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Tuesday, May 09, 2023

Democrazie e dittature? Ancora oggi per qualcuno pari sono



Nell'articolo principale di questa settimana de La Lettura, Manlio Graziano, docente di geopolitica a Parigi, scrive che Usa e Cina "si scambiano provocazioni con tanta aggressività e leggerezza"

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 9 maggio 2023 

"Taiwan è diventata la posta principale di un gioco al rialzo da cui nessuno vuole recedere. Né Joe Biden né Xi Jinping possono permettersi di mostrare segni di cedimento al pubblico di casa". Nell'articolo principale di questa settimana de La Lettura, supplemento letterario del Corriere della Sera, Manlio Graziano, docente di geopolitica a Parigi, scrive che Usa e Cina "si scambiano provocazioni con tanta aggressività e leggerezza" quanto quelle che portarono alla Prima guerra mondiale nel 1914 e all'attacco del Giappone contro gli Stati Uniti nel 1941. 

"Giocare con il fuoco dei ricatti reciproci, senza considerare che la situazione è per certi aspetti più grave di allora, è una prova del sonnambulismo degli attuali 'responsabili' politici", scrive Graziano. Il quale mette quindi sullo stesso livello un dittatore come il cinese e un presidente eletto come l'americano. Entrambi responsabili ma scritti tra virgolette, perciò in realtà irresponsabili. Anche se Xi non deve rispondere a nessuno, mentre Biden fra due anni sarà liberamente valutato dai suoi elettori. 

Graziano riconosce l'impossibilità dell'equivalenza, ma solo per dire che Xi è più vulnerabile: "Il leader autoritario, privo di legittimazione elettorale, è forse più esposto del leader democratico, perché quando perde la legittimità interna trascina nella caduta il suo regime". Come accadde ai colonnelli greci dopo il golpe di Cipro nel 1974, o ai generali argentini dopo la sconfitta delle Falkland/Malvine nel 1982. 

Graziano però precisa che anche la legittimazione elettorale di Biden "è da alcuni contestata". Questi 'alcuni' sarebbero Donald Trump e i suoi teppisti di Capitol Hill? Proseguendo nell'equiparazione, il professore cita un sondaggio con il 70% dei cinesi favorevoli all'uso della forza per "riunificare" (alias attaccare) Taiwan, e uno di Newsweek con "più della metà degli americani pronta ad appoggiare un intervento degli Usa in difesa di Taiwan". Come se in Cina esistesse un'opinione pubblica libera di esprimersi. E come se attaccare e difendere siano la stessa cosa. 

Graziano poi scrive che davanti alle coste cinesi ci sarebbe "una catena di isole controllate da Paesi rivali, spada di Damocle sui suoi traffici", riecheggiando la paranoia da accerchiamento di Vladimir Putin. Ma i traffici della Cina sono indirizzati verso l'intero mondo libero, il quale quindi non ha alcun interesse a bloccarli. 

L'affermazione più sconcertante di Graziano arriva quando dà credito alla prima teoria complottista del dopoguerra: l'accusa a Franklin Roosevelt di avere "scientemente provocato" Pearl Harbour. "Secondo alcuni storici" scrive lui; i quali però si riducono a un contrammiraglio Usa cacciato dopo una sconfitta, e a un fotografo.

La conclusione di Graziano è in linea con la sua idea di equipollenza fra democrazie e dittature. Accusa santorianamente "i 'responsabili' politici delle potenze minori [come la Ue, ndr]" di "accodarsi all'uno o all'altro dei due contendenti". I quali per lui pari sono. Dimenticando che invece a Taiwan, come in Ucraina, c'è un enorme lupo che minaccia un piccolo agnello. 

Povero Angelo Panebianco, l'editorialista del Corsera che ancora pochi giorni fa ammoniva a rendersi conto dell'ineliminabile conflitto di valori fra il mondo libero e le autocrazie (Cina, Russia). L'illusione della neutralità è forte anche nel suo stesso giornale. 

Friday, December 09, 2022

Odo falchi far festa. Grazie a Putin aumento record delle spese militari Usa



Hanno vinto loro, un voto quasi plebiscitario alla Camera su un incremento che supera perfino le richieste del presidente Biden. Soltanto la Cina tiene i livelli di Washington, che a questi ritmi presto arriveranno a mille miliardi

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 9 dicembre 2022  

Hanno vinto i falchi. La Camera Usa ha aumentato le spese militari dai 780 miliardi di dollari di quest'anno a 858 per l'anno prossimo. Un incremento impressionante: supera di ben 45 miliardi perfino la richiesta del presidente Joe Biden, il quale si sarebbe accontentato di 813 miliardi. Il dibattito ora passa al Senato, ma l'ampiezza bipartisan del voto alla Camera (350 sì contro 80 colombe) esclude sorprese. 

L'aumento-monstre ha due cause: la guerra in Ucraina e l'inflazione. 

Il bilancio militare 2023 prevede altri 800 milioni di armamenti per l'Ucraina. Che però sono una goccia rispetto ai 60 miliardi erogati extra-bilancio quest'anno in aiuti per Kiev, sia civili che bellici. Quanto all'inflazione, attualmente all'8% negli Usa, verrà compensata da un +4,6% per gli stipendi dei quasi tre milioni di militari statunitensi. 

Festeggiano i deputati democratici e repubblicani di decine di Stati: tutti quelli che hanno fabbriche d'armi nei propri collegi. La Lockheed sfornerà altri aerei F-35, la General Dynamics parteciperà all'espansione della marina da guerra: da 296 a 321 navi entro il 2030. Anche la nostra Fincantieri ne varerà qualcuna, con la sua sussidiaria americana.

Nel 1999 le spese militari statunitensi erano a 298 miliardi. Poi una progressione a razzo: le guerre in Iraq e Afghanistan le fecero lievitare fino ai 533 miliardi del 2005. Con Barack Obama l'aumento fu più contenuto: 633 miliardi del 2015. Sotto Donald Trump un altro salto di cento milioni annui. E ora le nuove minacce: soldati Usa in Europa aumentati da 80 a 100mila; dieci miliardi in più per Taiwan; il budget per le armi nucleari che passa da 43 a 51 miliardi annui.

Soltanto la Cina sta incrementando le spese militari quanto Washington: raddoppiate in pochi anni, fino agli attuali 300 miliardi (come l'intera Europa). La Russia dichiarava una settantina di miliardi prima della guerra, ora Putin ne stanzia 140 per il 2023.  Ma gli Usa sono irraggiungibili: a questi ritmi, fra pochi anni arriveranno a mille miliardi. Quanto tutti gli altri stati della Terra messi assieme. 

Saturday, August 28, 2021

Capo di un’Europa veramente unita: questo si merita Mario Draghi

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 agosto 2021

Ci rendiamo conto che mai, nella storia d'Italia, abbiamo avuto un leader di così grande prestigio mondiale?

Da due settimane Mario Draghi, dopo il disastro Afghanistan, si è attivato per organizzare a Roma un vertice dei G20, i Paesi che rappresentano l'80% del pil mondiale e il 60% degli abitanti.

Sembra logico che giganti come Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica o Arabia Saudita vengano coinvolti per trovare una strategia comune verso talebani e Isis.

