Wednesday, March 11, 2015

Expo di notte


VISITA AI TURNI NOTTURNI DEI CANTIERI, A DUE MESI DALL'APERTURA

Oggi, 4 marzo 2015

di Mauro Suttora 

Speriamo che non piova. Mancano soltanto sette settimane all’inaugurazione dell’Expo di Milano, ma alcuni cantieri sono ancora indietro. Ognuno dei 145 Paesi partecipanti è responsabile per il proprio padiglione. Molti l’hanno terminato, altri sono ancora in alto mare. Quindi sono costretti a fare i turni notturni per rispettare i tempi. Ma troppi giorni di pioggia potrebbero ritardare i «cronoprogrammi», creando problemi.
 

Siamo andati a Rho, oltre la periferia nordovest di Milano, per vedere come si lavora di notte, alla luce dei fari. L’area dell’Expo sorge fra due autostrade: quella per Torino e quella di Como-Varese, verso la Svizzera. Ma si potrà arrivare anche con i mezzi pubblici: il capolinea della linea rossa della metropolitana è lo stesso che serve la Fiera. Grandi ponti portano alle entrate.

Tutto qui è gigantesco, e nell’oscurità sembra ancora più impressionante. Peccato che quasi tutte queste immense e preziose strutture servano per una manifestazione che durerà soltanto sei mesi. Uno dei padiglioni più grandi e strani, una vera e propria opera d’arte, è quello della Cina. Dal decumano, il viale centrale dell’Expo che prende il nome dall’antica Roma, per ora si vedono in lontananza grandi montagne russe di legno.

Ci avviciniamo. Il capocantiere del turno notturno, Mario Cannone, foggiano, ci spiega che le strutture curve in legno, prefabbricate in Friuli, sosterranno il tetto ricoperto di canne di bambù. Ma ce la farete? «Certo, è tutto programmato», sorride.
Lui arriva ogni mattina alla sette dal suo paese in provincia di Novara, e torna a mezzanotte. «In queste ore senza traffico ci metto solo venti minuti». La metà di quel che ci vuole per il centro di Milano. La sua famiglia lo vede pochi minuti di notte, ma lui è contento: «Il mio cantiere precedente era in Algeria, almeno adesso posso vivere a casa». 

Molti operai sono albanesi. Scopriamo un ingegnere bergamasco dell’impresa appaltante, la Bodino di Torino: «Quasi tutti i padiglioni dell’Expo sono in moduli prefabbricati, soprattutto in legno, così potranno essere smontati e ricostruiti altrove». La difficoltà più grossa, ci spiegano, è che il progetto cinese non prevede linee rette: «Solo curve, e per incastrare i pezzi con maxibulloni e viti dobbiamo rifinirli con le seghe al millimetro».

Il viavai di tir che consegnano i pezzi è continuo. Sarà così fino al primo maggio, quando arriverà il presidente Sergio Mattarella a inaugurare la festa. «Anzi, le ultime settimane saranno le più intense», ci spiega la nostra guida, il capufficio stampa Stefano Gallizzi, «perché molte nazioni hanno già finito i padiglioni, ma aspettano per arredare gli interni perché temono che lasciandoli lì vuoti si possano rovinare».

Insomma, ci sono addirittura i ritardi programmati del just-in-time. Intanto, migliaia di uomini delle squadre di addetti ai padiglioni stanno occupando gli alberghi di Milano e Brianza. I tedeschi hanno requisito un intero hotel verso Varese. Quasi tutti però si sono affidati a imprese di costruzioni e a studi di progettazione e di arredamento italiani: il nostro design, non a caso, domina il mondo. E ce ne accorgeremo ancora una volta in aprile, quando Milano diventerà come ogni anno la capitale del pianeta, invasa dai creativi per il Salone del mobile. Che, per fortuna, non si accavallerà con l’affollamento dei sei mesi dell’Expo.

Intanto la nostra auto procede sul decumano, facendo lo slalom fra furgoni, camion e addetti allo scarico con gru e carrelli.

Arriviamo al centro dell’Expo, dove sorge il padiglione Italia. Maestoso, bianco, bellissimo. Alto quattro piani, struttura in cemento armato, l’unico che resterà anche dopo la chiusura del primo novembre. Per la prima volta lo si vede con una fiancata terminata, e i ghirigori che disegnano le strutture di una pianta.




Dentro, fervono i lavori. Non si capisce ancora bene quale sarà il risultato finale, la distanza fra la realtà e il progetto è troppo forte. Lo si può intuire solo osservando i pezzi che stanno a terra, aspettando di essere montati con le maxigru. «Ma è solo questione di giorni, se tornate fra una settimana non riconoscerete più nulla», ci dice il capocantiere.

Soltanto per visitare la mostra che conterrà il padiglione Italia ci vorranno parecchie ore. E così per ogni altro padiglione. «La verità è che per vedere tutta l’Expo ci vorrebbero parecchi giorni», dice Gallizzi, «ma ovviamente la maggior parte dei turisti non può fermarsi così tanto a Milano».

Ci sarà quindi da fare una scelta, una volta entrati in questa maxiFiera. I visitatori saranno attratti dal padiglione del proprio Paese, oppure dai cosiddetti «cluster» che raggruppano nazioni che si sono coalizzate per svolgere un unico tema. Sempre nell’àmbito cibo e alimentazione, per esempio, i principali Paesi produttori di cacao staranno assieme: Cuba, Costa d’Avorio, Ghana, Camerun, Sao Tomé e Gabon. Il trionfo del cioccolato.

Accanto a palazzo Italia ci sono i padiglioni dell’Unione europea e di Israele. Forse per ordine alfabetico, o forse per caso. Viene subito in mente il problema sicurezza. La tentazione, per qualsiasi malintenzionato, di farsi pubblicità anche solo con la rivendicazione di un petardo, potrebbe essere forte. Per questo l’area Expo è protetta da muri, cancelli e reti invalicabili. Telecamere controllano ogni metro di superficie. Ma l’esperienza di altri grandi eventi, come le Olimpiadi di Londra tre anni fa, è preziosa. 

Fondamentale sarà l’opera di centinaia di volontari che, a Milano città come all’Expo, convoglieranno la marea umana dando informazioni col sorriso. Un calore umano che spesso i visitatori delle Esposizioni del passato (Shanghai, Siviglia, Lisbona) hanno portato a casa come un ricordo ancor più bello delle tante meraviglie esposte negli stand.

Intanto, gli operai lavorano ancora nel fango. Speriamo che la primavera non sia piovosa. Altrimenti l’ultimo asfalto verrà messo col batticuore, poche ore prima dell’inaugurazione.
Mauro Suttora




Wednesday, February 25, 2015

Pansa: «Salvini, volgare furbastro»

MATTEO SALVINI? UN FURBASTRO DI SUCCESSO

«Populista, volgare, sfida il ridicolo per far parlare di sé: è un politico di oggi». Così Giampaolo Pansa descrive il capo leghista. E lo confronta con i grandi conservatori, da Scelba ad Almirante. «Normale che si allei con Marine Le Pen». E Grillo? «Sembra il capo della X Mas»  

di Mauro Suttora

Oggi, 25 febbraio 2015

«Fa sembrare Silvio Berlusconi un matusalemme da ospizio. Ha spedito nel reparto anticaglie il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Ha annichilito i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Ha messo in guardaroba i vecchi capi leghisti Umberto Bossi e Bobo Maroni. Tutto in pochi mesi, con tanti blitz che ricordano il Berlusconi del 1994».

Giampaolo Pansa, l’ultimo capitolo del suo nuovo libro, La Destra siamo noi (Rizzoli), è tutto dedicato a Matteo Salvini.
«Il capo del Carroccio è davvero un esemplare politico del nostro tempo: furbastro, volgare, pronto a sfidare il ridicolo pur di far parlare di sé. In lui non c’è più nulla della vecchia destra. Che cosa ne avrebbero detto Scelba, Almirante o Montanelli? Ecco una domanda che non inquieta il ragazzone, il quale dalla copertina di Oggi ci ha offerto il capezzolo rosato, l’ascella pelosa e una posa da catalogo per incontri a luci rosse».

Per ora ha incontrato la Le Pen.
«Nella sua deriva populista contro l’euro e a favore di Putin, era fatale che incontrasse la signora con il carisma che ha sedotto la Francia».

E che ha distrutto D’Alema, in un duello tv a Di Martedì di Floris.
«D’Alema è da troppo tempo sulla scena. Come me, anche se io spero di salvarmi non annoiando i lettori».

Certo non con questo libro. Perché l’ha scritto?
«Perché, in un momento come questo in cui in Italia il centrodestra non esiste più e la destra è a pezzi, volevo raccontare la storia di una quarantina di “destri” che invece hanno fatto la storia: Fanfani, Rauti, Guareschi, Romiti, Gelli, Bisaglia, Rumor, Freda...»

