Monday, November 10, 2003

Difesa europea

IL FANTASMA DELLA DIFESA EUROPEA

di Mauro Suttora

Diritto e Libertà

10 novembre 2003

Sarà una donna a partorire l'esercito europeo? Michèle Alliot-Marie, ministro della Difesa francese, si ostina ad assicurare che l'embrione di forza armata continentale concepito nell'aprile 2003 da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo non sarà concorrenziale con gli Stati Uniti, ma in integrazione. Intanto però la sede del suo comando è già stata scelta: si installerà a Tervuren, nella periferia di Bruxelles, ben separata da quella della Nato. Quindi non si tratterà certamente di quel «pilastro europeo della Nato» che gli statunitensi auspicano da anni, sollecitando insistentemente gli alleati a metter mano al portafogli. Anche perchè la data dell'annuncio del concepimento è sospetta: proprio all'apice della polemica franco-belga-tedesca contro l'attacco americano a Saddam Hussein.

La compagine dei promotori coincide poi con l'«Axis of weasels» (Asse delle puzzole), insulto che i media statunitensi più patriottici (New York Post e Fox tv di di Rupert Murdoch) hanno scagliato contro gli oppositori della guerra contro l'Iraq, riecheggiando l'«Axis of evil» (Asse del male) di bushiana invettiva. Un'altra invettiva, d'altronde, si è già guadagnato il Comando militare Ue autonomo di Tervuren: un furibondo portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Richard Boucher, lo ha definito «riunione di produttori di cioccolata», riferendosi alla prestigiosa tradizione gastronomica belga che si situa agli antipodi di ogni valore marziale.

Il 2003 è anche il decimo anniversario della nascita di Eurocorps, la brigata franco-tedesca che il 14 luglio di quest'anno ha addirittura aperto la parata della Festa nazionale francese sugli Champs-Elysées. Ma tutte queste sono iniziative estemporanee di Francia e Germania, spesso utilizzate dal «nocciolo renano» dell'Unione Europea in funzione polemica contro i Paesi filo-Usa (la Gran Bretagna sotto qualsiasi premier, la Spagna di Aznar e l'Italia di Berlusconi, con gli imminenti rinforzi dei nuovi membri dell'Est).

La verità tuttavia è che gli unici due stati europei che possono contare su Forze armate di una qualche efficienza, supportate da un'industria bellica di peso, sono Francia e Gran Bretagna. Sono anche le uniche due potenze atomiche, e gli unici due Paesi europei con seggio permanente e diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Finchè Parigi e Londra staranno su sponde opposte nei rapporti con Washington, quindi, l'Europa rimarrà «un gigante economico, un nano politico e un verme militare». E gli Stati Uniti saranno ben felici di questo «divide ed impera» che neutralizza ogni velleità da parte di alleati sempre più riottosi.

E' da undici anni che l'Unione Europea si gingilla con l'idea di una "Forza di reazione rapida" di 60mila uomini, pronti a partire per qualunque posto al mondo nel giro di 60 giorni e a restarci fino a un anno. Le missioni (perlopiù umanitarie) di questa forza vennero definite in un albergo tedesco nel '92. Di qui il nome: accordi di Petersberg. Poi nel '99 è arrivata la sanzione ufficiale, con la nascita della Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) e la nomina di Mister Pesc nella persona dello spagnolo Javier Solana. Ma finora di concreto è stato fatto quasi nulla.

L'unica missione tangibile europea è quella dispiegata in Macedonia dal primo aprile del 2003, e mai pesce d'aprile fu più evidente. Il contingente europeo, infatti, è semplicemente la continuazione di una ex missione Nato, e sta in piedi solo grazie ai mezzi e alle capacità dell'Alleanza atlantica.

Nell'operazione sono impegnati 350 militari, ma la maggioranza dei loro stati di provenienza è tuttora extra Ue: si tratta dei 14 Paesi Nato non Ue (tutti tranne gli Usa), ai quali si aggiungono 13 Paesi Ue (tutti tranne Danimarca e Irlanda).

Stessa situazione per l'altra missione Ue in corso, quella ereditata il primo gennaio 2003 dall'Onu in Bosnia. Non si tratta di militari: 500 funzionari di polizia provenienti da 33 Paesi (anche qui perciò con quelli Ue in minoranza) che dovrebbero addestrare poliziotti locali per ripristinare la legalità nell'ex repubblica jugoslava dopo la strage dei settemila bosniaci a Srebrenica del luglio '95, l'attacco aereo Nato contro la Serbia e gli accordi di Dayton. Ma rappresentano solo un piccolo contorno di quello che è il contingente vero: 12mila soldati, di cui 1.700 statunitensi che Bush junior sarebbe lieto di ritirare.

Se i militari se ne andassero domani la Bosnia ripiomberebbe nel caos, perchè in otto anni nessun progresso politico è stato fatto e la Bosnia continua a essere una fantomatica unione di tre stati diversi (serbo, croato e bosniaco) con tre presidenti e tre apparati statali incollati artificialmente a spese della comunità internazionale (che scialacqua ogni anno 1.400 dollari per ogni bosniaco, 38 milioni di euro solo per i poliziotti). Il risultato è
desolante: «In Bosnia oggi non c'è stato di diritto», ha ammesso Paddy Ashdown, il capomissione britannico, «ogni fibra e cellula di questo Paese è infettata dalla criminalità, fino al midollo» (New York Times, 8 ottobre 2003).

La terza missione in teoria Ue è stata quella dell'estate 2003 in Congo, a Bunia, dove l'Onu è arrivata per l'ennesima volta a stragi fatte. La Francia ha mandato un migliaio di soldati, però ha voluto una copertura (anche finanziaria) europea che è stata simbolica ma importante. Per la prima volta, infatti, un contingente Ue di 1.500 militari è stato mandato fuori dall'Europa, senza che alla Nato venisse chiesto di farlo, dato il disinteresse Usa. L'operazione si è conclusa alla fine di agosto. Coordinatore Onu per la regione dei Grandi Laghi è una vecchia conoscenza radicale: Aldo Ajello, ex deputato della Rosa nel pugno dal '79 all'83.

Se questi sono i risultati a mezzo secolo esatto dal primo fallimento, quello della Ced (la Comunità Europea di Difesa abortita nel 1953), è meglio non illudersi che una Forza armata continentale, rapida o non rapida, possa nascere a breve termine. Anche perchè i militari per lavorare assieme devono contare su sistemi d'arma compatibili e parlare la stessa lingua. Ma nonostante decenni di apparente integrazione nella Nato, queste condizioni minime ed elementari non sono state mai raggiunte.

«Noi ci abbiamo messo 70 giorni per schierare 45mila soldati in Iraq, la Ue è ancora ben lontana dal suo obiettivo», ha sentenziato il ministro della Difesa britannico, Geoff Hoon. I francesi a loro volta disprezzano la missione inglese a Bassora: «Sono soltanto truppe di complemento degli Stati Uniti».

I polacchi in Iraq sono letteralmente pagati dagli Usa (una resurrezione moderna del mercenariato di stato?) Quanto ai tedeschi, per mancanza di mezzi di trasporto il trasferimento dei loro 1.500 soldati in Afghanistan è durato quasi due mesi. Eppure, tredici Paesi Ue sono oggi rappresentati nel contingente Nato di 5.500 uomini a Kabul, che comprende 33 nazioni. Mancano solo Portogallo e Austria. In Afghanistan oggi operano più truppe di terra europee che americane. In totale, i Paesi Ue hanno attualmente ben 50mila militari stanziati in Africa, nei Balcani, in Iraq e in Afghanistan come peace-keepers.

«E' probabile che l'Ue possa organizzare altre missioni militari in futuro», spiega Daniel Keohane, giovanissimo (27 anni) analista del Cer (Center for European Reform) di Londra, «perchè le priorità Usa sono Iraq, Iran e Corea del Nord, e Washington non vuole essere coinvolta in conflitti nella fascia d'instabilità che percorre i fianchi Est e Sud dell'Europa, e si allunga fino all'Africa subsahariana. L'Ue sta valutando, per esempio, se sostituire i peacekeepers russi nella regione Transnestria della Moldavia».

Pochi sanno che l'Unione europea ha in realtà più soldati degli Stati Uniti. I 15 Paesi della Ue possono contare su un milione e 600mila militari, gli Usa su un milione e 414mila (dati 2001). Con l'allargamento a 25 della Ue entreranno altri 310 mila soldati, metà dei quali polacchi (163 mila).

Naturalmente il fatto di avere quasi due milioni di uomini sotto le armi non significa nulla dal punto di vista dell'efficienza. Basti dire che l'Italia, con i suoi 217mila soldati, supera numericamente la Gran Bretagna (210mila).
Ma nessuno si sogna di paragonare le due forze armate, anche perchè gli inglesi sono tutti professionisti. Il record va alla Germania, 296mila militari, ma è soltanto una pesante eredità dell'unificazione. Segue la Francia con 260mila uomini. La Grecia ha lo stesso numero di soldati della Spagna, 178mila, ma solo perchè si sente in dovere di fronteggiare i ben 515mila militari turchi.

Insomma, i numeri ci sarebbero. Non è vero inoltre, come sostengono i commentatori di cose militari (quasi tutti ex ufficiali o consulenti di industrie belliche), che l'Europa spende così poco per le proprie Forze armate. Certo, spreca meno degli Stati Uniti: il due per cento del Pil, in media, contro il tre e mezzo degli Usa.

Data l'immensità dell'economia Usa, questo significa che in cifre assolute gli americani stanziano per la difesa più del doppio di tutti i 15 Paesi Ue. Ma d'altra parte sarebbe sciocco inseguire gli Stati Uniti nel riarmo voluto da Bush junior dopo l'11 settembre 2001: da 300 miliardi di dollari annui a quasi 500 nel giro di 24 mesi, un aumento di spese militari di oltre il 60 per cento, senza precedenti in tempo di pace.

I furbi europei sanno che fronteggiare i terroristi islamici con carri armati e sottomarini, come pretendono di fare gli americani, equivale a voler combattere le mosche con i bazooka. E utilizzare truppe scelte (e costosissime) per l'ordine pubblico, per di più con problemi insormontabili di lingua, come stanno facendo oggi gli Usa in Iraq, è sbagliato oltre che controproducente. Il peacekeeping (mantenimento della pace) è un mestiere diverso rispetto al combattimento, e il peace enforcing (imposizione della pace) è un'altra cosa ancora. Ognuno necessita di competenze e addestramenti specifici.

Certo è che gli europei spendono male. L'integrazione dei sistemi d'arma e l'eliminazione dei doppioni consentirebbe risparmi enormi. Spesso (è il caso dell'Italia) per ragioni elettorali i politici preferiscono un esercito clientelare, statico e sovrabbondante rispetto a reparti snelli di operatività immediata. Quanto alle gerarchie militari, sono ossessionate dalla voglia di «mostrare la bandiera», proponendosi per missioni dall'altra parte del pianeta senza alcun criterio di prossimità geografica. Così come australiani e neozelandesi non sono venuti in Kosovo, è stato completamente inutile per gli italiani spingersi agli antipodi, fino a Timor Est. Anche la gendarmeria internazionale dev'essere razionale ed efficiente, senza trucchi per battere cassa con la scusa dell'usura mezzi.

Nel febbraio 2003 Jacques Chirac e Tony Blair hanno deciso che la Ue dev'essere in grado di schierare forze di aria, mare e terra nel giro di 5-10 giorni. Si tratta di un traguardo assai ambizioso ripetto agli attuali piani per la «forza di reazione» Ue, che come abbiamo visto prevedono tempi di 60 giorni. Ma tutti questi sono tutto sommato problemi tecnici. La questione dell'integrazione militare europea, invece, è soprattutto politica.

Individuazione della minaccia, innanzitutto. Solo terroristi islamici, per esempio, o in prospettiva anche la Cina? Solo regimi aggressivi nemici (Corea del Nord, Iran, Siria) o tutte le dittature, anche amiche (Arabia Saudita, Pakistan)? Interventi preventivi, come vuole la nuova dottrina Bush dal settembre 2002, o a cose (danni, stragi) fatte?
Diritto d'intromissione umanitaria o non ingerenza negli affari interni degli stati? Rimanere in una Nato a inevitabile egemonia americana, o accelerare la costruzione di un polo autonomo? Fuori o dentro la Nato? Con il rischio di perdere per sempre la Gran Bretagna? Accettare un coordinamento Onu, o agire unilateralmente in base all'orgoglio nazionale (non è un problema solo americano, di galletti abbonda anche il nostro continente)? Esportare con scarsa saggezza sistemi d'arma nel Terzo mondo per recuperare le spese di ricerca e sviluppo della propria industria bellica, come fanno troppo spesso gli Usa, o spingere per trattati internazionali restrittivi?