Draghi non si è montato la testa: spetta a lui 'convocare' il mondo intero, perché quest'anno la presidenza a rotazione dei G20 tocca all'Italia; e perché comunque il vertice dei capi di stato è già previsto per il 30 ottobre. Si tratta soltanto di anticiparlo di un mese, a settembre.

Ma egualmente il turbinio di telefonate e incontri in cui si è lanciato il nostro premier risulterebbe velleitario, se egli non godesse di un prestigio planetario pressoché unanime. Forse l'unico che gli serba rancore è il turco Erdogan, da lui definito "dittatore".

Il suo principale estimatore è Biden: quando gli hanno chiesto cosa gli avrebbe detto durante il loro primo incontro, ha risposto: "A Draghi non si parla, a Draghi si chiede consiglio e lo si ascolta".

Il presidente Usa conosce bene superMario, perché i suoi otto anni da vice di Obama hanno coinciso con quelli di Draghi al vertice della Banca centrale europea.

Anche Boris Johnson si è lanciato nell'usuale complimento durante il G7 di Giugno in Cornovaglia: "A Draghi è bastata una frase per salvare l'euro".

Insomma, Draghi ha le carte in regola per dare le carte a tutti i potenti della Terra.

Ci riuscirà? Le prime difficoltà sono emerse durante l'incontro a Roma con il ministro degli esteri russo Lavrov, che gli ha chiesto di allargare il G20 a Iran e Pakistan, vicini dell'Afghanistan. Idea sensata, ma anche un trappolone: come ottenere il sì dei sauditi, nemici giurati degli iraniani, e degli indiani, che detestano i pakistani?

Draghi ha subito telefonato al premier indiano Modi. La soluzione potrebbe essere includere Teheran e Islamabad nel vertice G20 come 'invitati': lo status di cui gode in permanenza la Spagna.

Ma questi sono dettagli tecnici. Così come la presenza fisica a Roma di tutti i leader (chi volesse snobbare il vertice accamperà la scusa del virus per collegarsi solo in video) e l'accavallamento con l'abituale settimana settembrina a New York per l'Assemblea generale Onu.

Ecco, l'Onu. Spetterebbe al Palazzo di vetro l'iniziativa per affrontare il nodo Afghanistan. Ma purtroppo è da vent'anni che risulta desaparecido: dai tempi del deplorevole discorso di Powell sulle inesistenti armi chimiche in Iraq.

Quindi, in uscita la Merkel e in bilico Macron prima del voto francese, per colmare il vuoto di potere non resta che Draghi.

Usa e Regno Unito, umiliati a Kabul, riluttano a parlare troppo presto di talebani e Isis in un consesso dove risulterebbero minoritari e senza il diritto di veto di cui godono all'Onu. Ma li conforta il filoatlantismo d'acciaio di superMario. E comunque anche nel G20 vige la regola del consenso.

Se ce la farà, insomma, e se dal suo vertice romano uscirà una soluzione convincente, Draghi verrà incoronato "Grande saggio" mondiale. A pensarci bene, era da secoli (azzardiamo: da Giulio Cesare? Da Marco Aurelio?) che un italiano non dominava la scena planetaria come lui. Altro che Cavour o Garibaldi. Mussolini era un illuso a Monaco nel 1938, così come Berlusconi a Pratica di Mare nel 2002.

Per questo ogni ipotesi sul suo futuro risulta inadeguata. Premier o capo dello Stato? Entrambi, approviamo subito una legge apposita. 

Segretario generale Onu? Peccato, il mediocre Guterres è stato appena rieletto per altri cinque anni. Poco male: superMario lì risulterebbe imbalsamato. 

Presidente della Commissione Ue al posto della Von der Leyen alla sua scadenza nel 2024? Solo se la carica venisse accorpata a quella di presidente del Consiglio Ue. 

Capo di un'Europa veramente unita: questo meriterebbe Draghi.

Mauro Suttora 

Wednesday, July 14, 2021

A Cuba mancano polli e uova. E da 62 anni la libertà

Se gli Usa togliessero l'embargo andrebbe un po' meglio. Ma la dittatura resterebbe

di Mauro Suttora

HuffPost

, 14 luglio 2021

È colpa degli Stati Uniti. No, di Obama che non ha tolto tutto l’embargo. No, di Trump che lo ha inasprito. No, di Biden che non ha tolto gli inasprimenti di Trump. Macché, i cubani si rivoltano perché la pandemia ha fatto sparire i turisti, principale fonte di reddito.

È buffo leggere le spiegazioni sulle proteste a Cuba. Di solito manca sempre una parola. Una parolina semplice, antica, tremenda: dittatura.

Da 62 anni nella maggiore isola caraibica non c’è libertà. Ma poiché la libertà non si mangia, i nostalgici del comunismo sono convinti che i cubani scendano in piazza perché invece mancano polli, uova ed elettricità.

Il che è vero. Ed è anche vero che se gli Usa togliessero l’embargo l’economia andrebbe meglio. Ma Cuba resterebbe una dittatura. E peggio di una dittatura c’è soltanto una dittatura ereditaria. Come quella dei Duvalier haitiani o dei Kim coreani.

I fratelli Castro cubani dimostrano che il potere assoluto allunga la vita. Fidel è morto a 90 anni, Raul li ha compiuti un mese fa. Ma ad aprile ha compiuto un errore imperdonabile: ha passato lo scettro di segretario del partito comunista a Miguel Diaz.

Perché un errore? Perché peggio di una dittatura ereditaria c’è solo una dittatura senza dittatori. Miguel non ha carisma, e un Paese che ha prodotto il più grande mito del ’900, il comandante Che Guevara, non può essere comandato da un burocrate poliziesco laureato in ingegneria elettronica.

Il quale l’altro ieri ha compiuto il secondo errore. Invece di rispondere ai giovani rivoltosi “Avete ragione, vi daremo più polli, più uova, meno controlli su internet e più visti per gli Usa”, ha detto: “Cari giovani libertari, ora arrivano i miei squadristi in borghese, i guardiani della rivoluzione cubana invece che iraniana, e vi menano”.

Può anche darsi che ce la faccia. In Venezuela Maduro è da anni sull’orlo del crollo, la fame è la stessa, ma i suoi poliziotti, militari e manganellatori fanno il loro mestiere.

Il mestiere più difficile è però quello di presidente degli Stati Uniti. Il gigante che sta a cento miglia da quella grande prigione a cielo aperto che è Cuba, la quale a sua volta contiene la piccola prigione Usa di Guantanamo.

Le hanno tentate tutte. Il volenteroso Obama ha tolto metà embargo, ha ‘aperto’ alla dittatura, ha portato quasi un milione di ricchi turisti Usa di nuovo a Cuba in crociera, e i cubani con i dollari hanno comprato tanti polli e uova. Ma niente libertà: sempre divise, soldati, burocrati, partito unico, carcere per artisti, intellettuali, dissidenti. Per i gay un po’ meglio, ma guardate il film ‘Prima che sia notte’ di Julian Schnabel.

Il sesso a pagamento sul Malecon ora è per ogni gusto. Gli ultimi difensori del castrismo, attestati sull’obiezione multiuso “E allora Batista?” (invece delle foibe), sanno bene che ai tempi del precedente dittatore filo-Usa, nel 1958, il numero delle prostitute cubane equivaleva all’attuale. Stessa fame.

Il povero Obama era anche andato a Cuba, come il papa, gli Stones e Madonna. Niente da fare, non hanno innescato alcuna glasnost e perestroika cubana. Permessa solo la piccola proprietà privata di ristoranti e b&b.