Fascisti, dc, industriali, giornalisti.
«Alcuni possono apparire fuori posto. C’è perfino un eroe civile come Giorgio Ambrosoli, l’avvocato che si battè contro Sindona. Tutti accomunati dall’essere di destra, una parola che oggi però non puzza più di fascismo».

Come mai oggi la destra ha l’euro come suo principale bersaglio?
«Tutta l’Europa è minata alle fondamenta dalla crisi economica, che è diventata crisi sociale. Quindi chiunque proponga di fuggire dallo stato attuale  prende voti. C’è da dire che se l’Europa ha la faccia di Draghi, è ottima. Se invece ha quella del presidente della Commissione Juncker, sembra quella di un ubriaco».

Pure Grillo è antieuro. È di destra?
«Inclassificabile. Ma ormai è in curva discendente, i suoi deputati lo mollano. Nel mio libro c’è un personaggio che come lui ce l’aveva con la partitocrazia inefficiente e corrotta: Junio Valerio Borghese, capo della X Mas».

Grillo sta con l’inglese Farage.
«Quello mi sembra un cialtrone, anche se pare andrà bene al voto di maggio».

E il capo di Pegida, i tedeschi anti-Islam, che si è fatto fotografare in posa da Hitler?
«Guardi, l’unica che seguo in Europa  è la Le Pen. Anche perché nel fisico massiccio  mi ricorda mia madre, che faceva la modista».

Dei personaggi di destra che rievoca, chi potrebbe servire oggi?
«Almirante. Intelligente, astuto, forte. Sapeva stare al mondo. Oggi nella politica italiana mancano gli hombre vertical, quelli che rassicurano l’uomo della strada perché incutono rispetto».

E Renzi?
«È solo un bullo, un ganassa convinto di poter fare tutto. Autoritario: neanche lui immagina quanto lo sia, si farà brutte sorprese. Si sente senza limiti perché la destra è scomparsa. Ma non può fare tutte le parti in commedia. Oggi in Italia non c’è opposizione».

C’è Forza Italia.
«È diventata un ricovero per vecchi, guidata da un 78enne che non può competere con Renzi e Salvini. Il proverbio dice che “col sole al tramonto anche l’ombra del nano si allunga”, ma i fedeli di Berlusconi non possono tenerlo in vita politicamente imbalsamandolo come Lenin».

Nel suo libro ci sono molte storie di sesso. Compresi due premier della Dc chiacchierati come gay.
«La Democrazia Cristiana era la fotocopia dell’Italia: c’era dentro tutto. E liberale: si potevano scrivere le peggior cose contro di loro, senza troppe conseguenze. Il Pci, invece, ci avrebbe fucilati. Ma, soprattutto, la Dc è immortale. L’elezione di Mattarella a presidente dimostra che è ancora viva».

Cosa pensa di Mattarella?
«Lo stimo molto. Riuscirà a fare da argine a Renzi».
Mauro Suttora


Wednesday, February 18, 2015

I misteri dei nuovi cardinali

PAPA FRANCESCO NE HA NOMINATI 15, MA ALCUNE SCELTE SONO SINGOLARI. COME QUELLA DEL VESCOVO DI TONGA, CHE HA SOLO 15MILA FEDELI. MENTRE OGNUNO DEI QUATTRO CARDINALI BRASILIANI RAPPRESENTA BEN 41 MILIONI DI CATTOLICI

di Mauro Suttora

Oggi, 21 gennaio 2015

Con tutto il rispetto e la simpatia per monsignor Patita Paini Mafi, vescovo di Tonga, appena annunciato da papa Francesco come uno dei quindici nuovi cardinali che entreranno nel Concistoro del 14 febbraio, nella sua isola i cattolici sono appena 15 mila, su quasi centomila abitanti. In Brasile, invece, ognuno dei quattro cardinali «rappresenta» 41 milioni di fedeli (su un totale di 164 milioni): 2.800 volte più che a Tonga. 

E così nelle Filippine, dove i 70 milioni di cattolici hanno «appena» due cardinali, o in Colombia, Perù e Venezuela, in cui un solo porporato si fa carico di decine di milioni di pecorelle.
     
Per non parlare di interi Paesi senza cardinali, nonostante abbiano milioni di fedeli: 12 in Ecuador, 11 in Uganda, 8 in Angola, 7 in Belgio, 4 in Slovacchia e Ucraina.

Questo avviene perché in realtà il Collegio cardinalizio non funziona come un Parlamento mondiale della Chiesa cattolica. E quindi oltre ai criteri di rappresentanza numerica, il papa tiene conto di altri fattori. Per esempio quello della valorizzazione delle periferie, o di singoli vescovi che vengono premiati per la loro opera pastorale, o apporto intellettuale e di devozione. 

Poi ci sono i retaggi storici,  che ancor oggi fanno avere all’Italia ben 26 cardinali elettori (con meno di 80 anni), ovvero uno ogni due milioni dei nostri 52 milioni di fedeli. E all’Europa 75 porporati, quasi la metà del totale.

Premiata l’Asia
In questa nuova infornata è stata premiata l’Asia. Hanno ottenuto un cardinale la Birmania, nonostante abbia solo mezzo milione di cattolici su 50 milioni di abitanti (l’1 per cento), la Thailandia, con 300 mila fedeli su 60 milioni, e il Vietnam, con otto milioni di cattolici su 80.

Anche sui due nuovi cardinali italiani, comunque, le scelte di papa Francesco sono state singolari. Invece di elevare alla porpora l’arcivescovo di Torino e il patriarca di Venezia, come da tradizione, ha preferito loro i vescovi di Ancona e Agrigento. E senza neppure avvertirli.
Mauro Suttora

Wednesday, February 11, 2015

Rosy Bindi: "Il mio Mattarella"

NOI CATTOLICI DEMOCRATICI, INCOMPRESI ANCHE NELLA CHIESA

di Mauro Suttora

Oggi, 4 febbraio 2015

"Quando sono entrata in Parlamento nel 1992 avevo alla destra del mio seggio Sergio Mattarella, e a sinistra Leopoldo Elia. Ho imparato molto da loro. E' stata una gran scuola: quella di Aldo Moro, Zaccagnini, La Pira, Dossetti. Insomma, i cattolici democratici della sinistra Dc".

Rosy Bindi è considerata la sorella politica del nuovo presidente della Repubblica. Insieme, e con Enrico Letta, Dario Franceschini e Rosa Russo Jervolino, hanno contrastato Rocco Buttiglione che dopo Tangentopoli voleva spostare il partito Popolare (ex Dc) nel centrodestra. E nel '96 hanno fatto nascere l'Ulivo di Romano Prodi, primo abbozzo del partito Democratico con gli ex comunisti.

Ora è seduta nel Transatlantico, la sala di Montecitorio accanto all'aula dove ha appena votato nella seduta che sta mandando Mattarella al Quirinale. È uno dei giorni più felici della sua vita politica. Tutti vengono a congratularsi.

Lei non sta nella pelle, ci dà la sua prima intervista ma avverte: "Appena inizia lo spoglio torno dentro, per sentire i voti uno a uno".

Ma il risultato è sicuro.
"Non si sa mai. Voglio soffrire fino all'ultimo".

È da parecchio che soffre, Rosy Bindi. Prima per Berlusconi, poi per un Matteo Renzi che assomigliava troppo a Berlusconi.
"Quasi tutto perdonato. Vado ad abbracciarlo. L'elezione di Mattarella è un capolavoro".

Quando ha conosciuto il nuovo presidente?
"Mattarella aveva già dieci anni di esperienza parlamentare quando approdai a Roma. Era stato eletto alla Camera nell'83, raccogliendo l'eredità del fratello Piersanti assassinato dalla mafia. Diventammo subito amici".

Anche con la sua famiglia?
"Sì. Sua moglie, scomparsa due anni fa, era una donna straordinaria: l'opposto di lui per temperamento, ma uguale acutezza. Fui ospite da loro a Palermo, loro da me in montagna".

È vero che lo chiamavano 'Martirello' per l'aria lugubre e sofferta?
"E' molto riservato, ma ha un senso spiccato dell'humour".

Com'e' che si dimise da ministro contro Berlusconi?
"Nel 1990 la legge Mammi' salvò le tv Fininvest da una direttiva europea che vietava il possesso di tre canali da parte di un solo privato. Cosi' tutti i ministri della sinistra Dc se ne andarono dal governo Andreotti. Lui lasciò la Pubblica istruzione: una scelta drastica e irrevocabile improbabile per un Dc, ma non per un cattolico democratico".