Il documento preparato da Solana nel giugno 2003 sulla strategia di sicurezza europea comincia a rispondere ad alcune di queste domande, con l'indicazione delle nuove minacce: terrorismo, proliferazione delle armi di distruzione di massa, stati allo sbando. «E' un documento scritto con un linguaggio sorprendentemente duro», commenta Keohane, «ma la Ue non può affrontare questi nuovi compiti senza cominciare almeno migliorando la cooperazione fra i propri servizi segreti. I governi europei si sono divisi sull'Iraq anche perchè non disponevano delle stesse valutazioni di intelligence. Ora che l'Eu gestisce operazioni militari, deve mettere in comune i servizi di spionaggio, incrementando in quantità e qualità l'attività di Europol, la polizia europea».

A proposito di intelligence, è stata proprio una nave europea (spagnola) a compiere pochi mesi fa una delle operazioni più preziose per la prevenzione del terrorismo. Aveva bloccato nell'oceano Indiano una nave pirata che trasportava missili nordcoreani nello Yemen. Poi però gli americani hanno permesso che il carico arrivasse a destinazione, perchè formalmente non violava alcun trattato. Rispetto della legalità o masochismo? Libero commercio internazionale o protezione del (proprio) export bellico? Forse l'Europa, proprio perchè più venusiana e meno marziana (secondo la famosa definizione di Robert Kagan), e quindi meno condizionata degli Usa nei confronti del proprio complesso militare-industriale, saprebbe compiere scelte più lungimiranti.

Diamo quindi uno sguardo all'industria bellica europea. Che, nonostante le concentrazioni degli ultimi anni, conserva ancora una forte impronta nazionale ed è percorsa dalle medesime divisioni politiche: da una parte Francia e Germania, dall'altra Gran Bretagna e Italia. I gruppi francesi Aérospatiale e Matra, la tedesca Dasa (Daimler Messerschmitt) e la spagnola Casa hanno dato vita nel 2000 a Eads (European Aeronautic Defence and Space), il primo gruppo aereo-missilistico continentale (e secondo mondiale) che produce gli aerei civili Airbus, il militare Eurofighter e quello da trasporto A400M, gli elicotteri Eurocopter, i missili Meteor, i satelliti Galileo e i razzi Ariane. I padroni sono francesi e tedeschi, gli spagnoli hanno solo il cinque per cento delle azioni. Parigi e Monaco di Baviera passano la maggior parte del loro tempo a litigare fra loro, con due sedi, due presidenti e due amministratori delegati. Dei trenta miliardi di euro fatturati da questo gigante nel 2002, però, solo il venti per cento appartengono al mercato militare.

Nella classifica mondiale delle industrie belliche Eads è appena ottava, superata dai cinque colossi Usa foraggiati dal Pentagono (Lockheed, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon e General Dynamics), dalla britannica Bae Systems (erede di British Aerospace e Gec Marconi) e anche dalla francese Thales (ex Thompson). All'undicesimo posto c'e' la nostra Finmeccanica, con 2,7 miliardi di fatturato militare (un sesto rispetto agli oltre 15 miliardi di Bae Systems). Finmeccanica, attraverso la controllata Alenia, partecipa con il 19,5% al programma Eurofighter (l'aereo caccia europeo), in cui l'Eads franco-tedesco-spagnola ha il 43% e la britannica Bae il 37,5.

L'Alenia nel 2001 ha dato vita a una joint venture con la Bae: Ams (Alenia Marconi Systems), specializzata nell'elettronica e nel controllo del traffico aereo. Fattura 1,2 miliardi di euro annui, vende in cento Paesi ed è la terza produttrice mondiale di radar. E' fallita, invece, la joint venture fra Eads e Bae nel campo dei satelliti militari e civili: quest'anno la società Astrium è tornata sotto il controllo totale di Parigi e Berlino, dopo che Londra si era rifiutata di partecipare all'aumento di capitale e ha quindi ceduto la propria quota del 25%.

«Il mercato unico europeo della difesa è ancora una chimera», scrive Alfonso Desiderio su "Limes", «si è molto lontani da risultati apprezzabili sia sul lato della razionalizzazione della domanda con l'accordo Occar (Organisme Conjoint de Coopération en matière d'Armement) fra Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania per uniformare la politica degli approvvigionamenti, sia sul lato dell'offerta con l'accordo Loi (Letter of Intent) fra i quattro Paesi Occar più Spagna e Svezia». Incredibilmente, infatti, il settore industriale della difesa rimane ancora fuori dalle regole comunitarie. I trasferimenti di tecnologia avanzata subiscono ancora controlli da parte dei singoli governi: perfino gli ingegneri di una stessa azienda ma di nazionalità diverse devono chiedere permessi, in base a un sorpassato principio di protezione della sicurezza "nazionale".

Non parliamo poi delle commesse ottenute dai singoli Paesi grazie ad accordi politici, come quella favolosa ottenuta dalla Gran Bretagna con l'Arabia Saudita, che garantisce alla Bae fatturato per tre miliardi di euro all'anno: qui non solo ognuno fa per sè, ma tutti lottano contro tutti. Così spesso, di fronte a concorrenti europei divisi, vincono le offerte dei giganti americani. A volte, poi, sono gli stessi europei a fare lo sgambetto a se stessi in favore di Washington.
È il caso dell'Italia, che nel 2001 ha preferito l'aereo Usa Jsf all'europeo A400M, o della Polonia che ha acquistato 48 caccia F16 dell'americana Lockheed invece dei Jas-39 Gripen anglosvedesi o dei Mirage Dassault francesi.

Mauro Suttora

Monday, November 03, 2003

Vagina rejuvenation

SMALL, MEDIUM, EXTRALARGE: QUALI SONO LE DIMENSIONI DESIDERABILI DELLA VAGINA?
SULLE MISURE IDEALI DEL PENE, SAPPIAMO TUTTO E DI BRUTTO. PERCHÈ NESSUNO PARLA DELLE TAGLIE DIVERSE DELLE DONNE?

Mauro Suttora per Il Foglio

3 novembre 2003

New York. Nel 1969 Mario Puzo inseri' nel suo "Il Padrino" la surreale descrizione dell'amante di un mafioso ucciso la quale si fece ridurre la vagina da un chirurgo plastico: temeva che la grossezza dell'organo sessuale del defunto l'avesse sformata a tal punto da renderla inappetibile per il futuro. E' uno dei tanti episodi che rimasero fuori dal film di Francis Ford Coppola, tre anni dopo.

E' passato un terzo di secolo, e negli Stati Uniti si sono moltiplicati i Laser Vaginal Rejuvenation Institute: tutto è migliorabile artificialmente, anche laggiù, al prezzo medio di settemila dollari. Ma ora l'indicibile approda sul prestigioso settimanale "New York Observer", che dedica un'intera, disinibita, esilarante seconda pagina all'argomento: quali sono le misure desiderabili della vagina? A rispondere al quesito è George Gurley, penna fine del giornale: memorabile la sua lunga intervista a Oriana Fallaci dello scorso gennaio, sempre sull'"Observer", uno dei rari articoli usciti in America su "The Rage and the Pride".

Questa volta Rabbia e Orgoglio delle femministe Usa vengono sfidate da un'inchiesta quasi entomologica, titolata provocatoriamente "My Vagina Monologue". Gurley parte dalla banale constatazione che ciascuno di noi, uomo o donna, può fare ogni mattina aprendo la posta elettronica: decine di e-mail ci propongono di aumentare la misura del pene. "Volete un'enorme bestia dentro ai vostri pantaloni?", chiedono gli spammer. E' diventata un'ossessione. Ma perchè nessuno parla invece delle misure delle donne?

"Eppure", scrive Gurley, "tutti sappiamo che anche le confezioni delle signore offrono taglie diverse". E la taglia conta eccome, giura il romanziere Marc Spitz. No, non conta niente, replica la sua collega Francine Maroukian: "Non mi sono mai posta il problema, mi interessa solo se è troppo grande o troppo piccolo quel che mi entra dentro". La pornostar australiana Cherie Lamour difende gli uomini: "Tutte a discutere fino alla morte delle dimensioni del pene, e mai una parola sulla vagina... Eppure la sua larghezza non dipende dal numero degli uomini con cui siamo andate a letto, o dal numero dei figli che abbiamo avuto".

L'attrice Chloe Sevigny partecipa al dibattito: "Ci sono forme e calibri di ogni tipo. Sfortunatamente ora va di moda il molto stretto. Mi hanno raccontato che Greta Garbo era preoccupata di averla troppo larga". "La verità è che non ci poniamo il problema", dice Dian Hanson, che lavora per i libri Taschen a Los Angeles, "perchè da sempre i maschi sono così contenti di avere avuto il permesso di entrare lì dentro che, se le pareti sono un po' rilassate, non si lamentano. Anche perchè temono, sollevando il problema, di essere loro ad averlo troppo piccolo".

Pare che, contrariamente a ciò che sembrerebbe naturale, siano le donne più sottili ad avere gli interni maggiormente cavernosi. Conferma Tad Low del canale musicale VH1: "Sono stato con una modella supermagra, e non sentivo niente". Il chirurgo plastico David Matlock dice che la maggioranza delle sue pazienti sono mamme con muscoli vaginali rilassati: "Le faccio tornare diciottenni. La gratificazione sessuale è collegata direttamente alla forza frizionale generata durante il rapporto".

"Piccolo è bello, questa è la tendenza", aggiunge il dottor Edward Jacobson, "gli interventi stanno aumentando. E' un po' come l'aumento dei seni negli anni '70". L'attrice Jackie Clarke ricorda che suo padre si lamentava: "Le donne americane arrivano a trent'anni con baffi rasati e vagine molli ed enormi, diceva. Beh, ora io ho 28 anni, ma nessuno si è mai lamentato. E se qualcuno osasse, concluderei che ce l'ha lui troppo piccolo".

"E invece ogni uomo, prima o poi, si è imbattuto nella spiacevole sensazione di annegare in un abisso", replica l'attore tv Dean Winters, "anche se non è detto che le mamme debbano preoccuparsi. Una signora con due figli aveva paura di far brutta figura, invece fu piacevolissimo: per alcuni minuti mi sembrò di stare con una diciassettenne."

L'unica a rifiutarsi di partecipare all'inchiesta è stata Glenn Close, incontrata da Gurley alla festa di compleanno newyorkese per l'attrice Naomi Watts: "Quando le ho chiesto se pensava che la misura della vagina rappresentasse un problema, mi ha guardato con disgusto". Eppure proprio la Close fu quella che nel 2001, interpretando i "Monologhi della vagina" al Madison Square Garden, fece alzare in piedi e urlare ripetutamente "Cunt!" ("Figa") ben 18 mila spettatori.

Mauro Suttora

Thursday, October 30, 2003

Il più elegante a Manhattan...

INAUGURAZIONE AL GUGGENHEIM

Flaminia Lubin per Dagospia

30 ottobre 2003

Il Guggenheim Museum di New York rende omaggio a Federico Fellini a dieci anni dalla sua morte con una retrospettiva inedita, completa dei tanti lavori del grande maestro, magistralmente curata dal boss della cultura italiana in America, il professor Antonio Monda. All'inaugurazione della mostra, la stampa italiana che vuole contare c'era tutta. Pochi i reporters stranieri, ben presenti invece al grande party organizzato dal museo.

Partecipi i vari gruppi Rai, tra cui Vincenzo Mollica, caro amico di Fellini, e anche lui tra gli organizzatori dell'evento. Maurizio Molinari della Stampa ad un certo punto e' corso via. Probabilmente ad occuparsi di economia..... americana naturalmente. Pupi Avati a capo della Fondazione Fellini e' stato dolce quando ha sbagliato termine in inglese e ha detto "Sostengo questo monster" (intendeva sostengo questa mostra che in inglese si dice exhibition e non monster).

