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Wednesday, October 28, 2009

Francesco Rutelli lascia anche il Pd

L'UOMO CHE CAMBIO' SETTE CASACCHE

di Mauro Suttora

Libero, 28 ottobre 2009

«Inizieremo un tragitto differente, unendo persone diverse con culture diverse».
Indovinello: quand’è che Francesco Rutelli ha pronunciato per la prima volta queste parole?
Nel 1989, quando lasciò Pannella per i verdi dopo quindici anni di militanza radicale? O nel ’98, quando da sindaco di Roma mollò i verdi per consorziarsi con altri primi cittadini eccellenti (Cacciari, già allora sindaco di Venezia, Enzo Bianco di Catania, Fistarol da Belluno), per fondare il movimento Centocittà? «Centopadelle», li ribattezzò sarcastico Giuliano Amato. I sindaci non resistettero allo scherzo, e dopo tre mesi Centocittà era già sciolto. Rutelli può quindi vantarsi di avere inventato il partito dalla vita più corta nella storia d’Italia (forse del mondo).

Subito dopo, con un guizzo si mise con Di Pietro e Prodi nell’Asinello. I «democratici» resistettero un po’ più a lungo, e nel 2002 ecco la quarta giravolta di Francesco: assieme ai democristiani nella Margherita. Infine, confluenza nel Pd due anni fa.

Bisogna essere forti in matematica: quella annunciata con Casini sarà la settima casacca indossata da Rutelli nei suoi ultimi vent’anni di vita politica (e lui ne ha «solo» 55). Con una costante: «Unire persone diverse, con culture diverse». Lo ha ripetuto anche ieri a Milano. Il cambiamento come virtù. Unica coerenza: quella dell’incoerenza. Mischiare le carte, sempre.

Un voltagabbana, come tanti politici di professione? Ma no. Non bisogna essere ingenerosi con Francesco. Lui si trova infatti in competizione con Mastella per quantità di trasfigurazioni: antimilitarista e ora capo dei servizi segreti (anche militari), anticlericale e poi baciapile con replay di matrimonio in chiesa, anticomunista libertario ma poi alleato dei demoproletari, antisocialista («Auguro a Craxi di mangiare il suo prossimo rancio nel carcere di San Vittore») pentito dopo sei anni e una querela alla figlia Stefania che gli rispose «Stronzo».

Ma, a differenza del marito di Sandra Lonardo Mastella, il marito di Barbara Palombelli non ha mai surfato fra destra e sinistra. È sempre rimasto nel centrosinistra, non ha effettuato salti della quaglia. Insomma: trasformista sì, ma almeno all’interno dello stesso schieramento.

Con annessa una commendevole propensione al martirio: chi alle politiche del 2001 avrebbe osato opporsi a un Silvio Berlusconi trionfante, col vento in poppa dopo le vittorie alle europee del ’99 e alle regionali l’anno dopo? Rutelli accettò di fare il candidato a perdere, limitò i danni (solo due punti percentuali di differenza) e si «sacrificò» in attesa del successivo indennizzo: presidente della Margherita. Fu allora che perfezionò il suo secondo miracolo politico, dopo quello del maxiparcheggio sotto il Gianicolo per il Giubileo 2000: diventare, lui ex radicale, il capo dei democristiani. Alcuni dei quali, vittime palesi della sindrome di Stoccolma, continuano a seguirlo pure adesso: la vandeana Binetti, per esempio.

La capacità sopraffina di Rutelli è quella di riuscire a contare senza contare i propri voti. Che non esistono. Francesco infatti non ha una sua «costituency», come dicono i raffinati. Non ha una base di elettori: il suo è un voto totalmente di opinione. Armato solo del proprio disarmante sorriso e di un’affabilità seconda solo a quella di Bersani, pratica alla perfezione l’insegnamento del suo pigmalione Pannella: la strategia del cuculo. Si piazza nel nido degli altri. Da solo, non vale nulla. Però riesce a strappare il principale titolo di prima pagina al Corsera.

«Quante divisioni ha Rutelli?», chiederebbe Stalin. Nessuna. Da vent’anni galleggia e guida pezzetti di nomenclatura in cerca spasmodica di ricollocazione. Ma ormai Gentiloni e Realacci lo hanno mollato. Perfino il fedelissimo Giachetti tituba di fronte a un grigio destino Pierferdi. A Francesco resta solo Vernetti, un genio della politica.