Bush vuole sempre meno tasse, qualche amico e' perplesso. Se Snow lascia non e' crisi, e' prassi
Il Foglio
mercoledi 7 dicembre 2005
New York. I 600 operai in tuta della Deere-Hitachi, fabbrica di ruspe idrauliche, lo interrompono spesso con applausi. Manco fossero la platea in divisa dei suoi ultimi discorsi. Ma hanno ottime ragioni per farlo, perchè i numeri che George Bush sta snocciolando sono trionfali: quattro milioni e mezzo di posti di lavoro creati negli ultimi quattro anni, 215mila solo nell’ultimo mese, produttività in aumento, boom dell’economia. Trimestre dopo trimestre, implacabile, il pil degli Stati Uniti esibisce percentuali di crescita quadruple rispetto alla vecchia Europa: mai sotto il quattro per cento. E il presidente arriva in una fabbrica di Kernersville, nella Carolina del Nord, per galvanizzare un’opinione pubblica abbacchiata dallo stallo in Iraq: “I tagli alle tasse funzionano, oggi in America tutti quelli che cercano lavoro lo trovano”, proclama orgoglioso.
Ci si lamenta per l’outsourcing, ma qui i posti di lavoro non fuggono in Cina o in Messico: aumentano, invece, nella joint-venture nippoamericana nata nel 1988 che negli ultimi mesi ha superato i mille dipendenti. Ottime notizie quindi per l’economia americana, e se il ministro del Tesoro John Snow si dimetterà dopo tre anni sarà solo per un pacifico avvicendamento. Il candidato a succedergli è Andrew Card, capo di gabinetto del presidente, terzo fedelissimo insider della Casa Bianca che verrebbe così promosso al rango di ministro dopo Condi Rice agli Esteri e Alberto Gonzalez alla Giustizia. Snow si è messo in urto con Dennis Hastert, presidente repubblicano della Camera, negando per tre volte prestiti federali alla compagnia aerea in bancarotta United Airlines che ha la sede proprio nello stato di Hastert, l’Illinois.
Bush attribuisce il merito della crescita continua alla propria politica fiscale: “Qualche politicante a Washington vorrebbe chiedervi più soldi, io invece chiedo al Congresso di rendere permanenti i tagli alle tasse”, annuncia accentuando l’accento texano, in simpatia con la pronuncia strascicata sudista di queste parti. Frasi semplici e secche, scritte da ottimi speechwriters che fanno arrivare il presidente al cuore del pubblico: “Lo so, il petrolio e il riscaldamento costano di più, anche se dopo gli aumenti dell’uragano Katrina la benzina è tornata ai prezzi di prima. Ma l’energia è un problema. Dobbiamo risparmiare, e la legge approvata l’anno scorso va in questa direzione. I nostri nipoti faranno andare le loro auto col mais e l’idrogeno, ho introdotto misure per le energie alternative. Sacrificando solo duemila acri in Alaska potremo sfruttare le risorse sotterranee di milioni di acri, nel rispetto della natura. Da lì ci arriveranno un milione di barili di petrolio al giorno, che ci renderanno meno dipendenti dall’estero”.
Tiene duro anche sulla riforma delle pensioni, Bush, nonostante la scarsa fortuna del suo tour propagandistico post-elettorale di inizio 2005: “Il dovere di un presidente è affrontare i problemi, non di rinviarli alle generazioni future”. E proprio come fece durante la campagna presidenziale dell’anno scorso, ribadisce che sono i lavoratori, gli imprenditori, gli agricoltori, a creare la ricchezza del Paese. Non il governo: “Il nostro ruolo è solo quello di creare un ambiente in cui la piccola impresa possa diventare grande, in cui l’imprenditore prosperi, e dove la gente che sogna di comprarsi una casa sia in grado di farlo”.
