Saturday, February 25, 2006

Cin Cin, Cipriani

by Mauro Suttora

The New York Observer, February 25, 2006

 

Want to go to Cipriani?"

"Which one?"

"Downtown."

"Girls too flashy and young with men too old and ugly… I prefer the Cipriani on 59th Street."

"But that’s closed for renovation."

"A real pity."

My American girlfriend Marsha loves Cipriani, as long as it’s uptown. After she comes to pick me up at the Rizzoli bookstore on West 57th Street, she takes the so-called Bergdorf shortcut: enters on 57th Street, and gets out on Fifth Avenue. Sixty seconds, enough to lift her mood before crossing the Avenue to the restaurant.

I fancy everything Cipriani. It makes me proud of being Italian. "Ciprianesque" has become a new word in the American dictionary, meaning a peculiar kind of 21st century "dolce vita" happening at the eight restaurants and gala halls that Arrigo (Harry) Cipriani and his son Giuseppe own in Manhattan.

At 72, Harry is more New Yorker than Venetian. The legendary Harry’s Bar his father opened in Venice just off St. Mark’s square in 1931 - with clients such as Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles and Peggy Guggenheim - is the only one he keeps in Italy, together with Harry’s Dolci. Cipriani is today a $150 million world empire, with Hong Kong and Sardinia offspring.

But "nemo propheta in patria", no one is a prophet in his own land, and Cipriani senior is more revered in New York than in Venice: this year his city has turned down his mayoral candidacy, drowning in the usual parochial squabbles ("Baruffe chiozzotte", named them playwright Carlo Goldoni). No "doge" Cipriani, then: just emperor of the main industry (food and entertainment) of the main city in the world. Because a big slice of the Big Apple’s night life, twenty years exactly after they arrived in Manhattan, now belongs to them.With Le Cirque and the Plaza gone, more galas are flocking to their locations: the Rainbow Room on top of the Rockefeller Center, Cipriani 42, Dolci at Grand Central Station, the new Cipriani 23 in Madison Square, and Cipriani Wall Street (the former Regent Hotel), where they hold benefit concerts by Rod Stewart, Sheryl Crow or Beyonce with De Grisogono jeweler, and sell residence condos upstairs with the Witkoff Group, which is also their partner in the grandiose project of turning Pier 57 at 15th Street into the largest gala hall in America.

The "Ciprianesque crowd" is made up of glamorous girls and tanned men, simultaneously envied and despised by the old-money New York establishment. But this is not Cipriani’s only contribution to modern world vocabulary: Bellini (the cocktail) and Carpaccio (sliced raw beef), the two staples on their menus, are three-quarters-of-a-century-old.
"Did you copyright them?" I ask Harry Cipriani.

"Why should I?" replies the old libertarian, who hasn’t even bothered to secure the property of the name "Harry’s Bar" - so that the one in Florence pays royalties to the Paris one, and also the one in London has nothing to do with him.

"We are not jealous and have no secrets: we are even selling to the public our Bellini peach juice in cans."
It’s easy to obtain the classic Cipriani recipe: just add one part of prosecco (the sparkling Italian white wine) to three parts of the base juice, plus three ice cubes.

Harry is open to innovation, though, and he himself suggests variations: "Try ‘Sweet Emy’ with gin replacing prosecco and an orange slice, or ‘Sweet Maggie’ as an after-dinner with rum and a mint leaf, or ‘Sweet Annie’ with vodka".

And everybody knows the other Italian operatic "inis" born in the wake of Bellini: Puccini with tangerine instead than peach, and Rossini with strawberry. I even met a "Strawbellini" once...

Whatever the drinks and the food, Cipriani serves them exactly the same way all over the world: his tables are always low, the wooden chairs as uncomfortable as in Venice, and the cutlery smaller than normal. Even glasses are scaled down: "My father wanted them like that, to please the customer, and I didn’t change anything," says Harry, who got a law degree, has written five books and is a karate black belt. He could have practiced a few months ago, when a group of leftist no-globals stormed into Venice’s Harry’s Bar, ate a hefty meal and disappeared without paying, leaving a note: "Charge NATO. No war in Iraq." Cipriani made the news because, in a bout of anger, he declared that his absent-minded waiters would have to pay the bill. After a few minutes he pardoned them.

He is still angry, though, with some restaurant critics: "Come back without a condom on your tongue," he replied to a bad review in the New York Magazine. And to the London Zagat guide, which has accused his London restaurant of being "good only for tea," he retorts: "After your put-down, I am serving 400 meals a day: please go on..."

Please Marsha, leave your Upper East Side fief and come to West Broadway: let’s enjoy life at Cipriani Downtown.

Mauro Suttora is the U.S. bureau chief of Milan's weekly magazine, Oggi and a New York Observer columnist. 

Friday, February 17, 2006

Intervista a Turki

A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA

Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3

New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”

Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.

Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”

L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.

Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.

L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”

Mauro Suttora

Condi: 75 milioni per l'Iran

PER IL REGIME CHANGE NONVIOLENTO DEI MULLAH

Il Foglio, venerdi 17 febbraio 2006

New York. Michael Ledeen ha vinto. L’esponente neoconservatore che da anni si batte per aiutare di più l’opposizione democratica in Iran ha viste infine accolte le sue proposte da Condi Rice: “Intraprendiamo un nuovo sforzo per assecondare le aspirazioni del popolo iraniano”, ha detto il segretario di Stato al Senato, “e utilizzeremo 85 milioni di dollari nello sviluppo di reti per i riformatori, i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani”.

Si tratta di una svolta storica. L’anno scorso gli Stati Uniti avevano stanziato soltanto tre milioni e mezzo di dollari per iniziative di pressione nonviolenta in Iran. Per quest’anno la cifra era triplicata a dieci milioni. Ma a questo punto il dipartimento di Stato sembra puntare tutto su questo tipo di opzione, ed ha aumentato geometricamente i fondi. La maggior parte, 50 milioni, verranno spesi per potenziare le trasmissioni in lingua farsi di alcune tv e radio via satellite basate a Los Angeles. Condi Rice ha annunciato partnership con canali privati, che trasmettono soprattutto musica, ma anche un ampliamento a 24 ore su 24 delle trasmissioni in Iran di Voice of America e radio Farda.

Ai sindacati iraniani, ai dissidenti e alle Ong (Organizzazioni non governative) per i diritti umani andranno 25 milioni. Passeranno soprattutto attraverso la Ned (National endowment for democracy), l’organizzazione parastatale bipartisan Usa che promuove la democrazia nel mondo, finanziando movimenti d’opposizione. All’attivo della Ned ci sono i successi delle transizioni democratiche in Serbia, Georgia e Ucraina. Meno fortuna stanno avendo i programmi ad Haiti.

I dirigenti del dipartimento di Stato però non intendono ripetere gli stessi errori compiuti con l’Iraq, dove gli Stati Uniti si erano affidati a personaggi della diaspora senza un reale seguito in patria, come Ahmed Chalabi. Pochi fondi andranno quindi ai monarchici iraniani, che vorrebbero reinstallare al potere la famiglia dello scià cacciato nel ‘79 da Ruhollah Khomeini. E proprio all’intervento statunitense del ‘53 contro Mossadeq e in favore di Reza Pahlavi fa ossessivo riferimento la propaganda degli ayatollah, che accusa Washington di indebita interferenza negli affari interni di uno stato sovrano.

Cinque milioni di dollari vengono stanziati per rianimare programmi di scambio e borse di studio in favore dei giovani iraniani che vogliono recarsi in America, congelati da un quarto di secolo. Verranno ripristinati massicciamente anche gli inviti a studiosi, scienziati e intellettuali di Teheran per partecipare a conferenze e seminari negli Stati Uniti. Una delle conseguenze non volute e controproducenti dell’embargo economico, infatti, è l’estrema difficoltà per ottenere visti, peggiorata dopo l’11 settembre 2001. Cinque milioni, infine, andranno al potenziamento dei siti internet.

“E’ la mossa giusta da fare in questo momento”, applaude il senatore repubblicano del Kansas Sam Brownback, che aveva chiesto cento milioni per promuovere la democrazia in Iran. Alcuni attivisti iraniani avevano criticato l’amministrazione Bush per la mancanza di aiuti, ma Brownback difende le scelte di questi anni: “Stiamo combattendo il terrorismo con metodo: prima l’Afghanistan, poi l’Iraq, e adesso ci concentriamo di più sull’Iran”.

Un altro senatore repubblicano, Lincoln Chafee del Rhode Island, ha invece criticato gli sforzi pro-democrazia dell’amministrazione: “Non abbiamo fatto nulla per tutto il 2005, e ora abbiamo una situazione disastrosa in Palestina, con i terroristi di Hamas che hanno vinto le elezioni”. Sull’Iran, in particolare, il democratico Martin Indyk della Brookings Institution avverte che già Bill Clinton cercò senza successo di aiutare le forze anticlericali locali. E Michael McFaul, professore della Stanford University, invita a non rivelare i nomi dei destinatari degli aiuti in Iran: “Rischiano la prigione se non la vita, perchè verranno additati come agenti degli americani”.

E’ una partita delicata, insomma, quella annunciata dalla Rice. La quale però ha escluso qualsiasi opzione militare sull’Iran. Contro un regime che, come ha ammesso ieri per la prima volta perfino il ministro degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy, vuole dotarsi della bomba atomica.

Mauro Suttora

Thursday, February 16, 2006

Athina Onassis compie 21 anni

QUANTO VALE OGGI LA META’ DELL’EREDITA’ ONASSIS RIVENDICATA DA ATHINA

Oggi, febbraio 2006

Il patrimonio della Fondazione Alessandro Onassis (il figlio di Aristotele premorto al padre nel ‘73 in un incidente aereo) è valutato oggi in circa un miliardo di dollari. Consiste di 19 navi: tredici superpetroliere a tecnologia avanzata e sei portacontainer, per un totale di due milioni e 700mila tonnellate di stazza. Si tratta della quinta flotta petrolifera mondiale. Alla morte di Aristotele Onassis, 31 anni fa, le navi erano 25, ma il tonnellaggio complessivo attuale equivale a quello del 1975, perche’ oggi i vascelli sono piu’ grandi.