Alain Elkann faceva le veci del ministro Urbani, i Della Valle sono stati gli sponsor dell'evento. Mauro Suttora, dei giornali Rizzoli, era in assoluto l'uomo piu' elegante, non in onore della retrospettiva credo, ma del gran gala da Cipriani sulla moda dove si sarebbe recato al calar del sole.

Wednesday, October 29, 2003

Nicolas Cage e la figlia di Presley

CHE BELLO RISPOSARE MIA MOGLIE

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 ottobre 2003

Lui non è nuovo ai ripensamenti: nel febbraio 2000 chiese il divorzio dalla prima moglie Patricia Arquette dopo cinque anni di matrimonio, ma dopo soli cinque giorni cambiò idea. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, fu lei a decidere di separarsi definitivamente, dopo che lui la tradì con Penelope Cruz (oggi fidanzata di Tom Cruise) sul set a Cefalonia del film Il violino del capitano Corelli che stavano girando assieme.

La notizia di questi giorni, tuttavia, è clamorosa: Nicolas Cage, 39 anni, vuole risposare la seconda moglie Lisa Marie Presley, 35 anni, figlia di Elvis, con la quale aveva convissuto per appena 108 giorni l’estate scorsa. E lei è felicissima. L’11 ottobre, infatti, sul palco del suo concerto all’Avalon di Hollywood, era così distesa che ha perfino accennato a qualche passo di danza.
 
Stranissimo, per lei che notoriamente è preda di attacchi di panico ogni volta che si esibisce in pubblico: appariva gentile con tutti, altro comportamento assai inusuale. «Era da mesi che non la vedevo così in forma, di buonumore e sexy», ha confidato un suo amico, «e il concerto è stato ottimo».

La ragione di questa ventata positiva è semplice: Cage le aveva appena telefonato da Filadelfia, dove sta girando un film, confermandole il proprio desiderio di risposarla all’inizio della prossima primavera.
 
Questa volta, però, non sarà più una cerimonia fra pochi intimi, con soli trenta strettissimi parenti e amici invitati, come avvenne lo scorso agosto a Mauna Lani Bay nelle isole Hawaii: i due vogliono che tutto il mondo sappia della loro riconciliazione, ci sarà una festa colossale, e pare che il luogo prescelto sia addirittura Graceland, a Memphis (Tennessee), il palazzo di Elvis dove il cantante rock più famoso di tutti i tempi morì nel ‘77, e che da allora è stato trasformato in un museo con decine di migliaia di visitatori adoranti ogni anno.

Ma cos’è successo di così importante da far cambiare di nuovo idea all’attore premio Oscar e alla cantante che ha venduto 600 mila copie del suo disco To Whom It May Concern uscito in aprile? 
«La verità è che sono fatti l’uno per l’altra», dice un amico della coppia, «si amano ancora e a lui piace il carattere forte di Lisa Marie. Tutte le altre donne con cui Nic è stato non erano alla sua altezza. Siccome lui è un attore famoso, erano succubi e gli dicevano sempre di sì. Si sottomettevano. Ma a lui questo comportamento non interessa».

Si era molto discusso sulle cause del divorzio lampo, l’anno scorso. Secondo alcuni Cage aveva sposato la Presle y soprattutto perchè è un grande fan di Elvis, e stando con la figlia gli sembrava quasi di entrare in contatto più stretto con il fondatore della musica rock. «Tutte cretinate, è di te che sono innamorato», le ha assicurato lui durante due recenti cene intime in un ristorante italiano vicino alla casa di lei nella zona di Hidden Hills, a Los Angeles.
 
Non che la celebrità del padre non sia un fardello notevole per Lisa Marie: «Non sa mai se gli amici e anche i fidanzati sono attirati soprattutto dal suo cognome, e quindi non si fida di nessuno», spiega uno stretto conoscente.

Anche Nicolas Cage, del resto, ha dovuto fare i conti con la fama riflessa: «Lo ammiro proprio per questo», ha dichiarato la Presley, «perchè si è staccato dal cognome Coppola [il regista del Padrino Francis Ford, ndr] e si è costruito una carriera per conto suo. Sia lui che io abbiamo un carattere ribelle e indipendente». 

Quanto siano indipendenti se ne sono accorti nei poco più di tre mesi di convivenza. Lei non sopportava che lui continuasse a passare tanto tempo con i propri amici maschi, in un’atmosfera di goliardia perenne. Si sentiva trascurata, anche per il parecchio tempo che Nic trascorre con il figlio dodicenne Weston, avuto dall’ex fidanzata Kristina Fulton. E non le piaceva che il marito fosse troppo arrendevole e condiscendente con i due figli che lei ha avuto dal primo matrimonio, con il musicista Danny Keough: Danielle, 13 anni, e Benjamin, 11.

La Presley, dopo quella prima relazione, si è sposata brevemente ma disastrosamente con Michael Jackson, e questa disavventura non ha certo giovato al suo equilibrio. Un’altra notevole fonte di disaccordo sembrava fossero i futuri figli: Nic li voleva subito e Lisa Marie no. Oppure viceversa, fatto sta che anche su questo i litigi sono stati continui. 

Entrambi assai focosi, le loro discussioni finivano quasi sempre con uno dei due che se ne andava di casa sbattendo la porta. Cage abita in una specie di finto castello, con tanto di torrette e spalti, nella sterminata zona residenziale di Los Angeles. 

«Le loro litigate, come anche il loro amore, erano assai spontanee», rivela la gola profonda della coppia, «si surriscaldavano per un nonnulla, e ciascuno non voleva cedere semplicemente per una ragione d’orgoglio».

Lo stesso orgoglio che ha impedito a Cage di ritirare l’istanza di separazione che si era quasi subito pentito di aver presentato al tribunale: ormai non poteva più tornare indietro. Un comportamento puerile, finché un pomeriggio, dopo numerose e lunghe telefonate quasi giornaliere, Nic ha preso la motocicletta ed è andato a casa di lei. Dopo un lungo giro si sono fermati sulle colline che sovrastano Hollywood, e hanno entrambi convenuto che erano stati stupidi a lasciarsi. Subito dopo hanno dovuto riconoscere di essere ancora innamorati l’uno dell’altra. «In realtà, a pensarci bene, abbiamo convissuto in totale per appena due settimane», ha ammesso la Presley, «perchè Nic, che è appassionato del proprio lavoro, era sempre via».

Già lo scorso marzo, in diretta televisiva dalla cerimonia degli Oscar (dov’era candidato per il film Adaptation di Spike Jonze), il disperato Cage aveva confessato davanti al mondo intero di essere ancora innamoratissimo della sua Lisa Marie. Poi ha cominciato ad assistere ai suoi concerti ogni volta che poteva, e le ha perfino mandato il suo aereo personale per farla tornare a casa in giornata.

In settembre i due si sono rivisti dopo un concerto di lei alla House of Blues di Las Vegas, si sono chiusi in un albergo e non sono usciti dalla loro camera per due giorni interi. Il legame si è rinsaldato, e fra un mese dovrebbe arrivare l’annuncio: matrimonio bis.
Mauro Suttora

GLI A LTRI DIVORZI FALLITI

Pare che in realtà, giuridicamente, Nicolas Cage e Lisa Marie Presley non abbiano mai divorziato. Lui lo scorso novembre aveva presentato istanza di divorzio, ma lei non ha mai risposto positivamente o negativamente, e gli avvocati di lui non hanno poi più insistito per avere una risposta.
 
Peccato, perché altrimenti, se il divorzio fosse stato formalizzato, la coppia avrebbe battuto lo storico record stabilito 28 anni fa da Elizabeth Taylor e Richard Burton. I quali divorziarono nel giugno 1974 dopo dieci anni di matrimonio (il secondo per lui, il quinto per lei). Ma appena sedici mesi dopo, nell’ottobre '75, si risposarono. 
La seconda unione fra l’attrice americana e il turbolento gallese, tuttavia, non durò molto: meno di un anno dopo, nell’agosto ‘76, divorziarono per la seconda volta. Lei nel dicembre dello stesso anno procedette al settimo matrimonio, con il senatore John Warner (seguito poi da quello con Larry Fortensky, terminato nel ‘97), mentre Burton, prima di morire nell’84 a soli 59 anni per emorragia cerebrale, fece in tempo a sposarsi altre due volte.

Un altro famoso tiramolla fra vip riguarda la bionda pettoruta Pamela Anderson di Baywatch e il marito musicista Tommy Lee: separatisi la prima volta nel '96, si riconciliarono quasi subito e fecero due figli. Nel '98 Lee fu arrestato perchè menava sia la moglie che i figli, e lei chiese il divorzio. Ma l’anno seguente lo perdonò e se lo riprese in casa, solo per separarsi definitivamente nel 2000.

Ci sono poi i casi di John Lennon e Yoko Ono, separatisi per un solo anno nel ‘74, e di Harrison Ford e della moglie Melissa Mathison, che si separarono nel novembre 2000, tornarono assieme sette mesi dopo, ma alla fine si lasciarono quando lui conobbe Calista Flockhart. 

Anche il cantante Eminem pare si sia riconciliato con la moglie Kimberly Mathers, dopo il divorzio dell’ottobre 2001. A casa nostra, infine, sono tornati assieme Claudio Amendola e Francesca Neri, che però non si erano mai sposati.
Mauro Suttora

