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Wednesday, December 15, 2010

Monicelli ed eutanasia

Il suicidio del regista riapre il dibattito sulla "dolce morte"

Oggi, 8 dicembre 2010

di Mauro Suttora

«Se fosse legale l’eutanasia, Monicelli sarebbe morto in modo più dignitoso», ha commentato l’oncologo Umberto Veronesi. «Ha scelto il suicidio, ha scelto di buttarsi dal balcone», ha detto la deputata radicale Rita Bernardini, «e dovremmo riflettere su come alcune persone che non ce la fanno più sono costrette a lasciare la vita, anziché poter morire, magari con i propri cari accanto, con il metodo della “dolce morte”».

Le ha replicato Paola Binetti (Udc): «Basta con gli spot pro-eutanasia partendo da episodi di uomini disperati. Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici. Il suo è un gesto tremendo di solitudine, non di libertà». Walter Veltroni: «Mario ha vissuto e non si è lasciato vivere. Ha deciso di andarsene». E il presidente Giorgio Napolitano: «Rispettiamo l’ultima manifestazione della sua forte personalità, un estremo scatto di volontà».

Il dibattito sull’eutanasia era già ripreso dopo i discorsi della vedova di Piergiorgio Welby e del padre di Eluana Englaro nel programma tv di Roberto Saviano e Fabio Fazio, i quali poi non hanno accettato le repliche richieste dai gruppi cattolici «pro-vita» sostenendo: «Noi non siamo pro-morte».

I fautori dell’eutanasia (dal greco eu, dolce, e tanatos, morte) preferiscono definirsi, come negli Stati Uniti, «pro-scelta»: il diritto individuale di scegliere, in caso di malattie terminali (il cancro del 95enne Monicelli), paralisi fisica totale (Welby) o coma profondo (Englaro), se anticipare la propria morte evitando inutili sofferenze.

In teoria sul rifiuto dell’accanimento terapeutico sono d’accordo anche i cattolici. Ma la legge che introduce il «testamento biologico» (con cui ciascuno di noi potrebbe decidere in anticipo che fare nel caso finisse in coma irreversibile) è bloccata da mesi in Parlamento. I cattolici, infatti, non ritengono che l’alimentazione e la ventilazione forzata siano forme di accanimento.
Così, non resta che la soluzione praticata da un dolente Clint Eastwood nel suo film Million Dollar Baby, quando stacca la spina (il tubo) alla giovane pugile. Di notte, di nascosto: si fa ma non si dice.

Thursday, April 08, 2010

Rutelli andrà con Berlusconi?

Dopo il flop della sua Api potrebbe finire in braccio al premier

di Mauro Suttora

Libero, 8 aprile 2010

«Ah Berlusco’... Perché ce l’hai co’ mme? Io sto a lavora’ pe’ te! Ricordati deji amici! Di chi t’ha voluto bene!» Così Francesco Rutelli implorava Silvio Berlusconi nove anni fa, nell’indimenticabile satira di Corrado Guzzanti all’Ottavo Nano. L’avversario del Cavaliere alle politiche 2001, mandato allo sbaraglio in elezioni già perse, sembrava intento più a ingraziarselo che a combatterlo.

Oggi quella che sembrava soltanto una fantasia comica sta per diventare realtà: Rutelli finirà con Berlusconi. La sua Api (Alleanza per l’Italia), fondata pochi mesi fa, ha infatti ottenuto risultati deludenti al voto del 28 marzo. È riuscita a presentarsi in sole quattro regioni, raccattando il due per cento in Calabria e nelle Marche, il tre in Campania e il quattro in Basilicata, grazie a qualche capataz locale.
È vero, ha trionfato a San Nicola da Crisse (Vibo Valentia) con il 42%, e a Marcianise (Caserta) con il 23. Ma forse di queste percentuali c’è più da preoccuparsi che da rallegrarsi. In tutto il nord Api continua a voler dire solo Associazione piccole imprese. E nel resto d’Italia è una catena di pompe di benzina.

Così fra poco Rutelli compirà l’ottavo giro di valzer della sua carriera politica. Ricapitoliamo. Per quasi vent’anni radicale. Poi è cominciato il pellegrinaggio: verdi, Centocittà (movimento sindaci), Asinello con Prodi e Di Pietro, Margherita, Pd. Infine l’Api: doveva essere la grande scissione a destra del Pd, e invece quasi nessuno dei suoi lo ha seguito. Gentiloni, Realacci, Zanda e Giachetti sono rimasti con gli ex comunisti; Carra, Lusetti e la Binetti si sono rifugiati nell’Udc.

Ora mancano tre anni al prossimo contatto con la realtà (le elezioni), momento sempre più spiacevole per il bel Francesco. Quindi c’è tutto il tempo per «riposizionarsi» senza dare troppo nell’occhio. In fondo, se l’ex capo di uno schieramento passa dalla parte opposta, sarebbe come se Bush diventasse democratico, o Berlusconi socialista. Uno scandalo. Ma per Rutelli nulla è impossibile.

Ha già cominciato Francesco Carducci Artenisio, 47 anni, fedelissimo del Piacione quand’era sindaco di Roma: si è fatto eleggere consigliere regionale del Lazio nel listino personale di Renata Polverini. La quale potrebbe nominarlo assessore alla Cultura, così come Rutelli quand’era ministro dei Beni culturali lo fece amministratore delegato della società Cinecittà Holding (gran posto di potere nel superassistito cinema italiano).

