grillini e lasciando intendere di poter far cambiare idea a una ventina di loro senatori («scouting»).

7) BERSANI ALLUNGA LE CONSULTAZIONI: tempo perso
Strappato l’incarico a Napolitano, Bersani conduce consultazioni lunghissime, sentendo perfino lo scrittore Roberto Saviano, preti e il Wwf. Continua a dire no al Pdl che lo vuole e sì a Grillo che non lo vuole. Risultato: dà a tutta Italia la sensazione di stare perdendo tempo.

8) CONTRORDINE: MARINI CON BERLUSCONI: virata a 180 gradi
Dopo 50 giorni passati a dire no a Berlusconi, improvvisamente Bersani si mette d’accordo con lui per far eleggere presidente della Repubblica Franco Marini. Il Pdl vota compatto l’ex avversario, ma nel segreto dell’urna i franchi tiratori Pd silurano l’ex sindacalista democristiano.

9) BRUCIATO ANCHE PRODI: schiaffo a Berlusconi
Seconda giravolta nel giro di 24 ore: Bersani propone ai 490 grandi elettori Pd di votare Romano Prodi, arcinemico di Berlusconi. Unanimità, acclamazione. Ma l’ex premier viene umiliato: sono ben 101 i suoi colleghi di partito che lo tradiscono, uno su quattro.

10) AFFIDIAMOCI A NAPOLITANO: fuga dalle responsabilità
Invece di trovare altre soluzioni («Stefano Rodotà candidato di Grillo, oppure Emma Bonino anch’essa nella rosa dei 5 stelle», suggerisce il ministro pd Fabrizio Barca, candidato alla segreteria) Bersani e Rosy Bindi si dimettono implorando l’ultraottuagenario Napolitano di accettare un altro mandato. Il quale accetta, ma comprensibilmente ottiene in cambio un’ampia delega nella scelta del governo, vista l’inconcludenza dei partiti. E si profilano di nuovo «larghe intese» con Berlusconi, detestate da buona parte della base di sinistra. Il Pd abdica così completamente alle proprie responsabilità di primo partito (seppure con appena lo 0,3% più del Pdl alla Camera).
Mauro Suttora



Tutti i segretari di Pd e partiti predecessori confluiti nel Pd sepolti (politicamente) da Berlusconi:

1) Mino Martinazzoli (Ppi 1994)
2) Rocco Buttiglione (Ppi ’94-’95)
3) Gerardo Bianco (Ppi ’95-’97)
4) Franco Marini (Ppi ’97-’99)
5) Pierluigi Castagnetti (Ppi ’99-2002)
6) Lamberto Dini (Rinnovamento ’96-’02)
7) Arturo Parisi (Democratici ’99-’02)
8) Clemente Mastella (Udeur ’99-’02)
9) Francesco Rutelli (Margherita 2002-’07)
10) Achille Occhetto (Pds ’91-’94)
11) Massimo D’Alema (Pds ’94-’98)
12) Walter Veltroni (Ds ’98-2001)
13) Piero Fassino (Ds 2001-’07)
14) Walter Veltroni (Pd 2007-’09)
15) Dario Franceschini (Pd 2009)
16) Pier Luigi Bersani (Pd 2009-’13)

a questi il Cavaliere può aggiungere i rivali Romano Prodi, Rosy Bindi e Gianfranco Fini

Sunday, April 28, 2013

Bonino ministro Esteri


di MAURO SUTTORA

Libero, 28 aprile 2013

Nel 1994 il neopremier Berlusconi aveva deciso: i suoi due commissari italiani alla Ue sarebbero stati Giorgio Napolitano e Mario Monti. A quel punto, però, Marco Pannella piombò a palazzo Chigi, litigò con Giuliano Ferrara ministro dei Rapporti col Parlamento e sponsor di Napolitano, e impose la nomina a Bruxelles di Emma Bonino al posto del presidente uscente pds della Camera.

Risale a quell’episodio, paradossalmente, l’amicizia politica fra Napolitano e la Bonino. Che si concretizza oggi con la nomina di quest’ultima a ministro degli Esteri, caldeggiata dal presidente. Napolitano infatti, per nulla offeso dallo scippo radicale, frequentò Bruxelles negli anni seguenti come membro dell’assemblea parlamentare Nato. E apprezzò molto la Bonino commissario Ue. La stima è cresciuta nel biennio 2006-8: lui presidente, lei ministra del Commercio estero e Politiche europee che riuscì a trascinarlo alla marcia radicale per l’amnistia, e a fargli appoggiare la campagna di Pannella contro il sovraffollamento delle carceri.

Il biennio nel governo Prodi è alla base anche del buon rapporto fra la Bonino ed Enrico Letta. Proprio mentre i radicali si scontravano con i segretari Pd Veltroni e Franceschini, il pragmatismo governativo ha unito Emma al sottosegretario alla Presidenza.

Ma il vero, grande sponsor della Bonino sono i sondaggi popolari. Nonostante il suo partito sia all’1-2% (nessun eletto il 25 febbraio), lei risulta regolarmente in testa da anni. Ha vinto tutti quelli indetti online dai giornali prima delle presidenziali. E si è piazzata sesta alle ‘quirinalie’ di Grillo, davanti a Prodi, il magistrato Caselli e Dario Fo.

La Bonino mette d’accordo la sinistra (Bersani è un altro suo sponsor, ultimamente perfino il Manifesto tifa per lei), la destra (Berlusconi da vent’anni cerca inutilmente di separarla di Pannella) e il centro: Monti la apprezza come bocconiana (anche se laureata non in economia: tesi su Martin Luther King nel ‘72 in lettere straniere, corso poi abolito perché gli studenti erano troppo di sinistra), ottimi rapporti con l’ex radicale Benedetto Della Vedova oggi montiano (unico senatore ex finiano sopravvissuto), e battaglia comune contro la pena di morte con Sant’Egidio del ministro uscente Andrea Riccardi.

Papa Francesco e l’impegno sulle carceri hanno avvicinato i radicali alla Chiesa: la loro radio dedica al Vaticano un programma domenicale condotto da Giuseppe Di Leo dai toni quasi edificanti. Sono lontani gli scontri su aborto e fecondazione assistita.

È rimasto solo qualche complottista di estrema sinistra o grillino a contestare sia alla poliglotta Bonino (inglese, francese, spagnolo, arabo) che a Letta la partecipazione a due riunioni del club Bilderberg: lei nel ’98, invitata da commissaria Ue, lui l’anno scorso a Chantilly (Usa) come vicesegretario Pd. Ma quanto sia pericoloso questo raduno accusato di «massoneria» lo dice il nome di uno degli altri 5 partecipanti italiani del 2012 (oltre a John Elkann, Bernabè di Telecom e Conti dell’Enel): Lilli Gruber.
Mauro Suttora  

     

Wednesday, April 10, 2013

Grillo: bilancio del primo mese

di Mauro Suttora

Oggi, 3 aprile 2013

Può l’ottava potenza economica mondiale dipendere dal ragionier Beppe Grillo? In tutte queste settimane Pier Luigi Bersani, capo Pd, ha proposto un’alleanza al suo Movimento 5 Stelle. Niente da fare. «Vogliamo distruggere i partiti», dicono i grillini. Attenzione, non dicono: «Questi partiti». O «i politici ladri». O «la partitocrazia», come ripetono da quarant’anni i radicali. No, Grillo vuole proprio «superare i partiti». Arrivare alla «democrazia diretta», come spiega Gianroberto Casaleggio.