Saturday, October 18, 2003

Ann Coulter

USA: ANN COULTER, NUOVA DESTRA IN TACCHI A SPILLO 
di Mauro Suttora
Il Foglio, 18 ottobre 2003
New York. Bella, bionda, brillante, intelligente. Ann Coulter, 41 anni, è la nuova star della destra americana. Da tre mesi il suo ultimo libro, "Treason" ("Tradimento"), è nella top ten dei bestseller statunitensi. Lei vive praticamente accampata negli studi televisivi, tutti la vogliono perchè garantisce ascolto. 
E' una specie di Vittorio Sgarbi o Giuliano Ferrara al femminile, adora scandalizzare e ha la battuta pronta. "Da quando è uscito il libro ho dovuto dare duecento interviste", fa finta di lamentarsi all'uscita degli studi Fox (la tv di Rupert Murdoch) sulla Sesta Avenue di Manhattan, dove le chiedono un parere su tutto un giorno sì e uno no.
Ormai con le royalties è diventata miliardaria, beniamina dei conservatori anche perchè intellettualmente non così sofisticata come certi "neocon" (Paul Wolfowitz, Robert Kagan, Amin Taheri). Ma lei si fa un vanto proprio di questo suo volare terra terra "Mi trovo in perfetta sintonia non con l'Upper East Side, il quartiere di New York dove vivo, ma con i veri americani che stanno a Queens e che non temono di esporre la bandiera sulla porta di casa".
Patriottismo, religione, valori tradizionali. "Dio, patria, famiglia: una fascistona", la liquidano a sinistra. Non per nulla Al Franken, primo nella classifica della saggistica con il suo "Lies and the Lying Liars Who Tell Them A Fair and Balanced Look at the Right" ("Bugie e i bugiardi matricolati che le dicono uno sguardo equo e obiettivo sulla destra"), le dedica due interi capitoli uno intitolato "Ann Coulter, un caso da manicomio", e quello successivo che non lascia spazio a dubbi: "Sapete chi proprio non mi piace? Ann Coulter". La sua definizione più gentile è: "Per coloro che sono così fortunati da non averla ancora conosciuta, si tratta della diva della destra isterica", che "scrive pornografia politica".
Nelle liti lei ci sguazza, si diverte come una pazza quando la attaccano anche selvaggiamente "Franken, Joe Conason e tutti quelli che scrivono libri di successo contro i conservatori dovrebbero ringraziarmi riescono a vendere soltanto grazie a me, dove sarebbero se non mi avessero scelta come bersaglio? Darò loro da mangiare per i prossimi trent'anni".
 In effetti, una polarizzazione netta caratterizza ormai la saggistica politica degli Stati Uniti i bestseller sono quelli dei personaggi più estremi. A sinistra trionfano Michael Moore (autore di "Stupid White Men" e del film premio Oscar "Bowling for Columbine") e Gore Vidal.
 A destra rispondono senza far prigionieri, con la Coulter ma anche con Bill O'Reilly (autore di "Spinning Zone" e presentatore ogni sera di un talk show sulla tv Fox) e il terribile John Savage (di nome e di fatto, anch'egli personaggio tv licenziato dalla Nbc dopo aver auspicato in diretta che i gay si pigliassero l'Aids).
La Coulter è un'Oriana Fallaci con maggiore sarcasmo. I suoi nemici, più che i fondamentalisti musulmani dell'11 settembre, sono i "liberals" (cioè la sinistra Usa): "Neppure i terroristi islamici odiano l'America quanto i nostri liberali. Non hanno abbastanza forza. Se avessero la loro energia, in tutto questo tempo sarebbero almeno riusciti a costruirsi le toilette in casa", dice.
 Di ritorno da una presentazione del libro nell'Ohio, ha subìto una perquisizione in aeroporto. E' furibonda: "Quegli imbecilli di agenti, invece di infilarmi le mani sotto il reggipetto, farebbero meglio a prendere di mira certi maschi mediorientali con il fumo che gli esce dai pantaloni..."
Elegante, la Coulter ha uno stile eccentrico fatto di minigonne e cuoio nero che eccita i fans. Nel suo sito Internet (www.anncoulter.org) ha piazzato un'intera "gallery" di proprie immagini in pose provocanti. In una appare con l'ex presidente Ronald Reagan, in un'altra imbraccia virilmente un fucile. Le manca solo il frustino, e poi il suo lettore medio (maschio militarista del Midwest) sarebbe soddisfatto. 
Il fatto che Ann risulti single e si dichiari disponibile al "dating", agli appuntamenti con uomini ("Ma devono essere alti, divertenti, buoni sciatori e soprattutto di destra"), aggiunge fascino al personaggio. Il tocco finale al gioco della seduzione è dato dal club per cuori solitari "conservatori" ospitato dal sito.
In realtà, l'apparentemente populista Ann nuota come un pesce, perfettamente a proprio agio, negli ambienti liberal-chic di Manhattan. Frequenta i ristoranti alla moda dell'Upper East e West Side, dal Baraonda al Bella Blu al Cafè Luxemburg, col suo orologio Cartier e i braccialetti di diamanti.
 Altro che "America profonda", altro che camiciazze spiegazzate a quadrettoni, stile camionista del New Jersey. D'estate migra con tutti i ricchi agli Hamptons, e d'inverno se ne va a sciare sulle montagne Catskill o in Colorado. Il suo posto preferito tuttavia è Miami, Florida "Perchè è pieno di esuli cubani anticomunisti", scherza ma non troppo.
Potrebbe ormai permettersi anche di più dell'appartamento in affitto newyorkese, grazie ai pingui diritti d'autore. Il suo primo successo è stato, nel 1998, "High Crimes and Misdemeanors The Case Against Bill Clinton". L'anno scorso ha sfondato con "Slander, Liberal Lies About the American Right" ("Calunnia, bugie liberali sulla destra americana"), cosicchè l'editore le ha subito chiesto un altro libro. "E io ho lavorato come una pazza da ottobre, anche i venerdì e i sabato sera".
 Il suo ultimo volume è una difesa del senatore Joe McCarthy, quello che negli anni Cinquanta scatenò la caccia alle streghe contro i marxisti negli Stati Uniti. Un'impresa impossibile, apparentemente riabilitare il personaggio che ha dato il proprio nome al "maccartismo", il persecutore che tolse il lavoro a tanti attori e scrittori di Hollywood, il simbolo di uno dei periodi più bui e bigotti della storia d'America?
Ann Coulter non chiedeva di meglio più la sfida è grossa, più lei si lancia a testa bassa per demolire quelli che ritiene stereotipi e luoghi comuni spacciati dagli odiati "liberals". E in questa battaglia delle idee in cui lei si sente perennemente in prima linea è riuscita a dimostrare che tutto sommato alcune delle vittime di McCarthy erano veramente spie dei sovietici, e che comunque in periodo di guerra (seppur solo fredda) quasi tutti i mezzi sono leciti. Così come oggi difende a spada tratta l'intervento in Iraq: "I liberali vorrebbero che i nostri soldati fossero sconfitti, perchè è l'unica possibilità che hanno di poter cacciare Bush dalla Casa Bianca l'anno prossimo".
 Un'altra frase detta dopo l'11 settembre 2001 le è costata il posto alla Msnbc (tv in joint venture fra Microsoft e Nbc): "Invadiamo i Paesi amici dei terroristi, uccidiamo i loro capi e convertiamo tutti al cristianesimo!".
Ghiotta di salmone e ravioli d'aragosta, questa sirena della destra è nata in uno dei luoghi più ricchi del mondo New Canaan (Connecticut), rifugio nel verde dei miliardari newyorkesi. Università di Cornell, specializzazione in legge nel Michigan, primo lavoro nel Center for Individual Rights a Washington, think tank conservatore, poi portaborse del senatore Spencer Abraham, oggi ministro dell'Energia un curriculum di rispetto. 
Ma appena ha sfondato in tv coi denti da pescecane che sfodera assieme al sorriso, Ann ha capito che esagerando si può costruire una lucrosa carriera.
Detesta gli attori pacifisti come Tim Robbins, Susan Sarandon e Ed Norton, mentre adora Bruce Willis e Andy Garcia. "Con quelle sue borsette rosa e i tacchi a spillo sembra un personaggio uscito da 'Sex and the City'", commenta Matt Drudge, il Dagospia statunitense, principe del gossip politico on line, "e invece è la voce principale della nuova generazione conservatrice americana lo dimostrano le tirature dei suoi libri". Per settimane quello della Coulter ha lottato contro le Memorie di Hillary Clinton "Ma lei come peso mi batte tre a uno... Anche come peso del libro, voglio dire".
 "Ha la stessa affabilità di Eva Braun", l'ha stroncata Katie Couric, massima presentatrice tv d'America. O la amano o la odiano, insomma. Ma Ann Coulter gode in ogni caso.
Mauro Suttora

Wednesday, October 08, 2003

Sharon Stone: io la conosco bene

PARLA IL DIRETTORE CASTING CHE L'HA SCOPERTA                             

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 8 ottobre 2003

Riecco la diva, a tre anni dal suo ultimo film e a cinque dall’ultimo successo, Sphere: Sharon Stone è tornata in tutti i cinema statunitensi con il film Cold Creek Manor. Nel quale lei e il marito (interpretato da Dennis Quaid) si trasferiscono in una casa di campagna che si rivela luogo di mistero, paura e orrori. 

Accavalla le gambe, non lo fa, le allarga, indossa le mutandine oppure no? Tutte domande da Basic Instinct, ma irrilevanti: perchè basta la presenza magnetica di questa magnifica 45enne per riempire comunque lo schermo. Così come è successo all'ultimo Festival di Sanremo, quando la sua apparizione in qualità di ospite di Pippo Baudo ha fatto subito impennare gli indici d'ascolto.

E anche se passerà alla storia per Basic Instinct del '92, bisogna precisare che quattro anni dopo Sharon ha conquistato anche i favori dei critici, vincendo il Golden Globe grazie a Casinò di Martin Scorsese (con Robert De Niro e Joe Pesci), e mancando l'Oscar per un soffio.

Negli ultimi anni è stata soprattutto la sua vita privata a fare notizia: il matrimonio con il giornalista di San Francisco Phil Bronstein nel '98, il divorzio due mesi fa, il figlio Roan adottato nel 2000, l'improvvisa emorragia cerebrale che due anni fa l'ha quasi uccisa. Infine, quest'estate, il flirt con Oliver Hudson, 26 anni, figlio di Goldie Hawn, ma che vista l'età potrebbe essere anche il suo. 

Insomma, il simbolo del sesso è tornata a gustare la vita, e non intende farsi mancare niente. Ha presentato la cerimonia degli Oscar lo scorso marzo, in autunno apparirà su tutti gli schermi tv americani con un serial, e prossimamente sarà la cattiva contro Halle Berry nel film Catwoman.

«Questa fantastica resurrezione di Sharon non mi stupisce: dal primo momento che la vidi nel mio ufficio capii subito che sarebbe diventata una star». 
Per parlare della nuova Stone abbiamo scelto un interlocutore d'eccezione: Riccardo Bertoni, 69 anni, uno dei maggiori direttori di casting di New York. Che conosce benissimo l'attrice, perchè fu propr io lui a lanciarla nel 1979. 

Bertoni, svizzero italiano, allievo del Centro sperimentale cinematografico di Roma nel '51 (compagno di stanza di Domenico Modugno, ebbe Anna Magnani come insegnante e Federico Fellini come direttore), negli anni Cinquanta fu anch'egli attore: recitò accanto a Hedi Lamarr, Ivonne Sanson, Silvana Pampanini e Marcello Mastroianni (era suo fratello in La ragazza della salina, 1956).

Emigrato negli Stati Uniti quarant'anni fa, Bertoni ha messo in piedi con Esther Navarro un un'agenzia di casting fra le più importanti degli Stati Uniti: ha lavorato per otto film di Woody Allen (quasi tutti i più famosi, da Zelig a Manhattan, da Io e Annie a Broadway Danny Rose), e ha anche recitato con il regista newyorkese, suo grande amico, in Criminali da strapazzo del 2000 (era il maggiordomo). 

Con Francis Ford Coppola ha girato Cotton Club e Il Padrino parte terza, e poi Nove settimane e mezzo, Attrazione fatale, La scelta di Sophie, Rollerball, Independence Day, Crocodile Dundee, The Bostonians, Tè con Mussolini e Callas forever con Franco Zeffirelli. Ultimo film: Amore infedele con Richard Gere. Il prossimo: Die Hard 4 con Bruce Willis.

Insomma, uno che se ne intende. E che ricorda bene quel pomeriggio di agosto del 1979, quando una ragazza 21enne irruppe piena di vita nel suo ufficio di Central Park South, in pattini a rotelle: «Conservo ancora la prima scheda segnaletica di Sharon», racconta Bertoni, «con le sue misure - 36/26/36 in inches, che tradotto in centimetri fa 91/66/91 - il colore degli occhi - verde, dei capelli - biondo, e le sue "specialties": precisò che sapeva pattinare a rotelle e sul ghiaccio, sciare, nuotare, andare a cavallo, guidare auto e motociclette - come vedemmo poi in Basic Instinct - oltre che ballare. 
Nata in Pennsylvania, da due anni lavorava a New York come modella per l'agenzia di Eileen Ford, ed era venuta da me vestita con vertiginosi hot pants e accompagnata dalla sua amica Mindy Alberman, la segretaria di Dino De Laurentis. Voleva fare l'attrice, e si era anche iscritta al sindacato degli attori cinematografici, la Screen Actors Guild».

Bertoni procura subito a  Sharon Stone la prima particina, in Stardust Memories di Woody Allen (1980): «Era la ragazza vestita di bianco, un po’ alla Jean Harlow, con un’azalea in testa, che in un vagone di treno in partenza pieno di gente anziana bacia il regista posando le labbra sul vetro di un finestrino». 

Una scena breve ma memorabile, e soprattutto il debutto in un film di serie A. Al quale però non segue niente alla stessa altezza: nell’81, sempre grazie a Bertoni, una parte da coprotagonista in Deadly Blessing del regista horror Wes Craven.
«Che la prese scegliendola fra trenta altre modelle», ricorda Bertoni, «andarono a girare in Texas dove tutti naturalmente si innamorarono di lei. Quindi la presentai al mio amico Zeffirelli per la parte principale di Amore senza fine, ma lui la trovò troppo paffutella e le preferì Brooke Shields. Fra l’altro, in quel film esordì Tom Cruise».

Che tipo era Sharon Stone vent’anni fa? 
«Fiera, indipendente, disordinatissima», ricorda Bertoni. «Abitava in un appartamentino dell’Upper East Side di Manhattan vicinissimo al mio, a un solo isolato di distanza. Una volta andai a casa sua e trovai praticamente l’apocalisse... Gli uomini che frequentavano la palestra di fronte erano tutti contenti, perchè ogni tanto riuscivano a intravedere dalle finestre quella bellissima ragazza. Poi però andò un po’ in crisi, si mise con un uomo, volle andare con lui in California, fece una serie tv e della pubblicità. Sì, sopravviveva girando spot e alcuni film orrendi, di serie B».