La Fondazione possedeva soltanto un edificio a Londra, mentre oggi il patrimonio immobiliare comprende proprietà anche ad Atene, in Francia e a New York (il grattacielo Olympic Tower sulla Quinta Avenue, valutato da solo 300 milioni di dollari, diviso inizialmente a meta’ fra Cristina e la Fondazione, ma del quale il vedovo di Christina Thierry Roussel vendette per 50 milioni la sua parte dopo la morte di lei nell’88). Vi sono poi partecipazioni in varie attivita’ imprenditoriali e investimenti in titoli.

La sede della Fondazione e’ sempre in Liechtenstein per motivi fiscali. Nel 2001 è nata la Fondazione Onassis Usa, che si occupa in particolare degli scambi culturali con gli Stati Uniti. La Fondazione ha mantenuto il proposito voluto dal fondatore: distribuisce ogni anno la meta’ dei suoi utili commerciali in attivita’ benefiche. In tutto, 500 milioni di dollari in questi 30 anni in tre campi: educazione, cultura e sanità. Dal ‘78 sono state finanziate tremila borse di studio per giovani greci che vanno all’estero, e centinaia per studenti stranieri che si specializzano in Grecia.Nel ‘92 è stato aperto il Centro Onassis di Chirurgia cardiologica ad Atene, e nel 2007 aprirà l’adiacente Casa Onassis delle Lettere e Arti (costata 60 milioni di euro).

Il presidente della Fondazione, Stelio Papadimitriou, principale collaboratore di Aristotele Onassis, è morto ottantenne tre mesi fa. Gli è succeduto il figlio Antonio, 50 anni, che guida un presidenza di tre persone, di cui fanno parte gli altri due figli dei due ex vicepresidenti: Giovanni Ioannidis, 51, figlio di Paolo (capo delle attivita’ marittime), e Giorgio Zabelas, 49, figlio di Apostolos (i padri rimangono nel consiglio d’amministrazione composto da 15 persone). Una gestione familiare ereditaria nepotistica, insomma, finita anche per questo nel mirino degli agguerriti avvocati londinesi di Athina Onassis.

Per escludere la ragazza, l’anno scorso la Fondazione ha cambiato il proprio statuto, stabilendo che i membri del consiglio d’amministrazione debbano avere almeno 30 anni e saper parlare in greco. Per questo Athina Roussel, che conosce solo inglese, francese (lingua paterna) e svedese (lingua della matrigna), si e’ iscritta a gennaio a una full immersion di greco.

Wednesday, January 25, 2006

Giulietta e Romeo in Iraq

Il sergente Usa che ha sposato l'irakena

Oggi, 26 gennaio 2006

Gli occhi. Quelli bellissimi di lei, Ehda, dottoressa irachena 25enne: neri, profondi, misteriosi e affascinanti come nelle Mille e una notte. Quelli di lui, Sean, valoroso sergente 27enne dell'esercito statunitense: azzurri come il mare della sua Florida. Si sono incontrati un giorno di maggio del 2003, un mese dopo la liberazione dell'Iraq, mentre lui faceva da sentinella al ministero della salute di Bagdad. Si sono folgorati a vicenda, e da allora non si sono più lasciati.

«Ci siamo sposati tre mesi dopo con una cerimonia segreta di venti minuti per strada, durante la pausa di una mia missione di pattugliamento», racconta Sean Blackwell a Oggi da Pensacola (Florida), dove è ritornato assieme a sua moglie dopo molte peripezie. Che Ehda racconta nel libro Giulietta e Romeo a Bagdad (ed.Mondadori), appena pubblicato in Italia. Il loro infatti è stato un amore contrastatissimo, che ha dovuto superare innumerevoli ostacoli prima di realizzarsi.

Dicono che a Saddam Hussein piacesse Shakespeare, e in particolare il dramma dei due giovani innamorati di Verona. Fu proprio la visita a uno dei palazzi dell'ex dittatore la meta del primo appuntamento che Sean riuscì a strappare a Ehda: «La conobbi quando si presentò all'entrata del ministero che avevamo occupato», ricorda Sean, «si metteva a disposizione per lavorare come medico laureato in uno degli ospedali che, dopo i saccheggi dell'immediato dopoguerra, sembravano sul punto di crollare. Voleva anche andarsene da Qut, la città satellite di Bagdad dove lavorava, perchè dopo la caduta di Saddam erano apparsi i fondamentalisti islamici, i quali già minacciavano le donne che come lei vestivano all'occidentale.

«Purtroppo i burocrati americani del ministero la rifiutarono. Ma io fui subito colpito da Ehda, dalla sua bellezza, eleganza, cultura, e anche dal fatto che parlava inglese. Mi trovavo in Iraq quasi per caso, perchè avevo lasciato l'esercito nel 2002. Volevo laurearmi in scienza dell'alimentazione, e poichè l'università è gratis per i membri della Guardia nazionale della Florida, mi ri-arruolai. Ma fino ad allora la Guardia nazionale era una specie di Protezione civile, che interviene per le emergenze come gli uragani o le sommosse interne, formata da volontari che hanno un altro lavoro e che dedicano all'addestramento solo un paio di weekend al mese. Invece il caso volle che un mese dopo aver firmato proprio il mio reparto venisse comandato in Iraq, e così mi ritrovai in una garitta a Bagdad...

«Quando mi trovai di fronte quella bella ragazza così desiderosa di collaborare con noi americani feci di tutto per sormontare il muro di indifferenza che le veniva opposto. Non volevo che se ne andasse, e così proposi che la prendessero in una delle cliniche gestite da medici delle forze armate assieme a dottori locali. Sapevo che mancavano dottoresse donne per visitare le pazienti femmine, ma alla fine neanche questa strada si rivelò quella giusta. La verità era che il chirurgo dell'esercito non voleva avere attorno dottori iracheni... Ma almeno tutto questo darmi da fare impressionò Ehda, che rimase lì a chiacchierare.

«Lei si lamentava, diceva che a Qut i fondamentalisti volevano rapirla. Io le risposi sorridendo: "Beh, hanno ragione". E lei, confusa: "Cosa?" E io: "Anch'io ti rapirei". Stavo solo facendo il galante, ma quelle mie parole la mandarono in tilt, tanto che smise di parlare inglese e si rivolse al nostro interprete in arabo. Volevo solo flirtare, ma l'avevo messa in imbarazzo. Non sapevo che da quelle parti è impensabile che un uomo si rivolga a una donna in quel modo. E' uno dei tanti errori che noi americani abbiamo commesso in Iraq. Per fortuna Ehda non se la prese, anzi: dopo essere stata ingaggiata come traduttrice, prese l'abitudine di passare a salutarmi ogni due-tre giorni, portandomi ogni volta qualcosa di buono da mangiare.

«Io mi ero innamorato di lei, e quando cominciamo a frequentarci scoprimmo di avere parecchio in comune: per esempio, entrambi eravamo stati abbandonati dai rispettivi padri da piccoli, e per questo sentivamo il bisogno di creare una famiglia unita. Io per la verità avevo già un matrimonio alle spalle, e due figlie da due donne diverse, ma appena vidi Ehda capii che volevo ricominciare con lei. Dopo tre mesi di appuntamenti le chiesi di sposarmi. Anche lei mi confessò di amarmi.

«Lì però cominciarono i problemi. Il mio comandante, colonnello Thad Hill, era contro il matrimonio. Non voleva neppure discuterne. Un tenente con cui riuscii a parlare mi fece un discorso che mi sembrò abbastanza razzista: "Ma hai pensato a come sarebbe la vostra vita assieme, non vedi cosa mangiano i musulmani, come si vestono, come pregano?" E quando gli risposi che mi ero già convertito all'islam per chiedere la mano di Ehda ai suoi genitori, gli venne un colpo. Così ignorai l'opinione dei miei superiori, e organizzai un matrimonio ultrarapido in un giardinetto dietro a un ristorante, nel quartiere Wasiriyah di Bagdad. I soldati del mio plotone fecero la guardia con fucili e una mitragliatrice pesante. Io ero in tuta mimetica, lei in un vestito a fiori...

«Quando il colonnello Hill scoprì che ci eravamo sposati si imbestialì, e minacciò di trascinarmi davanti alla corte marziale per aver effettuato la cerimonia durante il servizio armato. Ci ha salvato la pubblicità di giornali e tv, sollecitata da un avvocato che contattai in Florida. Nel frattempo, anche Ehda stava passando i suoi guai. Un giorno, mentre tornava a casa in taxi dalla base, fu bloccata da un'auto con dei brutti ceffi che la minacciarono di morte se avesse continuato a frequentare americani vestita così. Molti suoi amici si opposero al matrimonio e poi la abbandonarono, insultandola. Io le chiesi di non uscire più di casa, ma lei insistette per continuare a lavorare come traduttrice. Insomma, io venivo trattato come un traditore, e lei come una puttana.

«Alla fine, un anno dopo, l'esercito mi ha lasciato andare, e sono tornato qui in Florida con Edha. Ma quest'esperienza mi ha scosso, non mi faccio più illusioni sulla guerra e sui motivi per cui i politici ci hanno spedito a morire in Iraq. Poi ho avuto anche paura che il sud degli Stati Uniti si rivelasse troppo conservatore per una donna moderna come mia moglie. Invece lei si è ambientata. Purtroppo non le hanno riconosciuto la laurea, e così per ora deve lavorare come infermiera. Ma sta preparando gli esami per esercitare la sua vera professione. E prima o poi organizzeremo una grande festa per ricelebrare il nostro matrimonio, questa volta a piedi nudi al tramonto sulla spiaggia della Florida...»