Qualcuno si preoccupa. Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, mormora: «Anche Hitler voleva cancellare i partiti». In effetti, non si conosce al mondo una democrazia senza partiti. Ma i grillini si sentono alfieri di un rinnovamento epocale. Guidato dal simpatico uomo ritratto in queste pagine. Che trascorre le vacanze di Pasqua in una delle sue tre ville: quella di Marina di Bibbona (Livorno). Le altre stanno a Sant’Ilario, sulle colline eleganti sopra Nervi (Genova) e a Porto Cervo, vicino al golf del Pevero. Poi c’è la quarta villa («Una capanna») da 300 mila euro che sua moglie avrebbe appena comprato a Malindi (Kenya), accanto al resort di Flavio Briatore che spesso ospita Silvio Berlusconi.

Vuole fare la rivoluzione
Cosa farà ora l’«uomo in ammollo», dopo che il presidente Giorgio Napolitano ha trovato una soluzione per il nuovo governo? La rivoluzione, naturalmente. Non gli credete? Ma lo ripete da anni. È solo un comico? Non più: ha avuto il voto di quasi 9 milioni di italiani. I quali sono talmente schifati da tutti gli altri partiti da affidarsi a un miliardario che promette la povertà (soprannominata «decrescita felice») e proclama: «Non lasciamo indietro nessuno».

Per ora gli unici lasciati indietro, a sbrigarsela da soli, sono Pd e Pdl. Condannati a stare insieme, visto che Grillo non vuole governare con nessuno di loro. L’alternativa sarebbe tornare a votare. Ma i sondaggi dicono che il risultato sarebbe uguale a quello del 25 febbraio: un Paese spaccato in tre. Anzi in quattro, se si conta il 28 per cento di astenuti e schede bianche e nulle.

Quindi, a calcolare esattamente i voti, Grillo raccoglie il 18 per cento degli elettori. Questo significa che 82 italiani su cento non si fidano di lui. Tuttavia, Beppe ha in mano l’Italia. O comunque, si comporta come se ce l’avesse. Tratta i suoi 163 parlamentari con la delicatezza del satrapo mesopotamico. Dodici di loro hanno osato votare Piero Grasso presidente del Senato? Minacciati di espulsione. Il senatore Marino Mastrangeli di Frosinone si è fatto intervistare in tv da Barbara D’Urso a Pomeriggio 5? I colleghi più «talebani» lo danno già per licenziato. La romagnola Giulia Sarti ha chiesto che almeno si proponessero dei nomi come premier in alternativa a Bersani? Zittita.

È un comico, ma vuole disciplina
È incredibile come dentro al movimento guidato da un comico, che fa sbellicare dalle risate tutti gli italiani da un terzo di secolo, prima in tv e oggi nei comizi, regni la disciplina e a volte addirittura il terrore. La svolta autoritaria è avvenuta un anno fa. Arrivati ormai a più di cento consiglieri comunali e regionali, alcuni grillini si erano posti il problema dell’organizzazione e si erano riuniti a Rimini. Scomunicati. Poi l’ex bonario Grillo ha espulso metà dei suoi consiglieri regionali: due su quattro, compreso l’ex pupillo Giovanni Favia. «Neanche Stalin al massimo della forma era mai riuscito a compiere una purga del 50 per cento», commentò un grillino ovviamente anonimo.

Infine, lo scorso dicembre, il dittatore libertario sbotta on line: «Vietato fare domande. La democrazia è questa. Chi non è d’accordo, se ne vada». Dopo qualche giorno ha ammesso di aver esagerato. Qualcuno si chiede da cosa siano causati questi alti e bassi. Ma alla fine, basta sentirlo parlare cinque minuti e gli vogliamo tutti bene.

Il duro impatto con la realtà 
Perché il Grillone nazionale, quando urla sudato con le sue sopracciglione a trapezio isoscele, non può non avere ragione se condanna i costi della politica. O quando si scaglia contro i bizantinismi dei politici di professione. La miglior prova del disastro dei carrieristi della politica è stata data proprio in quest’ultimo mese. Per giorni e giorni i grillini hanno ripetuto che non volevano allearsi con nessuno. Ma gli altri non ci credevano. Pensavano fossero simili a se stessi: dire una cosa, farne un’altra, possibilmente l’opposto.

L’impatto con la realtà però è duro anche per loro. Scoprono che non si possono trasmettere tutte le proprie riunioni in diretta streaming sui computer, perché quando discutono a volte - come tutti - litigano. Scoprono che i capigruppo non possono ruotare ogni tre mesi, perché i contratti dei collaboratori sono intestati a loro. Scoprono che la democrazia diretta on line è irrealizzabile, perché chiunque può iscriversi falsando i risultati.  Grillo ora si scaglia perfino contro chi gli lascia commenti contrari sul blog, accusandoli di essere «pagati» dagli altri partiti. Come se gli «influencer» grillini non eccellano nel sommergere di «bombe mail» e «spam» gli avversari. Chi la fa, l’aspetti.
Mauro Suttora

Monday, December 10, 2012

Monti si è dimesso. E ora?


di Mauro Suttora

Oggi, 10 dicembre 2012

Che cosa succede adesso.
Il presidente del Consiglio Mario Monti ha annunciato le proprie dimissioni dopo l’approvazione della legge di stabilità (bilancio 2013) da parte del Parlamento. Questo dovrebbe avvenire attorno a Natale, con nuove elezioni quindi possibili già in febbraio (70 giorni dopo lo scioglimento delle Camere). La legislatura sarebbe comunque finita ad aprile, quindi si tratta di un anticipo di due mesi.

Perché Monti si è dimesso.
Perché il segretario Pdl Angelino Alfano ha dichiarato di aver tolto la fiducia il governo. E Silvio Berlusconi, annunciando la propria sesta candidatura a premier, lo ha criticato pesantemente. Monti avrebbe potuto sopravvivere per due mesi con l’astensione Pdl sulle leggi in discussione (diminuzione province, legge elettorale, ecc), ma ha preferito dare un taglio netto.

Cosa farà Monti.
Non si sa. Forse lo annuncerà alla conferenza stampa di fine anno il 21 dicembre. Le ipotesi sono quattro: 1) succederà a Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica in aprile. 2) formerà un governo Monti bis dopo avere guidato alle elezioni una lista di centro con Casini, Fini, Montezemolo e ministri del proprio governo. 3) Monti bis nel caso che nessun partito raggiunga la maggioranza, e non si trovi un accordo per un premier eletto dal popolo. 4) A disposizione per alte cariche nell’Unione europea.