Poi Trump, per ringraziare i fascisti cubani in esilio che lo fecero vincere in Florida, ripristinò le chiusure, compresa quella delle preziose rimesse dall’estero (stipendio medio cubano: 80€).

Ora Biden è indeciso fra carota e bastone. Da 60 anni il regime cubano dà la colpa del proprio disastro all’embargo Usa. Togliere l’alibi può servire?

Da noi gli illusi del ‘socialismo tropicale’ sono pari ai delusi. Commovente l’anno scorso l’ingenuità con cui abbiamo accolto a Crema i 50 medici e infermieri spediti dalla propaganda cubana ad “aiutarci”. Fingendo di non sapere che i due terzi dei loro stipendi portavano valuta al governo.

Ora scopriamo che l’“ottima” sanità dell’Avana ha vaccinato solo il 15%, e che il virus impazza. L′11 luglio Cuba ha avuto 6.923 nuovi casi e 47 morti. Anche le terapie intensive sono più delle nostre.

Ma è da trent’anni, dal crollo dell’Urss, che il regime cubano è in rianimazione. Magari adesso, dopo i fratelli sovietici e venezuelani, arriverà la falce e martello dei cinesi con nuove bombole di ossigeno.

Mauro Suttora 

Wednesday, January 06, 2021

Assalto alla democrazia, America nel caos

Trump incendia, i suoi obbediscono. Spari, lacrimogeni e devastazione al Congresso. Donald non molla

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 gennaio 2021

Scene di guerra civile da Washington. I manifestanti trumpiani, reduci da un comizio incendiario del presidente uscente Donald Trump che li ha incitati ad andare sotto il palazzo del Congresso, alle 14.30 ora locale sono riusciti a penetrarvi superando le guardie e aprendosi una breccia attraverso porte e finestre. Sono state estratte le pistole e, secondo diverse fonti, esplosi degli spari: una donna sarebbe stata colpita al petto e sarebbe grave, riporta la Cnn, e altre persone, tra cui diversi agenti, sono rimasti feriti negli scontri. 

Sono immagini di pura follia quelle che arrivano dal Congresso: manifestanti travestiti che prendono di mira le forze dell’ordine, un trumpiano che si siede sullo scranno di Mike Pence per scattarsi un selfie, un altro alla scrivania di Nancy Pelosi, e altri manifestanti che si fotografano accanto alle statue dei padri fondatori americani. E ancora: parlamentari con le maschere a gas tirati fuori di corsa dalle aule e dagli uffici dagli uomini di polizia per essere evacuati, il fumo di gas lacrimogeni nella storica rotonda del Campidoglio.

I parlamentari, riuniti in seduta comune per ratificare l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, hanno dovuto interrompere i lavori e sono stati segregati in una zona sicura predisposta contro gli attacchi terroristici, altri sono stati evacuati. Il sindaco di Washington ha dichiarato il coprifuoco per le 18. Il presidente uscente ha invitato con un tweet i suoi manifestanti a obbedire alla polizia. Troppo tardi, perché ormai la situazione era già sfuggita di mano.

La verità è che Trump non mollerà mai. Oggi ha arringato la folla di repubblicani convocati nella spianata fra la Casa Bianca e il Congresso proprio nei minuti in cui il Congresso si riuniva.

Tutti i ricorsi di Trump sono stati respinti dai tribunali, ma lui insisterà per il resto della sua vita a definire “truccate” le elezioni che ha perso. E ieri ha perso di nuovo. La Georgia ha eletto due senatori democratici, dando al partito di Biden la maggioranza alla Camera alta. Il margine è minimo: 51 a 50, sarà la nuova vicepresidente Kamala Harris a fare la differenza come presidente del Senato. Ma la disfatta repubblicana è totale: per la prima volta da dieci anni sono in minoranza al Senato, oltre ad aver perso la Camera bassa e la presidenza.

Naturalmente Trump ha rifiutato anche la sconfitta in Georgia: il 50 virgola qualcosa per cento dei democratici, solo 17mila voti in piu, è un invito a nozze per la sua bellicosità. “Anche ieri c’è stato un set-up, una trappola!”, ha urlato dal palco.

Il problema è che buona parte dei suoi 74 milioni di elettori gli crede. Sono convinti di essere vittime di una truffa colossale. E adesso Trump attacca anche i repubblicani che non fanno fuoco e fiamme come lui. Sono loro, più che i democratici, il suo nuovo bersaglio: i “weak republicans”, i deboli come il vicepresidente Mike Pence e gli altri senatori che accettano la sconfitta.

Lui ormai è su un altro pianeta, quello del complottismo. Quasi sicuramente diserterà la cerimonia di inaugurazione fra due settimane. Non stringerà la mano al suo successore.

È la prima volta che capita, nel quarto di millennio della storia Usa. Ed è gravissimo, perché approfondisce il fossato fra le due Americhe.

“Bisogna saper perdere”, cantavano i Rokes a Sanremo 1967. Niente da fare, per l’arrogante Donald perdere con stile è impossibile. Chi soccombe è solo un “loser”: il peggior insulto che conosca.

Aspettarsi da lui almeno il rispetto del galateo istituzionale è speranza vana. Perché lui è il Supercafone immortalato dal Piotta, e la giornata di oggi con il definitivo schiaffo in Georgia e il trionfo di Biden non è stata il ‘reality check’, il ritorno alla realtà, ma solo l’inizio della sua nuova campagna elettorale permanente. I repubblicani senzienti, come Mitt Romney, faticheranno a sbarazzarsi di questo tumore.

Mauro Suttora

Friday, January 01, 2021

Dalai Lama, il mondo in campo per 'garantire' la successione

LA CINA VIOLA LA LIBERTA' RELIGIOSA IN TIBET

di Mauro Suttora

HuffPost, 1 gennaio 2021

Il 6 luglio 2021 il Dalai Lama compie 86 anni. Guida i buddisti tibetani da quando ne aveva 15: batte anche la regina Elisabetta con i suoi 70 anni di durata (in esilio dal 1959). E nella storia è superato soltanto dai 72 anni del regno di Luigi XIV.

Ma nessuno è immortale, quindi è aperta la sua successione. Il regime cinese, che occupa il Tibet dal 1950, pretende di approvare la nomina del prossimo Dalai Lama, così come fa con i vescovi cattolici. Ma mentre il Vaticano ha abbassato la testa in questa anacronistica lotta per le investiture in ritardo di nove secoli sull'Europa, i tibetani non ne vogliono sapere di sottostare ai diktat comunisti.

I precedenti sono agghiaccianti. L'ultima volta che i buddisti hanno osato designare un Lama da soli, nel 1995, la Cina lo ha rapito, nominandone un altro fedele al regime. Non si sa più nulla dello sventurato Panchen Lama, che allora aveva sei anni e oggi ne avrebbe trenta.