Mauro Suttora

RIQUADRO

Tre importanti ottantenni statunitensi nell'ultima settimana hanno chiesto il ritiro dei soldati Usa dall'Iraq:

Walter Cronkite, l'Enzo Biagi d'America. Il decano dei giornalisti, che nel 1968 fu fra i primi ad avere il coraggio e l'onestà di riconoscere che la guerra del Vietnam non poteva essere vinta, oggi pensa lo stesso sull'Iraq: «Prima ce ne andiamo, meglio è».

Tony Bennett, l'erede di Frank Sinatra. Il grande cantante, veterano della Seconda guerra mondiale, ha dichiarato: «La guerra in Iraq mi ha fatto diventare pacifista. La guerra è la forma più bassa del comportamento umano».

John Eisenhower, generale e repubblicano come suo padre, l'ex presidente degli anni '50: «Ho votato per Bush, ma l'Iraq è un'avventura sbagliata».

Saturday, January 21, 2006

La truffa J.T.Leroy

INGANNEVOLE E' LO SCRITTORE LEROY SOPRA OGNI COSA

Oggi, 25 gennaio 2006

“Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa”, ma ancor più ingannevole del cuore si è rivelato l’autore di questo libro del 2002, J.T. Leroy. Che non esiste, perchè quello che finora si era spacciato per lo scrittore 25enne e “maledetto” del romanzo autobiografico è in realtà una ragazza della stessa età, Savannah Knoop, che però non ne ha scritto una riga. La vera autrice del libro (e di altri due: il precedente Sarah e il successivo Harold’s End) è la 40enne Laura Albert, moglie di Geoffrey Knoop, fratellastro della ciarlatana.

Lo pseudo-Leroy aveva raggiunto una certa notorietà anche in Italia, soprattutto dopo che Asia Argento era diventata sua grande amica, diceva di volere un figlio da lui (dopo quella avuto col marito Marco Castoldi, alias Morgan, ex cantante dei Bluvertigo), e nel 2004 diresse un film omonimo tratto dal libro.

Adesso Asia non risponde al telefono, e anche il produttore del film Brian Young è imbarazzato, parlando da Los Angeles con Oggi: «No comment, difendiamo il nostro film in quanto opera d’arte». Opera d’arte può darsi, ma sicuramente tutta l’operazione Leroy si è rivelata una cialtronata. Confezionata a regola d’arte, questo sì, tant’è vero che ancora pochi mesi fa perfino il New York Times continuava ad accreditare Leroy come grande scrittore, fino ad affidargli un reportage turistico-letterario su Eurodisney, pubblicato il 25 settembre dal supplemento viaggi curato da un altro italiano, Stefano Tonchi
.
Proprio la spedizione a Parigi per l’inchiesta ha però insostettito il quotidiano newyorkese, dopo che il settimanale New York aveva rivelato la truffa: nell’articolo si descriveva un viaggio con quattro partecipanti, ma le ricevute rimborsate in nota-spese, comprese quelle dei biglietti aerei, si riferivano a sole tre persone. Il personale di Eurodisney e dei due alberghi dove il trio ha soggiornato si erano stupiti che quella che si faceva passare per Leroy fosse una donna, e anche messa male per essere una ventenne. Ma la Albert aveva cercato di tacitarli, inventandosi che si era fatta operare cambiando sesso tre anni prima. I suoi accompagnatori erano il marito Geoffrey Knoop e il figlio (vero) della coppia.

Questo del transessuale era il grande fascino esibito da Leroy fin dall’inizio. Nei suoi libri, nelle interviste e durante le rare apparizioni pubbliche, infatti, Savannah sosteneva di essere la figlia di una prostituta che viveva in una roulotte e soddisfaceva camionisti che si fermavano per la benzina. Il tourbillon di uomini del letto materno avrebbe provocato i primi traumi nel ragazzino, il quale poi raccontava di averle passate tutte: picchiato da mamma e da un patrigno, iniziato al sesso a pagamento e alle orge, drogato, violentato, affidato ai nonni, divenuto omosessuale...

Ciliegina sulla torta: pure malato di Aids, ed è questo il particolare che oggi irrita di più l’agente letterario dello pseudo-Leroy, Ira Silverberg, che ne ha venduto i diritti dei libri in ben venti Paesi: «Ho incontrato poche volte questa Savannah che si spacciava per Leroy, e ogni volta si nascondeva con parrucche e occhiali da sole. Ma presentarsi come una persona che sta morendo di Aids in un mondo culturale che ha perso così tanti scrittori e voci di grande valore per la tremenda malattia, e trarre vantaggio da una situazione di simpatia collettiva, è veramente brutto. Molta gente comprando i suoi libri era convinta non solo di contribuire all’affermazione di un artista nuovo e innovativo, ma anche di aiutare una persona...»

Migliaia di lettori creduloni e truffati, insomma, ma anche molti personaggi famosi si sono lasciati impietosire dalla storia tremendissima del «ragazzo». Il quale si presentava spesso alle letture pubbliche dei suoi libri (effettuate da altri: lui sosteneva di essere timido) accompagnato dai coniugi Knoop e Albert, che si spacciavano per la coppia che lo aveva «salvato», adottandolo e trirandolo fuori dall’inferno in cui apparentemente si dibatteva. Courtney Love (vedova di Kurt Cobain dei Nirvana), Tatum O’Neil, la cantante Suzanne Vega, l’attrice di Star Wars e scrittrice Carrie Fisher: tutte celebrità abbindolate dal «caso pietoso» con un’operazione di autopromozione degna del miglior esperto di pubbliche relazioni.

Che tutto questo circo di sottocultura «alternativa» alla moda puzzasse di falso se n’era per la verità accorto il settimanale (gratuito) di New York Village Voice già nel 2001. Egualmente, però, la «rivelazione» del New York Times del 9 gennaio ha fatto rumore, se non altro perchè è stata affidata (crudelmente?) alla penna di un giornalista che un anno fa aveva tessuto le lodi dello «scrittore». Il quale, in realtà, esiste: la signora Albert, musicista fallita come il marito, ha sempre regolarmente incassato i pingui diritti d’autore di questa mega-sòla, su un conto intestato a sua madre. E che, a questo punto, può legittimamente reclamare anche la gloria presso tutti coloro che in questi anni hanno avventatamente esaltato Leroy, quasi fosse un novello Rimbaud.

Mauro Suttora

Monday, January 16, 2006

Corruzione negli Usa

PAROLE E PORTAFOGLI

Abramoff fa tremare Washington ma non il sistema: la politica in America è caccia ai finanziamenti

giovedì 5 gennaio 2006

New York. Il suo tempo valeva oro: 750 dollari all'ora. Per fare più in fretta, e guadagnare perfino sui propri regali, aveva aperto a Washington un elegante ristorante, il 'Signatures' su Pennsylvania Avenue, nel quale invitava a pranzo e a cena i suoi clienti. Offerta anche cucina kosher. E tutti potevano essere clienti di Jack Abramoff, il 46enne principe dei lobbisti statunitensi: dagli indiani che volevano aprire casino' (gli unici col permesso di farlo, fuori da Las Vegas e Atlantic City, e che gli hanno versato 82 milioni) ai politici in cerca di soldi per la rielezione. Ora, allo scopo di ridurre da venti a dieci gli anni che passerà in carcere per truffa, associazione a delinquere ed evasione fiscale, collabora con la giustizia. E 240 parlamentari statunitensi tremano.

Abramoff è repubblicano, negli anni Ottanta fece fortuna come giovane reaganiano, e nel '94 è montato in groppa al trionfo del suo partito che per la prima volta dopo quarant'anni aveva riconquistato la maggioranza al Congresso, proprio con lo slogan "ripuliamo Washington". Ora assieme a lui finisce nella polvere Tom DeLay, l'ex presidente della Camera texano, il terzo repubblicano più potente degli Stati Uniti dopo il presidente e il capogruppo al Senato. Ma i quattro milioni e mezzo di tangenti che Abramoff ha distribuito negli ultimi sei anni sono andati anche a 80 democratici, oltre che a 120 repubblicani.

"L'aspetto più choccante dello scandalo Abramoff non è la ricchezza che distribuiva, ma il numero dei congressmen che eseguivano i suoi ordini", commenta desolato l'editorialista di Usa Today. Tutti disposti a votare si' o no solo in base al posto in palco di lusso alla partita di baseball, al viaggio in Scozia per giocare a golf nel campo di St. Andrews, ai 50mila per la mogliettina del portaborse e agli altri status symbol della capitale americana.

Ma se Abramoff ha potuto avere successo, ammonisce il senatore John McCain, è perchè il lobbismo è l'industria più sviluppata di Washington. Sono ben 700, infatti, i membri della American League of Lobbyists, i quali hanno già cominciato a innaffiare abbondantemente i candidati alle elezioni midterm del prossimo novembre. Tutto - quasi tutto - alla luce del sole, con tanto di rendiconti pubblici: i repubblicani hanno finora raccolto quasi tredici milioni di dollari, i democratici undici, i sindacati ne hanno distribuiti nove, quelli dei dipendenti pubblici quattro, quelli delle costruzioni due.

Ci sono i lobbisti verdi corti di manica: finora hanno raccolto da propri simpatizzanti un milione e 700mila dollari, ma ne hanno distribuiti soltanto mezzo milione. Gli advocacy groups per i diritti umani, invece, sono avventati: hanno già promesso ai futuri parlamentari 900mila dollari, avendone in cassa soltanto 500mila. E poi avanti con la pioggia di bigliettoni: assicuratori, donne, medici, cinematografari, antiabortisti e prochoice, cacciatori e anti...