Sondaggi.
Si prevede che il centrosinistra vinca le elezioni e che quindi Pier Luigi Bersani diventi premier. Difficilmente Monti accetterebbe il posto di ministro dell’Economia nel suo governo, come fece l’ex premier Carlo Azeglio Ciampi nel 1996 nel governo Prodi. Se Bersani non riuscirà a ottenere una chiara maggioranza sia alla Camera sia al Senato, dovrà trovare un alleato. Questo potrebbe essere il Centro di Casini-Fini, che però oggi è accreditato solo al quarto posto, dopo il Pdl e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Emergenza economica.
Molto dipende dallo spread, indicatore della fiducia dei mercati. Se dovesse alzarsi troppo, ci sarebbe più spazio per un Monti-bis. Ma sia Bersani sia Berlusconi considerano chiusa la fase dei governi tecnici. Gli unici a considerare Monti come proprio leader sono Casini, Fini e Montezemolo. Però a Monti non conviene identificarsi troppo con una parte politica, soprattutto se il Centro nei sondaggi continuasse a stagnare attorno al 10 per cento.        

Wednesday, February 08, 2012

I politici laureati "sfigati"

DAVVERO CHI SI LAUREA DOPO I 26 ANNI DEVE VERGOGNARSI? ECCO A CHE ETA' HANNO FINITO GLI STUDI MINISTRI ED EX

di Mauro Suttora

Oggi, 1 febbraio 2012

Giorgio Napolitano e Mario Monti in testa alla classifica dei superveloci: laurea ad appena 22 anni. Subito dopo gli altri leader della politica italiana: Gianfranco Fini a 23, Pier Luigi Bersani a 24, Silvio Berlusconi a 25. Dopo l’uscita di Michel Martone, neo-viceministro del Lavoro che ha bollato come «sfigati» i laureati dopo i 26 anni, abbiamo controllato quanti, fra i suoi colleghi in politica, potrebbero sentirsi offesi. E abbiamo scoperto che sono ben pochi, perché la maggioranza dei politici ha compiuto studi regolari. Poi ci sono quelli che non si sono neppure laureati (girate la pagina per scoprire chi), e a giudicare dai nomi nessuno soffre di complessi d’inferiorità.

Martone voleva condannare i figli di papà fuoricorso che si baloccano fra donne, sport e motori. Così come il ministro Tomaso Padoa Schioppa definì «bamboccioni» i giovani che vivono in famiglia dopo i 30 anni, e Renato Brunetta insultò i precari («Siete la peggiore Italia»).

Ma, andando sul concreto, in politica chi si è laureato in ritardo ha avuto ottime scuse. Antonio Di Pietro, per esempio: emigrato in Germania, poi studente-lavoratore, di giorno era impiegato civile all’Aeronautica e la sera affrontava gli esami universitari di Legge. Nichi Vendola ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini fuori tempo massimo, ma un lavoro già ce l’aveva: dirigente dei giovani comunisti e dell’Arcigay.

Più accidentato il percorso accademico di Alessandra Mussolini: accusata con altri 180 studenti romani di aver «comprato» due esami nel 1982 (reato di falso, prescritto), dieci anni dopo quando entrò in Parlamento si dichiarò dottore in Medicina, ma si laureò solo nel ‘93. Un anno fa è stata bocciata all’esame di abilitazione; l’ha ripetuto, e alla fine ce l’ha fatta.

Fra gli ex ministri Stefania Prestigiacomo ha conquistato nel 2006 una laurea triennale in Scienza dell’amministrazione alla Lumsa (Libera università Maria Santissima Assunta) di Roma, con una tesi sulle adozioni. Ma, figlia di imprenditori, divenne presidente dei giovani industriali di Siracusa a soli 23 anni, e quattro anni dopo entrò alla Camera. Stessa università privata anche per Mario Baccini (Udc): 110 e lode in Lettere due anni fa, tesi su Amintore Fanfani.

Il «non è mai troppo tardi» del sindaco di Roma Gianni Alemanno si è concluso nel 2004 a Perugia, dov’è diventato «ingegnere dell’ambiente» con tesi sulle biomasse. Ma il record di chi ha voluto conquistare una laurea fuori tempo massimo, a questo punto solo per orgoglio e prestigio, va a Claudio Scajola: ce l’ha fatta nel 2000 in Legge a Genova, dove aveva cominciato a studiare nel 1967, prima di essere attratto dalla politica che gli affidò ad appena 27 anni la direzione di un ospedale.

Ha sforato solo di un anno, invece, secondo il parametro-Martone, Maria Stella Gelmini: si è laureata nel 2000 in Legge a Brescia con 100/110 e una tesi un po’ «sciatta» sui referendum regionali, secondo il relatore.

Mara Carfagna ha ottenuto la laurea in Legge nella sua Salerno lo stesso anno (2001) in cui ha posato nuda sulla copertina del mensile Maxim: studentessa-lavoratrice. Daniela Santanchè, dottore in Scienze politiche a Torino, ha fatto notizia perché sul sito ufficiale del governo si vantava di avere un «master» alla Bocconi. In realtà era un corso di una ventina di giorni aperto anche ai diplomati con licenza media.

Silvio Berlusconi si è laureato con lode nel 1961 alla Statale di Milano con una tesi, manco a dirlo, sul contratto di pubblicità. Stessa età di laurea e stessa facoltà (Legge) per Marco Pannella, il quale però nel ’55 dovette emigrare da Roma a Urbino e sfangò un 66 grazie a una tesi sul Concordato scritta da amici. La sua collega radicale Emma Bonino invece è stata una delle ultime a laurearsi in Lingue straniere alla Bocconi: proprio quell’anno (1972) il corso venne soppresso.

Pier Luigi Bersani ha potuto esibire online il suo notevole curriculum universitario (30 in tutti gli esami tranne un 28, laurea con lode in Filosofia con tesi su san Gregorio Magno) dopo che nel 2010 la Gelmini lo accusò di essere un «ripetente». Stessa età e università (Bologna) per Pierferdinando Casini, laureato in Legge.

Fini esibisce una laurea in Pedagogia ottenuta a pieni voti a Roma nel 1975, ma senza poter frequentare le lezioni: in quel periodo i neofascisti del Msi venivano picchiati se osavano mostrarsi a Magistero, feudo dell’ultrasinistra. Molto più calma la laurea in Bocconi per il neoministro Corrado Passera, seguita da un master a Filadelfia. Quanto a Brunetta, pure lui laureato 23enne, la sua università era Padova, facoltà di Scienze politiche ed economiche.

Ed ecco infine i «mostri» laureati a soli 22 anni: traguardo matematicamente impossibile senza una «primina» (elementari anticipate a cinque anni d’età) o il salto di un anno alle medie. Napolitano diventa dottore in Legge nel 1947 con una tesi di Economia politica sul «mancato sviluppo del Mezzogiorno». Durante la guerra salta la prima liceo ed entra nel Pci.