Per evitare che il misfatto si ripeta, il 27 dicembre negli Stati Uniti è entrato in vigore il Tpsa (Tibetan policy and support Act), legge bipartisan che protegge il diritto dei buddisti tibetani a scegliere il loro prossimo Dalai Lama senza interferenze da parte della Cina. I governanti di Pechino che cercassero di nominarlo saranno colpiti da sanzioni. È auspicata una soluzione negoziale fra la Cina e i rappresentanti del Dalai Lama, ma intanto si vieta l'apertura di nuovi consolati cinesi negli Usa finché Pechino continuerà a vietare un consolato statunitense a Lhasa, capitale del Tibet. Vengono finanziati progetti umanitari dentro e fuori dal Tibet. E si elogia la democratizzazione del governo tibetano in esilio: il Dalai Lama dal 2011 ha trasferito l'autorità politica a Lobsang Sangay, primo premier laico regolarmente eletto. Il quale ha ribadito che non chiede più l'indipendenza del Tibet, ma soltanto l'autonomia.

Fra i principali artefici del Tibet Act, il primo dopo quello del 2002 che dettava la politica statunitense sulla regione oppressa, c'è l'Ict (International Campaign for Tibet), la fondazione di Richard Gere guidata da sette anni da un italiano: il 45enne Matteo Mecacci, deputato radicale fino al 2013, ora nominato segretario generale per le Istituzioni democratiche e i Diritti umani dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Gere è stato invitato dal Senato Usa in giugno a parlare sull'argomento.

"Sappiamo che il governo cinese non cambierà il suo atteggiamento sul Tibet solo per questa legge", commenta Mecacci, "ma il Tpsa chiarisce che la libertà religiosa è importante, e che ci saranno conseguenze concrete se Pechino continuerà a violarla".    

Nel 2007 la Cina ha introdotto nuove regole sulla nomina dei Lama 'reincarnati', e i governanti di Pechino ripetono in ogni occasione che spetta a loro selezionarli. Ma il Dalai Lama ha avvertito che la reincarnazione potrà avvenire solo in un contesto di libertà, come quello dell'India dove vive in esilio dopo la fuga dalla dittatura. E che nessuno rispetterà un eventuale futuro Dalai Lama imposto dalla Cina.     

Lo scorso luglio per la prima volta Washington ha vietato l'entrata negli Usa ai gerarchi cinesi accusati di avere impedito a cittadini statunitensi l'accesso al Tibet. In settembre Joe Biden ha dichiarato che anche la sua amministrazione difenderà il popolo tibetano, che lui incontrerà il Dalai Lama, finanzierà i programmi in lingua tibetana di Radio free Asia e Voice of America, e che assieme agli alleati premerà su Pechino affinché riprenda il dialogo diretto con i rappresentanti tibetani per arrivare a una "genuina autonomia".

Cosa farà ora l'Europa? Josep Borrell, capo della politica estera Ue, ha dichiarato che anche l'Unione si oppone a ogni interferenza cinese sulla successione al Dalai Lama. Ma finora soltanto Belgio, Germania e Olanda hanno espresso posizioni simili. Manca l'Italia, e soprattutto mancano strumenti concreti ed efficaci per prevenire la malefatta annunciata.

Mauro Suttora

Thursday, December 03, 2020

Trump ha realizzato il primo boom egualitario degli ultimi decenni

QUANDO LE DESTRE FANNO COSE PIÙ DEMOCRATICHE DEI DEMOCRATICI

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 dicembre 2020

Il mensile di sinistra Usa The New Republic ha pubblicato una lunga, scarnificante autocritica che può risultare preziosa anche per la sinistra italiana. L'autore, Christopher Caldwell, scrive che c'è poco da festeggiare per i democratici americani, visto il loro anemico risultato nel voto per il Congresso, derivante da mali strutturali.

Per cominciare, i risultati della presidenza Trump: invisibili dalle città globalizzate, tutte democratiche, dove vive il 90% dei giornalisti Usa. Trump ha realizzato qualcosa di straordinario: il primo boom egualitario degli ultimi decenni. Nel 2019 è riuscito ad abbassare la disoccupazione al 3,7% (praticamente pieno impiego, tranne la quota frizionale di chi sta cambiando lavoro), e soprattutto un aumento del 4,7% dei salari del quarto più basso della popolazione. Anche durante gli ultimi tre anni di Obama i redditi da lavoro erano aumentati, ma soprattutto quelli del decile più alto (del 20%), mentre gli altri strati avevano registrato miglioramenti solo lievi.

Quindi, se non ci fosse stato il virus, Trump probabilmente avrebbe vinto. Ma, anche qui: il crollo del 31% del pil nel secondo trimestre è stato annullato dal rimbalzo del 33% del terzo trimestre. Solo che il dato favorevole al presidente in carica è stato pubblicato appena cinque giorni prima del voto: troppo tardi perché mutasse la percezione di declino economico. Inoltre, buona parte degli elettori aveva già votato: è stata questa la vera distorsione provocata dal voto postale, non gli inesistenti brogli.

Per i democratici è imbarazzante ammetterlo: Trump ha avuto sfortuna. È stato il caso a provocare, più che la sua vittoria quattro anni fa, la sua sconfitta un mese fa. Perché ormai il partito democratico è visto come il difensore del privilegio economico: nove dei dieci stati più ricchi hanno votato Biden, 14 dei 15 più poveri per Trump. Se il distretto di Columbia (la capitale Washington) diventasse uno stato, come vogliono molti democratici, sarebbe il più ricco d'America, con un reddito pro capite superiore del 17% rispetto al secondo, il Connecticut. E a Washington Biden ha battuto Trump 92 a 5. 

I democratici sono il partito dell'economia globale, quindi delle sue due conseguenze aborrite dai ceti popolari: ineguaglianza e diversità etnica. "Per questo il fronte popolare di Biden è destinato a sfaldarsi", sentenzia Caldwell. Come fanno i socialisti Sanders ed Elizabeth Warren a rimanere assieme ai ricconi 'big money' che hanno regalato al partito democratico la sua prima campagna da un miliardo di dollari (il 60% più di quanto ha speso Trump)? Dove sono finiti i piccoli 'donors' da dieci dollari l'uno di Obama? Questa volta hanno coperto solo il 39% dei fondi di Biden, contro il 45% di Trump. Che quindi anche qui è stato più democratico dei democratici.

Nell'analisi di Caldwell c'è posto anche per l'Italia. "Negli anni '60 del diciannovesimo secolo", scrive, "tre grandi Paesi occidentali, Germania, Italia e Stati Uniti, combatterono guerre simili di unificazione, in cui la parte più dinamica di ciascuna nazione soggiogò la parte più bucolica". Oggi negli Usa i democratici sono il partito del progresso tecnologico e demografico (la California della Silicon Valley, New York, Boston), i repubblicani dell'arretratezza. Fino a mezzo secolo fa i repubblicani erano invece il partito del capitale e i democratici quello dei lavoratori. Ma capitale e lavoro hanno bisogno l'uno dell'altro, dinamismo e tradizione no. Quindi l'attuale divaricazione rischia di essere insanabile.

Conclude Caldwell: non abbiamo mai visto mai nulla di simile prima. Ci sarà più instabilità in futuro: "Il conflitto non è più fra due visioni dell'America, ma fra due popoli differenti". Ciascuna delle fazioni è convinta di rappresentare l'incarnazione dell'America, contro l'antiamericanismo degli altri. La vicepresidente Kamala Harris ha detto ai suoi 79 milioni di elettori: "Avete scelto speranza e onestà, scienza e verità". E Michelle Obama: "Abbiamo votato contro bugie, odio, caos e divisione". Cose brutte, che però hanno ottenuto 73 milioni di voti, più di quelli mai presi da suo marito. Cose xenofobe, maschiliste, egoiste: "deplorabili", secondo la famosa definizione suicida di Hillary Clinton. Le quali tuttavia, seppur politicamente scorrettissime, hanno attratto dieci milioni di statunitensi in più rispetto al bottino di Trump nel 2016. 