Il recordman, in questo festival del fundraising, è Michael Bloomberg. Il sindaco di New York appena rieletto fino al 2010 è infatti quello che ha speso di più nella storia per una singola campagna elettorale: 75 milioni. Con un record ulteriore: tutto di tasca propria. Ma sbaglia chi scambiasse la democrazia americana per una plutocrazia: il magnate della birra Pete Coors, per esempio, nel 2004 non è riuscito a farsi eleggere senatore del suo Colorado, nonostante investimenti altrettanto sontuosi. Ne' i lobbisti riescono a comprare tutto: proprio Bloomberg, per esempio, l'altro giorno si è scagliato contro il commercio troppo libero delle armi da fuoco, nonostante la pressione costante della potentissima Nra (National Rifle Association, quella che coniò lo slogan "Happiness is a warm gun" apprezzato perfino da John Lennon).

La battaglia anticorruzione di McCain

Lo scandalo Abramoff, con le sue probabili decine di vittime imminenti, raddrizzerà Washington? Non scherziamo. L'ultimo sondaggio Gallup conferma i film di Frank Capra: il 49% degli americani adulti sono convinti che la maggioranza dei membri del congresso siano corrotti. Disprezzo bipartisan: il 47% punta il dito contro i repubblicani, l'altro 44 contro i democratici. Lo schifo nei confronti della politica professionista è talmente spontaneo, nello statunitense medio, che il presidente George Bush lo sfrutta abilmente nei propri discorsi: "Ho proposto questo e quello, ma i politici di Washington mi hanno bloccato", neanche fosse un qualsiasi Mr. Smith.

Che fare, allora? Tutta la campagna presidenziale di McCain, nel 2000, si era sviluppata sul tema della lotta contro le lobbies. Ma McCain ha perso, perchè fra le abitudini connaturate degli americani c'e' quella di "far combaciare le parole col portafogli", e quindi di tirar fuori i soldi quando si crede in una causa o in una persona. Proibire i contributi alle campagne elettorali e abolire i lobbisti è quindi impossibile. Negli Stati Uniti non esistono sezioni di partito e segretari: ci sono soltanto "fundraiser", raccoglitori di fondi per pagare le campagne elettorali. La politica consiste in questo. Si possono soltanto stabilire patetici paletti, come il limite di poche migliaia di dollari ai contributi personali verso un singolo candidato, nell'illusione di calmierare l'influenza dei Paperoni.

Ora si parla di punire gli eletti che votano su un tema per il quale hanno ricevuto contributi nelle settimane o mesi precedenti. Ma al povero dittatore Omar Bongo del Gabon, che per essere ricevuto da Bush nel 2004 dovette versare milioni di dollari ad Abramoff, i soldi chi li restituirà?

Mauro Suttora

Wednesday, January 04, 2006

Intercettazioni Usa fuorilegge

L'IMBARAZZANTE SCOOP A SCOPPIO RITARDATO DEL NEW YORK TIMES

4 gennaio 2006

New York. Per la terza volta in tre anni, il New York Times scivola su un proprio scoop e riesce a trasformare un successo in una disgrazia. Nel 2003 ci fu lo scandalo di Jayson Blair, il cronista di colore considerato un genio, e che invece s'inventava gli articoli. La scorsa estate è stata la volta di Judith Miller: un mese in carcere per essersi rifiutata di rivelare le sue "fonti". Poi però si scopre che questa supposta eroina della libertà di stampa voleva soltanto proteggere l'amico Scooter Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Infine, il grande scoop del 15 dicembre: il presidente George Bush fa intercettare senza mandato le comunicazioni di cittadini americani in territorio americano, mentre una legge del 1979 lo proibisce.

Un 'colpo' giornalistico di gran peso politico, rimbalzato in tutto il mondo e arricchito dalla rivelazione (da parte del settimanale Newsweek) che il 6 dicembre Bush aveva convocato alla Casa Bianca editore e direttore del quotidiano newyorkese, scongiurandoli di non pubblicare l'articolo. Niente da fare. Trionfo del quarto potere. Peccato però che solo poche ore dopo il sito web Drudgereport abbia rivelato che quel commendevole scoop era stato tenuto nel cassetto per più di un anno, e che non era stato pubblicato prima del voto presidenziale del novembre 2004 per non interferire nella campagna elettorale.

Due giorni fa James Risen, l'autore dell'articolo, grande esperto di servizi segreti, ha pubblicato il libro 'State of War: The Secret History of the Cia and the Bush Administration'. Dentro c'è per intera la lunga inchiesta del 15 dicembre, più altre storie. Il libro è stato chiuso in tipografia mesi fa. Cos'è successo, allora? Il Times ha voluto fare un favore al proprio reporter, ritardando la pubblicazione dello scoop affinchè facesse da traino alle vendite del libro? Inconcepibile, per un giornale serio. Più credibile una seconda ipotesi: Risen, contrariato per la non pubblicazione dello scoop, si è preso un'aspettativa, ha scritto il libro, e solo in prossimità dell'uscita il Times si è deciso a pubblicare l'inchiesta, per non fare la figura del censore e fornire a Risen l'aureola del giornalista silenziato.

E qui entra in scena Byron Calame, una vera calamità per i vertici del New York Times. Il quale, prendendo sul serio il proprio ruolo di "public editor" del quotidiano, cioè di difensore dei diritti del lettore, ha mandato ben 28 domande al direttore Bill Keller: "Perchè il ritardo di un anno nella pubblicazione dello scoop? E' vero, come ha scritto lo stesso Risen il 15 dicembre, che il giornale ci ha messo così tanto perchè ha voluto sottoporre l'inchiesta a tutte le verifiche possibili? Quali sono state queste verifiche? Come mai c'è voluto un anno per effettuarle? Quand'era pronta la prima versione dell'articolo? Prima o dopo il voto presidenziale del 2004? Quali pressioni avete avuto da Bush per la non pubblicazione?" E così via.

Keller si è rifiutato di rispondere a tutte le domande: "Non è possibile avere una discussione completa sui retroscena di questa storia senza rivelare quando e come abbiamo saputo quel che abbiamo saputo. E questo, non possiamo farlo", si è limitato a replicare seccamente. L'indomito Calame si è rivolto allora al giovane editore Arthur Sulzberger. Ma anche lui non ha volto rispondere. E allora il public editor si è vendicato pubblicando parola per parola sul New York Times, nello spazio a lui dedicato domenica scorsa, tutta la vicenda del suo inutile tentativo di chiarimento: "Un pesante silenzio sulle intercettazioni", è stato il titolo masochista inflitto agli increduli lettori.

Intanto, mentre da sinistra il Times è accusato di censura, a destra l'addebito è di aver danneggiato la lotta contro i terroristi. Per questo il ministero della Giustizia ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, con l'obiettivo di scoprire chi siano i confidenti di Risen dentro ai servizi segreti. Si apparecchia quindi un altro caso Miller, sulla protezione delle gole profonde in nome della libertà di stampa.

L'unica stampa che finora ha beneficiato della vicenda è stata quella del libro di Risen, nel quale sono contenute ulteriori rivelazioni sull'intelligence poco intelligente del dopo 11 settembre 2001. Nel settembre 2002, per esempio, la Cia reclutò un'anestesista irachena ormai cittadina americana, Sawsan Alhaddad di Cleveland, spedendola a Bagdad da suo fratello, scienziato coinvolto nel programma nucleare di Saddam Hussein. Il quale, stupito dalla sue insistenti domande, le rivelò che il programma non esisteva più da dieci anni. Altri trenta parenti di scienziati iracheni furono inviati in Iraq con missioni pericolose di questo tipo, tutte senza esito. Ciononostante, nell'ottobre 2002 i servizi Usa conclusero ufficialmente che Saddam aveva ricominciato il programma atomico.

Un altro inquietante capitolo del libro rivela che un dirigente Cia inviò per sbaglio a un proprio agente iraniano un documento dal quale si potevano individuare tutte le spie che l'agenzia aveva in Iran. Quell'agente purtroppo faceva il doppio gioco: nel giro di poche settimane la rete spionistica americana in Iran fu quasi completamente smantellata, con arresti e incarcerazioni. Chi ha visto l'ultimo film di George Clooney, "Syriana", non fatica a credere a questi incidenti.

Mauro Suttora

Thursday, December 22, 2005

Corrispondenti esteri a New York

URAGANI MEDIATICI

Perché una pena di morte negli Stati Uniti surriscalda i giornalisti e le uccisioni a Pechino e in Iran no

Il Foglio, giovedi' 22 dicembre 2005

New York. La mobilitazione contro l'esecuzione di Stanley 'Tookie' Williams non è servita a nulla, ma ha provocato una memorabile tempesta fra i giornalisti esteri a New York. E' noto: l'unica Foreign Press Association (Fpa) che conta qualcosa negli Stati Uniti è quella di Hollywood. Non perchè i corrispondenti che si occupano di cinema siano più bravi, ma perchè ogni anno decidono chi premiare con i Golden Globe, cioè gli antipasti propiziatori degli Oscar. La Fpa di New York, invece, politicamente vale quanto l'Associazione Stampa Estera di Roma: poco. Iscriversi costa 70 dollari l'anno, dentro ci si trova di tutto: dai corrispondenti delle più prestigiose testate mondiali, a poveracci che si spacciano per giornalisti allo scopo di raccattare qualche invito a pranzi e cocktail. Non impone controlli sulle credenziali come quelli severi del Foreign Press Center governativo di Lexington Avenue, che pretende addirittura una prova certificata dai consolati dell'esistenza dei media per i quali si chiede l'accredito.

La direttrice della Fpa è Suzanne Adams, una simpatica signora ultrasettantenne che ogni tanto organizza gite in barca nella baia di Manhattan, scampagnate in qualche factory outlet, incontri con Ivana Trump e degustazioni di rum o whisky. Il clou dell'attività della Fpa è l'annuale gala di maggio al Mark Hotel di Madison Avenue, in cui si distribuiscono borse di studio per giovani promettenti e si ascoltano big della politica e della comunicazione: George Stephanopoulos, ex addetto stampa di Bill Clinton e oggi presentatore di un talk show sulla tv Abc, oppure il rettore della Columbia University.