Lei nel 1980 era accanto al professor Vittorio Bachelet ucciso dai brigatisti rossi. Un mese prima Mattarella vide morire il fratello fra le sue braccia. Vi unisce il dolore?
"Sì, ma anche tante battaglie combattute assieme, come quelle contro il Caf di Craxi, Andreotti, Forlani, e contro Berlusconi. Quando lui era vicepresidente del governo D'Alema nel '99 ebbi un forte appoggio per portare a termine la riforma della Sanità. Siamo cristiani ma pratichiamo la laicità, come ho dimostrato con i Dico, i Diritti dei conviventi. Noi cattolici democratici, prima di papa Francesco, abbiamo attraversato anni difficili anche dentro la Chiesa, con la presidenza Ruini della Cei".

Nel 2008 Mattarella lasciò la politica, non si ricandido'.
"Troppo cinismo e tatticismo nei partiti. Decisione non indolore, per un fondatore del Pd. Ma che si è rivelata provvidenziale, perché essere fuori dai giochi ha favorito questa sua elezione a presidente". 
Mauro Suttora  

Wednesday, February 04, 2015

Mattarella privato

Il presidente Sergio Mattarella, un uomo solo al Quirinale

E ORA CHE COSA FARÀ QUESTO DEMOCRISTIANO ATIPICO? SARÀ UN CAPO DELLO STATO RIGOROSO E DI POCHE PAROLE. 
CON DUE DOLORI NEL CUORE: L'ASSASSINIO DEL FRATELLO DA PARTE DELLA MAFIA E LA MORTE DELL'AMATA MOGLIE

Oggi, 4 febbraio 2015

di Mauro Suttora

È il terzo presidente della Repubblica vedovo nella storia d'Italia. Sua moglie, l'amata Marisa, è scomparsa due anni fa. Per il dolore Sergio Mattarella ha lasciato il loro appartamento romano in via della Mercede (dietro a largo del Nazareno, sede Pd), e si è rintanato nella foresteria di 50 metri quadri che la Corte Costituzionale offre a ognuno dei suoi 15 giudici. 

Mattarella vi era stato eletto cinque mesi prima della morte della moglie. Ora, con l'elezione al Quirinale, non scenderà più da quel colle fino al 2022. I palazzi di Presidenza e Consulta, infatti, sono prospicienti. Gli altri presidenti vedovi, Giuseppe Saragat (in carica del 1964 al '71) e Oscar Luigi Scalfaro (1992-'99), ricorrevano alle figlie Ernestina e Marianna per le cerimonie in cui è necessaria una presenza femminile: quando un altro capo di Stato si presenta con la first lady , è gentile fare da pendant almeno con una " first figlia"». 

Si prepari quindi Laura, avvocato, moglie di un dirigente informatico dell'Autorità della privacy, tre figli. Uno di loro, il liceale Manfredi, alla faccia della privacy ha già giocato uno scherzo al nonno: ha postato sulla propria pagina Facebook le foto in cui tutti i Mattarella hanno seguito in tv dalla casa di Laura sulla via Flaminia lo spoglio del voto presidenziale. Manco fosse la finale dei Mondiali, alla faccia della riservatezza che sembrava proverbiale in famiglia: Sergio non ha mai partecipato a un talk show , mai una sola dichiarazione negli ultimi sette anni. 

NIENTE CHIACCHIERICCI SU TELEFONINI E RETE 
O forse Mattarella ha dato furbamente al nipote il permesso di pubblicare le foto al nipote, per smentire la propria totale disconnessione con il chiacchiericcio "social" sugli smartphone, in cui invece sguazza felice il premier Matteo Renzi che l'ha fatto eleggere. Purtroppo la realtà ha picchiato duro su questo siciliano timido. Il 6 gennaio 1980 la Befana gli portò in regalo il corpo del fratello Piersanti, presidente della regione Sicilia, colpito da otto proiettili mafiosi. Dovette estrarlo lui dall'auto e portarlo in ospedale perché l'ambulanza non arrivava. 

Quella foto oggi fa il giro del mondo, e per lui rappresentò la condanna a lasciare a 38 anni l'insegnamento giuridico. Come i Kennedy in America, come i Gemayel in Libano, il fratello minore che raccoglie l'eredità politica di famiglia. Per i Mattarella, una storia che risale a quasi un secolo fa, quando papà Bernardo divenne segretario del Partito popolare nella sua Castellamare del Golfo (Palermo). Dopo la Liberazione, Mattarella senior è stato capo Dc, deputato dalla Costituente alla morte (1971) e potente ministro per vent'anni. Con annessi e connessi, per chi fa politica laggiù: accuse di contiguità alla mafia sempre respinte ai mittenti: Danilo Dolci, Gaspare Pisciotta, Joe «Bananas» Bonanno. 

Anche oggi Mattarella è attentissimo a ogni soffio di maldicenza. Ha mandato una cortese lettera al Fatto Quotidiano precisando di essere stato completamente scagionato da un'accusa del 1992: avere ricevuto 3 milioni in buoni benzina come contributo elettorale (lecito) da un costruttore poi condannato per concorso in mafia. Egualmente, suo fratello Antonino ha smentito allo stesso giornale di avere compiuto illeciti in compravendite di palazzi. 

Così, a chi volesse attaccare un dc specchiato come il neopresidente, non resta che ripiegare sul figlio Bernardo Giorgio. Ottimo professore di Diritto amministrativo, master a Berkeley, oggi anche capo dell'ufficio legislativo del ministero della Funzione pubblica retto da Marianna Madia. Compenso: 125 mila euro annui. Madia è l'ex fidanzata di Giulio Napolitano (figlio dell'ex presidente). Il quale, come Mattarella quarto, è allievo prediletto di Sabino Cassese, anch'egli giudice costituzionale con papà Sergio. Inevitabili connessioni familiari nelle classi dirigenti romane. 

Su tutto, però, fra premio il beau geste del luglio 1990: quando il ministro Mattarella si dimise contro la legge Mammì, regalo alle tv di Silvio Berlusconi. Riuscì a tornare al governo soltanto otto anni dopo, come vice del premier Massimo D'Alema. E adesso, dopo l'impeccabile esordio a base di Panda e Fosse Ardeatine, il presidente potrà di nuovo acquistare punti presso un'opinione pubblica imbestialita contro furti e sprechi dei politici. Per esempio, riducendo gli sfarzi del Quirinale.
Mauro Suttora 

Tuesday, February 03, 2015

Vendiamo il Quirinale

LUSSO INTOLLERABILE IN TEMPO DI CRISI: 1.200 STANZE PER UNA PERSONA SOLA. E INVECE DI RISPARMIARE, LA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA SI È ESPANSA IN ALTRI TRE PALAZZI VICINI

di Mauro Suttora

Oggi, 28 gennaio 2015

Approfittiamo di queste due settimane d’interregno, in cui non rischiamo di offendere nessuno. Per favore, vendete il Quirinale. Ci costa 237 milioni di euro all’anno: il doppio rispetto a 17 anni fa, il triplo sul 1986. Ma è soprattutto il confronto con l’estero a far capire l’assurdità di questa spesa. In Germania la presidenza della Repubblica ha un bilancio che è un decimo della nostra: 20 milioni di euro. A Buckingham Palace la regina Elisabetta se la cava con 60 milioni annui: un quarto dell’Italia. Il presidente francese, che ha compiti ben più importanti del nostro, riceve 90 milioni.
Noi invece manteniamo un esercito di 1.636 dipendenti: 871 civili e 765 militari. Ci sono i 260 corazzieri a cavallo,  ma per non far torto agli altri corpi anche centinaia di poliziotti, una settantina di guardie di finanza, 21 vigili e 16 guardie forestali (per la tenuta di Castelporziano).

L’imperatore giapponese ha mille dipendenti, il presidente degli Stati Uniti e il re spagnolo mezzo migliaio, a Londra ce ne sono 300, a Berlino 160.

Al Quirinale, invece, ci sono due persone solo per controllare gli orologi a pendolo, due doratori, tre ebanisti, sei tappezzieri, 14 addetti all’ufficio postale interno, 41 autisti per 35 auto blu. Nelle cucine una decina di cuochi, e 26 camerieri.

«Abbiamo ricevimenti di Stato con decine di ospiti, a volte centinaia», si giustificano i dirigenti quirinalizi (un’ottantina, con stipendi medi da 10 mila euro al mese, buona presenza di parenti di politici). Certo, ma non tutti i giorni. E flessibilità vorrebbe che per questi pranzi saltuari si ricorresse, come nel resto del mondo, al catering.

Insomma, nel centro di Roma il colle più alto è occupato da una concentrazione di velluti e ori, maggiordomi in livrea che si inchinano, lussi inimmaginabili e pompa borbonica. Non è possibile che una Repubblica fondata sul lavoro e devastata dalla crisi peggiore della sua storia si permetta sprechi simili.

Un paradosso: il segretario generale del Quirinale guadagna il doppio dello stesso presidente: 490 mila euro contro 239 mila. Perché i presidenti passano, ma i grandi burocrati restano.