Monti si laurea alla Bocconi nel ’65, poi si specializza a Yale (Stati Uniti), fa la leva nell’Aeronautica e a 26 anni è già professore ordinario a Trento, dove lo chiama il rettore Francesco Alberoni. Romano Prodi è dottore in Legge nel ’61 alla Cattolica di Milano, con tesi sul protezionismo industriale. Laureato prodigio anche l’ex ministro Franco Frattini: Legge a Roma. E nel nuovo governo brilla anche il curriculum del sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, pure lui laureato in Giurisprudenza a Roma.
Mauro Suttora

Wednesday, January 18, 2012

Chi è Attilio Befera

L'UOMO CHE CI FARA' PAGARE LE TASSE

di Mauro Suttora

Oggi, 11 gennaio 2012

Sarà lui il Superman che sconfiggerà gli evasori fiscali? Il physique du role, onestamente, non c'è. Guido Bertolaso ci appariva scattante nei suoi golfini attillati della Protezione Civile. Attilio Befera, invece, assomiglia già per nome e cognome a quello che è: un tranquillo dirigente ministeriale 65enne. Eppure il direttore dell'Agenzia delle Entrate lo sta imparando a conoscere l'Italia intera. Finora erano i ministri delle Finanze a esporsi in prima persona contro l'evasione. Da Bruno Visentini con i suoi registratori di cassa negli anni '80 a Vincenzo Visco, sono stati tanti gli spauracchi dei contribuenti neghittosi.

Ma Befera non è né ministro né politico. E, in tempi di «tecnici» neutrali, forse è proprio questa la sua forza. Così, ha cominciato a esternare. Beppe Grillo dice che bisogna «capire le ragioni» di chi manda pacchi bomba a Equitalia, di cui Befera è presidente? «Questa volta non sei divertente», gli replica subito. Ottanta ispettori dell'Agenzia invadono Cortina a Capodanno, controllando i conti di alberghi e negozi? Befera si fa intervistare da Piazzapulita su La Sette e difende la clamorosa operazione. Insomma, ci mette la faccia.

Il cambio di passo rispetto al recente passato è evidente. Spot tv dipingono gli evasori come loschi parassiti. Milioni di notifiche Equitalia ci intimano di pagare tutto e subito: dai 30 euro delle multe stradali, ai milioni di qualche tremenda imposta societaria. Il premier Mario Monti, diretto superiore di Befera in quanto ministro di Economia e Finanze, appone il sigillo finale: «Sono gli evasori a mettere le mani nelle tasche degli onesti». E non lo Stato, come sostenuto da leghisti e berlusconiani.

Befera, nel palazzo romano della sua Agenzia delle Entrate in via Cristoforo Colombo, quasi all'Eur, è il simbolo di questa nuova consapevolezza. L'Italia sull'orlo della bancarotta non può più sopportare i 120 miliardi annui sottratti al fisco: «Con quelli, i nostri bilanci sarebbero a posto», ripete.

Nato a Roma, madre abruzzese (Luco dei Marsi, dove la domenica va a passeggiare nei boschi), a 19 anni appena diplomato comincia a lavorare in banca. Studente-lavoratore, laurea in Economia e commercio 110 e lode. In 30 anni a Efibanca scala tutte le posizioni fino alla direzione centrale. Fa anche il sindacalista, Cgil bancari. Nel 1995 il ministro delle Finanze del governo Dini, Augusto Fantozzi, lo chiama nel Secit (Servizio centrale ispettori tributari). Sedici mesi dopo è già direttore centrale delle Entrate.

Dal 2001 lo Stato cerca di rimediare alla sua cronica inefficienza creando prima l'autonoma Agenzia delle Entrate (che oggi ha 33 mila dipendenti), e nel 2006 togliendo a 40 banche private la riscossione: nasce Equitalia, braccio «armato» del fisco, guidato da Befera. Al quale riesce il miracolo: si fa apprezzare sia da Visco, ministro del centrosinistra dal '96 al 2000 e poi nel 2006-8, sia da Giulio Tremonti, che arriva nel 2001 con il centrodestra di Berlusconi e torna nel 2008.

Poche ore nel maggio 2008 segnano il destino di Befera: quelle durante le quali il suo predecessore all'Agenzia delle Entrate rende pubbliche in rete tutte le dichiarazioni Irpef degli italiani, dopo che Berlusconi ha vinto le elezioni. Proteste, dimissioni, e arriva Attilio. Che però conserva la presidenza del fortino Equitalia, un chilometro più in là verso l'Ardeatina.

Al mastino bipartisan resta sempre meno tempo per ascoltare Mozart, leggere Camilleri e andare alle partite della Lazio. L'unico rito al quale rimane fedele da 40 anni è l'incontro al sabato mattina nel caffè sotto casa nel suo elegante quartiere romano con i tre amici di una vita: il cardiologo Renato, l'assicuratore Luciano, e Mario, ormai pensionato. Con i suoi 456 mila euro di stipendio (38 mila al mese, altro che tetto) e 45 anni di contributi potrebbe ritirarsi anche lui. Ma non ci pensa. Anzi, proprio ora arriva una nuova giovinezza. Intanto è arrivata una nuova compagna, dopo una separazione difficile dalla moglie che gli ha dato due figli, un maschio e una femmina. Ormai grandi, e allora lui passeggia con i suoi due cani, un alano e un bassotto.

Dopo la pioggia di buste con proiettili e attentati a Equitalia nelle ultime settimane, a Befera e ai suoi collaboratori è stata imposta la scorta. Beffardo destino per quest’uomo mite, che quando si arrabbia al massimo dice, alzando un po’ la voce sarcastico: «Amore mio…»

Metà Italia lo ama, metà lo odia. Chi gli sta vicino rivela che quattro cose gli rendono la vita più serena: la stima di Monti, quella di Giorgio Napolitano, la sua ammirazione per Cavour. E l’alleanza di ferro che ha stretto con Antonio Mastrapasqua, il presidente dell’Inps che gestisce paritariamente con l’Agenzia delle Entrate gli ottomila riscossori di Equitalia.

Meno coordinati sono i rapporti con la Guardia di Finanza, i militari della lotta anti-evasori. A volte c’è un po’ di concorrenza con l’Agenzia, proprio come capita fra Carabinieri e Polizia. Il blitz di Cortina, per esempio, è stato condotto dall’Agenzia; e un comandante locale dei finanzieri ha detto che non ne sapeva nulla, per di più dichiarandosi perplesso sull’opportunità della data scelta, al picco dell’alta stagione. Ma sono inezie, e pochi giorni dopo ecco le Fiamme gialle liguri scatenate in negozi e locali di Portofino, Santa Margherita e Genova.