Un trantran dignitoso, che negli ultimi giorni è stato scosso da un acceso dibattito sulla pena di morte. A dar fuoco alle polveri è stato Roberto Rezzo, corrispondente dell'Unità da New York, che già aveva sollecitato una mobilitazione pro-Tookie presso i membri dell'Acina (Associazione Corrispondenti Italiani Nord America) L'Acina ha fatto circolare il testo dell'appello, invitando a sottoscriverlo. L'ex presidente della Fpa Jeffrey Blyth, invece, si è ribellato: «Perchè ai soci dell'Fpa viene chiesto di impegnarsi a favore di un assassino condannato a morte in California? Firmare appelli non è compito dei corrispondenti esteri negli Usa. Il suo giornale sa di questo suo impegno?». Risposta di Rezzo: «L'Unità è stata fondata nel 1924 dal filosofo Antonio Gramsci, e ha una solida reputazione nella difesa dei diritti umani. Mi appoggia in questa battaglia dandomi spazio e risorse. Il mio era solo un appello personale. Capisco che lei è favorevole alla pena di morte, e rispetto la sua opinione. Ma dubitare della mia etica professionale è inaccettabile».

Tuona Andy Robinson (La Vanguardia, Barcellona): «Ogni giornalista ha il dovere di difendere i diritti umani violati dalla pena di morte. E proprio questo dovrebbe fare la Fpa, invece di organizzare aperitivi sponsorizzati da industrie private. Sono anche choccato dal fatto che la nostra associazione abbia avuto un presidente favorevole alla pena capitale». Proprio in questi giorni la Fpa elegge il nuovo presidente. Il candidato Alan Capper (corripondente di una radio inglese) promette battagliero: «Non saremo più un club dove ci limitiamo a sorseggiare aperitivi». A questo punto non ci ho visto più e ho voluto dare un contributo al dibattito: «Sono personalmente contrario alla pena di morte, però i giornalisti dovrebbero rimanere neutrali, senza immischiarsi nei dibattiti interni americani. E poi i cocktail mi piacciono...»

Ana Grumberg, più nota come nuora del leggendario promoter di boxe bushiano Don King che come giornalista (collabora con una tv francese), molla una carico da novanta: «Io sto sempre dalla parte delle vittime [sottinteso: dei killer che vengono condannati a morte, ndr]. Chiedere ai colleghi di firmare questa petizione è offensivo. Non desideriamo neppure che ci venga chiesto di farlo. Tookie è un criminale incallito, che ha assassinato varie persone e vive gratis in prigione. A noi nessuno paga vitto e alloggio. Mantenere in carceri di lusso criminali della peggiore specie non è la mia idea di giustizia».

Alessandra Farkas (Corriere della Sera) cerca di elevare il dibattito: «La pena di morte riguarda più i diritti umani che la politica. Quasi tutti noi proveniamo da Paesi dove è stata abolita da parecchio. Gli Stati Uniti sono l'unica democrazia occidentale dov'è ancora in uso, assieme ad alcune fra le peggiori dittature del mondo. Non è questione di destra o sinistra, ma del diritto umano basilare alla vita».

«E il diritto alla vita di quelli che sono stati ammazzati, allora?», le risponde Daniela Hoffman della tv tedesca Rtl, «Gli assassini sapevano quali sarebbero state le conseguenze del loro atto se fossero stati presi. Mi preoccupa semmai la correttezza dei processi: troppo spesso in questo Paese viene condannato chi non ha i soldi per l'avvocato». Eva Schweitzer, freelance tedesca, raccoglie l'assist e vince la palma della più antiamericana: «Il miliardario assassino Robert Durst è a piede libero. E' ridicolo pretendere di essere neutrali. Se gli Stati Uniti vogliono fare i poliziotti del mondo, sottoponiamoli allo scrutinio del mondo intero: la cosa deve funzionare in entrambe le direzioni».

Secondo Amnesty International, nel 2004 in Cina ci sono state 3.400 esecuzioni, sul totale mondiale di 3.797. Per i radicali di Nessuno Tocchi Caino la cifra cinese è più vicina a 5.000. Il boia è attivissimo anche in Iran, Arabia Saudita e Vietnam. Negli Usa, una cinquantina di esecuzioni. Per ogni articolo che leggiamo su un giustiziato negli Usa, quindi, ce ne dovrebbero essere cento sulla Cina... se solo conoscessimo volto e nome dei condannati cinesi. Con due aggravanti: i processi in Cina sono assai meno equi che negli Usa, e non essendoci democrazia la maggioranza non può decidere sulla pena di morte. La maggioranza degli americani invece la approva. Ma i corrispondenti esteri, fra un cocktail e l'altro a Manhattan, sembrano dimenticarlo.

Mauro Suttora

Wednesday, December 21, 2005

Tibet, basta nonviolenza?

"SIAMO TROPPO PASSIVI", PRIMI DUBBI TIBETANI SULLA NONVIOLENZA

Il Foglio

21 dicembre 2005

New York. Il mensile Elle lo ha eletto nel luglio 2002 fra i "50 uomini più eleganti" dell'India, assieme al Dalai Lama. Particolarmente ammirata la sua bandana rossa. Ma Tenzin Tsundue, 30 anni, non è indiano. E' tibetano. Ha promesso che non si leverà la bandana fino alla liberazione del Tibet. E sta sfidando il suo assai più illustre compatriota proprio nel campo in cui il Dalai Lama è un'icona mondiale: la nonviolenza. "Noi tibetani siamo troppo passivi", proclama.

La Cina occupa il Tibet dal 1950. Da 46 anni 140 mila tibetani vivono in esilio in India, avendone i cinesi massacrati più di un milione. Ma di questo genocidio e dei suoi profughi, che aumentano al ritmo di duemila all'anno, nessuno parla. "La Palestina è sotto gli occhi di tutti, a causa dell'intifada e degli attacchi suicidi", constata un amico di Tsundue nel Caffè della pace di Dharamsala, la capitale indiana dei tibetani esiliati. "Che cosa abbiamo ottenuto invece noi, con le proteste pacifiche in questo mezzo secolo? Niente, solo qualche conversione in più al buddismo in Occidente. Siamo simpatici a tutto il mondo, ma nessuno fa nulla per noi".

Discorsi pericolosi, che ricordano quelli dei giovani kosovari nei bar di Pristina una decina d'anni fa, quando la resistenza underground contro i serbi si protraeva da anni, con le università parallele e i boicottaggi di Ibrahim Rugova, ma senza risultati. Cosicchè i duri del Kla (Kosovo Liberation Army) ebbero terreno fertile per l'arruolamento, iniziarono la guerriglia, provocarono la reazione a tappeto di Belgrado. Infine la guerra.

Finora della clamorosa svolta fra le nuove generazioni di tibetani esacerbate dal nulla di fatto si è accorto soltanto il New York Times Magazine, che ha dedicato a Tsundue un lunghissimo articolo domenica scorsa. "Una lotta più violenta in Tibet?", è l'allarmante titolo in copertina. "No", rispondono gli amici di Tsundue, "ma passeremo ad azioni nonviolente più aggressive". Il Dalai Lama, che in privato è un burlone dotato di gran senso dell'humour, lo prende in giro ogni volta che lo incontra: "Non hai caldo con quella bandana, non sudi in fronte?"

Il sacro trittico della nonviolenza politica moderna è formato da Gandhi, Martin Luther King e dal Dalai Lama. (Ci scusiamo con Marco Pannella se non lo includiamo, ma con lui diventerebbe un poker). Vi sono poi altri capipopolo assolutamente pacifici e venerabili, dai Lech Walesa e Vaclav Havel ormai passés anche per missione compiuta, alla povera premio Nobel della pace Aung San Suu Kyi, birmana che rimane incarcerata da 15 anni. Un nonviolento di ritorno è Nelson Mandela, anche se non ha mai rinnegato il suo passato guerrigliero. Ma non c'è dubbio che fra i leader viventi il principale erede di Gandhi è il Dalai Lama.

La sua però è una nonviolenza religiosa, che nella pratica coincide col buddismo. Il Dalai Lama infatti considera troppo estreme perfino armi utilizzatissime come scioperi della fame e sanzioni economiche. Ma è soprattutto la sua svolta politica degli ultimi anni ad avere alienato grosse fasce di tibetani ventenni e trentenni, molti dei quali non hanno mai visto la loro terra. Il Dalai Lama ha infatti smesso di chiedere l'indipendenza per il Tibet: si accontenterebbe di una "vera autonomia". Spera che prima o poi i contatti e le trattative con la Cina portino qualche frutto. Ma finora questa sua disponibilità non è approdata a nulla. Anzi: il regime comunista di Pechino continua a torturare, incarcerare senza processo e a condannare a morte chiunque sia sospettato di essere un separatista, o anche solo un simpatizzante del Dalai Lama.

"Per questo oggi non possiamo non domandarci: sarebbe così sbagliato far saltare alcuni ponti della ferrovia cinese per Lhasa, visto che la consideriamo tutti un atto di violenza compiuto per colonizzarci e annientarci?", si chiede Tsundue. Il treno è visto come il simbolo della pulizia etnica che sta sostituendo i tibetani con immigrati cinesi. La storia del Tibet, d'altra parte, è anche quella di rivolte violente: come quelle dei Khampa, che nel '50 e nel '59 si opposero ai soldati cinesi.

I genitori di Tsundue scapparono nel '59 da Lhasa, erano ancora bambini. Attraversarono l'Himalaya a piedi per raggiungere l'India. Suo padre morì nel '75, poco dopo la sua nascita. Lui riuscì a studiare nei campi profughi, fino a frequentare l'università a Bombay. Prima dell'impegno politico a tempo pieno faceva lo scrittore, il poeta, ammirava Albert Camus. Ha parecchio carisma, i ragazzi lo seguono. E‚ stato imprigionato sei volte, in India e in Tibet. Ogni volta che un premier cinese visita l'India, lui riesce a mostrare in sua presenza un grosso manifesto indipendentista, o la bandiera del Tibet libero: è l'incubo dei poliziotti indiani, che lo arrestano sempre troppo tardi. Il Dalai Lama ha appena compiuto 70 anni. "Quando morirà. la nostra lotta s'indurirà", prevede e minaccia Lhasang Tsering, libraio amico di Tsundue. Tempi duri per il Tibet.