L’elefantiasi della presidenza della Repubblica ha una causa precisa: nel tempo, ma soprattutto negli ultimi vent’anni, quelli che un tempo erano semplici consiglieri del presidente, ciascuno con un piccolo ufficio, si sono trasformati in veri e propri ministeri. Così oggi abbiamo il consigliere giuridico con uno staff degno del dicastero della Giustizia, quello militare per la Difesa, il diplomatico per gli Esteri, e poi gli Affari interni, e così via.

Obietta l’ufficio stampa del Quirinale (anch’esso sovradimensionato): «Il presidente guida anche il Csm (Consiglio superiore della magistratura) e il Csd (Consiglio supremo della difesa)». Certo, ma magistrati e forze armate dispongono già di fior di palazzi in centro a Roma, con strutture e funzionari.

L’aspetto più incredibile è che il Quirinale, nonostante le sue 1.200 sale e stanze, dagli anni Ottanta chissà perché ha avuto bisogno di espandersi in vari palazzi limitrofi: apparentemente, infatti, non riesce ad accomodare le proprie sempre crescenti esigenze, comprese quelle per appartamenti privati graziosamente concessi a vari fortunatissimi dirigenti. 
E così, giù in via della Dataria verso la fontana di Trevi, ecco i palazzi San Felice e della Panetteria: sono stati annessi alla Presidenza. Dal 2009 anche palazzo Sant’Andrea in via del Quirinale, per l’archivio. Quanto ai corazzieri, caserma e stalle per i 60 cavalli stanno poco più in là, nell’ex convento di Santa Susanna.

Insomma, chiunque sarà il nuovo presidente, ha ampli margini per risparmiare e tagliare. Sono  ormai passati otto anni da quando Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, con il libro La Casta, hanno squarciato il velo di deferenza e quasi omertà sulle spese del Quirinale.

Il presidente uscente Giorgio Napolitano ha fatto quel che ha potuto: è riuscito a fare a meno di 460 dipendenti rispetto al 2006, anno della sua elezione, e ha bloccato le spese, rimaste ai livelli di quell’anno. Ma le 1.200 stanze per una persona sola e con pochi poteri nel Palazzo più bello e grande di Roma, prima residenza del Papa, poi dei re Savoia, sono uno spreco immenso e intollerabile. Perfino la regina Margherita rifiutò di andarci, preferendo la più sobria e discreta villa Ada.
In quegli spazi potrebbero collocarsi molti uffici pubblici oggi costretti a pagare l’affitto. Il corpo centrale e il parco andrebbero aperti al pubblico pagante, come il palazzo Reale di Madrid. Va bene che a Roma già ci sono molti musei, ma dal Quirinale la vista è impagabile. Qualche ala secondaria potrebbe essere trasformata in residence di lusso, per produrre reddito. E, senza scandalo, c’è perfino lo spazio per ricavare preziosi garage sotterranei. Così, invece di spendere ogni anno la metà di quel che costa tutto il Senato, ricaveremmo qualche miliardo. 

Non dimentichiamo che la regina Elena durante la Prima guerra mondiale trasformò il palazzo in ospedale per i soldati feriti. Oggi a essere ferita dallo sfarzo della Casta è tutta l’Italia.
Mauro Suttora

Wednesday, January 28, 2015

Cognato di Fini vende casa Monaco

TULLIANI CHIEDE UN MILIONE E MEZZO DI EURO PER L'APPARTAMENTO DI MONTECARLO CHE HA DISTRUTTO LA CARRIERA DI GIANFRANCO FINI

Montecarlo (Monaco), gennaio
Chi si rivede. Giancarlo Tulliani, il cognato di Gianfranco Fini, sta cercando di vendere la famosa casa di Montecarlo. Sì, proprio quella che contribuì a distruggere la carriera politica dell’ex presidente della Camera. L’appartamento di boulevard Princesse Charlotte è sul mercato al prezzo di un milione e 590mila euro. Un bell’aumento, rispetto ai 300mila euro incassati da An (Alleanza nazionale) nel 2008, quando la comprò una misteriosa società dell’isola di St. Lucia (Caraibi).

Tutto era iniziato quando la ricca contessa Anna Maria Colleoni lasciò l’appartamento di 70 metri quadri in eredità al partito per cui simpatizzava. Allora Fini era segretario di An, e il patrimonio immobiliare dell’ex-Msi era notevole. Poiché a Montecarlo non c’era necessità di aprire una sezione del partito, sembrava plausibile «realizzare» il lascito, vendendolo.

Peccato che dietro la società caraibica Printemps e al suo titolare James Walfenzao si celasse Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna di Fini e madre delle sue due figlie. Nell’estate 2010 scoppiò lo scandalo. Fini aveva rotto con Silvio Berlusconi di cui era il delfino, e i giornali berlusconiani lo attaccarono rivelando che nella casa di Montecarlo regalata al partito faceva la bella vita suo cognato.

Fini è rimasto presidente della Camera fino al 2013, fondò il partito Futuro e libertà, sembrava destinato a grandi cose. Pare che a sinistra gli avessero promesso perfino la presidente del Consiglio in cambio della rottura con Berlusconi. Insomma, una specie di Angelino Alfano ante litteram.

Ma le immagini del cognato che scorrazzava con la Ferrari nel principato di Monaco lo indebolirono. Nonostante i cinquanta parlamentari usciti dal Pdl (Popolo delle libertà), il partito di Fini, alleato di Mario Monti, alle politiche del 2013 prese soltanto lo 0,4 per cento. Lo stesso Fini non è stato eletto, dopo trent’anni da deputato. Insomma, un disastro. Fine della  sua carriera politica.

Dolce vita sulla costa con la sosia di Belen

Ora che si sono calmate le acque, a cercare di «realizzare» riecco il cognato. Il quale, peraltro, non ha mai abbandonato la dolce vita di Montecarlo, anche se per quattro anni si è nascosto ai flash dei paparazzi. La scorsa estate l’ha passata in compagnia della bellissima Federica Papadia, sosia di Belen, una macchinista della metropolitana di Roma assurta a una certa notorietà per avere tentato la carriera politica prima con Pier Ferdinando Casini e poi con Alfio Marchini, candidato sindaco di Roma.

Entrano ed escono da hotel di lusso come il Fairmont e il Metropole, sulla piazza del Casinò, con posti in prima fila alla gara di Formula Uno: «Sono reduce da un fantastico week end nel Principato più chic del mondo», scriveva entusiasta la Papadia sul suo blog, «con l’occasione del Grand Prix di Monaco ho potuto osservare da vicino il lusso, il jet set e l’atmosfera da vip». Al suo fianco, Tulliani.

Il quale ora ha affidato la vendita della casa, rimasta vuota in questi anni, all’agenzia immobiliare Mirage. Sul sito internet si possono ammirare gli interni, ed è pubblicata anche la piantina. Telefoniamo, ci dicono che l’appartamento è stato appena venduto. In realtà, sussurrano nell’ambiente degli agenti immobiliari, Tulliani non vuole acquirenti né dall’Italia, né dalla Svizzera italiana: troppo clamore. Spera in russi o arabi, ma dopo qualche mese di tentativi infruttuosi ha dovuto abbassare la quotazione dai due milioni iniziali a 1,6 milioni. «A 1,4 la vende», dicono.

Intanto, a Roma il 29 gennaio ci sarà l’udienza della causa civile intentata contro Fini da Francesco Storace e da un avvocato ed esponente del suo partito (La Destra), Marco Di Andrea. Motivo del contendere: la «svendita» della casa a 300mila euro, rispetto al reale valore di mercato.

Ma in politica le cose si muovono in fretta. Pare che dopo il recente riavvicinamento con Fini, a Storace questa causa civile non stia più tanto a cuore. Anche perché quella penale è già finita nel nulla: nessun reato.
Mauro Suttora

Wednesday, January 21, 2015

Dati falsi sui dipendenti pubblici


LA TRUFFA DEL PARAGONE CON LA GRAN BRETAGNA

di Mauro Suttora

Oggi, 14 gennaio 2015

Perfino contarli è difficile. Quanti sono i dipendenti pubblici in Italia? E, soprattutto: sono troppi, pochi, giusti? Circolano dati fantasiosi, secondo cui noi ne avremmo «soltanto» 3,2 milioni, contro per esempio i 5,2 milioni della Gran Bretagna, Paese che ha più o meno lo stesso nostro numero di abitanti.

Peccato che il paragone sia campato in aria, per due motivi: i britannici sono un milione in meno, e i nostri un milione in più. Nel Nord Europa, infatti, il part-time è molto più diffuso che in Italia. E le stesse statistiche ufficiali di Londra avvertono che i loro lavoratori pubblici si riducono a 4,2 milioni in «full-time equivalent», cioè dividendo il totale delle ore lavorate per 36 (l’orario settimanale a tempo pieno). È evidente, infatti, che due dipendenti a 18 ore settimanali equivalgono a uno a tempo pieno.