Solo operazioni d’immagine? Lo si vedrà con i bilanci che Befera sarà capace di esibire a fine 2012. Ma questo è anche il primo anno in cui le somme recuperate dal fisco non sono state messe preventivamente a bilancio dal governo. Perché per ora si tratta solo di speranze. Se diventeranno certezze, e supereranno i nove miliardi del 2011, dipende da Attilio.
Mauro Suttora

Wednesday, April 20, 2011

parla il Mandela libico

INTERVISTA ESCLUSIVA A AHMED ZUBAIR AL SENUSSI, 31 ANNI IN CARCERE SOTTO GHEDDAFI. OGGI È MINISTRO DELLA NUOVA LIBIA LIBERA

dall'inviato a Bengasi Mauro Suttora

Oggi, 13 aprile 2011



«Aiutateci. Salvate la città di Misurata. È una strage. Gheddafi ha tagliato da quaranta giorni acqua ed elettricità ai suoi abitanti civili assediati. E li bombarda. Si comporta come Hitler. Non riusciremo a sconfiggerlo, da soli».

L’appello giunge da Ahmed Zubair Al Senussi, che è stato per 31 anni nelle carceri del dittatore libico. Una prigionia più lunga di quella di Nelson Mandela in Sud Africa. Perciò Senussi è conosciuto come il «Mandela libico».

È un mite signore 77enne, a disagio in pubblico. Parla per la prima volta con un giornalista italiano. Incontrarlo è stato difficile: quattro giorni di attesa a Bengasi e di appuntamenti rimandati. Adesso infatti Senussi è uno degli undici ministri del nuovo governo della Libia libera. Nonostante l’età è indaffaratissimo: passa da una riunione all’altra.

«Dobbiamo ricostruire una nazione da zero, e noi stessi siamo tutti senza esperienza di governo: avvocati, professori, ingegneri. In più, a 150 chilometri da qui c’è la guerra. Mi scusi per averla fatta aspettare tanto».

Per due volte in due mesi quelli che vengono sbrigativamente definiti «ribelli» (loro preferirebbero «patrioti», o almeno «insorti») si sono illusi di marciare verso Tripoli, e di liberare la metà della Libia rimasta sotto il tallone di Gheddafi. Invece non sono mai riusciti ad arrivare a Sirte, né tanto meno a Misurata. E adesso, dopo drammatiche avanzate e ritirate di centinaia di chilometri nel deserto, i 700 mila abitanti di Bengasi sono di nuovo in pericolo. Come il 19 marzo, quando i carri armati del dittatore stavano già bombardando le case della periferia. Questione di ore: solo la risoluzione Onu e l’intervento dei jet francesi bloccarono in extremis un massacro tipo Srebrenica.

Ahmed Zubair fa parte della famiglia reale Senussi che ha governato la Libia dal 1951 al ’69. Il golpe di Gheddafi cacciò re Idris, ma lui non si arrese. Nell’agosto ’70 fu arrestato con altri tre cospiratori, fra cui il fratello, perché stava organizzando l’opposizione al regime: «Ancora adesso non so se sono stato tradito da qualcuno dei dirigenti che avevo coinvolto, o se furono i servizi segreti dei militari a scoprirci».

Lo incontriamo presso parenti. Ci offre the e pasticcini di cioccolato a forma di cuore. Per sicurezza, non può ricevere nessuno a casa sua: c’è ancora qualche agente gheddafiano in circolazione a Bengasi.
Lui porta su di sé i segni delle torture subite in carcere: «Con la “falga” ho perso le dita dei piedi. Me la praticavano con una corda e un bastone. Mi picchiavano, mi appendevano per le mani e per le gambe, mi mettevano la testa in acqua facendomi quasi annegare. Ma il supplizio peggiore era psicologico: ero condannato a morte, e per diciotto anni ho aspettato l’impiccagione da un momento all’altro. Finché, nel 1988, la sentenza capitale è stata commutata in ergastolo. E ho rivisto la luce del giorno».

L’altra grande tortura è stata l’isolamento: «Per nove anni non ho potuto vedere nessuno: solo la mano del carceriere che spingeva da una fessura nella porta il cibo tre volte al giorno. C’erano scarafaggi, e dovevo stare attento che i topi non me lo rubassero. La cella era larga un metro e mezzo, e vuota: oltre al buco del bagno turco e a un rubinetto avevo una coperta per pregare e dormire, e un lenzuolo. La finestra era oscurata, l’interruttore della luce era fuori dalla cella e il guardiano la teneva sempre accesa. Così ho perso il senso del giorno e della notte. Non sentivo molti rumori, tranne il gocciolio del rubinetto. L’unico libro permesso era il Corano».

Come passava il tempo?
«Avevo molto tempo per pensare, e quasi sempre pensavo a mia moglie Fatilah, che avevo sposato nel ’62. Nel ’79 ho potuto cominciare a incontrare altri carcerati. Fra loro c’era Omar Hariri, che adesso è ministro della Difesa nel governo provvisorio. Le guardie tenevano il volume della radio altissimo, non potevamo parlarci da una cella all’altra. Né sentivo le urla dei miei compagni quando venivano picchiati finché non stavano più in piedi, e dovevano trascinarsi in cella strisciando sulle ginocchia. Il carceriere più cattivo era il colonnello Ahmed Rashid. Non so se è ancora vivo, comunque vorrei incontrarlo di nuovo. E vederlo processato da un tribunale».

«Occhio per occhio, dente per dente», come dice il Corano?
«Decideranno i giudici, non io. Ma invidio Mandela. Almeno ai suoi familiari era permesso di visitarlo in carcere, e lui poteva leggere molti libri. I miei invece per diciotto anni non hanno saputo che fine avessi fatto, se ero vivo o morto. E quando nell’88 hanno permesso per la prima volta a mio fratello di venire a trovarmi, per me è stata una giornata molto bella ma anche molto brutta: mi annunciò la morte di mia moglie».

Poi Senussi è stato trasferito nella famigerata prigione Abu Salim di Tripoli, quella per i prigionieri politici. Qui il 15 gennaio ’96 avvenne una terribile strage di 1.270 carcerati. Il più giovane dei nuovi ministri della Libia libera, Fathi Terbil, è l’avvocato delle famiglie di molte di quelle vittime. E la dimostrazione che aveva organizzato per il quindicesimo anniversario della strage è stata la scintilla che due mesi fa ha fatto scoppiare la rivoluzione a Bengasi.

«Nel 2001, all’improvviso, mi hanno liberato per festeggiare il 32esimo anniversario del golpe di Gheddafi. Sono stato trasportato in aereo a casa a Bengasi. Sono venuti a trovarmi migliaia di parenti, amici, conoscenti. Ci ho messo tre mesi per vederli tutti. Ma ormai i bambini erano diventati grandi, e molti di quelli che conoscevo erano morti. Mi hanno dato anche 131 mila dinari libici [77 mila euro di oggi, ndr] come indennizzo, e una pensione mensile di 400 dinari [230 euro]».

Com’è stato il ritorno alla libertà in questi dieci anni? Aveva paura di finire ancora in prigione?
«No. Temevo che magari qualche sicario mi sparasse. Ma sotto Gheddafi tutti vivevano sempre sotto una cappa di paura. Ancora non ci sembra vero di essercene sbarazzati: è successo tutto così in fretta, è incredibile».