Tuesday, December 13, 2005

Tookie condannato a morte

PREMIO NOBEL O SEDIA ELETTRICA PER TOOKIE?

Oggi, 8 dicembre 2005

Alla fine sarà Arnold Schwarzenegger a graziarlo? Il governatore della California decide l'8 dicembre, la sedia elettrica è pronta per il 13. Stan(ley) «Tookie» Williams, 51 anni, di colore, è uno delle centinaia di condannati alla pena capitale che aspettano nei bracci della morte americani per decenni. A 17 anni, nel 1971, aveva fondato una banda di giovani criminali: i Crits. Le gang di Los Angeles sono famigerate, fanno quasi parte del paesaggio assieme alla collina di Bel Air e alla spiaggia di Santa Monica. I telefilm ci hanno abituati alla loro imprese: scontri con le bande rivali, rapine, stupri, traffici di droga.

Nel '79 Albert Lewis Owens aveva due figlie ed era il cassiere di un 7/11, un supermercatino aperto 24 ore su 24. Stan lo trascinò in una stanza sul retro e gli ordinò di inginocchiarsi. Poi lo colpì con due pistolettate sul collo, stile esecuzione, dopo che lui e i complici si erano impadroniti del contante. In seguito Stan si vantò di aver «fatto fuori un bianco, gli ho sparato alla schiena per 63 dollari».

Undici giorni dopo. Nella reception del motel Brookhaven c'erano i proprietari, i coniugi cinesi sessantenni Yen-I Yang e Tsai-Shai Chen Yang, con la figlia Yu-Chin Yang Lin, 42 anni. La banda di Stan irruppe dalla porta per rapinare l'incasso. La famigliola venne tenuta a bada in un angolo con una pistola spianata. Poi dodici colpi in tutto, a bruciapelo. Le due donne agonizzarono un paio d'ore prima di morire. Stan in tutta calma si chinò per recuperare i bossoli, non voleva che la sua pistola firmasse la strage. Purtroppo per lui, ne dimenticò uno. E quando venne arrestato, qualche giorno dopo, nella sua auto c'era la pistola. Omicidi inutili, gratuiti. Le vittime non rappresentavano più alcun pericolo per i rapinatori, vennero assassinate a sangue freddo. Due anni dopo arriva la condanna a morte per Stan, il capobanda.

Da allora, però, la versione ufficiale è stata messa in discussione. Attorno a Stan, incarcerato a San Quintino, si raccoglie un comitato che esamina ogni particolare del processo. Stan si pente per gli anni passati a seminare il terrore a Los Angeles, ma non ammette quegli omicidi. «La condanna si basa su indizi, non su prove», sostengono i suoi avvocati. I testimoni che lo hanno inchiodato avevano interesse a farlo: erano tutti alla ricerca di attenuanti per reati gravissimi come stupri, mutilazioni e omicidi. Di fronte all'ennesimo appello, nel 2002 una corte ammise che gli accusatori di Stan avevano la fedina penale sporca, e un incentivo a mentire per ottenere clemenza.

«Sulle scene dei delitti sono state rilevate impronte digitali», incalzano gli avvocati di Stan, «ma non le sue. La traccia di uno stivale insanguinato non apparteneva a lui. Il bossolo trovato? Sì, proveniva da una pistola comprata da Stan cinque anni prima. Ma non è vero che l'arma è stata rinvenuta nella sua auto: era sotto il letto di una coppia incriminata per truffa a un'assicurazione e indagata per aver ucciso un loro complice. Marito e moglie l'hanno fatta franca dopo aver testimoniato contro Stan».
Quanto al testimone principale dell'accusa, un pregiudicato bianco che si trovava nella cella accanto a quella di Stan durante il processo, anni dopo si è scoperto che era stato un informatore pagato della polizia. Davanti alla corte aveva detto che Stan si era confidato con lui, confessando tutto. Dopodichè le sue accuse, omicidio e stupro, vennero derubricate e grazie a qualche attenuante ha ottenuto la possibilità della libertà condizionale.

La giuria, poi: gli unici tre giurati di colore sono stati ricusati dal pubblico ministero, per cui la corte di dodici persone era quasi interamente bianca, tranne un sudamericano e un filippino. Lo stesso rappresentante dell'accusa è stato tacciato di razzismo, per aver detto durante le sue arringhe che Stan assomigliava a una «tigre del Bengala rinchiusa nello zoo di San Diego», il cui «ambiente naturale è la giungla, come quella di certi quartieri di Los Angeles».

Fin qui, quello di Stan Williams sarebbe un giallo giudiziario come tanti. Il problema è che Stan, ormai 51enne, dopo un quarto di secolo è diventato un'altra persona rispetto al bullo da gang che era prima. Ha scritto nove libri di successo per bambini, e in tutti incita i ragazzini a evitare la cultura di morte e sopraffazione di cui negli anni Settanta era uno dei simboli, almeno nei ghetti. Ha fatto il volontario per molti programmi che cercano di tenere i ragazzi lontani dalle strade, ricevendo perfino un premio dal presidente degli Stati Uniti la scorsa estate. Ha scritto un'autobiografia: Blue Rage, Black Redemption (Rabbia blu, Redenzione nera), e l'attore Jamie Foxx, premio Oscar 2005 per il film Ray sulla vita del cantante Ray Charles, l'anno scorso ha interpretato un film tv proprio sulla figura diventata ormai famosa di Stan Williams.

La conversione di Stan lo ha fatto perfino candidare al premio Nobel, già nel 2000: per la letteratura, e anche per la pace. Chiedono la grazia, fra gli altri, gli attori Tim Robbins (protagonista nel '94 di un film simile alla vicenda di Stan, Le ali della libertà), sua moglie Susan Sarandon, Anjelica Huston, la cantante Bonnie Raitt, tutti i musicisti rap, il politico di colore Jesse Jackson. I giovani delinquenti di colore rinchiusi nelle prigioni americane hanno fatto di Stan un idolo: rappresenta la loro speranza di redenzione. E ce ne sono tanti, perchè negli Usa i carcerati sono ben due milioni: otto volte più che in Italia, in proporzione agli abitanti.

L'11 ottobre, però, la Corte suprema degli Stati Uniti si è espressa definitivamente sull'ultimo appello presentato dagli avvocati di Stan: niente da fare, gli appigli sono finiti, preparate la sedia elettrica. Ora l'ultima speranza è nelle mani di Schwarzenegger. Qualcuno la butta in politica, e sostiene che il governatore grazierà Stan per ingraziarsi gli elettori di colore alle prossime elezioni. Dalla sua cella di un metro e 30 per tre, Stan Williams aspetta.

Mauro Suttora

Wednesday, December 07, 2005

Economia Usa a tutta birra

Bush vuole sempre meno tasse, qualche amico e' perplesso. Se Snow lascia non e' crisi, e' prassi

Il Foglio

mercoledi 7 dicembre 2005

New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.

Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.

Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.

Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.

La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.

Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.

E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.

Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).

“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.

Mauro Suttora

Tuesday, November 22, 2005

Il wrestler Guerrero

CON LA DROGA NON SI VINCE MAI, ANCHE EDDIE HA PERSO

Oggi, 14 novembre 2005

Eddie Guerrero: decine di milioni di fans del wrestling lo adoravano, in tutto il mondo. E quando lo hanno trovato morto, il mattino della scorsa domenica in una stanza d’albergo a Minneapolis, con lo spazzolino ancora in bocca, il dolore per la scomparsa di questo «eroe» trentottenne è stato istantaneo e planetario. Una valanga di messaggi di cordoglio si è riversata sul suo sito internet e nei programmi Tv di questa strana disciplina, a metà strada fra lo sport e il circo. Eddie si drogava, strabeveva, si dopava. Tutti lo sapevano. Lui non lo nascondeva. Ma proprio per questo risultava vero, maledetto e, tutto sommato, simpatico.

Il wrestling o lo si ama o lo si odia. Lo detestano soprattutto i genitori dei ragazzini che vengono ipnotizzati dallo spettacolo trucido di energumeni che se la danno di santa ragione, senza regole apparenti, dentro e fuori dal ring. La scorsa primavera alcune associazioni e parlamentari anche in Italia hanno chiesto di bandirlo dai teleschermi, perchè troppo violento. Ma i palasport di tutto il pianeta si riempiono quando i campioni del wrestling arrivano in città con il loro spettacolo. E Italia Uno, di fronte a tanto successo, ha raddoppiato lo spazio dedicato ai «lottatori»: da una a due ore ogni sabato sera, dalle sette alle nove. Ogni giorno alle 19.30 il canale Sport Italia offre mezz’ora degli spettacoli originali americani con i sottotitoli. E vanno a ruba videogiochi, tatuaggi, magliette, dvd, figurine, pupazzi, perfino uova di Pasqua...

Eddie Guerrero avrebbe dovuto arrivare in Italia proprio questa settimana, assieme agli altri campioni: Dave Batista, Randy Orton, Christian, JBL. Tutto esaurito a Roma, Milano, Livorno, Ancona, Bolzano. Come la Formula Uno di Bernie Ecclestone, anche il wrestling mondiale è controllato da un’unica persona: Vince McMahon, 60 anni, cresciuto in una roulotte con la madre e i suoi amanti, primo cadetto di una scuola militare Usa a finire sotto corte marziale, processato e assolto una dozzina d’anni fa per aver somministrato steroidi agli atleti della sua organizzazione, la Wwe (World Wrestling Entertainment).