Cosicché, anche se per ora ha prevalso il fascino ecumenico di Joe Biden, gli Stati Uniti del nuovo presidente sono diventati indecifrabili per tanti dei litigiosi capi della sua corte. Un po' come in Lombardia soltanto due anni fa, quando il democratico Giorgio Gori perse 29 a 49 con il leghista Attilio Fontana alle regionali. Un distacco astronomico. A qualche democratico italiano fischiano le orecchie?

Mauro Suttora

Wednesday, September 10, 2008

Michelle Obama e Hillary

LA CONVENTION DEMOCRATICA DI DENVER

di Mauro Suttora

Oggi, 30 agosto 2008

Denver (Stati Uniti)
La più ambiziosa delle First ladies ha dovuto lasciare il posto alla più riluttante. Povera Hillary Clinton, per otto anni moglie del presidente americano Bill, da altri otto potentissima senatrice dello stato di New York, e negli ultimi otto mesi avversaria sconfitta del candidato presidente Barack Obama: ora le tocca sorridere a Michelle, moglie di Barack.

Che sorriso forzato e amaro, il suo. Ha raccolto 18 milioni di voti nelle primarie, a gennaio era sicura di vincere. Ora invece deve simulare felicità per il trionfo di Obama alla convention democratica di Denver. E per di più, a 60 anni, vede ascendere la stella di Michelle, che a 44 anni è adulata dal mensile Usa Vanity Fair come «donna più elegante del pianeta».

E pensare che ancora pochi mesi fa Michelle non ne voleva sapere di mettersi in prima fila accanto al marito. «Le campagne elettorali sono tremende, con tutte quelle mani da stringere e quei fondi da raccogliere», aveva confessato nel 2000, quando Obama fallì il primo tentativo di farsi eleggere a Washington (c’è riuscito solo nel 2004, ed è incredibile come negli Usa possa diventare presidente una persona con appena quattro anni di esperienza parlamentare).

«Non c’è proprio nulla che ti piace, della carriera politica di Barack?», le chiese il suo capo all’università di Chicago. E lei, scherzando ma non troppo: «Beh, dopo gli inviti in così tanti salotti mi è venuta qualche idea in più per arredare la casa…»

E invece alla convention è stata lei a pronunciare il discorso d’apertura. Preceduto addirittura da un documentario sulla sua vita, onore finora riservato solo ai candidati presidenti. E così l’America ha potuto ammirare la deliziosa bimba con le treccine del quartiere South Side, il ghetto nero di Chicago, figlia di un impiegato comunale colpito da sclerosi multipla, che via via diventa sorella, moglie e madre.

«Mostrare le radici di Michelle serve a bilanciare l’eccessivo “internazionalismo” di Obama», spiegano gli esperti di campagne presidenziali, «perché Barack è figlio di un keniota, è nato a Honolulu, è cresciuto in Indonesia, si è laureato ad Harvard… Troppo “fighetto” per l’elettorato popolare e patriottico, che gli preferisce l’ex soldato John McCain».

Così Michelle è stata costretta a lanciarsi nella mischia. Ora tutta l’America sa che i suoi vestiti Gap costano 79 dollari, perché siamo in tempi di crisi e quindi basta con i tailleur firmati di Hillary. Le femministe l’hanno criticata dopo che si è dimessa dall’ospedale in cui era funzionaria per dedicarsi a tempo pieno alla campagna. Ma la posta in gioco è troppo alta: «Ora o mai più», dicono sia i neri d’America, che con il 12 per cento della popolazione hanno un solo senatore su cento (Obama, appunto), sia i supporter del partito democratico che perdono da 40 anni (tranne le parentesi Carter e Clinton).

Il problema è che, mentre a giugno i sondaggi davano Obama davanti a McCain con un distacco di otto punti, adesso i due candidati al voto del 4 novembre sono appaiati. Il presidente George Bush, con le sue interminabili guerre d’Afghanistan e Iraq, resta impopolare. Ma Obama è considerato troppo inesperto per affrontare le crisi internazionali, come la recente invasione russa della Georgia.

La quale si è trasformata in un giallo dopo l’accusa del premier russo Vladimir Putin: «Gli Stati Uniti hanno spinto la Georgia ad attaccare l’Ossezia per favorire un candidato alla presidenza». Inaudito: Bush avrebbe provocato apposta il conflitto perché in tempi di tensione il repubblicano McCain, ex prigioniero di guerra in Vietnam, verrebbe visto dall’elettore medio come un migliore «comandante in capo» delle forze armate Usa.

Così Obama si è scelto come candidato vicepresidente l’esperto Joe Biden, senatore da 36 anni e presidente della Commissione esteri. Gliel’ha consigliato Caroline Kennedy, la figlia di John e Jackie anche lei sul palco a Denver. Il momento più commovente della convention è stato il discorso d’addio di suo zio, il vecchio senatore Ted colpito da tumore al cervello. Ted, lungimirante, aveva preferito Obama a Hillary già all’inizio delle primarie. Così la fiaccola della famiglia politica democratica più famosa d’America ha saltato una generazione, quella dei sessantenni Clinton, ed è finita nelle mani dei quarantenni Obama.

Non è un mistero che Barack sia affascinato dal mito di John e Bob Kennedy, e intenda proseguirne l’opera interrotta dagli spari di Dallas (1963) e Los Angeles (1968). Ma c’è un altro grande statunitense che Obama ha voluto onorare, scegliendo proprio l’anniversario del suo discorso più famoso (28 agosto 1963) per pronunciare la propria accettazione della candidatura: Martin Luther King. «I have a dream», ho un sogno, aveva proclamato il premio Nobel della pace prima di essere anche lui ucciso.

Il sogno rimane lo stesso, quarant’anni dopo: che neri e bianchi possano raggiungere una parità effettiva, e non solo formale. Ora si sono aggiunte altre minoranze, in quell’inimitabile crogiolo che restano gli Stati Uniti: ispanici, asiatici, arabi. Il primo presidente di colore nella storia d’America rappresenterebbe un simbolo potentissimo di uguaglianza. Anche per il resto del mondo.

Mauro Suttora

Friday, May 30, 2003

Onu/5: lo scandalo Oil for Food

DAL PALAZZO DI VETRO ESCE ALLO SCOPERTO LO SCANDALO MAZZETTARO "PETROLIO IN CAMBIO DI CIBO": ECCO PERCHE' FRANCIA E RUSSIA HANNO CHINATO LA TESTA A USA E GB.

Mauro Suttora per Il Foglio

da New York, 30 maggio 2003

Come mai francesi e russi hanno chinato così docilmente la testa? Dopo la fine della guerra contro Saddam Hussein, Parigi e Mosca avevano negato per un mese e mezzo a Stati Uniti e Gran Bretagna ogni legittimazione Onu sull'Iraq occupato. La risoluzione approvata il 22 maggio, invece, non solo ha cancellato le sanzioni contro Baghdad, ma ha anche affidato il controllo del petrolio iracheno alle potenze vincitrici, ponendo fine al programma "Oil for Food" gestito dalle Nazioni Unite.