Ma c’è un’altra grande disomogeneità fra i due dati. Nel Regno Unito sono giustamente considerate «pubbliche» intere categorie che noi invece, chissà perché, definiamo «private». Gli autisti dei bus, per esempio. Dipendono da società formalmente autonome (Transport for London, Atm a Milano, la romana Atac), ma sono lavoratori pubblici, poiché i deficit delle loro società sono colmati dalle tasse. E così postini, ferrovieri, spazzini, lavoratori dell’Anas e delle municipalizzate.

Perfino i 13 mila dipendenti Rai sono pubblici. Però, chissà perché, le nostre statistiche non li definiscono tali. In realtà, calcolando tutti questi lavoratori di aziende che dipendono finanziariamente da Stato ed enti locali, i dipendenti pubblici italiani salgono oltre i quattro milioni. Come in Gran Bretagna.

Wednesday, January 14, 2015

I traghetti sono sicuri?

DOPO LA TRAGEDIA DEL PATRASSO-ANCONA, ECCO I SEGRETI DELLA SICUREZZA

di Mauro Suttora

Oggi, 7 gennaio 2015

La prossima volta potremo prendere un traghetto o una nave da crociera tranquilli, o rischiamo di svegliarci alle quattro del mattino con la cabina invasa dal fumo e il pavimento arroventato da un incendio?

Gli scenari da incubo vissuti dai 450 passeggeri della Norman Atlantic, la nave Grecia-Ancona bruciata il 28 dicembre, ci insegnano molte cose. Le scialuppe di salvataggio, innanzitutto. «I passeggeri sono abituati a guardarle annoiate sui ponti, e magari a maledirle perché ostruiscono la vista», ci dice Paolo De Luca, comandante Tirrenia in pensione. «A volte i loro argani sembrano bloccati dall’ultima mano di pittura data per rinfrescare la nave, e le catene e gru che servono per calarle in mare paiono troppo grosse per funzionare».

Invece, è dalle quattro maxiscialuppe della Norman Atlantic che sarebbe dovuta arrivare la salvezza per tutti, anche per gli undici passeggeri morti e la dozzina di dispersi. Ciascuna ha una capacità di 150 persone, 600 in totale, quindi più che sufficienti per trasportare sia i passeggeri, sia i 44 membri dell’equipaggio. 

Cos’è andato storto? Quasi tutto. Le istruzioni per le procedure d’emergenza sono state trasmesse dagli altoparlanti del traghetto alla partenza, in italiano, greco e inglese. «Ma, come sempre, nessuno le avrà ascoltate», dice de Luca. Si spiegava quali sono i punti di raccolta dei passeggeri, verso quali ponti dirigersi, dove prendere i giubbotti di salvataggio: «Quelli sono stati distribuiti bene, quasi tutti li indossavano».

All’inizio il comandante sperava di domare l’incendio, e quindi di evitare l’evacuazione. Quando però la situazione è apparsa irrecuperabile, due scialuppe su quattro erano inservibili: si trovavano sul lato colpito dall’incendio, si alzavano fiamme sulla fiancata, tutto era oscurato dal fumo, e il mare in forte tempesta aveva inclinato la nave. 

«Avevamo paura che affondasse», raccontano i passeggeri. Delle due calate in acqua, una è stata riempita con appena 60 passeggeri e cinque marinai. Che avrebbero dovuto essere solo tre: di qui l’accusa di non avere rispettato la regola sacra del mare sulla precedenza ai passeggeri.

«Ma quando si parla di equipaggio, nelle navi moderne, chiariamo che la maggioranza assoluta non è composta da marinai», precisa il comandante De Luca. «Ormai, soprattutto nelle crociere, il personale preponderante è quello per i servizi, dalle cucine ai bar, dalle pulizie all’intrattenimento. Certo, anche loro vengono addestrati per le emergenze. Ma non è gente specializzata, come i naviganti di lungo corso che imbarcavamo una volta sui nostri traghetti. Soprattutto napoletani, con grande esperienza. Gente che magari aveva doppiato Capo Horn sui mercantili, e che poi aveva ripiegato sul Mediterraneo per stare vicino a casa».

Ora invece abbiamo immigrati poco pagati, che parlano male sia l’italiano sia l’inglese, e che nel pericolo vanno nel panico: pensano soprattutto a salvare la propria pelle. Un altro episodio spiacevole del disastro Norman Atlantic, silenziato per non scivolare nel razzismo, è stato quello dei passeggeri uomini che non hanno dato la precedenza a donne e bambini nell’imbarco sugli elicotteri: si trattava di iracheni e afghani, poco adusi alla cavalleria verso il genere femminile.
     
In ogni caso, poche ore dopo l’incendio circa 170 passeggeri erano riusciti a lasciare la nave sulle scialuppe. Ma il tragico è che proprio alcuni che avevano telefonato a casa col cellulare da una scialuppa ora risultano dispersi. In particolare il camionista italiano Carmine Balzano. La loro imbarcazione si è capovolta nel mare in tempesta? L’enorme guscio vuoto di una di esse è stato trovato su una spiaggia albanese.

L’aspetto più inquietante del disastro è che la Norman Atlantic era un traghetto modernissimo. Varato dai cantieri di Rovigo appena cinque anni fa, quindi si presume dotato delle più avanzate attrezzature antincendio: materiali ignifughi, portelloni tagliafuoco, sprinkler (le reti di tubi con docce che spruzzano acqua al minimo segnale di fumo e fuoco in ogni garage). L’ispezione di un ente di controllo greco un mese fa aveva registrato deficienze, ma non così gravi da bloccare la navigazione: soltanto un invito a sistemarle per l’Anek Lines, la società che gestiva il traghetto.

E qui entriamo in un altro aspetto sorprendente della vicenda: abbiamo scoperto che la nave, nella sua breve vita dal 2010 a oggi, era già passata di mano più volte, affittata ogni anno dall’armatore italiano a una diversa società di navigazione, e su rotte diverse: prima la Genova-Termini Imerese (Messina) fino alla chiusura della fabbrica Fiat siciliana, poi i collegamenti per la Sardegna, infine quelli Italia-Grecia.

Questi vorticosi passaggi di gestione possono aver influito sulla sicurezza? «Assolutamente no», risponde il comandante De Luca, «perché anche nei trasporti marittimi, come in quelli aerei, ha preso piede l’utilizzo del leasing, che offre maggiore flessibilità. Le compagnie trovano conveniente non caricarsi di oneri fissi acquistando navi e aerei che costano molto, e preferiscono affittarli. Ma i controlli restano uguali e rigorosi per tutti».

Certo, se poi la società impone alla nave carichi eccessivi anche in condizioni di mare difficile, come adombrato dal comandante del traghetto Patrasso-Ancona Argilio Giacomazzi, non c’è controllo che tenga. I clandestini a bordo non si sa se siano stati imbarcati di nascosto, oppure con la complicità di membi dell’equipaggio o di singoli camionisti. Ma non sappiamo ancora se l’incendio è nato nel garage, dove pare si nascondessero, o nella sala macchine: corto circuito, materiali pericolosi, stufette accese avventatamente per riscaldarsi nelle cabine dei camion? L’inchiesta sarà lunga.
Mauro Suttora

Wednesday, January 07, 2015

L'incubo del traghetto Grecia-Ancona


FUOCO, FUMO, MARE FORZA OTTO, SOCCORSI IMPOSSIBILI. POI IL BUIO, FREDDO, PAURA. INFINE LA SALVEZZA

Oggi, 29 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Alla faccia della cavalleria. «Quando gli elicotteri dei soccorsi sono arrivati, i passeggeri si sono fatti prendere dal panico», racconta Christos Perlis, 32 anni, camionista greco che era sul traghetto Norman Atlantic. «Tutti si pestavano per salire. Io e un altro abbiamo cercato di imporre un po’ d’ordine. Prima i bambini, poi le donne, poi gli uomini. Ma alcuni uomini hanno cominciato a colpirci, volevano entrare per primi. Non hanno dato la precedenza, niente».

L’incubo è durato ben 37 ore. Soltanto 170, sui quasi 500 fra passeggeri ed equipaggio, sono stati salvati il primo giorno. L’incendio è divampato in piena notte, alle 4 e mezzo. Tutti dormivano in cabina. Molti si sono accorti del pericolo soltanto per il fumo che entrava sotto le porte. Ma il mare in tempesta ha impedito alle navi in soccorso di avvicinarsi. E gli elicotteri non riuscivano ad atterrare sul ponte per il fumo e il rollio. Così gli unici a riuscire a scappare sono stati quelli imbarcati nelle scialuppe.

Un giorno e una notte ad aspettare e sperare

Poi è calata la notte. Ed è lì che per molti dei 300 ancora imbarcati è iniziato il vero inferno: freddo, fumo, onde da far venire il vomito, spruzzi. E tanta paura.
«Io e mio marito siamo stati più di quattro ore in acqua. Ho tentato di salvarlo ma non ci sono riuscita, lui mi diceva “moriamo, stiamo morendo”», racconta Teodora Doulis, 56 anni, greca, moglie di Georghios, 67, una delle otto vittime (bilancio purtroppo provvisorio). I due si erano gettati in mare per raggiungere la scialuppa. Il marito potrebbe essere deceduto per ipotermia.