Senussi parla lentamente, sottovoce e con pochi gesti maestosi. Sarà l’età che ispira rispetto, ma si vede che proviene da una famiglia reale. Lui non ha alcuna nostalgia monarchica, però se lo eleggessero presidente sarebbe un perfetto «nonno saggio»: come Mandela, o come il nostro Giorgio Napolitano. Ha occhi vivacissimi e senso dell’humour.

Gli chiediamo un commento sul riconoscimento del nuovo governo libico da parte dell’Italia il 4 aprile: dopo Francia e Qatar, siamo il terzo Paese a compiere questo importante passo.
«Un gesto benvenuto, anche se è arrivato un po’ tardi. Pensavamo che l’Italia fosse la prima a riconoscerci, visti i nostri rapporti così profondi. Io ho un ricordo bellissimo del mio purtroppo unico viaggio in Italia, nel 1966. Accompagnavo mia moglie che era andata a curarsi in Germania, abbiamo visitato Milano e Roma. Mi è piaciuta in particolare Palermo, dove ci siamo imbarcati con il traghetto per Tunisi».

E adesso non la stancano, tutte queste interminabili riunioni?
«Non abbiamo potuto riunirci liberamente per 42 anni, siamo felici che ora sia arrivato il tempo del lavoro. Ieri sera ho dovuto disdire il nostro appuntamento perché all’ultimo momento abbiamo dovuto ricevere una delegazione dell’Unione europea».

Quanto durerà la guerra?
«Poco, se ci aiuterete dandoci le armi. Noi non le abbiamo, e non riusciremo mai a liberare tutta la Libia senza l’appoggio internazionale».

Ma poi ci saranno vendette?
«Mandela è riuscito a riconciliare il suo Sud Africa dopo 350 anni di ingiustizie e apartheid. Noi non abbiamo neanche questo problema, perché anche all’Ovest i libici detestano Gheddafi. Siamo tutti uniti. Questa non è una guerra civile: è solo un dittatore che cerca di conservare il potere con ogni mezzo, contro i suoi cittadini disarmati».

Finirà come in Afghanistan?
«Assolutamente no. Siamo musulmani, ma moderati. Quelle su Al Qaeda e i talebani sono bugie di Gheddafi per impaurire Europa e Stati Uniti».

Finirà come in Iran?
«No. Qui in Libia desideriamo tutti una democrazia liberale dove si possa vivere in libertà, e in cui ogni diritto individuale venga rispettato e protetto».

Mauro Suttora

Wednesday, December 15, 2010

Monicelli ed eutanasia

Il suicidio del regista riapre il dibattito sulla "dolce morte"

Oggi, 8 dicembre 2010

di Mauro Suttora

«Se fosse legale l’eutanasia, Monicelli sarebbe morto in modo più dignitoso», ha commentato l’oncologo Umberto Veronesi. «Ha scelto il suicidio, ha scelto di buttarsi dal balcone», ha detto la deputata radicale Rita Bernardini, «e dovremmo riflettere su come alcune persone che non ce la fanno più sono costrette a lasciare la vita, anziché poter morire, magari con i propri cari accanto, con il metodo della “dolce morte”».

Le ha replicato Paola Binetti (Udc): «Basta con gli spot pro-eutanasia partendo da episodi di uomini disperati. Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici. Il suo è un gesto tremendo di solitudine, non di libertà». Walter Veltroni: «Mario ha vissuto e non si è lasciato vivere. Ha deciso di andarsene». E il presidente Giorgio Napolitano: «Rispettiamo l’ultima manifestazione della sua forte personalità, un estremo scatto di volontà».

Il dibattito sull’eutanasia era già ripreso dopo i discorsi della vedova di Piergiorgio Welby e del padre di Eluana Englaro nel programma tv di Roberto Saviano e Fabio Fazio, i quali poi non hanno accettato le repliche richieste dai gruppi cattolici «pro-vita» sostenendo: «Noi non siamo pro-morte».

I fautori dell’eutanasia (dal greco eu, dolce, e tanatos, morte) preferiscono definirsi, come negli Stati Uniti, «pro-scelta»: il diritto individuale di scegliere, in caso di malattie terminali (il cancro del 95enne Monicelli), paralisi fisica totale (Welby) o coma profondo (Englaro), se anticipare la propria morte evitando inutili sofferenze.

In teoria sul rifiuto dell’accanimento terapeutico sono d’accordo anche i cattolici. Ma la legge che introduce il «testamento biologico» (con cui ciascuno di noi potrebbe decidere in anticipo che fare nel caso finisse in coma irreversibile) è bloccata da mesi in Parlamento. I cattolici, infatti, non ritengono che l’alimentazione e la ventilazione forzata siano forme di accanimento.
Così, non resta che la soluzione praticata da un dolente Clint Eastwood nel suo film Million Dollar Baby, quando stacca la spina (il tubo) alla giovane pugile. Di notte, di nascosto: si fa ma non si dice.

Wednesday, February 18, 2009

parla Gad Lerner

Oggi, 11 febbraio 2009

Cosa pensa del conflitto istituzionale innescato da Berlusconi?

«Non considero esaurita la forza, la spinta del berlusconismo. Ma l’ossessione di affermare la sua autorità, facendo leva sulle posizioni neodogmatiche della Chiesa, questa volta ha fatto commettere un errore a Berlusconi. Il quale teme un asse fra i due altri presidenti, quello della Camera Gianfranco Fini e quello della Repubblica Giorgio Napolitano, che imbrigli la sua azione di governo. E’ ricorso quindi al decreto legge, ingaggiando un braccio di ferro con il presidente della Repubblica. Il suo è un fastidio esibito contro ogni impiccio che lo ostacoli. Ma Berlusconi non si rende conto che sul tema da lui scelto per scatenare questo conflitto la società italiana è molto più avanti delle pagnotte e bottiglie piazzate davanti alla clinica La Quiete. Tutti i cittadini prima o poi, tramite qualche parente, hanno avuto a che fare con la pratica pietosa e silenziosa di interrompere gli accanimenti negli ospedali, per evitare che la tecnica imprigioni la vita. Il neodogmatismo illiberale mal corrisponde all’evoluzione del costume. Mi sembra che Berlusconi abbia presunto troppo dalla forza del suo consenso».

Riuscirà a cambiare la Costituzione?

«Berlusconi l’ha già stravolta da tempo, con la prassi della decretazione d’urgenza. Ha instaurato una nuova costituzione materiale, riducendo il rapporto con il Parlamento a una cinghia di trasmissione».

Sul caso Eluana si sarà fatto guidare da qualche sondaggio.

«Mi pare che questa volta abbia agito d’istinto, approfittando dell’appoggio delle gerarchie del Vaticano per liberarsi da quello che per lui ormai è diventato un vero e proprio incubo: l’asse Fini-Napolitano. Ma credo che sia stato un autogol, perché una volta finite le accuse irrazionali di omicidio, o le affermazioni secondo cui una ragazza dovrebbe morire, mentre ormai purtroppo si tratta di una donna, passato tutto questo, a Berlusconi resterà poco in mano».