L'Oip (Office of the Iraq Program), nato nel 1997 e guidato a New York dal cipriota Benon Sevan, chiuderà entro sei mesi. Il miliardo di dollari che gli rimane in cassa andrà al nuovo Idf (Iraq Development Fund), e i contratti ancora aperti saranno rivisti. Il loro valore ammonta a dieci miliardi di dollari, di cui quasi la metà con società russe e francesi (3,7 miliardi le prime, un miliardo le seconde).

Seguono società giordane, egiziane e turche, coinvolte solo per ragioni di prossimità geografica. Durante i sei anni del programma le società russe hanno incassato in totale 7,3 miliardi di business. Secondo l'Egitto con 4,3 miliardi, poi la Francia con 3,7, quindi Giordania, Emirati Arabi e Cina con tre miliardi ciascuna. La Gran Bretagna ha avuto contratti per soli 200 milioni di dollari, quasi tutti nel settore sanitario.

L'ammissione: "Tutti lo sapevano"

L'imbarazzo che ha indebolito l'opposizione franco-russa alla risoluzione Onu, fino a liquefarla, deriva dalle rivelazioni delle ultime settimane: le Nazioni Unite avevano tollerato tangenti per miliardi di dollari a Saddam e ai suoi gerarchi. Così, mentre per dieci anni no global e "pacifisti" di tutto il mondo strillavano di bimbi iracheni che sarebbero stati affamati e uccisi dalle sanzioni, i soldi che dovevano sfamarli e curarli venivano intascati dal dittatore e dalla sua famiglia: "Tutti lo sapevano - ammette oggi perfino Sevan - e quelli che erano nella posizione di poter fare qualcosa non hanno fatto nulla. Io stesso non avevo i poteri necessari".

Secondo il programma Oil for Food tutti gli introiti della vendita del petrolio iracheno sarebbero dovuti confluire sul conto bancario Onu gestito dalla Banque Nazionale de Paris, per poi essere utilizzati in acquisti di derrate alimentari e attrezzature umanitarie. Invece le società estere prima pagavano Saddam e i suoi figli per ottenere i contratti, poi versavano loro tangenti fisse sul valore del grezzo estratto. La quota era di 15-25 cent al barile, che in alcuni casi salivano fino a 75 cent. Mezzo miliardo di dollari all'anno, per un totale di tre miliardi.

"Scoprimmo presto che dovevamo 'ungere' parecchia gente", denuncia l'uomo d'affari britannico Swara Khadir, "conservo ancora i documenti iracheni con le istruzioni su come depositare le tangenti in conti bancari giordani e svizzeri. I dirigenti iracheni non dovevano neppure fare la fatica di nascondere la propria corruzione, perché tanto i funzionari dell'Onu facevano finta di non vedere".

Un intermediario petrolifero russo si lamentò con l'Onu per aver dovuto pagare 60 mila dollari a Uday Hussein, figlio di Saddam, senza aver poi ottenuto il contratto: la somma fu versata in una banca di Amman, su un conto privato di Uday, i documenti furono inviati all'Onu, ma il Consiglio di sicurezza non ne tenne mai conto. Anche perché, incredibilmente, proprio le Nazioni Unite avevano affidato all'Iraq, e non ai propri amministratori, il compito di selezionare le società partecipanti al programma Oil for Food.

"Ovviamente molte di queste erano sospette - spiega John Fawcett, consulente della Brookings Institution per i diritti umani - si andava dalla mafia al terrorismo al riciclaggio di denaro sporco, fino a chiunque volesse fare un po' di soldi in fretta. Due società avevano soltanto un ufficio di facciata nel Liechtenstein". Come ha potuto l'Onu non accorgersi di questo verminaio? "Non siamo l'Fbi, il nostro non è un ufficio investigativo", si giustifica Sevan.

Quando le inchieste si fanno, sono dolori

Quando le inchieste si fanno, per le Nazioni Unite sono dolori. La settimana scorsa un rapporto del General Accounting Office (Gao) al Congresso americano ha rivelato che milioni di donne e bambini, cioè l'80 per cento dei venti milioni di profughi censiti nel mondo, finiscono in campi dove gli abusi sessuali sono diffusissimi: "L'Onu non fa abbastanza per controllare la situazione e addestrare il proprio personale", accusa il Gao, braccio investigativo del Congresso Usa. Vengono citati in particolare i campi profughi di Birmania, Congo e Liberia.

Attenzione: a puntare il dito non è l'amministrazione Bush, ma un convinto multilateralista e sostenitore dell'Onu come il senatore Joe Biden, massima autorità del partito democratico in fatto di politica estera (è capogruppo della commissione Esteri): "Donne e bambine, dopo aver sofferto le ingiurie della guerra e dei disastri naturali ed essere state costrette a fuggire dalle proprie case, finiscono in campi dove invece di essere protette vengono brutalizzate e qualche volta violentate". Per questo Biden ha proposto che gli Stati Uniti stanzino 90 milioni di dollari nei prossimi due anni per rendere sicuri i campi dei rifugiati e addestrare il personale.

Le stesse Nazioni Unite, in una loro inchiesta del 2001, avevano ammesso che lo sfruttamento sessuale dei profughi da parte di alcuni dei propri dipendenti era "un problema serio". Ciononostante, i dirigenti dell'Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), guidata dall'ex premier olandese Ruud Lubbers, hanno dichiarato agli investigatori del Gao di non considerare necessari cambiamenti radicali: l'agenzia non nega l'esistenza del problema, ma assicura di avere già compiuto un significativo sforzo che "mira specificatamente a migliorare la capacità da parte del nostro staff di prevenire e rispondere alla violenza sessuale". La replica del Gao è drastica: "Mezze misure e cambiamenti parziali non risolveranno nulla".

Come quasi sempre capita quando un'agenzia Onu è accusata di inefficienza, si sollecitano nuovi finanziamenti piangendo miseria. L'anno scorso l'Unhcr ha dovuto tagliare il proprio bilancio (di 730 milioni di dollari annui) del 10 per cento, perché alcuni paesi non hanno versato le cifre promesse. Non è questo il caso dei tanto deprecati Stati Uniti, che hanno contribuito per 265 milioni di dollari, circa un terzo del bilancio.

La verità è che il problema, più che nei fondi, sta nella loro distribuzione: l'Onu non manda i propri funzionari dove ce n'è più bisogno. Per esempio, soltanto il quattro per cento dei profughi sono in Europa, ma il 22 per cento del personale è stanziato qui, in uffici relativamente comodi. Viceversa, l'Africa "produce" l'80 per cento dei rifugiati, ma soltanto il 55 per cento del personale dell'agenzia Onu lavora sul campo in quel continente disagiato.

"Tutti gli esperti di assistenza internazionale - accusa il Gao - spiegano invece che una presenza visibile di dirigenti in loco è il deterrente più efficace contro gli abusi". Anche l'Organizzazione non governativa Save the Children ha pubblicato questo mese un rapporto in cui chiede più sicurezza per donne e bambini nei campi profughi.

Per la verità, la sicurezza nell'Onu manca perfino attorno al Consiglio di sicurezza. Un fatto increscioso è infatti accaduto pochi giorni fa nel Palazzo di Vetro. Un episodio piccolo, ma incredibile proprio per essere avvenuto nella sede dell'Onu, e per di più negli stessi giorni in cui il mondo assisteva ai saccheggi nelle strade di Baghdad. "Non credevo ai miei occhi: una folla di persone si è impadronita di qualsiasi cosa capitasse sottomano, fino a lasciare la sala completamente vuota", ha raccontato un testimone, non dall'Iraq ma dalla sede delle Nazioni Unite.