Infine, nel 1990, la svolta: Sharon accetta di posare nuda a 32 per la rivista Playboy. I produttori di Total Recall con Arnold Schwarzenegger la notano, e le offrono la p arte della compagna del protagonista. 
«Niente di trascendentale», commenta Bertoni, «ma il vento aveva ricominciato a soffiare in suo favore, e così due anni dopo eccola in Basic Instinct del regista Paul Verhoeven. Non tornò più a girare film a New York, tranne Sliver, così la persi di vista. Però ogni volta che arrivava in città le mandavo un mazzo con una dozzina di rose rosse al Mark Hotel, dove scendeva abitualmente. Ci sentivamo al telefono, finchè nel ‘99 in qualche modo si sdebitò con me: chiese a Sidney Lumet, regista di Gloria in cui recitava, di prendermi come direttore del casting».

Da allora i due non si sono più visti. «O meglio, io ho visto in tv e sui giornali l’evolversi della sua carriera e della sua vita privata», dice Bertoni, «anche se devo confessare che non mi è piaciuta molto alla notte degli Oscar: era troppo nervosa, quasi esagitata, fuori di testa, fuori di tutto. Ma io sono sempre segretamente innamorato di lei...»
Mauro Suttora

Wednesday, September 24, 2003

Discorso di Bush all'Onu

BUSH INSISTE, INSISTE, INSISTE. CHIEDE AI 'WILLING', AI VOLONTEROSI, DI AGIRE. 
CHIRAC INSISTE ANCHE LUI 

di Mauro Suttora

Il Foglio

New York, 24 settembre 2003



Con un discorso di 25 minuti sapientemente calibrato, ieri mattina alle 11 George W. Bush non ha ceduto di un millimetro sulla giustezza della liberazione dell'Iraq, ma ha allo stesso tempo usato toni soffici e di riconciliazione verso gli oppositori della guerra: "Alcune delle nazioni qui presenti non sono state d'accordo con la nostra azione", ha detto il presidente degli Stati Uniti, "ma siamo tutti uniti nella difesa della sicurezza e dei diritti umani. E ora guardiamo avanti".

Naturalmente Bush ha sollecitato gli altri Paesi a impegnarsi nella ricostruzione, ma è stato attento a legare assieme Iraq e Afghanistan, e invece di chiedere truppe ha preferito puntare più in generale sull'"aiuto ai popoli di queste due nazioni nel loro cammino verso la libertà e la democrazia". 

Bush ha avvertito che, dopo aver trasformato due anni fa "New York in un campo di battaglia e in un cimitero", i terroristi di Al Qaeda hanno attaccato a Bali, Mombasa, Casablanca, Riad, Giakarta e Gerusalemme, e che quindi "si sono messi contro tutta l'umanità. Essi non trovano posto in alcuna fede religiosa, e non dovrebbero avere alcun amico in questa sala".

Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole  in questa sala". Utilizzando il condizionale il presidente ha voluto tracciare un chiaro confine: "Da una parte c'è chi vuole la pace e l'ordine, dall'altra i banditi e assassini che seminano il caos".

Particolarmente forte è stato l'omaggio a Sergio Vieira de Mello, il capo della missione Onu a Bagdad ucciso in agosto assieme ad altri 22 funzionari. E subito dopo Bush ha definito la guerra contro Saddam come "conseguenza delle risoluzioni Onu" che gli chiedevano di disarmare: "Queste conseguenze ci sono state, oggi l'Iraq è libero e qui con noi ci sono ora i suoi rappresentanti. Non più camere di tortura, celle per gli stupri, killing fields e cimiteri collettivi: oggi in Medio Oriente la gente è più sicura perché un alleato del terrorismo è caduto".

Bush ha astutamente mescolato l'azione delle Nazioni Unite a quella degli Stati Uniti nel descrivere l'attuale situazione in Iraq: "L'Unicef sta vaccinando il 90 per cento dei bambini, il Programma per l'alimentazione mondiale sta distribuendo mezzo milione di tonnellate di cibo al mese. In un Paese dove il dittatore si costruiva lussuosi palazzi mentre lasciava crollare le scuole, stiamo ricostruendo mille edifici scolastici e stiamo ripristinando gli ospedali.
Saddam comprava armi mentre le infrastrutture decadevano, noi abbiamo intrapreso il maggior programma di aiuto dopo il piano Marshall e onoreremo le nostre promesse all'Iraq".

Insomma, per uscire dall'incipiente 'quagmire' (palude, pantano) dell'Iraq, Bush si rivolge a quello che la maggioranza degli americani considera il tempio del 'quagmire': l'Onu, dove un anno fa il presidente degli Stati Uniti aveva annunciato la sua nuova dottrina della guerra preventiva, prefigurando quindi la liberazione di Baghdad.

Un sondaggio Cnn/Usa Today lo avverte che 48 statunitensi su cento ritengono ora che non valesse la pena andare in Iraq, e il suo gradimento è calato dal 70 per cento di aprile all'attuale 50. Ma lui, intervistato l'altra sera dalla Fox Tv di Rupert Murdoch, assicura di non preoccuparsene: "I've got a job to do, ho un lavoro da fare, e mi giudicheranno gli elettori fra un anno".

C'è chi dice che non basta

Niente concessioni quindi a Jacques Chirac (che ha parlato subito dopo, chiedendo "il rapido trasferimento agli iracheni della sovranità sul proprio Paese"): "Nessuna fretta e nessun ritardo da parte nostra, in Iran il ruolo dell'Onu si può allargare per assistere nella scrittura della Costituzione e nell'organizzazione delle elezioni", ma nulla di più.

Lo scorso inverno, per gli ultimatum a Saddam, la Francia parlava di mesi mentre gli Stati Uniti ragionavano in termini di settimane. Oggi è l'esatto contrario: Parigi vorrebbe un governo iracheno nel giro di poche settimane, Washington parla di mesi. E Colin Powell, intervistato da Charlie Rose, ha buon gioco nello spiegare che "è nell'interesse degli stessi dirigenti iracheni non bruciarsi in questo momento", e nel prevedere "sei mesi per la Costituzione, un anno per il voto".

In ogni caso, nessuno parla più di trasferimento dei poteri all'Onu. L'appello di Bush è sempre individuale, ai Paesi "willing", volenterosi: "Tutte le nazioni di buona volontà dovrebbero farsi avanti per aiutare il popolo dell'Iraq". Basterà?

Fareed Zakaria, direttore di Newsweek, è scettico: "C'è un vuoto di leadership nel mondo in questo periodo, come ha dimostrato anche il fallimento di Cancun. L'unilateralismo di Bush ha prodotto un multilateralismo caotico, di cui gli Stati Uniti stanno perdendo il controllo".

Il prestigioso Council on Foreign Relations avverte: "L'Amministrazione agisca con urgenza per ridurre il crescente antiamericanismo che si sta sviluppando in Europa e nel mondo arabo.
Mauro Suttora 

Tuesday, August 12, 2003

Il nuovo film di Bob Dylan

MASKED AND ANONIMOUS

di Mauro Suttora

Il Foglio, 12 agosto 2003 

New York. Sei anni fa impressionò il mondo intero, con uno di quei suoi Twist of fate, scherzi del destino che sono ormai l'unica caratteristica che accetta. Bob Dylan andò a esibirsi di fronte al Papa, durante il Congresso eucaristico internazionale di Bologna.

Vestito come un buzzurro texano, non si tolse il cappello da cowboy quando si avvicinò a Giovanni Paolo II per salutarlo. Però l'omaggio del Santo padre della controcultura al Santo padre vero c'era tutto.

Ne è passato di tempo, da quel settembre '97. A 61 anni, dopo che il cuore lo ha portato a un passo dalla morte e i critici a un passo dal premio Nobel, il più grande cantautore americano torna a fare l'iconoclasta. 
Nel suo ultimo film appena uscito negli Stati Uniti, Masked and Anonymous, si aggira infatti un bianco sosia del Papa, assieme a un finto Gandhi e a una copia di Abramo Lincoln. 

La presa in giro è evidente, anche se questi personaggi storici nel film non fanno né dicono alcunché: si limitano a salire silenziosi nella scalcinata roulotte backstage di un concerto di Dylan.

L'effetto spiazzamento è notevole: sembra una scena di allucinazione surreale tratta dal periodo di Desolation Row a metà anni '60, quando Dylan scriveva lunghissimi testi assurdi che facevano impazzire il traduttore Fabrizio De Andrè.

Il film, come molta produzione dylaniana, è tutto e niente. Rolling Stone ne è entusiasta, il New York Post gli ha dato zero. L'intera Hollywood, però, ha fatto a gara per apparire almeno con un cameo non pagato: Jessica Lange, Mickey Rourke, Penelope Cruz, Val Kilmer, Chris Penn, Ed Harris, Angela Bassett...

Il Luke Wilson di fama Tenenbaumiama interpreta la parte del fan stupido e devoto, John Goodman è un sudatissimo promoter truffatore, Jeff Bridges fa il solito giornalista rompiballe che infastidisce Dylan con domande tipo: "Dicci la vera ragione per cui non sei andato a Woodstock". 

Lui non può che rispondere col silenzio, come fa da quarant'anni. E nel film interpreta se stesso, cantante che esce di prigione e alla fine ci ritorna senza bene capire perchè, accusato di un delitto che non ha commesso. Docile, mingherlino e stralunato come nella realtà.

Nel '73 il regista Sam Peckimpah lo diresse in un memorabile western, Pat Garrett & Billy the Kid. La sua fu una semplice comparsata, ma compose un capolavoro per la colonna sonora: Knocking on Heaven's Door.

Saturday, August 09, 2003

Newsweek: Vacationing with Mr.B

Vacationing With Mr. B

By Mauro Suttora

Newsweek, August 18, 2003

link: original article on Newsweek

"What's new, Salvo?" My paparazzo friend is sipping caipiroska in a seaside cafe, watching the yachts anchored off Porto Cervo. The smallest is 40 meters. It's cocktail time, and he's taking a break from chasing celebs all day. "I got Gwyneth Paltrow on Valentino's boat. Liz Hurley, too. But I'm still looking for Eric Clapton. He should be at Peter Gabriel's villa."

There's no place like Sardinia's Costa Smeralda for stalking stars in summer. Marbella, St. Tropez? Not even close. "Tonight Roberto Cavalli is throwing the wildest party," Salvo informs me breathlessly.

 The Sultan of Brunei could be there, though probably not Silvio Berlusconi, Italy's prime minister. Among the world's richest men, he owns four villas in Costa Smeralda: one each for his mother, his brother, his eldest son and himself. Salvo's fondest dream is to snap Berlusconi on holiday, preferably with a woman other than his wife. The picture would be gold - not worth as much as Princess Diana and Dodi Fayed's first and last kiss here in 1997, but enough to make his season. My friend is practically salivating.

Casually, I mention that I'm vacationing with Mr. B - or rather with three of them, all oddly linked to the real Mr. B by no more than a degree of separation. Salvo looks confused. Berlusconi recently bought a fifth piece of land for a fifth villa, I explain. He got it from another Mr. B--the most powerful man on the Costa, Tom Barrack, a Californian descended from a Lebanese grocer. This second Mr. B also just paid $340 million for a chain of luxury hotels in Porto Cervo, including the sumptuous Cala di Volpe. "I'm having breakfast with him tomorrow."
As it turns out, Barrack is aiming to develop some virgin shoreline but fears being blocked by local zoning authorities, who didn't let even the Aga Khan (the famous bazillionaire playboy-prince who essentially founded the Costa Smeralda) build on the site when he once owned the land. Will they now let Barrack fire up his bulldozers? I bet they do.
The two Mr. B's are now friends, I tell Salvo, especially since Silvio gets his fifth villa. Tom, clearly a smooth operator, lavishes compliments on the P.M. "A Renaissance man," he calls Berlusconi. "He even composes love songs for his wife that he sings himself." Salvo looks downcast.

My third Mr. B to be vacationing in Sardinia this year is Gigi Buffon, the renowned goal-keeper for Juventus and the Italian national football team. This has been a fantastic year for Italy: we swept three out of the four first places in the European Champions League for the first time in history. The winner was AC Milan - Berlusconi's team, of course.
A pity that the football players who flock to the Costa in search of glamour and girls are not more appreciated. They aren't elegant enough for the habitues, who despise them as newcomer wanna-bes. And the sleek young women who prowl about in the snippiest of bikinis and evening dresses are mostly after bigger fish than footballers.