Mauro Suttora

Tuesday, January 23, 2007

Veglia per Welby

Ti condannano a vivere, caro Piero

Welby stremato dopo una sentenza che allunga la sua agonia.
"Non ce la facciamo più", ci dice la moglie Mina dopo la beffa del tribunale di Roma, che riconosce al malato terminale il diritto di morire, ma pretende una nuova legge per poter sospendere la respirazione artificiale

di Mauro Suttora

Oggi, 18 dicembre 2006

"Non ce la facciamo più". Questo è l' unico messaggio che arriva da casa Welby dopo la sentenza del tribunale di Roma. La giudice Angela Savio, salomonica, è riuscita a dare allo stesso tempo ragione e torto a Piergiorgio, il malato terminale che da anni invoca la morte. Welby ha ragione, sentenzia il magistrato, perché il diritto di ogni persona a farsi curare nel modo che ritiene più opportuno è stabilito dalla legge suprema dello Stato: la Costituzione. Ma ha anche torto, e quindi non può fare interrompere le cure dai medici, perché manca una legge che "tuteli concretamente" questo diritto. In soldoni: Welby può teoricamente farsi staccare il ventilatore artificiale col tubo che gli permette di respirare. Ma chi compie questa azione verrà accusato di omicidio, rischiando quindici anni di carcere secondo il codice penale fascista ancora in vigore.

Per protestare contro questi arzigogoli i i radicali hanno organizzato veglie per Welby in 50 città italiane ed europee (Londra, Bruxelles, Mosca). "Ormai non so più che cosa dire, Mauro, mi sento spremuta come un limone. Non abbiamo più parole, né io né Piero", mi dice Mina Welby, moglie di Piergiorgio, nel pomeriggio di domenica 17 dicembre. L' appuntamento è per le 15 e 30, ma contrariamente alle scorse settimane dalla casa del rione Don Bosco ora "esce" quasi solo silenzio.

È incredibile come questo piccolo appartamento al sesto piano di un palazzo anni Cinquanta della periferia sud di Roma, vicino a Cinecittà, sia diventato negli ultimi tre mesi il cuore dell' Italia politica. Era l' inizio dell' autunno quando Welby si è trasformato nel "caso Welby", soltanto perché il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli aveva usato la cortesia di rispondere pubblicamente a una sua lettera aperta, in cui per l' ennesima volta Piero chiedeva l' eutanasia ("Come in Olanda, come in Svizzera").

E adesso, a fine autunno, dopo centinaia di pagine su tutti i giornali, copertine di settimanali, un libro (il suo, titolato "Lasciatemi morire"), decine di dibattiti tv, centinaia di dichiarazioni di politici, medici ed esperti, siamo al punto di prima: Piero non è padrone della propria vita, non può decidere se vivere o morire dopo 45 anni di distrofia muscolare. Nessuno vuole esaudire la richiesta di questo paziente impaziente dopo quasi mezzo secolo di sofferenze.

Nell' appartamento che il marito aveva scelto perché luminoso, sua madre Luciana, 86 anni, lo ha visto spegnersi anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Non fanno entrare quasi nessuno, lei e la nuora (Gugliel)Mina, coscienziosa e severa come la sudtirolese che è. Le poche immagini ritrasmesse in Tv da tre mesi sono quelle di Odeon, della trasmissione di Gianfranco Funari che riuscì a entrare a settembre. Poi basta. Idem per foto e giornalisti: gli ammessi nell' appartamentino si contano sulle dita di una mano. Nessun ministro in visita: alle richieste, gentile ma inflessibile, Mina risponde sempre: "Piero è troppo stanco, stanotte non ha dormito". Perfino Marco Pannella e i radicali dell' associazione Coscioni, Piero e Mina preferiscono sentirli al telefono. Mina teme le infezioni.

Ma Piero è collegatissimo col mondo, ascolta sempre radio radicale, guarda la Tv, si fa leggere da Mina tutte le dichiarazioni di ogni politico. Si è commosso sentendo Giorgio Albertazzi leggere alcune pagine del suo libro alla veglia in Campidoglio. Si arrabbia e si deprime ogni volta che lo insultano, che insinuano che si farebbe strumentalizzare. "Mi trattate come Aldo Moro, non volete rispettare la mia volontà", ha scritto. La guerra di Piero va avanti. "Non per molto, non ce la facciamo più", ripete Mina.

Di là, nella stanzetta oltre il minuscolo ingresso, c'è lui. Steso nel letto dove rischia piaghe da decubito, e dove viene il fisioterapista tre volte alla settimana per muovergli braccia e gambe inerti. Fino ad aprile Piero riusciva a spostare ancora qualche dito, e così poteva scrivere sul computer scambiando messaggi perfino scherzosi con gli amici del suo forum su Internet. Ora non più, anche quest' ultimo filo che lo teneva aggrappato al mondo e alla vita si è spezzato. "Per lui è stato un durissimo colpo", ci dice Mina, "è entrato in depressione, da allora vuole solo morire".

"Per fortuna, mio marito scelse un piano così alto: almeno dalle finestre entra la luce, si vedono il sole e il cielo", ci ha detto la signora Luciana seduta sul divano del soggiorno l' ultima volta che siamo andati a trovarli. Il padre di Piero si fece assegnare questo appartamentino riservato ai dipendenti pubblici. Era scozzese, da giovane era stato giocatore professionista di calcio, era sceso nei campi di serie A alla fine degli anni Venti con la Roma di Attilio Ferraris e Fulvio Bernardini.

Ottant' anni dopo, per uno strano scherzo del destino, si chiama Bernardini (Rita) anche la segretaria dell' unico partito, il radicale, che dal 2002 ha preso a cuore la tremenda richiesta di Piero Welby. È scozzese questo strano cognome che interpella le coscienze di tutti gli italiani. Apparentemente estraneo alla tradizione cattolica, e infatti c' erano solo due valdesi alla veglia per Welby: il ministro della Solidarietà Paolo Ferrero (Rifondazione comunista) e la pastora Maria Bonafede, moderatrice dei valdesi, unica donna a capo di una Chiesa.

Quattro chilometri a nord di casa Welby c'è il Vaticano, con il Papa che ammonisce quasi quotidianamente: "L' eutanasia è omicidio". Due chilometri a nord c'è il Parlamento, con i parlamentari cattolici che ribadiscono: "Eutanasia, mai". Ma qui, sul divano a fiori di casa Welby, c' è la mamma di Piero, ultraottantenne, cattolicissima che allarga le braccia dicendo: "Che dobbiamo fare ?". E che cosa avrebbe fatto sua sorella, la zia di Piero, madre superiora di un importante ordine di suore, che ha visto il nipote diagnosticato di distrofia a 16 anni, con il medico che prevedeva: "Non arriverà a vent' anni"?