E' successo questo: la società Restaurant Associates ha perso la gara d'appalto per i cinque ristoranti, mense e bar interni dell'Onu che gestiva da 17 anni. Nell'ultimo giorno di servizio prima del subentro della nuova società il sindacato ha proclamato uno sciopero "selvaggio", per la mancata corresponsione dell'indennità di licenziamento ad alcuni dipendenti. Così a mezzogiorno, improvvisamente, tutto il personale dei ristoranti ha smesso di lavorare. Il segretario generale Kofi Annan aveva già convocato per l'una in una sala privata un pranzo di lavoro con i 15 membri del Consiglio di sicurezza, che ha quindi dovuto svolgersi a self service, senza camerieri (solo alcuni si sono offerti, per pura cortesia, di servire il caffè).

Sparite anche le suppellettili e l'argenteria

Frattanto la grande "cafeteria", che serve 5 mila pasti al giorno al personale Onu, era rimasta incustodita. E si è verificata una razzia colossale: tutti si sono serviti gratis delle porzioni del giorno (polli, insalate, tacchini, soufflé), ma sono sparite anche tutte le suppellettili, fra cui vassoi e posate d'argento. Stesse scene allo snack-bar "Viennese cafè", nel centro conferenze e nell'elegante sala da pranzo dei delegati, proprio accanto a quella dove Kofi stava mangiando.

Poi ai saccheggiatori è venuta sete. Perché non servirsi gratis al bar? Lì è stato beccato un diplomatico statunitense che, alla domanda su quanto avesse bevuto, ha risposto: "Non so, ho smesso di contare le bottiglie". Un rappresentante della nuova ditta appaltatrice, Aramark, ha valutato in 9 mila dollari il valore dei furti nella sola cafeteria, argenti esclusi. Molti frigobar privati negli uffici del palazzo, invece, rigurgitano. I guardiani Onu che avrebbero dovuto sorvegliare le sale si sono comportati come i Caschi blu in questi giorni nel Congo, o nel '95 a Srebrenica: inerti.

Mauro Suttora

Wednesday, April 16, 2003

Onu/1: a che cosa serve?

ONU DE' NOANTRI - SPRECHI, INEFFICIENZE, BILANCI IMBARAZZANTI: ECCO PERCHE' L'ULTIMA COSA DI CUI HANNO BISOGNO GLI IRACHENI E' UN PALAZZO DI VETRO.

16 aprile 2003

Dopo Oriana Fallaci sul Wall Street Journal e Beppe Severgnini sull'Economist, un altro giornalista italiano scrive le proprie opinioni direttamente in inglese sui giornali anglosassoni: Mauro Suttora, corrispondente da New York del settimanale Oggi. Su Newsweek di questa settimana - e oggi su Il Foglio - appare un suo commento sull'Onu in Iraq, dal titolo esplicito: "The last thing Iraqis need" ("L'ultima cosa di cui gli iracheni hanno bisogno").

Suttora si scaglia contro le Nazioni Unite, accusandole di essere un "mostro gogoliano" con 65mila dipendenti e un bilancio di 2,6 miliardi di dollari, "pieno di burocrati pigri e incompetenti che perpetuano i problemi invece di risolverli". Esamina alcuni casi di amministrazione Onu (Palestina, Bosnia, Kosovo) e si stupisce che l'Onu, nonostante abbia gia' dato prova di inefficienza anche in Iraq, sia diventata "l'ultimo ridotto" dei pacifisti che la invocano "come se fosse una parola magica".

Mauro Suttora per Il Foglio

New York. L'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, vuole l'Onu in Iraq: lo detto domenica sera davanti a tredici milioni di telespettatori americani durante il programma "60 Minutes" della Cbs. Anche il furbo Joe Biden, capo dei Democratici alla commissione Esteri del Senato, favorevole all'Onu: "Perché dobbiamo rischiare le vite dei nostri ragazzi agli incroci di Baghdad? E perché i contribuenti statunitensi dovrebbero continuare a pagare tutto intero il conto del mantenimento dell'ordine in Iraq? Che ci vadano anche i peace-keepers dell'Onu, o almeno quelli della Nato".

Argomenti concreti, che fanno breccia nell'americano medio ormai saziato dalla vittoria su Saddam Hussein. Quindi Onu sarà, lo ha deciso anche l'Amministrazione Bush. Ma la supervisione delle operazioni resterà saldamente in mano agli angloamericani.

Questa volta gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di farsi scippare controllo della situazione. Anche perché bilancio delle altre operazioni Onu in giro per il mondo oscilla fra l'inutile e il disastroso. Altro che "nation rebuilding": ovunque vadano, i funzionari delle Nazioni Unite sembrano posseduti dall'irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

L'atto d'accusa di Terzani sulla Cambogia

"Dopo il fallimento degli interventi in Somalia e nell'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia viene citata come straordinario successo', indicata come modello da seguire e usata per riscattare reputazione di un organismo le cui strutture andrebbero rimesse in discussione.

In realtà, l'operazione si è rivelata carissima (due miliardi e mezzo di dollari, ventiduemila uomini) ed è stata segnata sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti: quattrocento milioni di dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari - alcuni di altissimo livello - i quali avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione materiali che non venivano mai consegnati o venivano pagati a loro complici a prezzi fuori mercato (...).

Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh erano pieni, le ville affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokyo o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu.

Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole strade si svuotano perché diventano dominio di ombre senza scrupoli - spesso soldati o poliziotti in borghese - che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, soldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande amore per tutto ciò che è Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire - visto come un tradimento - si esprime ora in una crescente ostilità verso tutto ciò che è occidentale".

Questo è il bilancio imbarazzante che Tiziano Terzani tracciava qualche anno fa dell'intervento in Cambogia, uno dei primi esperimenti di amministrazione Onu. Ciononostante, oggi "Nazioni Unite" sembra essere diventata una parola magica, l'ultima trincea per i pacifisti sconfitti anch'essi, assieme a Saddam, dalle tre settimane di guerra di Donald Rumsfeld.

Ma che cosa sono in realtà, oggi, le Nazioni Unite? Un mostro burocratico con 65 mila dipendenti fissi con decine di migliaia di collaboratori e consulenti superpagati, che costano 2,6 miliardi di dollari l'anno. Vanno calcolati a parte i costosissimi programmi di "peacekeeping" (mantenimento della pace), pagati direttamente dai paesi che inviano i contingenti, e i sei miliardi annui di dollari in aiuti al Terzo mondo.

Sbaglia chi identifica l'Onu esclusivamente con la sua sede centrale di New York, il grattacielo costruito nel 1952 da Le Corbusier su un terreno regalato dai Rockefeller. Lì hanno sede il segretariato, guidato attualmente da Kofi Annan, l'Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e l'Ecosoc, il pletorico organismo di consulenza economica e sociale.

Ma la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, Ufficio antidroga), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l'Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program), Gaza (Agenzia profughi palestinesi).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c'è l'Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l'Upu (Unione postale universale), a Londra l'Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l'Icao (International Civil Aviation Organization).