At the ultra-glam Yacht Club annual gala, filled with everyone from the president of Mercedes to the most powerful and secretive Swiss bankers, Salvo and I hoped again to come across Berlusconi. But no. Instead we teamed up with the young and rowdy football champions--and thus fell in with still another famous Mr. B.
This one is Flavio Briatore, the Formula One racing-team manager who owns the most expensive nightclub in Porto Cervo, aptly named Billionaire. The big news this season is that the potbellied playboy Briatore has switched girlfriends: from high-attitude model Naomi Campbell to, well, high-attitude model Heidi Klum. A point in his favor, Salvo agrees. We left Billionaire at 5 in the morning, the not-quite-risen sun lighting the sea a tender pinky-violet to the east. No doubt the real Mr. B was home in bed. With his wife.

Copyright 2003 Newsweek

Benjamin Franklin

BOOM DELLE BIOGRAFIE SUL PADRE DELLA NAZIONE

di Mauro Suttora

Il Foglio, 9 agosto 2003

New York. “Niente è sicuro nella vita, tranne la morte e le tasse”. Chi l’ha detto? Benjamin Franklin. Formidabile aforista, ma anche giornalista, editore, scienziato, imprenditore e soprattutto padre fondatore degli Stati Uniti. Assieme a Thomas Jefferson, George Washington e John Adams, certo, “ma lui è l’unico che 250 anni dopo ci sembra ancora in carne e ossa, e non di marmo”.
Parola di Walter Isaacson, presidente dell’Aspen Institute, già direttore della Cnn e del settimanale Time nonché fortunato autore dell’ultima biografia di Franklin (ne esce in media una all’anno), che è fulmineamente salita in sole cinque settimane al secondo posto dei bestseller Usa, superata solo da quella di Katharine Hepburn. Stracciata Hillary Clinton. 

Un successo incredibile, anche perchè non si stanno festeggiando particolari anniversari: l’inventore del parafulmine nacque nel 1706 e morì nel 1790. Pure nei paperbacks Franklin spopola: dopo appena tre settimane la biografia dell’anno scorso, scritta dal professore di storia di Yale Edmund Morgan, ha conquistato il settimo posto in edizione economica.

“Era il più moderno dei Founding fathers”: così spiega l’exploit lo storico Arthur Schlesinger. In un momento in cui l’America si interroga profondamente sul proprio ruolo e la propria essenza, a quasi due anni dall’11 settembre e dopo due guerre, la vita del “rivoluzionario riluttante” (come l’ha brillantemente definito Morgan) serve a capire l’attuale riluttanza a sobbarcarsi un ruolo imperiale. 

Perchè “Ben”, com’è familiarmente conosciuto Franklin, è stato soprattutto il portavoce della classe media: quella che nel 1770 era disposta a un onorevole compromesso con Londra invece di muoverle guerra, e che oggi si sente umiliata dal crollo delle pensioni della New economy, oltre che da quello delle due Torri. Osama, Saddam? Certo, pericolosi terroristi da eliminare. Ma, come ammoniva il filosofo pratico di Filadelfia, “un penny risparmiato è un penny guadagnato”. Perciò oggi l’impiegato, già nervoso perchè fatica a pagare l’università del figlio, comincia a irritarsi ascoltando le notizie dall’Iraq: un nostro ragazzo ammazzato ogni giorno, al costo di un miliardo di dollari ogni settimana.

Franklin è sempre stato schifato dai romantici, racconta Isaacson, per chè era il piccolo borghese fiero della propria aurea mediocrità che nel suo annuale “Almanacco del povero Richard” proclamava: “I grandi distruttori del genere umano sono tre: la peste, la carestia e l’eroe. Non eroi ma scienziati servono all’umanità”. 

Grande impresa, quella del calendario. Per ben 26 anni, fino al 1758, Franklin ne vendette diecimila all’anno. La Pennsylvania, dov’erano concentrati gli abbonati, aveva soltanto 50mila abitanti (600mila il totale delle colonie). Quindi, se si escludono gli schiavi e gli analfabeti (metà della popolazione), l’almanacco entrava in ogni famiglia, era letto da tutti, e si era imposto come il più importante strumento di (in)formazione in una società dove l’influenza della chiesa stava declinando.

Il geniale ventenne, che era anche editore-direttore della Pennsylvania Gazette, aveva insomma in mano l’opinione pubblica del proprio stato. E guadagnò tanti di quei soldi che a 42 anni si ritirò dagli affari per dedicare la seconda metà della propria vita alla scienza e alla politica. George Washington combattè la rivoluzione sui campi di battaglia, ma fu Franklin a permettergli di vincerrla andando a Parigi a farsi dare i soldi dai francesi. 
E fu anche l’unico a firmare tutti e quattro i documenti che segnarono la nascita degli Stati Uniti: la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, l’alleanza con la Francia due anni dopo, il trattato di pace con l’Inghilterra nell’82 e la Costituzione nell’87.

Il figlio di poveri immigrati, costretto a crescere in due stanze con tredici fratelli, finì a pranzo con tutti i re d’Europa. Voltaire lo abbracciò da pari a pari (“Oggi di fronte all’Academie Royale è come se si fossero incontrati Solone e Sofocle”, annotò Condorcet). Ma il poliedrico Franklin diresse anche un ufficio postale, fondò i pompieri di Filadelfia, escogitò l’assicurazione antincendio, inventò gli occhiali bifocali, organizzò il primo servizio di vigilantes e propose l’ora legale. 

Noi prendiamo in giro Silvio Berlusconi perchè si preoccupa dei fiori durante i summit (Genova 2001), ma il perfezionista Ben a Parigi fece di peggio (o meglio): giocò a scacchi con un amico nel bagno di madame Helvetius mentre lei assisteva nuda nella vasca, per ingraziarsi la ‘haute’ e far fuori il rivale Adams. Inguaribile burlone, a 75 anni preparò uno studio scientifico sull’emissione dei gas intestinali per l’Accademia reale di Bruxelles. Morì vecchio e felice. Max Weber lo disprezzò: “La sua etica si riduce al come far soldi”. L’America invece lo adora, e compra tutti i libri su di lui.
Mauro Suttora

Friday, August 01, 2003

Riapre l'ambasciata dell'Iraq a Roma

di Mauro Suttora, da New York

Il Foglio, 13 agosto 2003

La villona dell'ex ambasciata irachena a Roma è sempre lì, in quella invidiabile posizione a metà costa di Monte Mario, via della Camilluccia 355. Domattina, per la prima volta dopo la liberazione dell'Iraq più di quattro mesi fa, un rappresentante del nuovo governo (i 25 dirigenti iracheni del Consiglio nominato dalle Potenze occupanti) visiterà quella che è destinata a diventare una delle più importanti ambasciate irachene nel mondo. 

«Non c'è dubbio che, grazie alle scelte del vostro primo ministro, l'Italia sarà uno dei Paesi più vicini al nuovo Iraq», prevede Entifadh Qanbar, 44 anni, che raggiungiamo a Washington poco prima della sua partenza per Roma. Sarà lui a prendere conoscenza della situazione pratica dell'ambasciata: «Si tratta soltanto un'ispezione preliminare, vedremo se è rimasto ancora qualche ritratto di Saddam...», scherza Qambar.

Scherza, ma non troppo. Qambar, infatti, porta ancora sul proprio corpo i segni delle torture che gli aguzzini del regime gli inflissero nel 1987, durante i 47 giorni di prigionia che patì a Bagdad. Laureato in ingegneria civile, pilota militare per cinque anni, Qambar finì nella rete dei servizi segreti iracheni verso la fine della guerra contro l'Iran. Suo fratello e altri undici persone arrestate assieme a lui furono condannate a morte e fucilate. Lui riuscì a cavarsela e nel '90, poche settimane prima dell'invasione del Kuwait, scappò negli Stati Uniti. Ottenne l'asilo politico e da dieci anni è cittadino statunitense. 

La sua vicenda è stata raccontata da Kanan Makiya, architetto del Mit, uno dei più celebri fuoriusciti iracheni, nel terzo capitolo del libro "Crudeltà e silenzio", pubblicato nel '93. Anche nel libro, però, il vero nome di Qambar non appare: per evitargli ritorsioni da parte delle spie di Saddam attivissime anche all'estero, Makiya lo cambiò in Omar.

Oggi è arrivata la rivincita. Dopo un master in ingegneria ottenuto all'università Georgetech di Atlanta (Georgia), Qambar ha cominciato a collaborare con Ahmed Chalabi, il capo dell'Iraqi National Congress. Nel novembre 2000 si è trasferito da Atlanta a Washington, ha abbandonato il lavoro ed è diventato portavoce a tempo pieno di Chalabi. Nel marzo di quest'anno è andato a Doha (Qatar) come ufficiale di collegamento fra il Centcom del generale Tommy Franks e l'Iraqi National Congress. 

"Dopo la liberazione mi sono trasferito a Bagdad. Ho accompagnato Chalabi a Roma il 17 luglio per una riunione dell'Internazionale socialista, poi a New York per il suo incontro al Consiglio di sicurezza dell'Onu. E adesso, tornando a Bagdad, farò tappa a Roma per visitare l'ambasciata. Poi spero di ottenere un passaggio su un aereo militare italiano verso l'Iraq, come ho fatto all'andata».

La «liberazione» dell'ambasciata irachena a Roma non avrà niente di dannunziano, insomma. Però sicuramente almeno quattro persone proveranno il brivido della novità: Faris Ali Al Shoker, primo segretario e console della Sezione per la tutela degli interessi iracheni in Italia dal 2000, l'altro diplomatico Karim Kadhim Aagol e le signore Ayad Mahmoud ed Eman Amjad Mohammed. Sono sopravvissuti alla guerra e al cambio di regime, anche se lo status dell'ambasciata era stato da tempo retrocesso a semplice Ufficio ospitato presso la rappresentanza del Sudan. 

«Fino all'anno scorso la sede della nostra ambasciata ospitava una scuola araba aperta non solo agli iracheni», spiega al Foglio Al Shoker, «poi abbiamo dovuto chiudere anche quella. Si', so che domani arriverà un rappresentante del nuovo governo, anche se non l'ho ancora sentito al telefono. Io sono in partenza, sono stato richiamato a Bagdad come tutto il personale diplomatico iracheno. Ma il nostro ministero degli Esteri ha sempre continuato a funzionare, gli stipendi sono regolarmente arrivati, anche se noi non possiamo svolgere alcuna attività per i cittadini iracheni residenti in Italia».
L'ambasciatore in Italia verrà nominato appena il nuovo governo iracheno sarà riconosciuto, e si saprà il nome del ministro degli Esteri. «A settembre», spera Qambar.
Mauro Suttora

Sunday, July 06, 2003

Singing the Internationale

By Mauro Suttora

Newsweek

July 14, 2003

Communism in Europe collapsed 14 years ago, so I had to come to America to experience a real Marxist class struggle. In February a wealthy businessman bought the building where I live in Manhattan, along with a dozen others. Having spent $109 million, he now wants to maximize his profit. So he’s raising rents and trying to evict people. Also, he’s making a big fuss with the doormen. “I used to get $16 an hour,” complains Danilo Rodriguez from Puerto Rico, who covers the afternoon shift in my lobby on West End Avenue. “But he got rid of the pension benefits and the health insurance, so now I make only $10.”

My native Italy has the largest Communist Party in the West, and we are accustomed to powerful unions, labor strife and strikes. All I knew about the American variant was Joan Baez singing “Joe Hill” at Woodstock and Ronald Reagan screwing the air-traffic controllers. Never did I imagine that I, too, would soon be involved. Yet one day a sheet of paper slid under my door announcing a secret meeting in apartment 12C. “We gotta be united,” tenants admonished one another. This from folks who, before, hardly said hello in the elevator.

At first I was mystified by all the talk of “condoms.” Then I found out the word was “condos,” and that the landlord would be selling off the rentals as “owner-occupied apartments” - for big money, of course. To “protect our rights,” my fellow tenants hired a lawyer for the (to me) incredible sum of $13,000. Being an individualist, I refused to pay my $300 share. Why waste money against a phantom who hadn’t yet done anything against us?