Negli ultimi anni la mania per il wrestling è esplosa, tanto che McMahon ha trovato conveniente dividere in due lo spettacolo che porta in giro per il mondo: da una parte i «blu» del torneo Smackdown, dall’altra i «rossi» del Raw. Mentre una va in tournée nell’emisfero nord, l’altra copre quello sud. Uno dei più grandi wrestlers della storia è stato il giapponese Antonio Inoki, oggi 62enne: intelligentissimo, finita la carriera sul ring si è dato alla politica ed è diventato ministro dello Sport.

Eddie Guerrero, invece, era messicano. Fiero delle proprie origini, e infatti come soprannome aveva scelto “La Raza”. Praticamente tutti nella sua famiglia sono lottatori: padre, zio, fratelli maggiori, cugino, nipoti (fra cui Chavo, ora una star anche lui). A 25 anni la sua fama esce dai confini del Messico, Eddie comincia a esibirsi fra Stati Uniti e Giappone. Nel 1994 il suo migliore amico e collega Art Barr viene trovato morto per abuso di alcol e stupefacenti. Eddie non si riprenderà più da questa scomparsa. Nel frattempo si è sposato con Vicky, dalla quale ha tre figlie: Shaul (oggi 14enne), Sherilyn, 9, e Kaylie Marie, 3.

Nel Capodanno 1998 è vittima di un gravissimo incidente automobilistico. Riporta fratture multiple causate da un volo di trenta metri fuori dalla sua auto, ma sopravvive e dopo soli sei mesi torna sul ring. Inizia però la dipendenza dagli antidolorifici, per superare le continue fitte provocate dalle vertebre incrinate per sempre. Nel giugno 2001 il gran patron McMahon convince Eddie a ricoverarsi in un centro di riabilitazione da alcol e droga, dopo che il wrestler si presenta ad uno show televisivo in uno stato inguardabile. Viene così sospeso per permettergli le cure mediche necessarie. A novembre McMahon lo riaccoglie a braccie aperte nella federazione, dopo che sembra avere superato i suoi problemi di dipendenza. Poi però viene arrestato per guida in stato di ebbrezza, e la Wwe lo licenzia.

Ma Guerrero ce la fa a sollevarsi per l’ennesima volta dalla polvere, e riottiene una parte nella continua telenovela che la Wwe mette in scena. «Ultimamente i suoi grandi duelli erano con un altro supercampione, Rey Mysterio», spiega Marco Bianchi, dirigente assicurativo a Udine e appassionato di wrestling nonostante i suoi 46 anni: «Eddie sosteneva di essere il vero padre del figlio di Rey, tanto che si presentava sul ring con una maglietta con su scritto ‘I am your papi’. Ciò aizzava l’ira di Ray. La mossa più spettacolare di questo Mysterio è la cosiddetta 619, ovvero il prefisso telefonico della città di San Diego. Significa che quando lui la infligge ai suoi avversari, fingendo di dar loro un doppio calcio sul viso, è come se chiamasse la moglie a casa per avvertirla che ha vinto, e che quindi sta tornando...»

Ma come fanno questi incredibili sbatacchiamenti, calci su ogni parte del corpo, strangolamenti simulati, urla di dolore e colpi proibiti, ad affascinare tante persone? «Beh, l’intreccio narrativo è sempre sorprendente», spiega il dottor Bianchi, «e tutte le risse, polemiche e alleanze improvvise riescono a essere spettacolari e a far sorridere. Sono bravi anche i commentatori, e poi non si tratta di buffoni. Ci sono atleti veri, Kurt Angle per esempio ha vinto l’oro alle Olimpiadi del ‘96 ad Atlanta. Certo, siamo lontani dalla lotta greco-romana classica o dal catch, ma tutto sommato vedere due che si menano senza farsi del male può essere liberatorio. Insomma, perchè la boxe sì e il wrestling no?»

Eddie Guerrero era alto 1 e 76, pesava cento chili. Aveva dovuto faticare il doppio per convincere i promoters di essere abbastanza grosso per battersi. E poi, sarà anche vero che nel wrestling è tutto finto, ma ci vuole comunque una grossa forza e abilità per cadere sulla schiena da tre metri di altezza senza farsi troppo male. Bisogna essere come minimo eccellenti incassatori.

Ultimamente Guerrero era diventato molto religioso, aveva trovato conforto nella fede. Sua moglie lo aveva riaccolto a casa dopo le ultime sbandate con le sostanze proibite. Sembrava avercela fatta. Invece la droga se l’è preso per sempre. E anche questa, si spera, sarà una lezione per i teenager assetati di emozioni truculente che si eccitano col wrestling.

Mauro Suttora

Bob Woodward

22 novembre 2005

Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.

Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.

La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.

Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.

Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.

Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.

Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.

Mauro Suttora

Monday, November 21, 2005

Kristol/Fukuyama al Cfr

Al Council on Foreign Relations incontro sulle prospettive della destra statunitense in Iraq. Kristol a confronto con Fukuyama

UNA SERATA TRA CONSERVATORI CHE CHIEDONO A BUSH PIU' DECISIONE

Il Foglio, 23 novembre 2005

di Mauro Suttora

New York. "Sull'Iraq sono moderatamente ottimista. Abbiamo risolto un problema - Saddam - e sono convinto che alla fine vinceremo. Non vedo perchè dovremmo fare autocritica. E se dovessi muoverne una al presidente George Bush, è quella semmai di non essere abbastanza ambizioso: sulla democratizzazione dovremmo essere più pressanti, sia con i nostri alleati Egitto e Arabia Saudita, sia con la Siria". William Kristol, direttore del settimanale di Rupert Murdoch Weekly Standard e leader neocon, era tranquillissimo l'altra sera al Council on Foreign Relations. Anche perchè una volta tanto giocava in casa: il titolo del dibattito infatti era "Guerra in Iraq: le prospettive dalla destra". I suoi interlocutori: Gary Rosen, vicedirettore del mensile Commentary fondato da Norman Podhoretz, e Francis Fukuyama, professore di economia politica alla Johns Hopkins University. Perfino il moderatore non era neutrale: Roger Hertog, finanziere di Wall Street e finanziatore della stampa conservatrice.

E' stato Fukuyama, quindici anni fa avventato teorico della "fine della storia" (dopo il crollo dell'Urss), a fare il controcanto ai neocon: "Ora mi considerano quasi un apostata, ma mi stupisce che proprio loro, avversari ideologici di un qualsiasi progetto di ingegneria sociale in politica interna, per quella estera propugnino invece il progetto più straordinariamente ambizioso di questo tipo: democratizzare il Medio Oriente. Impresa nobile e auspicabile, ma la cui fattibilità è ancora tutta da dimostrare."

A Kristol le attuali polemiche sulla presenza o meno di armi di distruzione di massa in Iraq e i fallimenti dell'intelligence importano poco: "Bush non si è certo svegliato una mattina dicendo 'Hey, andiamo a farci questa bella avventura in Iraq'. Non era neanche inevitabile andarci. Secondo gli europei, per esempio, abbiamo fatto una cosa terribile. Ma anche rispettati conservatori americani come Brent Scowcroft dopo l'11 settembre continuavano a ragionare con la mentalità del containement, che bene o male ci ha assicurato mezzo secolo di pace. A tutti costoro però dobbiamo chiedere: qual era l'alternativa alla rimozione di Saddam? Avremmo dovuto tenere le nostre truppe sul suolo sacro dell'Arabia Saudita per continuare a proteggerla dal dittatore. Le sanzioni all'Iraq stavano per essere tolte..."

"I realisti, anche repubblicani, erano disposti a trovare un accordo con un altro dirigente baathista dopo la caduta di Saddam", aggiunge Rosen, "ma sarebbe stato questo un risultato decente? E, parlando di alternative: senza guerra oggi Saddam sarebbe ancora lì. Ma è provato che con uno come lui nè la deterrenza nè il containement funzionavano. Oggi ci confronteremmo con l'incubo non solo delle armi atomiche, chimiche e biologiche irachene, ma anche con il pericolo che Saddam le dia aa Al Qaeda".

A Fukuyama che teme una "metastasi terrorista" dopo l'attentato in Giordania Kristol risponde che non vede questo pericolo: "Ora non è peggio di tre anni fa. Abbiamo seri problemi in Iraq, ma nel resto del mondo gli attentati non sono aumentati. Quanto ai vari sondaggi secondo i quali l'antiamericanismo sarebbe aumentato a causa del nostro intervento, domando: ma 30/40 anni fa, quando certi satrapi mediorientali berciavano contro di noi e volevano espropriarci, le cose andavano meglio? Né oggi mi risulta che improvvisamente i giovani arabi o islamici non vogliano piu venire a studiare negli Stati Uniti. Quanto agli iracheni, l'80 per cento vogliono che restiamo. E allora perchè dovremmo indicare stupidamente una data per il nostro ritiro? Quello sì che sarebbe un disastro, se fosse precipitoso. Sarebbe una tragedia anche se perdessimo l'appoggio degli sciiti: allora sì che dovremmo andarcene. E dove, poi? In una base in Kuwait, per poi tornare se scoppia la guerra civile? Uno scenario da incubo. Tutto questo ci costa 80 morti al mese? Sì, ed è tremendo. Ma se fosse vero che la maggioranza degli iracheni non ci vuole, altro che 80 morti... Non mi preoccuperei neppure eccessivamente per l'aumento dell'isolazionismo qui da noi: una leadership forte riesce a far comprendere al Paese che dopo l'11 settembre è necessario un nostro livello di coinvolgimento più alto all'estero".

Mauro Suttora

Friday, November 18, 2005

Bob Tisch

PORTACHIAVI, ALBERGHI, FOOTBALL. COSI' BOB TISCH DIVENTO' L'ANTI TRUMP

di Mauro Suttora

Il Foglio, 18 novembre 2005

Addio allo zio Paperone piu' simpatico d'America

New York. La sua famiglia traslocava ogni tre anni. Così, ogni volta risparmiava tre mesi d'affitto: lo sconto iniziale offerto dai proprietari per attirare nuovi inquilini. Non che i genitori di Bob Tisch fossero poveri. Suo padre, emigrato dalla Russia, era piccolo imprenditore nel ramo vestiti, e poi si è dato alla pallacanestro. Ma la depressione degli anni '30 costringeva anche la classe media a risparmiare su tutto.