Alle pareti del salotto sono appesi tutti i quadri dipinti da Piero finché le sue dita riuscivano a muovere un pennello. Mamma Luciana tira fuori orgogliosa due album traboccanti di foto: sono quelle che Piero scattava a fiori, farfalle e insetti finché le sue mani riuscivano a fare clic su una macchina fotografica. Poi si alza, va verso il comò, apre due cassetti e ci regala un po' di presine coloratissime: "Le facevo all' uncinetto, le davo a un negozio di casalinghi qua sotto che me le vendeva. Ma ormai non le vuole più nessuno". Mamma Luciana allarga le braccia sul divano, sfogliando gli album con le foto delle farfalle. L' autunno di Welby è finito. Ora comincia l' inverno.

Mauro Suttora

Wednesday, March 19, 2003

E' sparito il diario di Claretta

Il furto dell' epistolario Mussolini Petacci ha ragioni politiche?

"Quel carteggio scotta. Mia zia sapeva che gli inglesi avevano chiesto aiuto a Mussolini per l' armistizio con Hitler", rivelò un mese fa a Oggi il nipote della Petacci, Ferdinando (a lato, col nostro cronista) "Hanno rubato i documenti che potevano mettere in imbarazzo gli inglesi", dice lo storico Luciano Garibaldi

di Mauro Suttora

Oggi 19/03/2003

Il giallo si complica. E i misteri sulla morte di Benito Mussolini, invece di dissolversi, si infittiscono. Il nuovo soprintendente dell' Archivio di Stato, Maurizio Fallace, ha denunciato ai carabinieri il furto di tutta l' annata 1937 del carteggio fra il dittatore fascista e la sua amante, Claretta Petacci, e del diario di quest' ultima. L' unico erede della Petacci, il nipote sessantenne Ferdinando che vive a Phoenix, in Arizona, un mese fa aveva lanciato proprio dalle colonne del nostro giornale, in un' intervista esclusiva, l' allarme sul destino degli scottanti documenti: "Qualcuno non vuole che la verità esca fuori" (Oggi n. 6, 5 febbraio 2003). E adesso la notizia che diario e lettere sono già stati saccheggiati da mani ignote fa lievitare i sospetti.

Ma cosa contiene di così esplosivo il carteggio Mussolini Petacci?
"In teoria, nessuno dovrebbe saperlo", risponde lo storico Luciano Garibaldi, uno dei massimi esperti di quel periodo e autore di molti libri (gli ultimi: La pista inglese, edizioni Ares, e Un secolo di guerre, ed. White Star), "perché da 58 anni tutti i governi lo hanno coperto con il segreto di Stato. Che però per legge dura solo cinquant' anni. Cosicché alla sua scadenza, nel 1995, chiesi di esaminarlo. Ma l' Archivio mi impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent' anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell' epoca, Giorgio Napolitano, specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell' Archivio, soltanto alcune pagine dei diari fra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945".

Perché questa autolimitazione ?

"Perché ero venuto in possesso delle trascrizioni delle telefonate fra Mussolini e Claretta, intercettate dai tedeschi che controllavano tutto. Da quei colloqui emergono i contatti segreti che il Duce aveva con emissari inglesi di Winston Churchill. "Riuscirò a convincere Hitler", dice Mussolini alla sua amante, che in quel periodo drammatico era diventata anche la sua confidente politica. Lui si sfogava con lei perché ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno".

Cosa voleva Churchill da Mussolini?

"Bloccare l' Unione Sovietica che stava dilagando troppo velocemente in Europa, mentre gli occidentali erano ancora fermi sul Reno".

E lei cosa voleva scoprire nei diari segreti di Claretta?

"Quello che scrisse, almeno nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate intercettate dai nazisti. Lei ascoltava tutto, e durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, sul lago di Garda, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Miriam".

E perché Napolitano non le ha permesso di consultarli, visto che il periodo del segreto di Stato è scaduto e il suo lavoro è di tipo storico scientifico, non certo alla ricerca di pettegolezzi privati ?

"La sua è stata una risposta curiosa. Sosteneva che i funzionari dell' Archivio avevano già provveduto a consultare i diari e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava".

Quindi qualcuno ha già letto e studiato i documenti segreti. E come mai è sparito proprio l' anno 1937 ?

"Le lettere di quell' anno non dovrebbero contenere rivelazioni importanti dal punto di vista politico. Con tutta probabilità si tratta veramente di corrispondenza d' amore e di lamentele da parte dell' amante di un uomo che faceva ancora il galletto e si concedeva altre avventure galanti. Magari saranno state vendute a caro prezzo a qualche collezionista privato miliardario. Ce ne sono tanti, in giro per il mondo".

Il valore commerciale del carteggio e del diario, quindi, potrebbe essere alto. È per questo che il nipote Ferdinando chiede di riaverli ?

"Petacci ha tutto il diritto di rientrarne in possesso, come unico erede vivente. Scaduto il termine dei cinquant' anni di segreto di Stato, se non gli vengono restituiti è un furto".

Ferdinando Petacci aveva soltanto tre anni quando l' auto su cui si trovava assieme alla zia Claretta, al padre Marcello Petacci, alla madre e al fratellino venne bloccata a Dongo, sulla riva del lago di Como, nell' aprile 1945. Suo padre venne fucilato, nonostante avesse dichiarato di essere in contatto con gli inglesi (o forse proprio per questo), la mamma violentata dai partigiani e il fratello non si riprese più dallo choc. Ora vive in Arizona e pretende che i suoi diritti vengano rispettati. Anche quello alla privacy: come si fa, infatti, a opporlo proprio ai parenti più stretti ?

Ma l' Archivio di Stato ha intenzioni differenti: "Quest' anno, trascorsi settant' anni, renderemo consultabili i primi atti del carteggio e del diario, quelli relativi al 1933", annuncia il sovrintendente Fallace. Ed è stato proprio durante una riunione preparatoria per questa pubblicazione che è stato scoperto il furto.

Luciano Garibaldi avverte però: "Già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in un baule nel giardino della villa dei conti Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di fuggire da Gardone, qualcuno si premurò di purgarli delle parti più compromettenti. D' altra parte, questo è stato il destino subito da tutti i documenti che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Quelli che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka per esempio: vent' anni fa gliene chiedemmo conto, e lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch' esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla sono poi le copie fotografiche che Mussolini consegnava al ministro Carlo Alberto Biggini".

Ma siamo sicuri che esistano le prove dei contatti fra Mussolini e Churchill?

"Non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano "Caro Winston" o "Caro Benito", ma sui rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l' autista del Duce, mi ha rivelato nel ' 94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa al confine con la Svizzera per incontrarli. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta hanno cominciato a incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante Bill che catturò sia Mussolini che Marcello Petacci, ha scritto due libri. Peccato che l' Istituto Storico della Resistenza di Pavia non permetta ancora l' ascolto delle cassette con la testimonianza di un altro partigiano, ormai deceduto".

Insomma, i misteri sull' oro di Dongo (il tesoro sparito dei gerarchi fascisti) e sulle uccisioni dei partigiani che non accettarono la versione ufficiale continuano. Dureranno ancora per dodici anni, se il governo non si decide a togliere il segreto (che negli Stati Uniti dura solo trent' anni). E forse per sempre, se malauguratamente si verificherà qualche altro strano "furto".

Mauro Suttora