The phantom finally showed up. His company’s name: Acquisition America. “He doesn’t even try to sound nice,” commented someone at the next meeting. So now we are all mobilized, Sacco and Vanzetti style, with aggressive direct actions unimaginable even in Italy. There’s a big, funny, gray inflatable rat at the front door - you get the symbolism - and there was the “picnic,” in reality a sit-in, one Sunday in front of the landlord’s mansion on Long Island. “To let his neighbors know” was our rationale. (Given the Gatsbyesque proportions of the estate, I doubted any of his “neighbors” could even see us.) This got much play in the New York press and soon unions, state senators, assemblymen and city councilmen were inviting me to raucous gatherings where the slogan is: “Tenants and workers united is our strength.” Am I living in the post-Reaganite wild West of capitalism, as my European friends think, or the last frontier of Sovietism?

Here, unions and laws (stabilizing and controlling) protect my rent. Thank you, but I’m skeptical that my rich company, which foots the bill, should pay $1,000 a month less than most individuals. And if the building goes coop, there will presumably be a board like so many others in New York. They have the power to keep you from owning pets, smoking in your apartment or inviting into your home whomever you please. Perhaps we should post one of those fat old babushkas in the lobby, just as in old Moscow.

There’s also an interesting ideological flavor to this struggle. Our new landlord happens to be a big shot in the Democratic Party, which puts him at odds with various other politicians from the same party who protect us. Discovering that he also has a big rug business, they question his possible exploitation of Third World labor. By contrast, we renters have developed a multiethnic solidarity with the African-American tenants of the owner’s Harlem buildings. Like any good communists, we are internationalists, too, and have forged alliances with our Latino and Montenegro doormen. The fight goes on, and on.

© 2003 Newsweek, Inc.

Friday, May 30, 2003

Onu/5: lo scandalo Oil for Food

DAL PALAZZO DI VETRO ESCE ALLO SCOPERTO LO SCANDALO MAZZETTARO "PETROLIO IN CAMBIO DI CIBO": ECCO PERCHE' FRANCIA E RUSSIA HANNO CHINATO LA TESTA A USA E GB.

Mauro Suttora per Il Foglio

da New York, 30 maggio 2003

Come mai francesi e russi hanno chinato così docilmente la testa? Dopo la fine della guerra contro Saddam Hussein, Parigi e Mosca avevano negato per un mese e mezzo a Stati Uniti e Gran Bretagna ogni legittimazione Onu sull'Iraq occupato. La risoluzione approvata il 22 maggio, invece, non solo ha cancellato le sanzioni contro Baghdad, ma ha anche affidato il controllo del petrolio iracheno alle potenze vincitrici, ponendo fine al programma "Oil for Food" gestito dalle Nazioni Unite.

L'Oip (Office of the Iraq Program), nato nel 1997 e guidato a New York dal cipriota Benon Sevan, chiuderà entro sei mesi. Il miliardo di dollari che gli rimane in cassa andrà al nuovo Idf (Iraq Development Fund), e i contratti ancora aperti saranno rivisti. Il loro valore ammonta a dieci miliardi di dollari, di cui quasi la metà con società russe e francesi (3,7 miliardi le prime, un miliardo le seconde).

Seguono società giordane, egiziane e turche, coinvolte solo per ragioni di prossimità geografica. Durante i sei anni del programma le società russe hanno incassato in totale 7,3 miliardi di business. Secondo l'Egitto con 4,3 miliardi, poi la Francia con 3,7, quindi Giordania, Emirati Arabi e Cina con tre miliardi ciascuna. La Gran Bretagna ha avuto contratti per soli 200 milioni di dollari, quasi tutti nel settore sanitario.

L'ammissione: "Tutti lo sapevano"

L'imbarazzo che ha indebolito l'opposizione franco-russa alla risoluzione Onu, fino a liquefarla, deriva dalle rivelazioni delle ultime settimane: le Nazioni Unite avevano tollerato tangenti per miliardi di dollari a Saddam e ai suoi gerarchi. Così, mentre per dieci anni no global e "pacifisti" di tutto il mondo strillavano di bimbi iracheni che sarebbero stati affamati e uccisi dalle sanzioni, i soldi che dovevano sfamarli e curarli venivano intascati dal dittatore e dalla sua famiglia: "Tutti lo sapevano - ammette oggi perfino Sevan - e quelli che erano nella posizione di poter fare qualcosa non hanno fatto nulla. Io stesso non avevo i poteri necessari".

Secondo il programma Oil for Food tutti gli introiti della vendita del petrolio iracheno sarebbero dovuti confluire sul conto bancario Onu gestito dalla Banque Nazionale de Paris, per poi essere utilizzati in acquisti di derrate alimentari e attrezzature umanitarie. Invece le società estere prima pagavano Saddam e i suoi figli per ottenere i contratti, poi versavano loro tangenti fisse sul valore del grezzo estratto. La quota era di 15-25 cent al barile, che in alcuni casi salivano fino a 75 cent. Mezzo miliardo di dollari all'anno, per un totale di tre miliardi.

"Scoprimmo presto che dovevamo 'ungere' parecchia gente", denuncia l'uomo d'affari britannico Swara Khadir, "conservo ancora i documenti iracheni con le istruzioni su come depositare le tangenti in conti bancari giordani e svizzeri. I dirigenti iracheni non dovevano neppure fare la fatica di nascondere la propria corruzione, perché tanto i funzionari dell'Onu facevano finta di non vedere".

Un intermediario petrolifero russo si lamentò con l'Onu per aver dovuto pagare 60 mila dollari a Uday Hussein, figlio di Saddam, senza aver poi ottenuto il contratto: la somma fu versata in una banca di Amman, su un conto privato di Uday, i documenti furono inviati all'Onu, ma il Consiglio di sicurezza non ne tenne mai conto. Anche perché, incredibilmente, proprio le Nazioni Unite avevano affidato all'Iraq, e non ai propri amministratori, il compito di selezionare le società partecipanti al programma Oil for Food.

"Ovviamente molte di queste erano sospette - spiega John Fawcett, consulente della Brookings Institution per i diritti umani - si andava dalla mafia al terrorismo al riciclaggio di denaro sporco, fino a chiunque volesse fare un po' di soldi in fretta. Due società avevano soltanto un ufficio di facciata nel Liechtenstein". Come ha potuto l'Onu non accorgersi di questo verminaio? "Non siamo l'Fbi, il nostro non è un ufficio investigativo", si giustifica Sevan.

Quando le inchieste si fanno, sono dolori

Quando le inchieste si fanno, per le Nazioni Unite sono dolori. La settimana scorsa un rapporto del General Accounting Office (Gao) al Congresso americano ha rivelato che milioni di donne e bambini, cioè l'80 per cento dei venti milioni di profughi censiti nel mondo, finiscono in campi dove gli abusi sessuali sono diffusissimi: "L'Onu non fa abbastanza per controllare la situazione e addestrare il proprio personale", accusa il Gao, braccio investigativo del Congresso Usa. Vengono citati in particolare i campi profughi di Birmania, Congo e Liberia.

Attenzione: a puntare il dito non è l'amministrazione Bush, ma un convinto multilateralista e sostenitore dell'Onu come il senatore Joe Biden, massima autorità del partito democratico in fatto di politica estera (è capogruppo della commissione Esteri): "Donne e bambine, dopo aver sofferto le ingiurie della guerra e dei disastri naturali ed essere state costrette a fuggire dalle proprie case, finiscono in campi dove invece di essere protette vengono brutalizzate e qualche volta violentate". Per questo Biden ha proposto che gli Stati Uniti stanzino 90 milioni di dollari nei prossimi due anni per rendere sicuri i campi dei rifugiati e addestrare il personale.

Le stesse Nazioni Unite, in una loro inchiesta del 2001, avevano ammesso che lo sfruttamento sessuale dei profughi da parte di alcuni dei propri dipendenti era "un problema serio". Ciononostante, i dirigenti dell'Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), guidata dall'ex premier olandese Ruud Lubbers, hanno dichiarato agli investigatori del Gao di non considerare necessari cambiamenti radicali: l'agenzia non nega l'esistenza del problema, ma assicura di avere già compiuto un significativo sforzo che "mira specificatamente a migliorare la capacità da parte del nostro staff di prevenire e rispondere alla violenza sessuale". La replica del Gao è drastica: "Mezze misure e cambiamenti parziali non risolveranno nulla".

Come quasi sempre capita quando un'agenzia Onu è accusata di inefficienza, si sollecitano nuovi finanziamenti piangendo miseria. L'anno scorso l'Unhcr ha dovuto tagliare il proprio bilancio (di 730 milioni di dollari annui) del 10 per cento, perché alcuni paesi non hanno versato le cifre promesse. Non è questo il caso dei tanto deprecati Stati Uniti, che hanno contribuito per 265 milioni di dollari, circa un terzo del bilancio.

La verità è che il problema, più che nei fondi, sta nella loro distribuzione: l'Onu non manda i propri funzionari dove ce n'è più bisogno. Per esempio, soltanto il quattro per cento dei profughi sono in Europa, ma il 22 per cento del personale è stanziato qui, in uffici relativamente comodi. Viceversa, l'Africa "produce" l'80 per cento dei rifugiati, ma soltanto il 55 per cento del personale dell'agenzia Onu lavora sul campo in quel continente disagiato.

"Tutti gli esperti di assistenza internazionale - accusa il Gao - spiegano invece che una presenza visibile di dirigenti in loco è il deterrente più efficace contro gli abusi". Anche l'Organizzazione non governativa Save the Children ha pubblicato questo mese un rapporto in cui chiede più sicurezza per donne e bambini nei campi profughi.

Per la verità, la sicurezza nell'Onu manca perfino attorno al Consiglio di sicurezza. Un fatto increscioso è infatti accaduto pochi giorni fa nel Palazzo di Vetro. Un episodio piccolo, ma incredibile proprio per essere avvenuto nella sede dell'Onu, e per di più negli stessi giorni in cui il mondo assisteva ai saccheggi nelle strade di Baghdad. "Non credevo ai miei occhi: una folla di persone si è impadronita di qualsiasi cosa capitasse sottomano, fino a lasciare la sala completamente vuota", ha raccontato un testimone, non dall'Iraq ma dalla sede delle Nazioni Unite.

E' successo questo: la società Restaurant Associates ha perso la gara d'appalto per i cinque ristoranti, mense e bar interni dell'Onu che gestiva da 17 anni. Nell'ultimo giorno di servizio prima del subentro della nuova società il sindacato ha proclamato uno sciopero "selvaggio", per la mancata corresponsione dell'indennità di licenziamento ad alcuni dipendenti. Così a mezzogiorno, improvvisamente, tutto il personale dei ristoranti ha smesso di lavorare. Il segretario generale Kofi Annan aveva già convocato per l'una in una sala privata un pranzo di lavoro con i 15 membri del Consiglio di sicurezza, che ha quindi dovuto svolgersi a self service, senza camerieri (solo alcuni si sono offerti, per pura cortesia, di servire il caffè).

Sparite anche le suppellettili e l'argenteria

Frattanto la grande "cafeteria", che serve 5 mila pasti al giorno al personale Onu, era rimasta incustodita. E si è verificata una razzia colossale: tutti si sono serviti gratis delle porzioni del giorno (polli, insalate, tacchini, soufflé), ma sono sparite anche tutte le suppellettili, fra cui vassoi e posate d'argento. Stesse scene allo snack-bar "Viennese cafè", nel centro conferenze e nell'elegante sala da pranzo dei delegati, proprio accanto a quella dove Kofi stava mangiando.

Poi ai saccheggiatori è venuta sete. Perché non servirsi gratis al bar? Lì è stato beccato un diplomatico statunitense che, alla domanda su quanto avesse bevuto, ha risposto: "Non so, ho smesso di contare le bottiglie". Un rappresentante della nuova ditta appaltatrice, Aramark, ha valutato in 9 mila dollari il valore dei furti nella sola cafeteria, argenti esclusi. Molti frigobar privati negli uffici del palazzo, invece, rigurgitano. I guardiani Onu che avrebbero dovuto sorvegliare le sale si sono comportati come i Caschi blu in questi giorni nel Congo, o nel '95 a Srebrenica: inerti.