Entro la fine dell’anno Pierferdinando Casini dovrebbe sciogliere la sua Udc e far nascere un non meglio precisato Pdn (Partito della nazione). Tramontato il sogno centrista di un rapido tramonto di Berlusconi, è svanito anche l’asse Casini-Fini-Montezemolo su cui Rutelli puntava. Non gli resta che accomodarsi nella «nuova» formazione centrista, contrattando buone posizioni per se e i pezzi di classe politica in cerca di ricollocazione che si porta appresso.

A quel punto, se Berlusconi com’è del tutto probabile nel 2011 sarà ancora saldamente al potere, attraverso Carducci le doti rabdomantiche di Rutelli potrebbero spingersi fino al Pdl. Come? L’ex compagno di lotte di Emma Bonino si farà portare fra le braccia del Cavaliere da colei che l’ha sconfitta: la Polverini. Per lo meno questo è il disegno della neogovernatrice del Lazio, secondo un articolo pubblicato ieri dal quotidiano Italia Oggi. Fantascienza? Figuriamoci: l’anno prossimo l’Italia festeggia i 150 anni. Ma il trasformismo dei suoi politici, dal «connubio» di Cavour a Depretis, ha più o meno la stessa età.

Wednesday, October 28, 2009

Francesco Rutelli lascia anche il Pd

L'UOMO CHE CAMBIO' SETTE CASACCHE

di Mauro Suttora

Libero, 28 ottobre 2009

«Inizieremo un tragitto differente, unendo persone diverse con culture diverse».
Indovinello: quand’è che Francesco Rutelli ha pronunciato per la prima volta queste parole?
Nel 1989, quando lasciò Pannella per i verdi dopo quindici anni di militanza radicale? O nel ’98, quando da sindaco di Roma mollò i verdi per consorziarsi con altri primi cittadini eccellenti (Cacciari, già allora sindaco di Venezia, Enzo Bianco di Catania, Fistarol da Belluno), per fondare il movimento Centocittà? «Centopadelle», li ribattezzò sarcastico Giuliano Amato. I sindaci non resistettero allo scherzo, e dopo tre mesi Centocittà era già sciolto. Rutelli può quindi vantarsi di avere inventato il partito dalla vita più corta nella storia d’Italia (forse del mondo).

Subito dopo, con un guizzo si mise con Di Pietro e Prodi nell’Asinello. I «democratici» resistettero un po’ più a lungo, e nel 2002 ecco la quarta giravolta di Francesco: assieme ai democristiani nella Margherita. Infine, confluenza nel Pd due anni fa.

Bisogna essere forti in matematica: quella annunciata con Casini sarà la settima casacca indossata da Rutelli nei suoi ultimi vent’anni di vita politica (e lui ne ha «solo» 55). Con una costante: «Unire persone diverse, con culture diverse». Lo ha ripetuto anche ieri a Milano. Il cambiamento come virtù. Unica coerenza: quella dell’incoerenza. Mischiare le carte, sempre.

Un voltagabbana, come tanti politici di professione? Ma no. Non bisogna essere ingenerosi con Francesco. Lui si trova infatti in competizione con Mastella per quantità di trasfigurazioni: antimilitarista e ora capo dei servizi segreti (anche militari), anticlericale e poi baciapile con replay di matrimonio in chiesa, anticomunista libertario ma poi alleato dei demoproletari, antisocialista («Auguro a Craxi di mangiare il suo prossimo rancio nel carcere di San Vittore») pentito dopo sei anni e una querela alla figlia Stefania che gli rispose «Stronzo».

Ma, a differenza del marito di Sandra Lonardo Mastella, il marito di Barbara Palombelli non ha mai surfato fra destra e sinistra. È sempre rimasto nel centrosinistra, non ha effettuato salti della quaglia. Insomma: trasformista sì, ma almeno all’interno dello stesso schieramento.

Con annessa una commendevole propensione al martirio: chi alle politiche del 2001 avrebbe osato opporsi a un Silvio Berlusconi trionfante, col vento in poppa dopo le vittorie alle europee del ’99 e alle regionali l’anno dopo? Rutelli accettò di fare il candidato a perdere, limitò i danni (solo due punti percentuali di differenza) e si «sacrificò» in attesa del successivo indennizzo: presidente della Margherita. Fu allora che perfezionò il suo secondo miracolo politico, dopo quello del maxiparcheggio sotto il Gianicolo per il Giubileo 2000: diventare, lui ex radicale, il capo dei democristiani. Alcuni dei quali, vittime palesi della sindrome di Stoccolma, continuano a seguirlo pure adesso: la vandeana Binetti, per esempio.

La capacità sopraffina di Rutelli è quella di riuscire a contare senza contare i propri voti. Che non esistono. Francesco infatti non ha una sua «costituency», come dicono i raffinati. Non ha una base di elettori: il suo è un voto totalmente di opinione. Armato solo del proprio disarmante sorriso e di un’affabilità seconda solo a quella di Bersani, pratica alla perfezione l’insegnamento del suo pigmalione Pannella: la strategia del cuculo. Si piazza nel nido degli altri. Da solo, non vale nulla. Però riesce a strappare il principale titolo di prima pagina al Corsera.

«Quante divisioni ha Rutelli?», chiederebbe Stalin. Nessuna. Da vent’anni galleggia e guida pezzetti di nomenclatura in cerca spasmodica di ricollocazione. Ma ormai Gentiloni e Realacci lo hanno mollato. Perfino il fedelissimo Giachetti tituba di fronte a un grigio destino Pierferdi. A Francesco resta solo Vernetti, un genio della politica.