Gli inflissero un nome impressionante, quando nacque nel 1926: Preston Robert. Mai usato. Bob scorrazza per Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove ebrei e italiani convivono nei termini di una perenne tregua armata. Il "C'era una volta in America" del ragazzo Tisch si dipana poi (causa i traslochi triennali) nel Bronx, e quindi di nuovo a Brooklyn, dove prende il diploma liceale. Tutte le estati nel campeggio gestito dalla mamma, piccolo investimento familiare. Infine la guerra, e nel '44 l'università. Lì lo incontra Joan, mentre lui vende portachiavi di fronte allo stadio di football: uno per dieci cents, due per quindici. Si sposano nel '48.

Bob è ancora studente di legge ad Harvard quando consiglia a suo padre di comprare un vecchio albergo del New Jersey per 175mila dollari. Lo rimettono a posto, aggiungono una piscina e inventano "promozioni" bizzarre, come le tre renne fatte venire apposta dalla Finlandia per trascinare una slitta invernale. Successone. Iniziano gli anni '50: la famiglia Tisch ha tanti di quei soldi che si mette a giocare a Monopoli con terreni, case e hotel ad Atlantic City. Il fratello di Bob, Larry, fiuta gli affari e compra alberghi decrepiti, anche a Manhattan, per pochi dollari. Poi arriva Bob che li restaura, aumenta le tariffe e li gestisce. Controlla tutto: vuole assumere di persona perfino i fattorini.

Nel 1956, quando costruisce il suo primo grande albergo in Florida, paga sull'unghia 17 milioni di dollari. Nienti prestiti, il contrario di Donald Trump. Il primo anno ha già fatturato 12 milioni. Il segreto: le convenzioni aziendali. Nel 1960 l'antitrust costringe il colosso del cinema Loews a dividersi in due: da una parte la produzione dei film, dall'altra le sale. I fratelli Tisch comprano queste ultime con 65 milioni. Poi ne demoliscono alcune per costruirci alberghi, come il Summit da 800 camere a Lexington Avenue, primo nuovo hotel a Manhattan dai tempi della Depressione. E l'Americana con duemila stanze è l'albergo più alto del mondo (cinquanta piani) quando apre nel '62.

Bob e Larry non sanno più dove mettere i soldi. Differenziano gli investimenti, e nasce un "conglomerato": comprano società di tabacco (Lorillard), assicurative (Cna), di orologi (Bulova). Mentre il fratello coltiva la passione della tv (presidente Cbs per nove anni) e il figlio Steve quella cinematografica (produttore di "Forrest Gump"), Bob si dà al servizio civico. Negli anni '70 inventa i "power breakfast", i leggendari "breakfast da Ti...sch" che tiene ogni mattina nel suo hotel Regency di Park Avenue, e ai quali partecipano Henry Kissinger, l'allora sindaco di New York David Dinkins, e politici, finanzieri, industrali, attori. Si mangia, si chiacchiera e si fanno affari.

Bob Tisch ha una simpatia straordinaria ("larger than life") e contagiosa. S'impegna per tirar fuori la Grande Mela dalla crisi finanziaria del '76: viene nominato "ambasciatore di New York a Washington" dal sindaco, e conserva questa carica informale e gratuita fino al '93. Coagula gli investimenti per il centro congressi Javits. Nel '76 e '80 è presidente organizzativo delle convention democratiche, ma il suo impegno è bipartisan. Nell'86 Ronald Reagan lo nomina a capo delle Poste Usa, che subiscono la concorrenza dei corrieri privati.

A Bob piace lavorare anche di domenica, e quindi fino a 35 anni non vede neanche una partita di football. Ma a 65 anni vuole togliersi un altro sfizio, e compra la metà della squadra dei New York Giants. Rischia di passare alla storia soprattutto per questo, a giudicare dai necrologi di ieri. Coincidenze: l'altro proprietario, Wellington Mara, è morto tre settimane fa a 89 anni, di tumore. Il fratello Larry, dopo aver finanziato la costruzione di metà New York University (compreso il restauro della stupenda villa Acton, campus fiorentino), è scomparso due anni fa. Oggi l'impero Tisch vale 74 miliardi di dollari. Un anno fa a Bob è stato diagnosticato un tumore al cervello. Lui ha continuato a far colazione al Regency e a regalare centinaia di milioni per costruire palestre nelle scuole. Il Paperone simpatico è morto il 15 novembre a 79 anni nella sua casa di Manhattan.

Internet resta agli Usa

MA COSI’ HA VINTO LA LIBERTA’

quotidiano PuntoCom
venerdi’ 18 novembre 2005

Ci si comincia a dividere già sul nome del vertice: Smsi (Sommet Mondial sur la Societé de l’Information), alla francese, o Wsis (World Summit on the Information Society), all’inglese? I 17 mila delegati provenienti da tutto il mondo che ieri hanno aperto a Tunisi la megaconferenza dell’Onu vorrebbero, nella grande maggioranza, togliere agli Stati Uniti il controllo sull’ente che gestisce Internet, l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers).
Si tratta di una società privata della California senza scopo di lucro che dagli anni ‘90 regola la concessione degli indirizzi web e risolve le dispute. La sua sede è a Marina del Rey (Los Angeles). In teoria dipende dal ministero del Commercio statunitense, ma nella pratica non ha mai subìto interferenze, né ne ha imposte alla rete. Una gestione notarile, abbastanza libertaria, che si è limitata ad assecondare la spontaneità del mercato. Aggiungendo per esempio i nuovi suffissi tematici .biz (per le utenze d’affari), .info (per i media), .coop (cooperative), .name (per i privati), o quello geopolitico .eu (Europa).

«Ma chi ci garantisce che in futuro gli Usa continuino con l’attuale laissez-faire, soprattutto in caso di emergenze terroristiche?», si chiede il quotidiano francese di sinistra Libération. La risposta, probabilmente, ha il nome di un giornalista proprio di Libération, Christophe Boltanski, picchiato e accoltellato il 12 novembre da una squadraccia paragovernativa tunisina. Boltanski aveva osato scrivere articoli su sette dissidenti tunisini incarcerati, e sulle violazioni dei diritti dell’uomo in Tunisia, Paese considerato “moderato”. E’ subito tornato in Francia, sconvolto. Ma quello tunisino è solo uno dei tanti regimi repressivi che amerebbero controllare direttamente i server internet per poterli censurare più agevolmente. Il sito del partito radicale italiano, per esempio, che appoggia i dissidenti, in questi giorni è stato oscurato in Tunisia.

Non a caso i principali avversari dell’attuale monopolio Usa su Internet sono Paesi autoritari o dittatoriali come Cina e Iran. Per loro è essenziale controllare il traffico sulla rete, e quindi limitare l’odierna condizione di sostanziale festosa anarchia autogestita. Anche perchè, appena in un Paese il potere comincia a vacillare, si assiste immediatamente a un’esplosione di blog politici, come nelle ultime settimane in Siria. Ma, ovviamente, i regimi polizieschi si nascondono dietro all’antiamericanismo per coagulare consenso sull’ipotesi di un passaggio di poteri dall’Icann americano all’Onu: «Basta con il controllo unilaterale degli Usa» è il loro slogan.

Fra un’Icann americana e un’Onu condizionata dalle dittature, la soluzione potrebbe stare nel mezzo: un’agenzia tecnica come la Uit (Unione internazionale delle telecomunicazioni), che da Ginevra coordina da sempre i traffici e le frequenze di radio, tv e telefoni. Ma mentre sotto l’amministrazione Clinton gli Usa sembravano orientati ad accettare una rapida internazionalizzazione dell’Icann, lo scorso giugno l’amministrazione Bush ha dichiarato che intende mantenerne il controllo per un tempo indefinito. E questa posizione nazionalista ha aizzato reazioni simmetriche di segno opposto. Ormai il conflitto si è totalmente politicizzato, è diventato una questione di principio.

Fra i venti membri del consiglio d’amministrazione dell’Icann c’è un italiano, Roberto Gaetano, che da trent’anni lavora per agenzie dell’Onu fra Vienna e Ginevra. Presidente dell’Icann fino al dicembre 2007 è Vinton Cerf, al quale proprio la scorsa settimana il presidente Usa George Bush junior ha conferito la massima onoreficenza civile statunitense, la Medaglia della Libertà. Cerf può essere considerato il papà di Internet: ne ha inventato lui il software fondamentale, il TCP/IP.

A finanziare fino agli anni Settanta il progetto Arpanet, predecessore di Internet, fu il Pentagono. Ma, paradossalmente, proprio la principale caratteristica tecnica richiesta dai militari statunitensi, e cioè la flessibilità del sistema di comunicazione, con il massimo decentramento per consentirgli di funzionare anche dopo un attacco che ne mettesse fuori uso alcune parti, è oggi l’ostacolo più grosso per i “normalizzatori”: «Controllare il flusso della rete è impossibile», avverte Leonard Kleinrock, scienziato dell’Ucla (University California Los Angeles), «sarebbe come pretendere di controllare il flusso degli oceani».

Per una volta, quindi, i libertari, i giovani, gli hackers, i noglobal abitualmente schierati contro gli Stati Uniti in quasi tutti i campi, si ritrovano involontariamente ma inevitabilmente schierati al fianco dell’America: a chi ha a cuore la libertà del web conviene l’attuale approccio non burocratico dell’Icann. Il che non vuol dire che anche dentro agli Stati Uniti non esistano forti spinte per una maggiore intrusione poliziesca in Internet: l’emergenza terrorismo spinge automaticamente le autorità a chiedere barriere, controlli, divieti. Ma finora i libertari hanno avuto la meglio.