Chi si occupa dei Diritti umani?

Gli Stati membri sono 191. Gli ultimi due arrivati sono Timor Est e la Svizzera, che hanno aderito nel settembre del 2002. Dopo il crollo del comunismo la maggioranza degli Stati non appartiene più alle dittature, le quali tuttavia riescono tuttora a impedire il funzionamento di organismi delicati, come la commissione per i Diritti umani. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Ginevra, in avenue de la Paix, l'annuale sessione dell'inutile Commissione, alla cui presidenza quest'anno è stata eletta la Libia.

Fino al 2002, Alto commissario per i Diritti umani era la combattiva ex presidente irlandese Mary Robinson, che per cinque anni ha denunciato l'opera ostruzionistica portata avanti da Cina, Siria, Sudan, Cuba e Vietnam. Quando se n'è andata, consumata dalla frustrazione, Kofi Annan l'ha sostituita con l'assai più malleabile Sergio Vieira de Mello, placido burocrate 55enne, brasiliano con carriera tutta interna all'Onu, reduce da Timor Est. Geoffrey Robertson, avvocato londinese, uno dei massimi esperti mondiali di Diritti umani, è drastico: "Per decenza, l'Onu farebbe meglio ad abolire l'Alto commissariato".

Il fallimento del piano Arlacchi

Un altro organismo dalla dubbia utilità è l'Unodccp (acronimo di stile sovietico che sta per United Nations Office for Drug Control and Crime Prevention), anch'esso attualmente riunito a Vienna in una di quelle conferenze Onu ormai leggendarie per spreco di risorse (si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo).

Questo Ufficio antidroga, presieduto da un anno da quella brava persona che è Antonio Maria Costa (fratello dell'eurodeputato Raffaele di Forza Italia), è reduce dal disastroso mandato di Pino Arlacchi, il quale cinque anni fa aveva avventatamente promesso di sradicare le coltivazioni di droga nel mondo entro il 2008. Siamo a metà del programma, ma la produzione di sostanze stupefacenti invece di diminuire è aumentata. E invece di chiudere per missione fallita, l'Agenzia Onu chiede nuovi fondi.

E' normale che i funzionari pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All'Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungono anche l'80 per cento del bilancio totale, tre anni fa i dipendenti si sono messi in sciopero della fame quando il nuovo segretario voleva tagliare certi sprechi.

Ma i più abili sono i dirigenti dell'Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l'Agenzia che da ben 55 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono quasi quattro milioni. Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 350 mila profughi istriani e dalmati dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza da parte dell'Onu.

Tre generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l'assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l'economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall'Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi.

Ma anche in Bosnia, dopo otto anni, e in Kosovo, dopo quattro, le Nazioni Unite non danno alcun segno di volersene o potersene andare. La criminale omissione di intervento nel 1995 da parte dei soldati Onu provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica: settemila morti. I pacifisti vogliono che in Iraq si ripetano altri vergognosi episodi come questo? Un governo è caduto, in Olanda, per le responsabilità di un comandante olandese a Srebrenica. Ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera. Anzi, quello di mettere tutto a tacere sembra un bel vizietto, nel sistema delle Nazioni Unite.

Sempre in Bosnia, quattro anni fa accuse inequivocabili avevano scoperchiato uno scandalo di notevoli proporzioni: funzionari dell'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a Sarajevo erano stati coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà. L'imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori.

Un personale sovrabbondante

Alla Commissione Onu dei Rifugiati, che spende ogni anno 740 milioni di dollari, escluse le emergenze, si era andati più in là: quattro suoi funzionari arrestati a Nairobi avevano inventato una specie di programma "Sex for food". Nei campi africani dove sono raccolti gli sventurati scampati alle stragi del Ruanda (anche lì: Onu, dov'eri?) donne e bambine venivano violentate, sfruttate e ricattate in permanenza. Vuoi mangiare? Vieni a letto.

Casi estremi, certo. Ma in tutte le Agenzie Onu l'inefficienza e la pigrizia regnano sovrane. Nel Palazzo di Vetro a New York l'attività principale della maggior parte del sovrabbondante personale diplomatico (in città vivono alla grande ben 35 mila diplomatici) è quella di partecipare a banchetti e gala. Si distinguono in questa attività frenetica i funzionari dei regimi del Terzo mondo, quasi sempre parenti, figli, amici o clienti del dittatorello locale. Non è un mistero: in molti paesi sottosviluppati il posto di ambasciatore all'Onu, che permette di vivere permanentemente negli Stati Uniti con gli agi dell'indennità diplomatica, vale più della carica di ministro degli Esteri.

(1. continua)

Dagospia.com 16 Aprile 2003

Wednesday, March 05, 2003

parla Joe Biden


INTERVISTA AL SENATORE CHE GUIDA LA POLITICA ESTERA DEL PARTITO DEMOCRATICO

Il Foglio, 5 marzo 2003

di Mauro Suttora

New York. "Chi l'ha detto che non possiamo attaccare Saddam dopo il 15 marzo perche' fa troppo caldo? Un'eventuale guerra d'estate per i nostri sarebbe piu' difficile, ma per gli iracheni impossibile. Perche' tutta questa fretta? Diamoci il tempo di recuperare il consenso di Francia, Germania, Russia e Cina, altrimenti Saddam puo' gia' sventolare una vittoria: quella di essere riuscito a dividere la grande coalizione contro il terrorismo, l'Onu e perfino la Nato. Invece io dico: non e' vero che il mondo e' contro di noi, lavoriamo per convincere gli alleati".

Joseph Biden, 60 anni, senatore del Delaware dal 1972 (meta' della sua vita), e' la voce piu' importante dei Democratici per la politica estera: e' infatti il capo dell'opposizione nella commissione Esteri del Senato. Non e' ne' liberal ne' pacifista: ha difeso strenuamente gli interventi in Bosnia e Kosovo. Lo incontriamo dopo un discorso che ha tenuto agli studenti della New York University, a Washington Square. Il voto del Parlamento turco contro la guerra a Saddam lo ha scosso: "In un solo anno Bush e' riuscito a dissolvere tutto il consenso internazionale accumulato dopo l'11 settembre. Ricordo la prima pagina di Le Monde allora: 'Siamo tutti americani'. Ora invece ci siamo alienati la simpatia di quasi tutti, perfino di alleati stretti e fedeli come la Turchia".

Biden, come tutti i Democratici, ha difficolta' nel dire chiaramente se e' pro o contro l'attacco. "Sono favorevole ad avere inviato i nostri soldati: mostrare a Saddam che facciamo sul serio e' l'unico modo per disarmarlo. Ma ora non possiamo fare a lui e a Osama il favore di combattere una guerra contro l'opinione pubblica mondiale". Quindi, nuova parola d'ordine: ricucire con gli europei: "Mettiamo la Francia di fronte alle sue responsabilita'. Chiediamo ai francesi di preparare loro stessi una risoluzione con un calendario preciso e minuzioso di tutte le armi di cui Saddam deve rendere conto: tanti litri di sostanze chimiche, una data entro la quale devono uscir fuori, la determinazione della sanzione, e cosi' per tutto il resto..."

Il senatore pero' sa bene che ormai la macchina e' avviata. La sua collega di partito Hillary Clinton ha dato pieno appoggio al presidente Bush sulla guerra. "Infatti, penso che questa mia proposta abbia solo