«L’ho visto morire. Eravamo sullo scivolo della nave, lui davanti, io dietro. È rimasto impigliato a un telo di plastica e io non riuscivo a scendere. Ci davano fretta e ci dicevano di scendere, ed eravamo bagnati perché raggiunti dai getti d’acqua utilizzati per spegnere le fiamme. Alla fine siamo scesi in acqua, tenuti a galla dai salvagenti. C’era una nave, ma troppo lontana per soccorrerci. Siamo rimasti così più di quattro ore, nuotavo, per fortuna non avevo gli stivali. A mio marito usciva sangue dal naso, forse perché aveva battuto la testa sulla nave».

«A un certo punto», continua disperata la donna, «è arrivato un soccorritore che ha tentato di tagliare il telo in plastica in cui era rimasto intrappolato mio marito. Ma quando al secondo tentativo c’è riuscito, lui è morto tra le sue braccia. Ho visto anche un’altra persona morta, il cadavere era accanto a mio marito, aveva addosso una ciambella di salvataggio ma si vedeva che era privo di vita».

L’incendio è partito da uno dei cento camion nel garage, e si è propagato alle 150 auto. Soltanto una quarantina di passeggeri erano italiani. Duecento i greci. Tutti gli altri, di ogni nazionalità.
Il traghetto era nuovo. Varato a fine 2009 dai cantieri Visentini di Rovigo, apparteneva alla società Visemar, stesso gruppo. Ma in questi pochi anni ha cambiato vorticosamente mari, nomi e affittuari: prima la rotta Genova-Termini Imerese (Messina) finché qui c’era la fabbrica Fiat, poi Siremar, Grandi navi veloci e Moby per la Sardegna con il nome Scintu, infine i collegamenti con la Grecia con caronte e, attualmente, la compagnia greca Anek.

Il comandante italiano Argilio Giacomazzi, 62 anni, di La Spezia, è stato l’ultimo a lasciare la nave, prima che venisse trainata dai rimorchiatori nel porto di Brindisi. Almeno non c’è stato un altro caso Schettino.
Mauro Suttora

Presidenziabili 2014

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Chi sarà eletto presidente della Repubblica in febbraio, passati i 15 giorni previsti dalla Costituzione dopo le dimissioni quasi sicure di Giorgio Napolitano? ROMANO PRODI, 75 anni, dev’essere risarcito per i 101 traditori che gli votarono contro nel segreto dell’urna due anni fa. Però è un vecchio dc.

Se sarà donna, potrebbe essere EMMA BONINO, 66 anni. Apprezzatissima in Europa (fu commissaria Ue negli Anni 90, nominata da Berlusconi) e nel mondo (si batte contro la pena di morte e ha fatto nascere la Corte internazionale dell’Onu). È radicale, quindi né di destra né di sinistra. E papa Francesco ha fatto cadere il veto del Vaticano contro di lei.

Un altro bipartisan: WALTER VELTRONI, 59 anni. Il fondatore del Pd non è più parlamentare, è stato «rottamato» da Renzi. Ma tutti ne apprezzano il buon carattere, anche se lo scandalo sulla mafia a Roma lo ha danneggiato (Luca Odevaine, arrestato, era un collaboratore del Veltroni sindaco).
 
Fra le candidate donne sembra un po’ in ribasso Roberta Pinotti, ministro della Difesa. ANNA FINOCCHIARO, 59, senatrice Pd, resta invece a galla: affidabile, affascinante, posata, la ex magistrata siciliana ha un’unica macchia: quella foto all’Ikea in cui un agente della scorta la aiutava a trasportare pacchi.
  
È un personaggio mitico, inaffondabile. Direttore del quotidiano Il Tempo per 15 anni, GIANNI LETTA, 79, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti i governi Berlusconi. Zio di Enrico, il suo carattere felpato lo ha fatto apprezzare anche a sinistra. Se fosse eletto sarebbe il trionfo del «patto del Nazareno»: l’alleanza fra Renzi e Berlusconi nonostante i loro partiti siano uno al governo e l’altro all’opposizione. 
 
Sconosciuto al grande pubblico fino a due mesi fa, quando Renzi lo ha nominato ministro degli Esteri, il 60enne PAOLO GENTILONI andrebbe bene se il premier volesse un presidente che non gli faccia ombra. Passato dall’estrema sinistra (Manifesto) a quasi democristiano (Margherita), Gentiloni è amico degli Usa.
 
Fra i non politici di professione il più quotato sembra RENZO PIANO, 77. Il nostro architetto più famoso gode di fama mondiale e ha acquistato anche un po’ di esperienza istituzionale dopo la nomina a senatore a vita dell’agosto 2013. Un altro outsider di lusso è il senatore Nobel Carlo Rubbia, 80.

Usa: agenti contro neri

PERCHÈ LA POLIZIA DI NEW YORK CONTESTA IL SINDACO DE BLASIO?
Ai funerali degli agenti uccisi al culmine delle tensioni razziali, i colleghi hanno voltato le spalle al primo cittadino

Oggi, 31 dicembre 2014

di Mauro Suttora

È incredibile che 50 anni dopo il discorso «I have a dream» di Martin Luther King gli Stati Uniti siano ancora alle prese con violenze razziali. Che questo succeda proprio sotto la presidenza di Barack Obama, primo nero alla Casa Bianca. E che venga criticato il sindaco di New York Bill de Blasio, simbolo dell’integrazione: nipote di italiani sposato a una donna di colore.

Ai funerali di due poliziotti newyorkesi (uno di origine spagnola, l’altro cinese) uccisi da un giovane di colore, i loro colleghi hanno contestato il sindaco voltandogli la schiena mentre parlava. Lo accusano di parteggiare per i neri i quali, pur essendo soltanto il 6% degli statunitensi maschi, rappresentano il 40% dei due milioni di incarcerati. 

La polizia di New York è un feudo irlandese, come l’attuale assessore e il precedente. Ma la seconda nazionalità più rappresentata fra gli agenti è l’italiana. Il che non ha impedito la protesta contro De Blasio.

Gli agenti Usa hanno il grilletto facile contro i giovani neri? Sì. Ma bisogna considerare che questi ultimi commettono la metà degli omicidi negli Usa. Anche se il 93% delle loro vittime sono pure loro di colore. Non esiste, quindi, una guerra razziale bianchi/neri. 

I poliziotti americani sono più duri di quelli europei. Sparano appena qualcuno punta contro di loro un’arma. Il problema è nato perché in agosto hanno ucciso un 18enne afroamericano a Ferguson (Missouri), rapinatore ma disarmato, e non sono stati neppure processati: colpa dei giudici, semmai.

Tuesday, December 30, 2014

L'amante di Hollande su Rai1

Sorprese: l'amante del presidente francese recita in Il ritorno di Ulisse

HOLLANDE: IN TV LA SUA JULIE È ELENA DI TROIA

Vedremo la Gayet su Rai1 nell'ultima puntata. Intanto prosegue il duello con la sua ex Valérie

Oggi, 15 dicembre 2014

di Mauro Suttora

Volete vedere in tv l’amante del presidente francese François Hollande? Guardate la quarta e ultima puntata di Il ritorno di Ulisse, su Rai 1 domenica 21 dicembre. L’attrice Julie Gayet interpreta Elena di Troia, moglie di Menelao. Un ruolo secondario, ma stranamente passato sotto silenzio: è già apparsa nella seconda puntata, e non se n’è accorto nessuno.

Sono ancora insieme, lei è spesso all’Eliseo

La fantasiosa fiction italofrancese sul re di Itaca ha poco a che fare con la storia raccontata nell’Odissea: qui Menelao, diventato nemico di Ulisse, lo affronta nel duello finale, nonostante entrambi abbiano combattuto assieme dieci anni contro i troiani per recuperare Elena rapita da Paride.

Alessio Boni interpreta Ulisse, ma né lui né Caterina Murino (che fa sua moglie Penelope) incrociarono la Gayet sul set in Portogallo durante le riprese nella primavera 2012. Allora Julie non aveva ancora iniziato la relazione clandestina con Hollande: era solo una delle tante attrici francesi ingaggiate dalla coproduzione.

La storia Gayet-Hollande è venuta alla luce nel gennaio 2014 con la pubblicazione di foto del presidente che andava in scooter a passare la notte a casa di lei. Subito c’è stata la rottura di Hollande con la sua convivente all’Eliseo, Valérie Trierweiler, la quale si è vendicata pubblicando un libro velenoso contro di lui (nostra storia di copertina la settimana scorsa).