La ricetta Bush per l’economia non è cambiata in questi cinque anni di governo: meno tasse, commercio libero, immigrazione generosa. Sul free trade sta correndo rischi grossi: il deficit commerciale Usa l’anno scorso ha raggiunto i 668 miliardi di dollari. Ma il presidente ci crede fino in fondo, è convinto che globalizzazione e liberalizzazione del commercio internazionale siano le basi per la ricchezza non solo degli Stati Uniti, ma di tutti i Paesi che vi partecipano.
Peccato che questo entusiasmo presidenziale americano non sia condiviso dall’Europa protezionista in agricoltura. La quale oppone barriere anche nelle altre due industrie ‘A’ della supremazia statunitense: aeronautica e audiovisiva. Fino a disegnare una letale alleanza anti-Usa con i dittatori di Pechino: apertura di fabbriche Airbus in Cina, in cambio del monopolio sull’immenso mercato aereo cinese. Andrebbero così all’aria tutte le precauzioni di Washington sul trasferimento di alta tecnologia con applicazioni militari alla Cina. Una Cina che ha appena dichiarato ufficialmente di “non volere accettare mai l’indipendenza di Taiwan”. Pochi dirigenti Usa hanno studiato Lenin, ma la maggiore dimestichezza degli europei con il padre del comunismo realizzato non impedisce loro di “vendere anche la corda con cui verranno impiccati”.
E qui si torna al problema del deficit. Perchè il debito pubblico Usa è di ottomila miliardi di dollari, e aumenta di un miliardo e mezzo al giorno. Gli americani stanno spendendo più di quello che guadagnano e comprando più di quello che vendono. Due terzi del debito estero statunitense sono nelle mani di appena quattro Paesi asiatici: Cina, Giappone, Corea e Taiwan. Se questi grandi creditori si mettessero d’accordo, potrebbero far crollare il dollaro in poche ore. Ciò non accadrà, perchè assieme ai filistei morirebbe anche Sansone. Ma Bush è conscio del problema, e anche davanti ai fortunati operai della Carolina del Nord promette: “Dimezzeremo il deficit entro il 2009”. E’ sulla buona strada: il disavanzo federale si è ridotto di un quarto in un solo anno. Il rosso è passato dai 413 miliardi del 2004 ai 318 di quest’anno (un risultato che, ancora una volta, fa vergognare l’Europa). Ma l’anno prossimo risalirà a 341, e per questo sia il presidente della Federal Reserve Bruce Greenspan sia il suo successore (da gennaio) Ben Bernanke continuano a insistere sui conti.
Bush si impegna alla disciplina sulla spesa: “Tutta quella che non riguarda la sicurezza verrà limitata. Ma siamo in guerra, e non faremo mancare nulla ai nostri soldati”. Sui 500 miliardi annui al Pentagono (rispetto ai 300 dell’era Clinton) neanche i democratici osano metter voce. Per due motivi: non vogliono apparire poco “patriottici”, e ognuno di loro ha nel proprio collegio elettorale una fabbrica o una base militare. Così, si arriva al paradosso di un Paese ricchissimo in cui, grazie a tasse che non sono mai state così basse, le grandi imprese non sanno dove stivare i propri profitti, che non sono mai stati così alti. Ma che, ammonisce il repubblicano Peter Peterson, ex ministro del Commercio di Richard Nixon, prendendo a prestito il titolo di una canzone di Jackson Browne, sta correndo sul vuoto, “running on empty”. Il burrone è rappresentato dal doppio deficit: quello commerciale (troppo import, poco export) e quello di bilancio (troppe spese, poche tasse).
“L’economia tira come una locomotiva, non cresceva così dal ‘99, c’è veramente bisogno di altri tagli fiscali per stimolarla?”, si domanda il settimanale “Weekly Standard” di Rupert Murdoch, organo dei neoconservatori. Come tutte le perplessità, sono quelle degli amici a fare più male. George Bush vittima del proprio trionfo, insomma. La ricetta liberista reaganiana ha funzionato ancora una volta, la barca è lanciatissima, ma forse è giunto il momento di metter dentro i remi per non andare a sbattere.
Mauro Suttora