Mauro Suttora

Monday, May 19, 2003

On the Trail of Il Duce

Newsweek

Articolo originale sul sito di Newsweek

May 19, 2003, Atlantic Edition

Letter From America: On the Trail of Il Duce

By Mauro Suttora

I had come to Phoenix, among the Arizona saguaros and 6,000 miles from home, to look for one of my country's best-kept secrets. And here he is, watering the flowers outside his motor home, a tall and handsome man of 61, living on unemployment benefits. He greets me with a sad smile full of dignity. Ferdinando Petacci is the last living heir of Clara Petacci, who in April 1945 chose to be shot together with her lover, Benito Mussolini, the Italian dictator. Their corpses were then hung upside down in a Milan square.

In Italy, only Gypsies live in motor homes. But in America, going on the road, losing oneself, is commonplace. This man could be a millionaire, if the Italian government gave him back his aunt's diaries and the thousands of letters Mussolini sent her during their 12-year romance. Long ago the minders of state secrets told him he could have them in 50 years. Then in 1995 they invented a new law that would keep them out of his (and the public's) hands until 2015. He wonders, "Why are they so afraid?"

Ferdinando was just 3, fleeing with all his family in an Alfa Romeo along Lake Como, when the communist partisans caught them. His father, one of Mussolini's entourage, was executed on the spot, along with his aunt who asked to share Il Duce's fate. His mother was raped for days on end; his older brother never overcame the shock and died young. Ferdinando himself made a brilliant career as an executive in a French multinational in Europe and South America. He moved to the United States with his sons, divorced, set up a catering service in California, then slipped onto a downward path. He lost his last job in a restaurant in Colorado a few months ago.

Ferdinando's trailer is equipped with computer, phone, fax, e-mail. He is in constant contact with his Italian lawyer. Aunt Clara became Mussolini's political confidante during his last years, he explains. Many historians believe that his letters and her diary could contain proof of the contacts between the fascist dictator and Winston Churchill in 1944. The British prime minister allegedly tried to persuade Mussolini to accept a separate peace, in exchange for a truce on the southern front, and even to encourage Hitler to throw all his forces against the Russians.

Fantasies from a dead-end place in the American desert? Perhaps not. Ferdinando shows me a documentary by the History Channel, outlining this very hypothesis. Another suggests that Il Duce, leaving Milan hours before the Americans arrived, took with him in a leather bag the documents proving his contacts with Churchill. Apparently he thought they might save his life. On the contrary, Ferdinando tells me, they may have condemned him to immediate death instead of a public trial. Some historians speculate that he was shot in haste by British agents to neutralize his last blackmail. And Clara Petacci was executed because she knew, too.

My head is spinning. It' s too hot in this motor home. I go back to my hotel, past the luxurious Scottsdale golf courses, and spend the night reading two or three history books, as thrilling as spy stories. I learn that Churchill went for holidays in the summer of 1945 to... guess where? Lake Como. To paint, of course. But was he also looking for a leather bag?

Not long ago, news arrived from Italy. The government at long last had decided to release the first year of the secret Petacci papers. But lo, they could not be found. The director of the state archives blamed theft. Poor Ferdinando. Maybe he had better find a job, sell the motor home, settle down. Perhaps in Las Vegas. The infamous Alfa Romeo has wound up in a casino there.

Copyright 2003 Newsweek

Saturday, May 10, 2003

Paolo Mieli sull'Onu

Corriere della Sera, 10 maggio 2003

Boutros-Ghali e la democratizzazione dell' Onu

LETTERE AL CORRIERE
risponde Paolo Mieli

È trascorso un mese dalla vittoria degli americani a Bagdad e sono reduce dalla lettura sul Corriere degli ottimi servizi di Francesco Battistini e Guido Olimpio dedicati alla ricorrenza. Olimpio scrive che al momento gli Usa hanno rimesso in piedi il ministero del Petrolio, cercano di riattivare quello degli Esteri e puntano a ristabilire l' ordine con la polizia locale; stanno tornando a galla - come si temeva - i famigerati dirigenti del partito Baath e il generale Jay Garner, che pure ha indicato i cinque gruppi iracheni con i requisiti per formare il governo provvisorio, si è trovato di fatto commissariato dalla nomina di Paul Bremer a capo della amministrazione civile. Ma dove è finita l'Onu?

Emilio Galli Milano

Caro signor Galli,
ho scritto più volte che, secondo me, per un' infinità di motivi le Nazioni Unite dovrebbero avere un ruolo più che importante nella ricostruzione democratica dell' Iraq. Anche per questo ho fatto un salto sulla sedia quando ho letto che Richard Perle, autorevole membro del Defense Policy Board dell' Amministrazione Bush, ha scritto sul Guardian: «Ringraziamo Dio per la morte delle Nazioni Unite». Una battuta di cattivo gusto.
Però in tutta franchezza devo aggiungere che mi aspetto che l' Onu faccia dei passi che segnalino una discontinuità dal passato e un suo essere all' altezza dei compiti che le persone come lei e me vorrebbero vederle attribuite. Che tipo di discontinuità?

In una serie di articoli requisitoria contro l' Onu pubblicati sul Foglio, Mauro Suttora è tornato sulla «criminale omissione di intervento nel 1995 dei soldati Onu che provocò - fra le altre - la strage di Srebrenica, settemila morti» per sottolineare il fatto che «un governo è caduto in Olanda per le responsabilità di un comandante olandese nella città della ex Jugoslavia, ma nessun dirigente Onu ha avuto problemi con la propria carriera». È un fatto, purtroppo.

Così come è un fatto che «funzionari per l' Alto commissariato Onu per i diritti umani a Sarajevo - prosegue Suttora - furono coinvolti nel traffico di donne (anche minorenni) fatte prostituire contro la loro volontà e l' imbarazzante episodio venne salomonicamente risolto rispedendo a casa sia gli accusati, sia gli accusatori». A Nairobi c' è stata un po' più di giustizia: quattro funzionari della Commissione Onu per i rifugiati sono stati arrestati per aver organizzato una sorta di programma «Sex for food»; nei campi africani dove erano raccolti i fuggiaschi dalle stragi in Ruanda - avvenute sotto l' occhio distratto delle Nazioni Unite - donne e bambine erano costrette a offrire prestazioni sessuali in cambio della loro razione di cibo. Sì, l' Onu purtroppo è stata anche questo.

C'è poi un problema di rappresentatività. Sergio Romano ha denunciato di recente su queste colonne come sia assurdo che il voto dell' India valga come quello di Malta, che il Brasile pesi come una qualsiasi isola dei Caraibi e l' arma del veto resti quasi per diritto divino «nelle mani di cinque Paesi che vinsero la guerra, sessant' anni fa, con un' alleanza di cui constatammo rapidamente la fragilità». E ha proposto di introdurre il criterio delle maggioranze ponderate che tengano conto - per ogni Paese - del peso demografico, del prodotto interno lordo, dell' impegno assistenziale per i Paesi poveri, del livello culturale e scientifico, della quota di partecipazione al commercio mondiale. Sono del tutto d' accordo.

Mi limiterei ad aggiungere tra ciò che dovrebbe rientrare nella valutazione il «tasso di democrazia», cioè di libertà di espressione, culto, organizzazione politica, voto così da invogliare le leadership dei Paesi del Terzo mondo ad «acquisire punti» offrendo garanzie e tutele ai loro popoli.

L' ottantenne Boutros Boutros-Ghali, egiziano, segretario generale dell' Onu nei primi anni Novanta, ha testé ripreso in mano una battaglia che iniziò nel ' 92 per un vincolo più stretto tra Nazioni Unite e il concetto di democrazia. Ecco, mi piacerebbe che il suo successore Kofi Annan gli desse ascolto.

Paolo Mieli

Botte da radicali

Il segretario Olivier Dupuis se ne va

"Botte da radicali, un partito eccessivo nel bene e pure nelle liti"

Il Foglio, 10 maggio 2003

di Mauro Suttora

Anche in questi giorni, come sempre, i radicali stanno facendo un sacco di cose affascinanti. Emma Bonino entusiasma le donne yemenite che è andata a difendere, e scrive bei reportages per il Corsera. Marco Pannella incontra il governatore dell'Illinois che ha graziato 167 condannati a morte e incassa il sÏ del governo Berlusconi alla moratoria sulla pena capitale all'Onu. A Torino i due consiglieri regionali, Carmelo Palma e Bruno Mellano, presentano con il segretario del partito Olivier Dupuis un piano per la pace in Cecenia firmato da André Glucksmann, Daniel Cohn-Bendit e Elena Bonner Sacharov.

La presidente del partito Rita Bernardini passa la notte con agli extracomunitari davanti alla questura di Roma per capire le ragioni delle interminabili attese che vengono loro inflitte. L'eurodeputato Benedetto Della Vedova denuncia in un convegno che "la cultura degli enti privati diventa prefettizia". A Firenze Massimo Lensi presenta il suo libro sui diritti umani in Laos. A Bruxelles Marco Cappato si batte per la privacy nel mondo dei computer, e Maurizio Turco manda a Valéry Giscard d'Estaing le firme di 233 eurodeputati che chiedono laicità nella Costituzione Ue.

Da New York Marco Perduca denuncia che in Afghanistan la superficie coltivata a papavero per oppio è triplicata. Luca Coscioni convince Margherita Hack ad aderire alla sua associazione per la libertà scientifica, e 1.115 scienziati firmano l'appello per la clonazione terapeutica. Nei ritagli di tempo, poi, i radicali organizzano "maratone oratorie" per i dissidenti cubani, raccolgono firme per i montagnards vietnamiti, appoggiano i Falun gong cinesi e auspicano un'amministrazione Onu in Iraq.

Questa settimana, però, i militanti gandhiani hanno anche litigato fra loro. E non se la sono mandata a dire: come sempre, da perfetti libertari, hanno lavato i propri panni sporchi in pubblico. Sul loro sito internet, www.radicali.it, tutti possono seguire un gustoso psicodramma che surclassa Broadway.

Non capita tutti i giorni che il numero uno di un partito (il segretario "transnazionale" Dupuis) si dimetta sbattendo la porta, che il numero due (Daniele Capezzone, il segretario italiano) lo accusi di dire solo menzogne, e che il capo supremo lo tratti da oligofrenico. Dupuis scrive a Pannella una lettera di nove pagine per respingere "i tuoi tentativi di accreditare una lettura personale e psicologica (quando non psichiatrica) del mio disagio. E' escluso che la carica di segretario possa essere ricoperta da uno che tu consideri una via di mezzo fra un mascalzone e un mentitore recidivo".

I motivi della rottura? "Non ho la disponibilità delle risorse interne", lamenta Dupuis, "nessuna capacità effettiva di spesa, di gestire gli indirizzari, alcun effettivo potere. Ormai la mia carica serve solo per consentire a te di esercitare un controllo assoluto e irresponsabile. Non accetto di dovere rispondere io di quanto fai tu. Conosco la ferocia di cui puoi essere capace. Sei "dominus" di una organizzazione carismatica. La tua gestione della 'campagna Iraq' è stata segnata dall'esclusione di ogni momento di reale dibattito politico, e da un ricorso costante e parossistico all'imputazione di responsabilit‡ tecnico-organizzative. Si è parlato più di mailing che di scelte politiche, più di "volumi" che del significato di questa iniziativa".
E sulla Cecenia: "Falla tu una proposta che non serva solo a passare sul Tg1 e a esibire Umar Khambiev (ministro del governo ceceno in esilio iscritto al Pr, ndr) come una madonna pellegrina nella prossima campagna elettorale".

Pannella ha risposto on line dopo appena mezz'ora: "La mia è una critica ferma del segretario nell'esercizio delle sue funzioni, mentre da parte di Olivier v'è una vera e propria eruzione di giudizi che riguardano - in modo toccante - la confessione di avermi conosciuto per quale effettivamente sarei solamente dopo 22 anni di sua presenza nel Pr, otto di sua massima responsabilità politica, e sette da europarlamentare".

Un altro motivo di dissidio fra i radicali - ma questo tutto ideologico - riguarda la recente infatuazione di Capezzone nei confronti dei neo-con statunitensi. Da vent'anni Pannella e Bonino predicano il diritto di ingerenza umanitario e "democratico" contro le dittature, ma molti dirigenti storcono il naso nei confronti di quello che giudicano un eccessivo appiattimento sulle posizioni dell'amministrazione Bush, di pensatoi come l'American Enterprise Institute e di personaggi come Paul Wolfowitz.

Mauro Suttora