Sembrava che dalla vita del presidente fosse uscita anche la Gayet, invece tre settimane fa ecco un altro colpo di scena con foto rubate: i due mangiano tranquilli in un giardino dell’Eliseo. E pare che Julie dorma spesso con lui nel palazzo presidenziale.
Mauro Suttora



Wednesday, December 17, 2014

Salvini non sfonda al Sud


Il guru del meridione risponde a Salvini

«La Lega Nord cerca voti sotto Roma? È come se il Ku Klux Klan volesse vincere fra i neri». Pino Aprile spiega perché il piano nordista non va. E sulla Germania dice...

di Mauro Suttora

Oggi, 19 dicembre 2014

Ogni anno, ormai, arriva un nuovo libro di Pino Aprile, già vicedirettore di Oggi e direttore di Gente : Terroni 'ndernescional . Dopo il grande successo di Terroni (2010, edizioni Piemme) il profeta del Meridione aveva proseguito con Giù al Sud, Mai più terroni e Il sud puzza. Totale: una mezza milionata di copie vendute.

Perché «'ndernescional», ora?
«Perché ho scoperto che lo stesso triste destino riservato al nostro Sud con l'unità d'Italia è stato riservato anche all'ex Germania Est con l'unità tedesca di 25 anni fa. Invece del riscatto economico magnificato dalla propaganda, i tedeschi dell'Est ora stanno, nella media, peggio di prima».

Pure lei contro Angela Merkel?
«La Germania e il Nord Europa riserveranno a noi Paesi europei del Mediterraneo lo stesso trattamento».

Attento Aprile, anche la Lega Nord ora è antieuropeista.
«Matteo Salvini non ha inventato nulla. Il piano della Lega, non più Nord perché vorrebbe sfondare anche al Sud, era chiaro già un quarto di secolo fa, con il regionalismo del professor Gianfranco Miglio».

E perché allora non funzionò?
«Perché la nascita di Forza Italia nel 1994 impedì il progetto di due partiti secessionisti, la Lega al Nord e un partito al Sud appoggiato dalla mafia».

Invece oggi?
«La speranza di Salvini è vana: la Lega non può raccattare molti voti al Sud. Sarebbe come se il Ku Klux Klan pretendesse di rappresentare i neri d'America».

Quindi, cosa succederà?
«Dobbiamo difendere il Mediterraneo, uno dei luoghi più comodi per la nostra specie, dalle mire del Nord Europa».
Mauro Suttora

Wednesday, December 10, 2014

Vergogne di stampa

Segreti dell'informazione: in un libro 200 anni di rapporti con i politici

CHE SVIOLINATE A TUTTI I POTENTI!
Foscolo e gli austriaci. Longanesi che schiaffeggia Toscanini. Montanelli sull'attenti dal duce. Comunisti nelle riviste fasciste. E anche oggi, troppe riverenze

di Mauro Suttora

Oggi, 3 dicembre 2014

Marzo 1815. Napoleone scappa dall’isola d’Elba e punta su Parigi. Titoli di prima pagina sul giornale Moniteur: «Il mostro è fuggito dall’esilio» (9 marzo); «Il tiranno è a Lione (13 marzo); «L’usurpatore è a 60 ore di marcia dalla capitale» (18 marzo); «Bonaparte avanza a tappe forzate» (19 marzo); «Napoleone arriverà domani» (20 marzo); «L’Imperatore è a Fontainebleau» (21 marzo); «Sua maestà l’Imperatore è arrivato alle Tuileries. Niente può superare la gioia universale» (22 marzo).
E niente può superare la vergogna di certi giornali che voltano gabbana e si offrono al potente di turno. Pier Luigi Vercesi li castiga nel libro Ne ammazza più la penna (Sellerio), tracciando una storia dei giornalisti che hanno fatto la storia d’Italia negli ultimi due secoli.

Con qualche sorpresa: per esempio Ugo Foscolo che, spinto dal bisogno, aveva accettato l’offerta di dirigere un giornale filoaustriaco. Fortunatamente il conte Federico Confalonieri lo dissuase. Oppure Leo Longanesi, brillante giornalista ma anche fascista al punto di schiaffeggiare Arturo Toscanini perché non eseguì Giovinezza, inno del regime.

Quanto al principe dei giornalisti italiani, Indro Montanelli, pure lui con qualche peccatuccio di gioventù. Per esempio, quando si mise sull’attenti davanti al Duce a palazzo Venezia con i colleghi di un nuovo giornale. Per non parlare dei tanti comunisti (Alicata, Pintor, Guttuso, Trombadori) che scrissero sul giornale razzista Primato.  

E oggi, Vercesi?
«Il rapporto tra giornalismo e potere è cambiato. Le direzioni dei giornali non sono più un trampolino per la politica.  Berlusconi, Renzi e Grillo arrivano direttamente al pubblico più sprovveduto con tv e Rete. Ma Grillo è già in declino». 

Sicuro?
«Mi ricorda il senatore McCarthy nell’America degli Anni 50, quello della caccia alle streghe. Aveva trovato il modo di “manipolare” l’informazione, ma non durò. I giornalisti lo seppellirono».
Meglio i giornali di tv e Rete?
«Se si pensa di essere informati perché si seguono i social network si commette una terribile ingenuità. La Rete, da apparente luogo democratico per eccellenza, si sta trasformando in uno  strumento pubblicitario e di marketing, anche politico, che, attraverso la semplificazione e gli slogan, può anche far credere che gli asini volano. Così l’Italia rischia di trasformarsi in un immenso bar sport. Con conseguenze che non sappiamo. Ma che possiamo immaginare».
Mauro Suttora


Una notte con una coguara

IL FENOMENO DELLE MILF ("MOTHER I'D LIKE TO FUCK") SI ALLARGA ANCHE IN ITALIA

di Mauro Suttora

Oggi, 3 dicembre 2014

Le due cougar ballano al Gattopardo di Milano, chiesa sconsacrata in zona Sempione. Sono le undici di un sabato sera di novembre. Quarantenni, si muovono con grazia felpata in mezzo alla pista, circondate da una folla prevalente di trentenni.

Non è difficile stabilire il contatto con tre occhiate. Mi avvicino sorridendo: «Posso offrirvi qualcosa?» 
«Grazie volentieri, abbiamo proprio sete».
 
Più cordiali di così. Fendiamo la folla, andiamo al banco, ordiniamo. I convenevoli. Una ha lunghi capelli corvini lisci, giacchetta nera, jeans attillati. L’altra, bionda, è come lei impiegata in un ente pubblico.

Venite spesso? 
«È la terza volta quest’anno, bella musica anche revival, vogliamo divertirci».
 
Cosa sottintende quel “divertirci” lo sanno tutti, ma nessuno lo dice. Torniamo in pista, mi svelo come giornalista. Claudia la mora è divertita e gentile, accetta di raccontare.

«Guarda, i locali sono pieni di donne quarantenni e anche cinquantenni. Soprattutto aperitivi, ma le happy hour si prolungano fino alle dieci, e poi oltre quando si aprono le danze. In tutti i sensi. Per flirtare abbiamo una scelta infinita. E non ci sono più barriere d’età. L’altro giorno mio figlio, secondo anno d’università, mi ha riferito una frase di un suo compagno: “Figa tua madre”. Finita lì, ovviamente, perché le milf, le madri da portare a letto, esistono solo nelle fantasie dei ragazzotti. O in quelle di qualche tardona svitata. Però è vero che a livello di abbordaggio i ventenni sono sempre più attratti dalle quarantenni, perfino da quelle vicine ai 50».

E poi? 
«E poi niente, nel senso che chi ha voglia di divertirsi si diverte». Dove? «Qualche bacetto può scappare anche qui, dietro a una colonna. Oppure in auto. Ma quasi sempre ci si soddisfa parlando. Adoriamo essere corteggiate. Sono rare le mie amiche che si spingono oltre».

Sposate? 
«No, quasi tutte separate o in via di. Ma non hanno voglia di cose serie, pesanti. Sai qual è il vero problema?»

Che s’innamorano i ragazzi.
«Esatto. Questi ti chiedono la mail, il telefono, ti invitano fuori, si fanno dei castelli in aria. Incredibile. E tu hai voglia a dirgli “Potrei essere tua madre”. Il più simpatico mi ha risposto: “Appunto, eccitante”».

E noi uomini over 40 e 50, tutti ammosciati? 
«Ma no, ci siete, ci siete. Fastidiosissimi [ride]… Nel senso che dite di essere divorziati, e invece poi si scopre che avete tanto di famiglia. Non che sia un problema: per quelle che vogliono solo distrarsi, anzi, meglio così. Però pesantiiii… Non solo l’alito, è che quando cominciate a parlare dite cose noiose. Prevedibili. Sembrate gli acchiappatori di una volta. La fantasia ce l’hanno solo i giovani. La leggerezza».

Per esempio? 
«Una mia amica ha ballato con un ragazzo fino alle quattro del mattino, poi questo l’ha portata a Malpensa e davanti a tabelloni delle partenze le ha detto: “Scegli tu”. Le ha comprato il biglietto e sono partiti per un weekend al mare. Così, senza un ricambio di vestiti. Neanche lo spazzolino».
 
Come nei film. 
«Beh, il furbacchione l’ha portata al terminal due, quello dei voli low-cost. Però poi a Ibiza le ha comprato tutto il guardaroba».
Mauro Suttora

11 portaborse per un grillino

OGNI EURODEPUTATO PUO' SPENDERE FINO A 21 MILA EURO MENSILI PER I PORTABORSE. COSI' IL 5 STELLE IGNAZIO CORRAO LI DA' AGLI ATTIVISTI SICILIANI. MA ANCHE SALVINI, CESA E LA MUSSOLINI...

di Mauro Suttora

Oggi, 3 dicembre 2014 

Undici portaborse. Tanti ne ha assunti, da solo, l’eurodeputato 5 stelle Ignazio Corrao. Li paga in tutto 21 mila euro al mese, cifra massima consentita dall’Europarlamento. Tre a Bruxelles e otto nella sua Sicilia. Ma il movimento di Beppe Grillo non prometteva di ridurre gli sprechi della politica?

I 16 colleghi grillini di Corrao rimangono nella media, tre-quattro collaboratori a testa. E quello del generoso Ignazio non è il record dell’affollamento: il suo corregionale berlusconiano Salvatore Cicu ha imbarcato ben tredici portaborse. Il piddino casertano Nicola Caputo, dieci. Ma della differenza con Pd e Pdl il Movimento 5 stelle aveva fatto una bandiera. Che ora non sventola più orgogliosa come prima.

L’assunzione dei portaborse, infatti, ha scatenato una bufera. Che rispetto al terremoto degli espulsi in Italia è minima, ma spiega la disaffezione di attivisti e votanti per Grillo: mezzo milione di voti persi su 650mila in Emilia al voto regionale del 23 novembre.

Agli eurodeputati 5 stelle la società Casaleggio & Associati aveva imposto 24 sconosciuti: più per controllarli che per assisterli, sembrava. Fra questi, vari riciclati: Cecilia Arvedi, ex assistente dell’Udc calabrese Gino Trematerra, Monia Benini, già segretaria provinciale dei Comunisti italiani a Ferrara, il portaborse di un’ex eurodeputata forzista e quello dell’ex europarlamentare dipietrista Pino Arlacchi.

Gli eurodeputati grillini si sono ribellati e in ottobre li hanno licenziati tutti, compreso il potente capo della comunicazione Claudio Messora. Ora però hanno dovuto riassumerne 17, accollandoseli singolarmente. Messora, per esempio, risulta a carico dell’eurodeputato bergamasco Marco Zanni.

Riciclati e fidanzate

La Arvedi è stata aiutata da Daniela Aiuto, abruzzese (è il caso di dirlo), la Benini è stata «salvata» dalla tarantina Rosa D’Amato.  Quanto all’eurodeputato veronese Marco Zullo, ha assunto autonomamente Alessandro Corazza, capogruppo Idv in regione Friuli fino al 2013. Anche la ex fidanzata di un pezzo grosso dei 5 stelle è stata recuperata.

Gli attivisti del movimento sono imbestialiti. Anche perché gli stipendi dei deputati (5.200 euro netti mensili) e assistenti a Bruxelles sono il doppio di quelli di Roma. In Italia gli eletti grillini, in Parlamento e nelle regioni, si autoriducono i compensi a 2.700-3.200 al mese (rimborsi esclusi). E i portaborse stanno sui 1.200.

Certo, nessuno dei collaboratori di Corrao è suo parente. L’eurodeputato Lorenzo Cesa (Udc) ha invece assunto la figlia del collega di partito Rocco Buttiglione. Alessandra Mussolini ha imbarcato il fidanzato 19enne della propria primogenita. 
Sulle orme del segretario leghista Matteo Salvini che dieci anni fa beneficiò il fratello di Umberto Bossi, mentre Francesco Speroni regalò uno stipendio al primogenito Riccardo (da non confondere con Renzo, il «trota»). 

Però i grillini promettevano di ripulire la politica. Invece si sono ridotti a distribuire «redditi di cittadinanza» a propri attivisti disoccupati. In fondo, fa parte del loro programma.
Mauro Suttora

Grillo ne espelle due e ne nomina 5

di Mauro Suttora

Oggi, 3 dicembre 2014

Con Beppe Grillo non ci si annoia mai. Una mattina si sveglia e decide che avere espulso un terzo dei suoi senatori in un anno e mezzo non gli basta. Decreta che altri due deputati non avrebbero rispettato le regole del suo movimento sui soldi da restituire, e ricomincia con le purghe. Quelli pubblicano su Facebook le ricevute dei versamenti di metà del loro stipendio. Niente da fare.

La sarda Paola Pinna ha osato donare qualche migliaio di euro alla Caritas di Olbia dopo l'alluvione di un anno fa, invece di buttare i soldi in un fantomatico conto ministeriale per le piccole e medie imprese che non ha ancora erogato un centesimo. «Conflitto di interessi, voto di scambio!», tuonano sui siti del Movimento 5 stelle (M5s) gli "influencer", fedelissimi della società Casaleggio & Associati incaricatidi spargere il verbo. Come se la Caritas fosse la mafia, che ricambierà il favore ricevuto dalla “furba” Pinna.

L'altro reprobo è Massimo Artini, un toscano che appena un mese fa ha mancato per soli dodici voti (44 a 32) l'elezione a nuovo capogruppo dei deputati 5 stelle. Un pezzo grosso, quindi, con un largo seguito. Proprio come Luis Orellana, il senatore che prima della cacciata a marzo era il candidato presidente del Senato del movimento, e poi aveva perso di un soffio con Nicola Morra la guida del gruppo. Insomma, appena rischia di emergere un non fedelissimo a Grillo e a Gianroberto Casaleggio, loro inventano qualche scusa per farlo fuori.

I processi sono una farsa. Anzi, non ci sono proprio. Tre millenni dopo Salomone, i grillini non hanno ancora imparato che prima di giudicare bisogna almeno sentire entrambe le campane. Il diritto alla difesa è sconosciuto in Grillolandia. L'ex comico rovescia sul malcapitato di turno una valanga di accuse, e subito dopo chiede agli iscritti di votare immediatamente sì o no all’epurazione sul sito privato della Casaleggio & Associati. Senza preavviso. 

Nessun controllo esterno sulla regolarità del voto. Nessuna distinzione individuale fra gli imputati, da condannare in blocco come infoibati legati fra loro col fil di ferro. Nessun verdetto dell'assemblea dei parlamentari, come richiesto dal regolamento. Si vota solo fino alle 19, e peggio per chi lavora o non sta sempre appiccicato al telefonino. Giustizia-lampo. Il modello è l'ordalia Gesù/Barabba. Ma loro lo chiamano «giudizio della Rete». Inappellabile.

Stessa commedia il giorno dopo. Grillo decide di nominarsi cinque vice. Viola lo statuto del movimento, scritto da lui nel 2009, che all'articolo 4 vieta i dirigenti di partito: «Nessun organismo intermedio fra votanti ed eletti». L'unico non campano è il romano Alessandro Di Battista, ex collaboratore della società Casaleggio. Tutti deputati, nessun senatore.

Quota rosa per Carla Ruocco, bella e borghesissima signora di Posillipo con erre moscia. Gradimento della sua pagina Facebook (termometro della simpatia online): 36mila «mi piace», contro i 185mila della popolana ma popolare Paola Taverna. Gli altri: Luigi Di Maio, Roberto Fico (presidente della commissione Vigilanza di quella Rai che il programma 5 stelle voleva invece privatizzare) e Carlo Sibilia, avellinese complottista convinto che il club Bilderberg governi segretamente il mondo, ma dubbioso riguardo allo sbarco sulla Luna.

Commenta la senatrice marchigiana Serenella Fucksia, soprannominata «Sharon Stone a 5 stelle»: «Il direttorio fantasma diventa ufficiale, da movimento a partito. Passiamo dai successi alla ridicolata degli scontrini, alle espulsioni assurde, ai cambiamenti continui di verso. Le regole? Un po' cambiate, un po' ignorate. Dopo il risultato deludente alle europee e alle regionali il metodo appare fragile, lontano dalla democrazia diretta e di certo non modello esemplare di vera democrazia».

In rete questa volta gli attivisti si scatenano contro i dirigenti nominati dall'alto, non votati, da ratificare in blocco. I server privati della Casaleggio annunciano un sospetto 90% di sì. Ma davanti alla villa di Grillo a Marina di Bibbona (Livorno) i militanti protestano. Fra loro, perfino la compagna del neosindaco 5 stelle di Livorno. Con Grillo non ci si annoia mai. Però i suoi adepti non si divertono più.
Mauro Suttora